Migrazioni internazionali e migrazioni interne

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Migrazioni internazionali e migrazioni interne

Enrico Pugliese

Il crocevia: un quadro generale

Migrazioni internazionali e migrazioni interne: nelle diverse fasi dell’evoluzione della società italiana dal 1945 a oggi i due fenomeni hanno avuto natura, qualità e peso diversi. Anche il contesto regionale interessato dai movimenti migratori ha visto notevoli cambiamenti. E il suo ruolo è divenuto più complesso a partire dal 1970, quando alle regioni è stato attribuito il compito di gestione delle politiche migratorie. Queste ultime poi hanno riguardato in un primo tempo esclusivamente gli emigrati e gli emigranti e soltanto più di recente anche e soprattutto gli immigrati.

Per quanto attiene alle migrazioni internazionali – cioè all’emigrazione all’estero e all’immigrazione in Italia – è innanzitutto necessaria un’articolazione del discorso riguardante i diversi protagonisti dell’esperienza migratoria: i portatori delle culture migranti e i destinatari delle politiche migratorie. Ma c’è anche la necessità di analizzare il contesto economico e sociale all’interno del quale i flussi migratori hanno luogo, vale a dire le aree di destinazione e quelle di provenienza, che costituiscono lo spazio migratorio. Il carattere di crocevia migratorio del nostro Paese è particolarmente evidente ora – con la presenza di un numero di cittadini all’estero pari a 4.387.000 e di cittadini stranieri presenti in Italia pari a 4.341.000 – ma non rappresenta affatto una novità. Flussi migratori in entrata e in uscita, con la prevalenza degli uni e degli altri nel corso del tempo, hanno sempre caratterizzato la penisola.

Nel periodo oggetto della nostra analisi l’Italia è passata da Paese esclusivamente di emigrazione a Paese prevalentemente di immigrazione. Ed entrambi i fenomeni hanno riguardato in modo differente le diverse regioni. Per quanto attiene sia alle migrazioni interne sia all’emigrazione all’estero le direzioni e la portata dei flussi hanno registrato continuità ma anche mutamenti di rilievo. Il caso più significativo è rappresentato da alcune regioni del Nord-Est che da area di grande emigrazione verso l’estero e verso le regioni del triangolo industriale (Genova, Milano, Torino) hanno progressivamente mutato il loro ruolo fino a diventare rilevante polo di attrazione per le migrazioni interne e soprattutto per l’immigrazione dall’estero. Per le persistenze il caso più significativo è rappresentato dal Mezzogiorno che non ha mai cessato di svolgere il suo ruolo di area di emigrazione, sia pure con intensità diversa nei vari periodi e con una ripresa significativa nel corso dell’ultimo quindicennio.

Differenze territoriali esistono infine anche per quel che riguarda la collocazione degli immigrati stranieri nel mercato del lavoro e nella società. Esse si registrano non solo tra Nord e Sud, né solo tra le tre grandi formazioni economico-sociali a suo tempo codificate da Arnaldo Bagnasco come ‘le tre Italie’, ma anche tra città e campagna.

Si tratta di una matassa non facile da dipanare. I fenomeni sono intrecciati e le confusioni nell’opinione pubblica, nella politica e tra gli stessi studiosi sono frequenti. Si cercherà pertanto di individuare bene i diversi processi – nei loro principali aspetti e nelle loro fondamentali dimensioni – e di collocarli nella storia e nella geografia del Paese a cominciare dall’epoca suggerita come terminus a quo in questo lavoro: l’immediato dopoguerra. In quegli anni ha infatti inizio un nuovo importante ciclo della storia dell’emigrazione italiana (Bonifazi 2013) dopo che il primo ciclo, quello della ‘grande emigrazione’, già in via di esaurimento a partire dalla fine degli anni Venti, si era concluso con la depressione degli anni Trenta e la guerra.

Partendo da questo momento iniziale si possono individuare nella recente storia delle migrazioni italiane due fasi, con differenti specificità e problematiche centrali, evidenti anche in base alla documentazione statistica. La prima va dall’immediato dopoguerra alla prima metà degli anni Settanta, la seconda da allora al secondo decennio degli anni Duemila, tanto che l’istituzione delle regioni e la loro iniziale attività fungono quasi da spartiacque. Nel corso della prima fase è l’emigrazione che fa da protagonista: inizialmente, e con un peso maggiore, quella all’estero, poi quella interna. Ma a partire dal 1970, per motivi interni ed esterni (riduzione dell’effetto di spinta dalle regioni di partenza e dell’effetto di richiamo da quelle di arrivo), l’emigrazione italiana all’estero comincia a declinare significativamente fino a mostrare alla fine del decennio un azzeramento dei saldi migratori. Il declino dell’emigrazione interna segue a poca distanza di tempo.

All’inizio di questo ciclo migratorio del dopoguerra, negli anni Quaranta, la questione di maggior rilievo per l’emigrazione all’estero è la difficoltà a trovare sbocchi: difficoltà sottolineata nel dibattito meridionalista e in generale nel dibattito politico e sindacale di quegli anni (Colucci 2008). La recente storiografia sull’emigrazione ha ben chiarito il quadro economico e istituzionale nel quale avvengono le prime partenze, documentando efficacemente quale fu ‘il prezzo della ricostruzione’, secondo l’efficace definizione di Andreina De Clementi (2010): prezzo che risulterà evidente dagli accordi sul reclutamento della manodopera tra l’Italia e i Paesi ricettori di immigrazione (Rinauro 2009).

Ma nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta si verifica davvero una nuova ‘grande emigrazione’ verso l’estero, non assistita e poco regolata dallo Stato, alla quale si affiancheranno, con una intensificazione nello stesso periodo, le migrazioni interne aventi come principale direttrice quella dal Sud verso il triangolo industriale e, in secondo luogo, quella dal Nord-Est, a cominciare dal Veneto, con la stessa destinazione.

Quando, nella seconda metà degli anni Settanta, questa prima fase del ciclo migratorio del dopoguerra potrà dirsi esaurita, i movimenti non cessano ma hanno portata e caratteristiche diverse. L’emigrazione all’estero continua con partenze e ritorni significativamente ridotti e con saldi nulli o positivi (cioè con un numero di rientri superiore a quello delle partenze). L’emigrazione interna prosegue anch’essa a livelli molto più modesti che in passato, con cambiamenti nella sua composizione, per una più estesa componente di giovani scolarizzati, e nella destinazione. L’emergere della Terza Italia fa delle regioni che la compongono, e soprattutto di quelle del Nord-Est, un’area di attrazione di lavoratori che diventerà quella principale a partire dagli anni Ottanta. Infine in questo periodo comincia a comparire già un nuovo protagonista del movimento migratorio italiano: l’immigrazione straniera.

La presenza di lavoratori stranieri, in qualche modo già evidente nel corso degli anni Settanta in alcune aree del Paese, per un buon periodo non attrae l’attenzione degli studiosi, con le meritorie eccezioni degli studiosi di demografia e di isolati esempi in altri campi della ricerca sociale. Eppure agli inizi degli anni Ottanta la presenza di immigrati di diverse nazionalità si registra in tutte le regioni italiane, delineando una sorta di modello dell’immigrazione molto simile a quello degli altri Paesi della sponda nord del Mediterraneo. Naturalmente gli eventi geopolitici porteranno a cambiamenti continui della provenienza e della composizione dei flussi, con nazionalità diverse che si susseguiranno nel ruolo di principale componente dei flussi o delle comunità residenti. Ma alcuni aspetti e connotazioni di base di questo nuovo movimento migratorio, che lo differenzieranno dalle grandi migrazioni intraeuropee dei decenni precedenti, persisteranno (elevata composizione femminile, occupazione prevalente nei servizi, elevata presenza di irregolarità dovuta alle politiche di rigida chiusura e al loro malfunzionamento).

Nel corso degli anni Novanta si registra nella politica e nell’opinione pubblica nazionale una ripresa di attenzione nei confronti dell’emigrazione e degli italiani residenti all’estero. Essa non si focalizzerà tanto sugli emigranti, cioè su chi continuava a partire, quanto piuttosto sugli emigrati (sugli appartenenti alle collettività degli italiani all’estero). Già da tempo infatti partenze e saldi migratori erano modestissimi e la dimensione delle comunità era stabile, tanto che si parlava di ‘fine dell’emigrazione’. Ma qualche importante trasformazione sociodemografica aveva riguardato la popolazione di cittadinanza italiana residente all’estero, come attestato dal continuo aumento del tasso di scolarità e dalla significativa presenza di laureati iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE). E in tempi recentissimi, con il proseguire della crisi, si registrano una ripresa dell’emigrazione e una conseguente rinascita di interesse sul fenomeno che non riguarda più solo i giovani ad alto livello di qualificazione ma anche quelli di diversa provenienza sociale.

Nei paragrafi seguenti si entrerà dettagliatamente nel merito di queste fasi. Prima è però il caso di soffermarsi su alcune considerazioni di portata generale che riguardano il quadro di fondo sul quale si muoverà l’analisi, a partire dalle caratteristiche e dalla dimensione del crocevia migratorio. Oggi abbiamo da una parte una presenza significativa e crescente (sia pure con un probabile modesto rallentamento negli ultimissimi anni) di immigrati, dall’altra un nuovo flusso migratorio in uscita. Ma la compresenza e l’intreccio di flussi migratori che attraversano la penisola è un’antica connotazione dell’Italia. La sua stessa posizione centrale all’interno del Mediterraneo, grande crocevia e sede di scambi commerciali, politici e culturali, favorisce questa connotazione.

In questo senso va ricordato il ruolo svolto dalle migrazioni preunitarie interne alla penisola tra le varie realtà politiche che la componevano: particolarmente intensi a livello di massa tra regioni e Stati limitrofi, come nel caso del Lazio (in particolare di Roma) e dell’Abruzzo, ma intensi a livello di élites anche tra regioni e Stati più lontani. Le migrazioni hanno avuto un’importanza notevole per l’evoluzione in senso convergente delle istituzioni, portando un contributo non indifferente al processo di nation building e di sviluppo dell’identità nazionale, cui esse daranno un forte impulso anche nei periodi successivi (L’Italia delle migrazioni interne, 2003).

Insomma la mobilità interna alla penisola, diversa nelle varie fasi per la sua composizione di classe e per la sua intensità, è stata sempre importante, anche quando le politiche di controllo sociale tentarono di impedirla, come durante il fascismo con le leggi contro l’urbanesimo. Nel dopoguerra essa avrà un’accelerazione in seguito all’eliminazione della legislazione fascista, che favorirà la mobilità e soprattutto, legittimandola, la renderà ufficiale e pertanto più visibile anche nelle rilevazioni statistiche (Ramella 2009).

Infine, sempre a proposito del carattere di crocevia dell’Italia, oltre alla molteplicità dei luoghi di provenienza e destinazione degli emigranti, c’è ancora da considerare il fenomeno – del quale è difficile definire la portata – della doppia esperienza migratoria di cittadini italiani all’interno del Paese e all’estero. Nel tumultuoso periodo degli anni Cinquanta e Sessanta, di grande mobilità della popolazione soprattutto dal Mezzogiorno, ma non solo, diverse persone e, molto meno frequentemente, famiglie hanno vissuto l’esperienza emigratoria sia all’estero che nel Nord Italia. Nei pochi riferimenti rinvenibili in letteratura sul tema, a volte l’accento è posto sull’‘emigrazione di rimbalzo’, come è stata definita, all’epoca, da studiosi particolarmente attenti (Favero, Lucrezio Monticelli 1975), ovverosia quel fenomeno che consiste nella partenza di immigrati meridionali dal triangolo industriale verso destinazioni europee. Viceversa altri autori (De Clementi 2010) sottolineano l’esistenza di un percorso inverso – cioè dalle destinazioni straniere a quelle italiane – attribuendone l’origine al carattere scadente delle condizioni di vita e di lavoro incontrate nell’emigrazione all’estero.

Un’ultima considerazione di carattere generale concerne il ruolo delle regioni in quanto istituzioni. Per motivi ben comprensibili una delle competenze attribuite alle regioni riguardò proprio la tematica delle politiche migratorie. E questa scelta risultò coerente con la realtà dell’emigrazione e il carattere dell’associazionismo degli immigrati sviluppatosi su base comunale, provinciale o regionale. Si badi che all’epoca – ed è stato così fino a tempi recenti – si parlava solo di emigrazione e non di migrazioni e tanto meno di immigrazione. I flussi di immigrati per lavoro nel corso degli anni Settanta erano ancora assolutamente esili e l’interesse ancora tutto concentrato sugli emigranti e in particolare sulla tematica dell’‘emigrazione di ritorno’. Comunque tutte le regioni finiranno per dotarsi di una legge regionale sull’emigrazione che avrà l’effetto di rafforzare le aggregazioni regionali degli italiani all’estero, in quanto coinvolte nelle attività di sostegno agli emigrati beneficiari degli interventi o direttamente beneficiarie esse stesse.

Nel corso del tempo, a partire dagli anni Ottanta, le legislazioni regionali in materia saranno modificate, includendo in genere anche le tematiche riguardanti l’immigrazione, o saranno presi autonomi provvedimenti legislativi sull’immigrazione. E questo è un ennesimo indicatore del carattere di crocevia migratorio del Paese. Tuttavia il nesso tra i due fenomeni – emigrazione e immigrazione – non sarà sempre presente nell’opinione pubblica e nella politica, come potrebbe supporsi. Non a caso, dopo la prima Conferenza nazionale sull’immigrazione del 1974, tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, si avranno due conferenze nazionali sull’immigrazione e la seconda sull’emigrazione, come se fossero state attinenti a problematiche distinte.

L’emigrazione

La situazione nel dopoguerra e la ripresa migratoria: l’emigrazione assistita e l’emigrazione clandestina

Entriamo ora nel merito dei diversi aspetti della tematica dell’emigrazione partendo dall’immediato dopoguerra, dall’inizio cioè del nuovo rilevante ciclo delle migrazioni italiane. In quegli anni, dopo la parentesi fascista, riparte tra molte difficoltà l’emigrazione italiana all’estero, fortemente incoraggiata dalla politica del governo. Alla sua base c’è un’altissima pressione demografica sulla terra determinata dalla politica di ‘contadinizzazione’ forzata del fascismo e dall’ulteriore impoverimento determinato dalla guerra. Lo squilibrio strutturale esistente tra popolazione e risorse, che si era andato aggravando durante il fascismo soprattutto nel Mezzogiorno, imponeva la necessità di uno sbocco migratorio, per il quale però non si vedevano molte prospettive.

C’è ancora da ricordare, per inciso, una tematica che è solitamente poco presente nel discorso sulle migrazioni italiane, rappresentata dal ritorno, o dall’arrivo, nell’immediato dopoguerra in Italia, di italiani protagonisti delle migrazioni coloniali oltre che dei profughi dell’Istria e della Dalmazia. Tutto ciò mentre, per altro verso, ex prigionieri di guerra italiani, soprattutto in Inghilterra e in Sudafrica, maturavano progetti di restare in quei Paesi, incoraggiati anche dal governo italiano. L’Italia non ha vissuto gli sconvolgimenti territoriali e gli spostamenti di massa di altre nazioni con milioni e milioni di profughi tra un territorio e l’altro e la cessione (o l’acquisizione) di vaste aree territoriali. Ma, proprio per la sua rilevanza a livello regionale, è interessante ricordare la vicenda della Venezia Giulia e delle altre aree passate alla ex Jugoslavia e attualmente parte dei territori della Slovenia e della Croazia (Pupo, in Storia dell’emigrazione italiana, 2001). Per l’Italia questi movimenti di popolazione hanno avuto una direzione opposta rispetto al prevalente flusso in uscita. Ma una parte di questi profughi si uniranno al flusso migratorio italiano verso l’estero.

Anche se non mancarono discussioni di principio sui vantaggi o sui costi umani dell’emigrazione, in sostanza era chiaro a tutti che il grande problema era l’assenza di sbocchi, come illustrava con lucidità, negli anni dell’immediato dopoguerra, Manlio Rossi-Doria in più di un saggio (Riforma agraria e azione meridionalista, 1948,19562). Per quanto riguarda l’azione dei partiti di sinistra, sia Michele Colucci (2008) sia Sandro Rinauro (2009) ne sottolineano l’atteggiamento quasi contraddittorio: anche dopo la loro uscita dal governo, i partiti di sinistra facevano corrispondere a una pratica politica all’insegna della retorica antiemigrazione e della denuncia della gravità delle condizioni degli emigranti un forte impegno istituzionale nel campo delle politiche di difesa e protezione degli emigranti. E in questo quadro la ripresa dei flussi migratori aveva luogo in un clima di incertezza e di scarse prospettive per chi partiva, nonostante un ruolo rilevante dello Stato nel definire – non sempre in maniera efficace e vantaggiosa per gli emigranti italiani – il quadro economico e istituzionale dell’emigrazione. Il periodo compreso tra la fine degli anni Quaranta e la metà dei Cinquanta fu quello dell’‘emigrazione assistita’ e degli accordi sul reclutamento di manodopera tra l‘Italia e diversi Paesi di immigrazione. Nel contesto europeo gli accordi più importanti riguardarono il Belgio, la Germania e la Francia. Ma importante fu anche quello verso l’Australia che diede luogo a un allargamento delle colonie italiane, ancora molto attive. E naturalmente trattati in materia vennero firmati anche con Paesi dell’America Latina, in primo luogo con l’Argentina, che per un certo periodo rappresentò una delle mete più importanti. Data la scarsa capacità contrattuale dell’Italia il bilancio delle ‘emigrazioni assistite’ risultò negativo, secondo quanto sostengono unanimemente molti autori che hanno studiato, in termini generali o con riferimento a specifici casi nazionali, il fenomeno in quegli anni (Colucci 2008; Rinauro 2009; De Clementi 2010).

In questa fase le destinazioni latinoamericane sono vissute dagli interessati come una scelta obbligata, nell’impossibilità di dirigersi verso quella che da oltre mezzo secolo era diventata la meta preferita dagli italiani: gli Stati Uniti. Qui l’allentamento delle politiche di chiusura all’immigrazione italiana sarà modesto e comunque tardivo. Tra le diverse destinazioni dell’America Latina, quella argentina si distingue non solo per la portata del fenomeno ma anche per la sua particolare evoluzione, dovuta alla parabola economica e politica del Paese.

L’emigrazione dell’immediato dopoguerra, assistita e non, in generale risulterà determinante nel caratterizzare la presenza attuale degli italiani nel mondo. Vale perciò la pena fare alcuni brevi cenni agli accordi con i Paesi che avranno il ruolo maggiore in questa vicenda e soffermarsi sulle ragioni di alcune contraddizioni e inadeguatezze che si riproporranno quando l’Italia diventerà Paese di immigrazione.

Particolarmente significativo è il caso del Belgio, dove la tragedia di Marcinelle del 1956 (in cui perirono 262 minatori di cui 136 italiani) è l’effetto non casuale della gestione del lavoro immigrato nell’attività mineraria. La durezza e la pericolosità delle condizioni di vita offerte ai lavoratori sono indicate dal fatto che, ancora nel periodo precedente alla tragedia, c’erano state molte morti di immigrati italiani in miniera (Morelli, in Storia dell’emigrazione italiana, 2° vol., 2002). Il caso del Belgio testimonia inoltre della particolare debolezza mostrata dal governo italiano nella trattativa sulle condizioni di impiego dei lavoratori italiani. L’accordo, firmato nel 1946, conteneva una serie di clausole restrittive rispetto alla possibilità di movimento degli immigrati, la cui presenza nel Paese di immigrazione veniva espressamente limitata al lavoro in miniera e alla stessa area territoriale di arrivo. Anche i salari erano particolarmente bassi, contribuendo a rendere poco conveniente la destinazione belga rispetto alle altre che già si erano consolidate in Europa. Ma, a parte ciò, vanno ricordati altri aspetti, ben presentati in particolare in romanzi e racconti (come Rue des Italiennes di Girolamo Santocono, 2006, o La catastròfa di Paolo Di Stefano, 2011) oltre che in qualche inchiesta sul tema. Si tratta in particolare della repulsione degli emigranti italiani per il lavoro in miniera, attestata dal fatto che molti immigrati – arrivati sia attraverso gli accordi sia autonomamente – si licenziavano dopo qualche giorno di lavoro e in casi estremi si rifiutavano di entrare in miniera (Morelli, in Storia dell’emigrazione italiana, 2° vol., 2002).

In seguito le cose in Belgio cambieranno e il processo di incorporazione degli emigrati italiani rimasti a vivere e a lavorare in quel Paese avverrà in condizioni diverse da quelle dell’epoca di Marcinelle. Ma il flusso si ridurrà comunque drasticamente dopo la tragedia, e la composizione occupazionale degli italiani in Belgio muterà progressivamente anche con significativi processi di mobilità sociale.

Più complesso è il caso della emigrazione ‘assistita’ in Francia. Qui non ci sarà l’esclusivo scambio ‘uomini contro carbone’, denunciato dalla letteratura con riferimento al Belgio e, alcuni anni dopo, alla stessa Germania (Kammerer, in Andare, restare, tornare. Cinquant’anni di emigrazione italiana in Germania, 2006). Ma anche in questo caso il canale dell’immigrazione assistita sarà precocemente abbandonato nonostante i rischi che l’emigrazione fuori dagli accordi comportava (Rinauro 2009). Il motivo è sempre riferibile alle condizioni scadenti degli impieghi offerti, meno concentrati settorialmente che in Belgio, anche se l’edilizia e i lavori pubblici saranno le principali destinazioni.

In Francia l’emigrazione clandestina avrà un ruolo e un peso determinante a cavallo tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta. Ma è necessaria una precisazione sul concetto di clandestinità. Tra le sue molteplici dimensioni ce n’è una, rilevante durante il periodo fascista e nell’immediato dopoguerra, che riguarda il Paese in riferimento al quale si è clandestini. Da una parte, infatti, ci sono gli espatri clandestini, in violazione delle leggi del Paese di provenienza, dall’altra ci sono gli ingressi clandestini, in violazione delle norme di ingresso del Paese di arrivo. E per entrambi i casi le legislazioni possono essere più o meno restrittive e le pene previste per i migranti clandestini più o meno gravi. A questo proposito Rinauro (2009) presenta una documentazione riguardante la corrispondenza ufficiale tra prefetti e funzionari degli uffici del lavoro francesi, nella quale si parla esplicitamente dell’opportunità di intensificare l’impiego di manodopera ‘clandestina’ italiana. Eppure nello stesso periodo restano comunque in vigore – ma applicate dunque con estrema discrezionalità – le pesanti norme sanzionatorie previste per l’immigrazione clandestina (cioè di persone non autorizzate all’ingresso).

In Francia il trattamento dei clandestini – espatriati illegalmente dall’Italia – varierà molto in rapporto alle circostanze politiche ed economiche del Paese. Rispetto agli ingressi di massa l’accordo sul reclutamento comunque restò assolutamente sullo sfondo. D’altronde questo vale per tutti i Paesi interessati da accordi. Sarà così, sia pure in condizioni e per motivi diversi, anche per l’immigrazione italiana nella Germania Federale, Paese che a partire dalla metà degli anni Cinquanta diverrà la più importante destinazione delle grandi migrazioni intraeuropee del dopoguerra (insieme alla Svizzera). Il miracolo economico tedesco e quello svizzero – il secondo dei quali ha luogo in un clima di declino demografico – indirizzano la domanda di lavoro verso questi due Paesi, dove per altro i salari sono ben più alti che in Belgio o in Francia.

Anche per la Germania un momento significativo è rappresentato dal trattato sul reclutamento della manodopera italiana, firmato nel 1955, in un clima economico e istituzionale diverso, a causa del più avanzato livello di sviluppo economico e di crescita civile e dell’ormai prossima costituzione del Mercato comune europeo. Anche in Germania, così come in Francia all’epoca del trattato franco-italiano di una decina di anni prima, il fabbisogno di manodopera era notevole ma, nonostante il dispiegamento del processo di sviluppo, il Paese presentava ancora un tasso di disoccupazione pari al 5%. Non a caso l’orientamento delle forze politiche e sindacali su questa questione si presentava tutt’altro che omogeneo. Come si può facilmente comprendere, la divisione principale era tra il ministro dell’economia dell’epoca (Ludwig Erhard), che spingeva per l’apertura del Paese all’immigrazione di lavoratori stranieri, e i socialdemocratici (e i sindacati) molto meno disponibili (Steinert, in L’emigrazione tra Italia e Germania, 1993).

A dimostrazione della durezza delle condizioni imposte all’Italia nel trattato, Peter Kammerer scrive: «In base agli accordi bilaterali, gli uffici federali sono presenti nel paese esportatore con una sua commissione (in Italia con sede a Verona) […]. Ogni richiesta di manodopera deve contenere indicazioni dettagliate circa la qualifica richiesta, la durata del contratto di lavoro, il salario […]. Gli organi predisposti dal paese esportatore procedono ad una prima selezione e presentano alla commissione tedesca la forza lavoro nella quantità e qualità stabilite. La commissione tedesca, da parte sua, compie una seconda selezione, controllando sia la salute, sia le capacità professionali dei candidati» (in Andare, restare, tornare, 2006, p. 87). Come può ben notarsi, si trattava di una trafila non solo complicata, ma anche per molti versi mortificante: un’esperienza meno dura e con minori soprusi rispetto a quanto era avvenuto in Belgio e tuttavia ancora meno accettabile perché nel frattempo la situazione sociale era cambiata in Europa e in Italia. Secondo quanto documenta Johannes-Dieter Steinert «Il reclutamento incominciò con grandi aspettative e si concluse con disillusione» (in L’emigrazione tra Italia e Germania, 1993, p. 160) sia per le imprese sia per i lavoratori. Non a caso alla fine del decennio il flusso migratorio dall’Italia verso la Germania, diventato il più imponente d’Europa, avviene prescindendo largamente dall’accordo sul reclutamento e quel meccanismo di ingresso, con le sue norme capestro, finisce per essere pressoché ignorato. Tanto più che nella nuova situazione europea e nel nuovo clima determinato dalla nascita del Mercato comune non si corrono i rischi di respingimento, deportazione o arresto, che erano stati una concreta realtà nei casi precedenti della Francia e del Belgio.

Il fallimento delle esperienze di emigrazione (o immigrazione, se vista dal Paese di arrivo) assistita stimola qualche riflessione di carattere più generale, soprattutto per quel che riguarda l’efficacia dei meccanismi di controllo, in particolare delle espulsioni: crudeli e poco praticabili ieri come oggi. Ma altrettanto poco realistico risultò l’obiettivo di selezionare la manodopera in vista di un suo uso temporaneo e flessibile, in base alle esigenze delle imprese e dell’economia del Paese di arrivo. Ancora oggi, nei Paesi di immigrazione vigono meccanismi e normative fondati sui principi che erano alla base degli accordi dell’epoca, nonostante il loro patente fallimento. È noto d’altronde che criteri rigidi, che impongono troppe limitazioni ai lavoratori immigrati, finiscono sempre per non funzionare. A dimostrazione di ciò basta citare ancora una volta la documentazione fornita per la Francia da Rinauro (2009, p. 51), secondo il quale «nel 1958 furono registrati 51.146 arrivi di lavoratori italiani permanenti, dei quali 19.488 erano illegali regolarizzati».

Naturalmente non tutta l’emigrazione che avveniva fuori dai canali assistiti era clandestina. Questo era il caso della Francia tra la fine degli anni Quaranta e Cinquanta. Ma in altri Paesi una parte dell’immigrazione non assistita rientrava comunque nei canali della immigrazione regolare, in generale molto ristretti ma a volte larghi, come nel caso dell’Argentina. E in alcuni Paesi europei, come appunto la Germania, era possibile entrare liberamente e cambiare la motivazione del permesso di soggiorno. Per la precisione va detto che per tutte le esperienze interessate dagli accordi sarebbe più opportuno parlare non di emigrazione assistita, come veniva definita all’epoca, bensì di emigrazione controllata. Come sottolineava con forza la stampa dell’epoca (competente o impegnata), l’assistenza da parte degli organi pubblici fu assolutamente carente. Una delle caratteristiche degli accordi è l’indicazione (a volte implicita) del carattere limitato e temporaneo dell’esperienza migratoria dei lavoratori interessati. Il che non escludeva la possibilità di un trasferimento definitivo, come infatti avverrà in maniera significativa e massiccia per l’emigrazione in Francia. Diverso è il caso della Germania, proprio perché il suo orientamento alla politica rotatoria in materia di immigrazione finisce paradossalmente per attrarre lavoratori italiani che intendono anch’essi l’esperienza migratoria come temporanea e intervallata da periodi più o meno lunghi di soggiorno in patria. Il culmine di questo movimento si registrerà nella prima metà degli anni Sessanta, quando a centinaia di migliaia di partenze corrisponderanno centinaia di migliaia di ritorni, anche se con saldi annuali davvero significativi fino alla fine del decennio. È il modello Gastarbeiter (del lavoratore ospite temporaneo, destinato al rientro in patria), che sarà quello dominante non solo in Germania e terrà legati al Paese di provenienza la maggior parte degli emigranti italiani di quell’epoca.

Portata e connotazioni dell’emigrazione europea nella fase di sua massima espansione

Il triennio di massima intensità dell’emigrazione italiana all’estero è il 1960-62. In quel periodo partono dall’Italia per i soli Paesi europei circa 955.000 persone e ne ritornano – a sottolineare il carattere ‘rotatorio’ dell’emigrazione di questo periodo – ben 559.000. Il saldo migratorio conseguentemente è di 396.000 unità (ISTAT, L’Italia in 150 anni. Sommario di statistiche storiche 1861-2010, 2011; http//:www3.istat.it/dati/catalogo/20120118_00/). Le destinazioni sono ormai definitivamente mutate. L’emigrazione transoceanica, che ancora nella prima metà degli anni Cinquanta era maggioritaria, si riduce, con l’eccezione del Canada, drasticamente e progressivamente. Il saldo complessivo per i Paesi extraeuropei nello stesso periodo è pari a circa 109.000 unità. Quando il fenomeno è in pieno declino, lo studio di Luigi Favero e Giuseppe Lucrezio Monticelli (1975) tira le somme dell’emigrazione italiana del dopoguerra e individua tre periodi significativi e relativamente omogenei per portata e andamento dei movimenti migratori italiani verso l’Europa: 1952-57; 1958-63; 1964-70. Nel primo periodo – in cui, almeno sul piano teorico, funzionano gli accordi sul reclutamento – parte circa un milione di italiani e ritornano circa 550.000 persone. In quello successivo, cioè nella fase culminante, emigrano oltre un milione e mezzo di persone, mentre i ritorni sono circa un milione (quindi un’incidenza più alta). Ma a partire dalla metà degli anni Sessanta si avverte l’inizio della fase discendente. Il numero di partenze è ancora robusto, ma inferiore a quello del periodo precedente e l’incidenza dei ritorni aumenta ulteriormente. Così, anche la grande spinta propulsiva all’emigrazione europea si può ritenere esaurita e già si comincia a parlare di emigrazione di ritorno.

In questa seconda ‘grande emigrazione’ una domanda di lavoro sostenuta dà sbocco lavorativo a una platea vastissima di lavoratori, anche relativamente anziani e senza titolo di studio: manovali, braccianti e artigiani senza qualificazione, o con qualificazioni obsolete, e senza esperienza di lavoro industriale, trovano lavoro con relativa facilità, nell’edilizia privata e soprattutto nei lavori pubblici nelle aree di immigrazione. D’altronde nella stessa industria la richiesta riguarda lavori non qualificati: nel modello di produzione fordista-taylorista la domanda di lavoro è soprattutto per operai comuni. Siano anziani o giovani, questi ‘operai multinazionali’ trovano occupazione e stabilità con un, ancorché parziale, processo di incorporazione all’interno della classe operaia nazionale.

Ancora negli ultimi anni Cinquanta questo ruolo è svolto in concomitanza e concorrenza con altri tedeschi provenienti dalle regioni dell’allora Repubblica democratica tedesca. Ma quando nel 1961 la costruzione del Muro di Berlino blocca l’afflusso di lavoratori dall’Est, l’Italia diventa per la Germania il principale Paese d’immigrazione. Secondo quanto scrive Federico Romero:

Liberi di lasciare il paese e di rientrarvi in qualsiasi momento, gli italiani in Germania – a differenza di tutti gli altri – potevano lasciare un lavoro e cercarne uno meglio retribuito o anche cambiare occupazione, pendolare tra impieghi stagionali e rientri altrettanto temporanei in Italia, rispondendo solo agli alti e bassi della domanda (1991, p. 14).

Una libertà, certamente, ma una libertà molto condizionata, nella quale i vincoli non sono di natura formale ma implicita. Il modello ‘Gastarbeiter’ si presta bene a utilizzare gli immigrati come componente della classe operaia sulla quale si scaricano le difficoltà del mercato del lavoro, come è stato ben messo in evidenza nel lavoro ormai classico di Stephen Castles e Godula Kosack (1973), che hanno proprio documentato come gli immigrati fossero i primi a essere espulsi dal processo produttivo nel momento di crisi. La cosa interessante è che questo fenomeno non si verifica solo nel periodo di massima portata del fenomeno migratorio ma continua anche negli anni successivi come attestano gli studi di Sonja Haug e Frank Heins (in Andare, restare, tornare, 2006), mostrando il rapporto diretto tra situazioni di difficoltà economiche nella Repubblica federale tedesca e riduzione dei saldi migratori tra Italia e Germania.

Sia la politica di immigrazione tedesca sia quella svizzera contribuiscono, anche se per vie diverse, a chiarire il carattere rotatorio che assume la componente maggioritaria della immigrazione italiana in quegli anni. In Svizzera un complicato sistema di permessi di soggiorno suddivide i lavoratori italiani in frontalieri, stagionali, annuali e permanenti. Un difficile percorso permette di entrare a far parte dell’ultima categoria, la sola che implica la stabilizzazione. In Germania, invece, il modello Gastarbeiter è in astratto più semplice giacché postula comunque un ritorno dell’immigrato. D’altra parte – come è stato sottolineato criticamente dagli studiosi tedeschi – il modello funzionerà solo in parte. Klaus Bade, a proposito dell’esito nel lungo periodo del modello rotatorio, scrive:

Molti di coloro i quali già allora [all’inizio] venivano descritti come minoranza immigrata, in virtù della loro storia esistenziale, delle prospettive di vita e addirittura della loro consapevolezza di essere tali, avrebbero potuto vivere meglio la fase più dura del processo di immigrazione se non fosse stata loro sbarrata la strada in questa direzione dai tentativi di […] smentire una realtà sociale esistente (la Repubblica Federale non è un Paese di immigrazione). A poco a poco si è sviluppato un paradosso: oggi la minoranza straniera discendente dalla gran parte dei ‘Gastarbeiter’ vive da tempo, di fatto, da immigrati senza paese d’immigrazione (in L’emigrazione tra Italia e Germania, 1993, p. 127).

In realtà le considerazioni di Bade si riferiscono ai turchi (che a partire dalla fine degli anni Settanta prenderanno il posto degli italiani quale comunità più numerosa), ma possono bene estendersi agli italiani, per i quali la linea di politica migratoria tedesca rappresentava tutt’altro che un invito a restare.

Non tutti gli italiani, e neanche la maggioranza, alla fine sono rimasti in Germania: solo una parte modesta, tra coloro i quali hanno affrontato l’esperienza migratoria da soli o con la famiglia, ha fatto questa scelta. Il che significa peraltro che larga parte delle famiglie ha vissuto a lungo una situazione di indeterminatezza e nell’impossibilità di programmare. Da una parte, il mito del ritorno e la sbandierata politica rotatoria tedesca suggerivano il progetto di rimpatriare. Dall’altra, le necessità della vita quotidiana e la difficoltà di accumulare risparmi – insieme all’effettivo adeguamento alla vita del Paese di arrivo – rendevano sempre più problematica la decisione del ritorno. Perciò finirono per essere procrastinate scelte, come quelle riguardanti il futuro scolastico dei figli, che sarebbe stato più funzionale fare per tempo. E gli effetti di questa indeterminatezza in termini generali si registrano tutt’ora se si considera la struttura demografica della popolazione italiana immigrata in Germania, nella quale l’incidenza della componente maschile è ancora predominante rispetto a quella femminile, così come si nota solitamente nelle prime fasi dell’esperienza migratoria.

Il modello rotatorio – con il mancato ritardato, o parziale trasferimento degli immigrati e delle loro famiglie – dal punto di vista delle regioni di partenza ha implicazioni di rilievo sia dal punto di vista economico e sociale sia da quello istituzionale: in questo contesto gli emigranti finiscono, nel bene e nel male, per insistere sulle aree di provenienza e di probabile ritorno. L’emigrazione, anche negli anni di massima espansione del fenomeno e fuori dagli accordi di reclutamento, continua a essere emigrazione soprattutto maschile e di adulti. Le partenze continuano a essere affidate all’iniziativa individuale e alla catena migratoria, con la persistente assenza dell’intervento pubblico e con il solo supporto di istituzioni volontarie, associazioni e strutture ecclesiali, oltre che dei sindacati – per la precisione dei loro enti di patronato, giacché l’autonoma e diretta attività sindacale, cioè fuori dai sindacati locali, non è permessa.

Un aspetto interessante di questo modello è che gli emigranti, con il loro continuo ‘andirivieni’, hanno finito per restare più legati al contesto di partenza. In quegli anni l’emigrazione verso l’Europa è al centro della vita sociale delle regioni meridionali e assume una rilevanza sociale paragonabile a quella degli anni della ‘grande emigrazione’. In termini di portata numerica le due grandi esperienze non sono comparabili, così come non lo sono sotto il profilo della rispettiva durata. Ma per la maggior vicinanza tra Paese di provenienza e luogo di lavoro – una giornata e mezza al massimo in treno contro settimane di viaggio in nave – la presenza dei ‘germanesi’ che ritornano in italia più volte durante l’anno (e sempre più spesso a bordo di un’automobile con targa tedesca o svizzera, come veniva notato dalla stampa dell’epoca) fa parte del panorama sociale dei paesi del Mezzogiorno in quel periodo, ben rappresentato nei romanzi di Carmine Abate.

Tutto ciò contrasta in parte con l’esperienza dell’emigrazione in Francia, tendente fin dall’inizio alla stabilizzazione per effetto soprattutto della politica di immigrazione francese. Qui, nello stesso periodo, il ‘modello repubblicano’ riesce ancora a essere largamente inclusivo, anche se con tutti i limiti delle politiche migratorie assimilazioniste. Ma, almeno per la componente italiana, l’idea ‘repubblicana’ di pari diritti per pari doveri e la facilità di accesso alla cittadinanza funzionarono effettivamente, e non furono solo principi astratti. Per molti versi si può dire che la politica francese, più favorevole a progetti migratori stabili, ha reso possibili maggiori occasioni di mobilità sociale per gli italiani. Eppure la Francia non ha rappresentato la meta preferita degli italiani negli anni del più intenso movimento migratorio nel corso degli anni Sessanta (Vial, in Storia dell’emigrazione italiana, 2° vol., 2002).

L’emigrazione di ritorno, le regioni, la Prima conferenza nazionale dell’emigrazione

Negli anni di questa seconda ‘grande emigrazione’ gli emigrati con le loro rimesse contribuiscono al progresso economico delle regioni meridionali. Emergono anche problemi e contraddizioni nuove, come lo spopolamento delle zone interne, ma complessivamente si registra un ritmo di sviluppo significativo e una riduzione del divario tra Nord e Sud. D’altronde sono anni di sviluppo sociale per il Paese nel suo complesso in un clima progressista, di cui la riforma dell’istruzione media, con l’istituzione della scuola media unificata e dell’obbligo scolastico fino al quattordicesimo anno di età, è l’espressione più chiara anche nel Mezzogiorno. Questa spinta alla scolarizzazione di massa rappresenterà una condizione essenziale per i processi di mobilità sociale, cui parteciperanno anche i figli degli emigranti.

In questo quadro virtuoso, quanto meno a confronto di ciò che si registrerà nei periodi successivi, va visto il ruolo dell’emigrazione. E in questo senso deve essere intesa un’impegnativa affermazione di Manlio Rossi-Doria, che nel 1965 scriveva:

Personalmente debbo dichiarare che non avrei mai creduto di poter vivere tanto a lungo da vedere la fine della miseria contadina. Oggi la miseria contadina – la miseria di gente che non aveva scarpe, che viveva nelle capanne o in una sola stanza, che non aveva da mangiare a sufficienza […] – non esiste più nelle zone interne e questo sostanziale progresso è dovuto all’emigrazione» (cit. in Rossi-Doria 1982, p. 100).

Oltre a cancellare la tradizionale miseria contadina, l’emigrazione contribuì a un mutamento nei rapporti tra le classi sociali del Mezzogiorno. I processi di scolarizzazione di massa, che con il passare degli anni si estesero anche alla scuola media superiore, ebbero nel reddito proveniente dall’emigrazione un decisivo fattore permissivo. L’alleggerimento della pressione demografica sulla terra migliorò le condizioni di vita di quei contadini che restavano, mentre il flusso delle rimesse innalzò il livello del reddito e dei consumi della popolazione, stimolando la domanda complessiva di beni e rappresentando così anche uno stimolo indiretto allo sviluppo economico delle aree industriali di tutto il Paese.

Gli anni Settanta sono un periodo di declino dell’emigrazione europea. Il fenomeno è iniziato già da qualche anno ma la presa d’atto del cambiamento nell’ambito dell’emigrazione e della politica migratoria europea – peraltro non solo nei confronti dell’Italia – ha luogo con la promulgazione in Germania dell’Anwerbestopp (il decreto che impone la cessazione del reclutamento diretto di manodopera dall’estero da parte delle imprese).

Il carattere rotatorio dell’emigrazione verso la Germania ha dato adito a una sorta di paradosso: nel momento in cui comincia ad avere luogo un dibattito sulla ‘emigrazione di ritorno’ e ‘sul rientro degli emigrati’ il numero annuale dei rientri scema progressivamente. Naturalmente si tratta di un paradosso solo apparente, giacché si riducono, e in misura più che proporzionale, anche le partenze. Ma l’aspetto più significativo è che i nuovi rientri avvengono in un clima diverso: da una parte sono migliorate le condizioni economiche del Paese e, insieme a questo miglioramento, sono aumentate drasticamente le aspettative della popolazione. Dall’altra, la durezza dell’esperienza di una vita da emigrati, lo scarso incoraggiamento al trasferimento definitivo da parte della politica migratoria tedesca (e svizzera), e i meccanismi del mercato del lavoro, con la concorrenza di nuove nazionalità, finiscono per essere impliciti incentivi al rientro.

Il discorso sulla ‘fine dell’emigrazione’ merita dunque un’analisi che tenga conto di fattori riguardanti la situazione sia nelle aree di partenza sia in quelle di arrivo: insomma, tanto dell’effetto push (spinta) e del suo relativo esaurimento quanto del ridimensionamento dell’effetto pull, cioè della minore e meno stabile domanda di lavoro per gli italiani nelle aree di immigrazione. La prima spiegazione ha avuto maggior peso nella letteratura in Italia ed è stata collegata non solo e non tanto a una situazione di sviluppo economico, quanto all’esistenza di politiche di welfare, basate soprattutto sulle pensioni, che miglioravano le condizioni di vita nel Mezzogiorno. E in effetti negli anni Settanta il potenziale emigratorio si ridusse effettivamente anche grazie al reddito di origine previdenziale, che nell’economia familiare si sommava ad altre forme più o meno precarie di integrazione del reddito, quali le attività agricole e altri piccoli impieghi locali. Per converso, nella letteratura internazionale (Castles e Kosack 1973), soprattutto in Germania, si continua a sottolineare la dipendenza della situazione nel mercato del lavoro dagli andamenti del ciclo economico, il ruolo delle politiche di incentivazione dei ritorni, ma soprattutto il disincentivo di nuove partenze esplicitato dall’Anwerbestopp. Inoltre comincia a emergere la problematica – molto presente nella letteratura tedesca – degli insuccessi scolastici dei figli per quella parte minoritaria che ha deciso di trasferirsi definitivamente: una problematica tutt’ora di rilievo per le generazioni successive.

Ritornando alla considerazioni di Rossi Doria sulla fine della miseria e sugli effetti sociali dell’emigrazione, si può dire che a beneficiarne non furono tanto i protagonisti diretti quanto le loro famiglie e, più in generale, il contesto di partenza. Gli emigranti di ritorno non sempre hanno trovato occasioni di lavoro paragonabili a quelle avute nell’emigrazione e neanche occasioni di impiego soddisfacenti dei loro risparmi. Indubbiamente essi hanno riscattato dalla miseria i loro figli, beneficiari dei processi di scolarizzazione di massa. Ma per molti di loro il ritorno ha rappresentato l’inizio precoce di una vecchiaia, senza la realizzazione del sogno dell’emigrante.

Il dibattito sull’emigrazione di ritorno ha luogo quando ormai è lontana l’epoca dell’‘emigrazione assistita’ ed è già trascorsa la fase della più forte intensità del flusso migratorio. Ma proprio in questo periodo il governo italiano – a pochi anni di distanza dalla istituzione delle regioni – decide di indire la Prima conferenza nazionale dell’emigrazione, richiesta da molti sindacati e dal Partito comunista italiano. Non è certo troppo tardi, perché, nonostante la riduzione dei flussi, la dimensione della presenza italiana all’estero e soprattutto nei Paesi di più recente immigrazione è ancora in espansione, o si è quanto meno stabilizzata. In effetti, nel corso della conferenza vennero trattate con grande impegno le principali tematiche della migrazione, partendo dalla considerazione, ormai ovvia, che non si trattava più di movimenti di popolazione in uscita, ma di problematiche relative alla stabilizzazione e alle condizioni di vita delle collettività italiane all’estero, oltre che di aspetti legati al ritorno di molti immigrati. Da questo punto di vista, la conferenza si inseriva in un clima piuttosto ottimista rispetto alle prospettive di sviluppo del Mezzogiorno. Sono gli anni caratterizzati dalla convinzione che esistano nel Meridione meccanismi di sviluppo autopropulsivo, una tesi che risulterà ovviamente fallace analizzando la situazione degli anni successivi. A un attento studio dei documenti, emerge come questo clima abbia sfiorato solo parzialmente i lavori della conferenza stessa. Negli interventi dei rappresentanti delle associazioni e delle regioni si evidenzia la necessità di un maggiore impegno pubblico in materia di politiche per gli emigrati e nei documenti finali si sottolinea la rilevanza delle associazioni e del giovane istituto regionale. E le regioni proprio in quegli anni provvedono all’emanazione di legislazioni per la protezione degli emigranti, rivolgendo un’attenzione particolare agli emigranti di ritorno. Si ribadisce nei documenti finali l’importanza della partecipazione degli emigranti, nell’assunto che le loro associazioni possano diventare un tramite di rilievo in questo ambito. Non è un caso pertanto che nella ricca legislazione regionale che in quegli anni viene prodotta si dia spazio particolare alle associazioni e si istituiscano le consulte.

Naturalmente la responsabilità della regione come istituzione riguarda le migrazioni internazionali. Per le migrazioni interne valgono le leggi nazionali: la mobilità interna al Paese è garantita a tutti i cittadini, così come per tutti valevano le norme che, finché vigevano le leggi contro l’urbanesimo, la limitavano. Lo stesso può dirsi per le politiche di welfare, per le quali le coordinate sono date a livello nazionale sia per i cittadini sia per gli immigrati. Le regioni da questo punto di vista operano all’interno di un quadro definito a livello nazionale e che deve essere quindi rispettato dalle normative regionali. Esse hanno indubbiamente la responsabilità della gestione operativa delle politiche sociali sia in generale sia per quel che riguarda le politiche a vantaggio degli immigrati. E ovviamente esulano dall’area di competenza delle regioni le politiche repressive e di controllo.

Le molteplici realtà dell’emigrazione italiana: italiani nel mondo e cittadini italiani all’estero

Oggetto del sedimentarsi di esperienze migratorie molteplici – per le condizioni e le epoche di partenza, ma anche per la situazione sociale dei Paesi di arrivo e per i relativi mutamenti – la realtà dell’emigrazione italiana all’estero è estremamente diversificata. Le sue diverse componenti sono il prodotto sia dei nuovi flussi migratori – di coloro che sono arrivati negli ultimi anni o che continuano ad arrivare ora nei Paesi di immigrazione – sia dell’eredità storica delle grandi esperienze migratorie del passato. E i frutti di queste ultime – vale a dire gli emigrati anziani ancora in vita e soprattutto i loro figli e nipoti – rappresentano la parte più consistente dell’universo dei cittadini italiani residenti all’estero e più in generale di quelli che vengono definiti, nella letteratura e nello stesso linguaggio istituzionale, ‘italiani nel mondo’. Il primo gruppo (i cittadini) è costituito da coloro che hanno mantenuto, acquistato o riacquistato la cittadinanza italiana (con la complicazione relativa al fatto che in molti Paesi è possibile avere anche la doppia cittadinanza) e costituisce un universo chiaramente identificabile e misurabile. Per inciso va ricordato che solo loro, come ovvio, hanno il diritto di voto in base alle norme in vigore per gli italiani residenti all’estero. Gli italiani nel mondo rappresentano invece un universo ben più numeroso e difficilmente identificabile che comprende, oltre ai cittadini, anche persone che hanno voluto o dovuto rinunciare alla cittadinanza italiana o che sono semplicemente discendenti di emigrati. Entrambi i gruppi fanno parte del panorama dell’emigrazione italiana, perché molti non cittadini sono legati alla madrepatria e sono attivi, a prescindere dalla loro nazionalità in senso giuridico, nelle associazioni degli italiani all’estero. Non è un caso che nel Consiglio generale degli italiani all’estero, che è un organo di rappresentanza degli emigrati, una quota, seppur modesta, degli eletti è riservata ai non cittadini.

I titolari di cittadinanza italiana residenti all’estero hanno l’obbligo di iscriversi ai registri AIRE. Secondo questa fonte – amministrativa e tuttavia abbastanza attendibile – i Paesi stranieri con la maggiore presenza di cittadini italiani sono tutti europei, con l’eccezione dell’Argentina, che peraltro risulta essere il Paese con la collettività italiana più numerosa. Nonostante le continue revisioni dei dati riguardanti l’Argentina, che hanno comunque portato a un ridimensionamento rispetto alle stime di qualche decennio addietro, la collettività italiana, risulta ancora molto numerosa e ha ripreso quota rispetto a quella residente in Germania, che ora occupa il secondo posto.

Gli altri Paesi in cui si registra una significativa incidenza sono la Svizzera, con 547.000 italiani, la Francia con 366.000, il Belgio con 252.000 e il Regno Unito con 200.000. Tra i Paesi transoceanici il Brasile e gli Stati Uniti d’America seguono l’Argentina in ordine alla dimensione della presenza italiana. Il fatto che i Paesi europei siano ai primi posti di questa graduatoria mostra che la realtà dell’emigrazione italiana risente in maniera particolare degli effetti della seconda grande emigrazione, quella europea del dopoguerra. Anche le migrazioni recenti, per motivi ben comprensibili, a partire dalla progressiva integrazione europea, si sono dirette verso questa area.

Per quel che riguarda la realtà delle collettività italiane all’estero e il loro rapporto con l’Italia, ogni Paese presenta le sue specificità. Ma ci sono significative differenze nella composizione demografica e sociale, oltre che nell’origine delle collettività, tra quelle dell’Europa e quelle dei Paesi transoceanici. Ciò accade non solo per la più antica storia di quest’ultima esperienza migratoria, ma soprattutto per le politiche di immigrazione e di cittadinanza dei Paesi di arrivo, in particolare di quelli latinoamericani che hanno reso più facili l’accesso alla cittadinanza e il processo di assimilazione degli immigrati.

Differenze si registrano ovviamente anche nella struttura professionale e nelle condizioni di vita, che però in larga misura riflettono le condizioni generali dei Paesi di arrivo. E tutto ciò si evidenzia anche nella composizione delle collettività italiane in base al genere, che rispecchia a sua volta il ruolo delle donne nelle diverse esperienze migratorie (Prontera 2014). Tuttavia c’è da considerare un problema, divenuto particolarmente rilevante nel corso degli ultimi decenni, cioè quello del diverso carattere e della diversa forza dei sistemi nazionali di welfare: quelli dei Paesi europei, compresi i Paesi mediterranei, sono più forti dei sistemi dei Paesi dell’America Latina e ciò incide sulle condizioni di vita degli emigrati italiani, siano essi cittadini, siano essi solo parte dell’universo degli ‘italiani nel mondo’.

Infine per effetto della diversa storia dell’emigrazione e delle differenti politiche migratorie si possono notare nei vari Paesi anche significative differenze nella struttura demografica della popolazione italiana. Si prenda per es. il caso della popolazione anziana (di età superiore ai 65 anni): per il complesso dei cittadini italiani residenti all’estero essa ha un’incidenza pari a quella dei residenti in Italia (21%) ma con profonde differenze tra un Paese e l’altro e con punte estreme rappresentate rispettivamente dalla Germania e dall’Argentina. Nel primo caso gli anziani di età superiore a 65 anni sono solo il 9,3%, mentre in Argentina sono il 27,5%.

La maggiore incidenza degli anziani non può essere fatta risalire solo al fatto che anche nel dopoguerra le partenze per l’Argentina hanno preceduto quelle per la Germania. L’elemento principale è che esse hanno dato adito a un numero di ritorni ben più modesto in proporzione a quello verificatosi in Germania per effetto del modello rotatorio. In Argentina, così come in molti altri Paesi dell’America Latina, a rendere il quadro più complicato intervengono poi le acquisizioni della cittadinanza italiana dovute alla l. 5 febbr. 1992 nr. 91 che ha portato e porterà a un aumento di iscrizioni all’AIRE di emigrati appartenenti a tutte le classi di età. Ma non dappertutto: la legge 91 (nota come legge Tremaglia) – oltre a rendere possibile l’acquisizione o la conservazione della cittadinanza italiana ai discendenti di emigrati a partire dall’Unità d’Italia – ha avuto un impatto diverso in Europa e in America. Nel secondo caso (in particolare in Argentina e Uruguay) si è fatto massicciamente ricorso al provvedimento; non così in Germania e negli altri Paesi europei.

Il dato demografico sopra riportato, all’apparenza piuttosto neutrale o insignificante, ha serie implicazioni sociali per il suo impatto sul sistema di welfare e sulla spesa pubblica a carattere previdenziale. Per quanto riguarda quest’ultima, in linea teorica la spesa, gravante rispettivamente sul Paese di provenienza o su quelli di residenza, è proporzionale alla durata del periodo lavorativo svolto dal lavoratore migrante in ogni singolo Paese. Ma in realtà, grazie a contributi figurativi e a forme specifiche di agevolazione, in passato si è riusciti ad allargare e a mantenere piuttosto estesa la platea di beneficiari di ‘pensioni versate all’estero’ soprattutto in America Latina. In sostanza si è trattato anche di una, più o meno esplicita, politica di solidarietà nei confronti dei concittadini italiani residenti all’estero, realizzata in passato attraverso una certa generosità nella concessione delle pensioni.

Naturalmente i tagli alla spesa previdenziale effettuati a partire dagli anni Novanta hanno ridotto la platea dei beneficiari e l’entità dei benefici. Per quel che riguarda l’assistenza – e in generale le politiche sociali non previdenziali (con particolare riguardo alle politiche per la salute) che rappresentano una quota parimenti significativa dell’intervento del sistema di welfare – va ricordato che tali benefici sono per lo più di competenza del Paese di residenza. I sistemi di welfare europei hanno generalmente esteso le politiche sociali anche ai lavoratori stranieri immigrati e ciò significa che gli italiani immigrati in questi Paesi godono di un grado di protezione notevole. Diverso è il caso dei Paesi latinoamericani che hanno sistemi di welfare più deboli e comunque meno ricchi. È soprattutto in questi Paesi che si trovano cittadini italiani indigenti, per i quali è spesso richiesto un intervento da parte del governo italiano. La questione è stata affrontata con diverse iniziative dalle organizzazioni di patronato, dalle associazioni e dagli stessi parlamentari eletti nelle circoscrizioni estere.

Tutto questo rende l’idea della complessità che caratterizza l’intero panorama delle collettività degli emigrati italiani all’estero e dello stesso crocevia italiano. Ma il quadro è diventato ancora più articolato – e il crocevia più praticato – nei primi anni Duemila, da quando cioè si è registrata una ripresa anche dell’emigrazione italiana all’estero. Si tratta in generale di un’emigrazione che mostra un progressivo aumento del livello di scolarizzazione, non sempre sufficiente, tuttavia, ad accedere a occupazioni intellettuali. Esiste in questa nuova emigrazione una componente intellettuale in senso stretto, costituita da ricercatori e, generalmente giovani, accademici, figure che rientrano in quel fenomeno che va sotto il nome di ‘fuga dei cervelli’. Tuttavia questa espressione – che pure ha una qualche giustificazione se riferita a giovani con elevato livello di qualificazione, aspiranti a carriere accademiche e similari, che trovano un’adeguata collocazione solo all’estero – è molto riduttiva rispetto alla complessità dei nuovi flussi migratori di lavoratori italiani, altamente qualificati, tra i quali troviamo funzionari di imprese italiane, straniere o multinazionali, nell’ambito dell’industria e soprattutto della finanza, nonché personale di livello medio. Tra l’altro l’esistenza di quest’ultima componente era già stata notata negli anni Settanta e Ottanta, ossia in un momento di vivace presenza di imprese industriali italiane all’estero, soprattutto nel campo delle infrastrutture. Insomma l’Italia partecipa a quel fenomeno che gode di grande attenzione in questo periodo e che rientra sotto la definizione di skilled migration, cioè la migrazione di persone dotate di un elevato livello di qualificazione.

Esiste infine una componente di diplomati e anche di laureati che già da prima della crisi in corso hanno cominciato a muoversi alla ricerca di un lavoro qualunque, non necessariamente corrispondente al loro titolo di studio e spesso caratterizzato da precarietà, ritenendo impossibile trovarne in Italia. Ma, per concludere su questo aspetto, è opportuno sottolineare che l’innalzamento del livello medio del titolo di studio che si registra tra tutti gli italiani all’estero non è dovuto solo ai nuovi flussi, bensì anche al fatto che molti cittadini italiani altamente scolarizzati sono figli e finanche nipoti delle persone che hanno vissuto l’esperienza migratoria. Questo è vero sia per gli italiani in America Latina sia per quelli emigrati in Paesi europei. Non bisogna dimenticare infatti che, per effetto dello ius sanguinis, i figli di italiani conservano la cittadinanza italiana e in un Paese come la Germania per lungo tempo hanno avuto estreme difficoltà ad acquisire la cittadinanza tedesca.

A completare il quadro dell’emigrazione italiana all’estero va sottolineato un fenomeno che da tempo interessa in modo significativo altri Paesi: la cosiddetta sunmigration, la migrazione verso i Paesi del Sud, ormai da molti anni oggetto di interesse di studiosi dei movimenti migratori. Paradigmatico di questo fenomeno è stato in passato il caso del trasferimento di anziani cittadini tedeschi (o di altri Paesi dell’Europa del Nord), in generale pensionati, verso la Spagna. In parte anche l’Italia ha svolto il ruolo di area di destinazione di questi tipi di flussi. Si pensi a benestanti e intellettuali inglesi che hanno scelto la Toscana per la loro seconda casa e anche per il trasferimento definitivo. Ma l’aspetto interessante è che ora l’Italia, da Paese di destinazione della sunmigration, sta diventando Paese di provenienza, con il trasferimento e acquisto di case di pensionati italiani in diversi Paesi del Sud del mondo: dal Maghreb alle Isole Canarie. Il fenomeno, ancora poco rilevante dal punto di vista numerico, di recente ha cominciato ad attrarre l’attenzione della stampa d’informazione e di costume.

Le migrazioni interne

La fase di ascesa: dall’agricoltura all’industria, dalla campagna alla città

Ancora più importante dell’esperienza migratoria all’estero è stata, per le trasformazioni e lo sviluppo della società italiana nel periodo in esame, l’emigrazione interna e soprattutto quella dal Mezzogiorno verso il Nord. Il momento di inizio del fenomeno a livello di massa e quello del suo declino non combaciano del tutto con i rispettivi momenti dell’emigrazione all’estero né le dimensioni dei due fenomeni sono simili, dato il numero molto più alto dei protagonisti dell’esperienza dell’emigrazione interna e soprattutto di quelli che si sono trasferiti definitivamente. Ma è rilevante il fatto che la fase di massima espansione dei due flussi migratori coincida o, quanto meno, abbia luogo in anni molto vicini fra di loro: segno della mai raggiunta capacità dell’apparato produttivo italiano di assorbire le forze lavoro in eccedenza soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno. Basti pensare che negli anni di massima espansione dell’economia italiana, che avevano fatto ottimisticamente prevedere una prospettiva di piena occupazione, alla riduzione dell’occupazione agricola non ha corrisposto assolutamente un analogo incremento dell’occupazione industriale. D’altro canto, la portata dell’emigrazione all’estero, prima durante e dopo la breve fase recessiva (nota come ‘la congiuntura’) si è mantenuta a livelli molto elevati.

Il movimento migratorio si intreccia con il fenomeno dell’esodo agricolo e si esprime anche come esodo rurale (partenza dalle campagne e dai territori rurali) e inurbamento. Si assiste perciò a notevoli trasformazioni nella distribuzione territoriale della popolazione nonché nella struttura economica, demografica e sociale del Paese con un intreccio tra i diversi aspetti. Il cambiamento più radicale, i cui effetti si potranno notare nella loro portata all’alba degli anni Sessanta, riguarda la composizione della popolazione lavorativa e in primis la sua distribuzione nei diversi settori produttivi. Tra l’autunno del 1951 e l’autunno del 1961 (il periodo compreso tra il nono e il decimo censimento generale della popolazione) gli addetti all’agricoltura in Italia passano da 8.261.000 (corrispondenti al 42,2% del totale) a 5.693.000 (corrispondenti al 29%). Si tratta di una riduzione di portata enorme e raramente registrata negli stessi termini in altri Paesi, che proseguirà ininterrotta nel corso degli anni Sessanta con l’abbandono della terra da parte di altre 2.450.000 persone.

Per la partenza dei lavoratori maschi adulti negli anni del più intenso sviluppo migratorio si verifica un processo definito di femminilizzazione e senilizzazione dell’agricoltura. All’interno delle famiglie contadine i soggetti più direttamente interessati all’esodo agricolo sono i membri giovani, i ‘coadiuvanti familiari’ (secondo la definizione statistica e amministrativa): i primi a partire insieme ai braccianti agricoli. La ‘femminilizzazione’ dell’agricoltura si attenuerà a partire dalla fine degli anni Sessanta per il declino dei grandi movimenti migratori e, per altro verso, per il trasferimento dell’intera famiglia soprattutto nel caso delle migrazioni interne.

In un momento caratterizzato da una domanda di lavoro piuttosto sostenuta e concentrata al Nord, in particolare nel triangolo industriale, partirà dal Mezzogiorno un’enorme massa di contadini. Eppure nel Meridione, nonostante l’esodo, il carico di manodopera sull’agricoltura continuerà a essere notevole e l’incidenza degli occupati in agricoltura in queste regioni sarà di gran lunga più alta che in quelle del Centro-Nord. Infatti, riguardo al modello italiano dell’esodo, si parlerà anche di una meridionalizzazione dell’occupazione agricola.

Nelle regioni del Nord negli anni Cinquanta e negli anni Sessanta l’esodo sarà ancora più intenso e tumultuoso e i suoi effetti saranno ancora più travolgenti sulla vita sociale e sull’organizzazione produttiva delle campagne. A partire dalla metà degli anni Cinquanta, e per tutto il decennio successivo, i fattori di spinta (di espulsione dalle campagne) e di attrazione da parte dell’industria e delle città agiscono contemporaneamente, con una intensità notevole, attivando movimenti migratori interni la cui portata non ha precedenti e non sarà più registrata in seguito. L’entità del movimento di popolazione nel corso degli anni Cinquanta è di difficile determinazione perché restano ancora in vigore fino al 1961 le leggi contro l’urbanesimo di natura fascista.

A parte gli aggiustamenti anagrafici condotti in occasione del censimento del 1961, che portarono a una valutazione dell’entità della ‘fuga dal Mezzogiorno’, le prime informazioni sicure sugli spostamenti e sui trasferimenti definitivi si cominciarono ad avere solo successivamente al 1962. A questo proposito Franco Ramella scrive:

La legge contro l’urbanesimo sopravvisse al regime accrescendo negli anni successivi alla fine del conflitto la presenza di clandestini che nelle grandi città erano centinaia di migliaia. L’abrogazione delle norme restrittive della mobilità varate dal fascismo arrivò quando la sua ripresa con il formidabile sviluppo economico era in pieno corso. Non a caso essa determinò una vera e propria esplosione di iscrizioni all’anagrafe delle grandi città. Erano individui già immigrati che regolarizzarono la loro posizione (2009, p. 435).

Questo non riguarda solo le grandi città industriali del Nord ma anche, e in misura molto rilevante, altre città importanti, in primis Roma. Infatti in quegli anni al grande flusso migratorio verso il triangolo industriale se ne affiancano altri due di grande rilevanza sociale: uno interno alle diverse regioni, comprese quelle del Mezzogiorno, e l’altro da tutte le regioni del Mezzogiorno, con una componente significativa dall’Abruzzo e dal Molise, verso la capitale. Il primo flusso, quello verso le aree di sviluppo industriale, attrarrà in misura particolare gli interessi dei sociologi e degli studiosi in generale. Qui sviluppo urbano e sviluppo industriale si sovrappongono in un momento in cui l’industria è attraversata da un profondo processo di ristrutturazione con il consolidarsi al suo interno del settore della grande industria per il consumo di massa. Comincerà ad affermarsi in quegli anni come modello produttivo e sociale dominante quello basato sull’organizzazione del lavoro taylorista in fabbrica e sulle forme di rappresentanza, i rapporti sociali e i tempi di vita del fordismo nella società: modello che vedrà la sua piena espressione tra gli anni Sessanta e il decennio seguente.

Così come nelle altre grandi aree industriali d’Europa, la grande fabbrica mostra una particolare capacità di assorbimento di forza lavoro perché il modello produttivo che la caratterizza permette l’utilizzazione su vasta scala di operai anche privi di esperienze di lavoro industriale. Ma la situazione del mercato del lavoro – e conseguentemente la collocazione degli immigrati nella società – all’inizio è ben più articolata. La collocazione in fabbrica, sia pure come operaio comune, è spesso il punto di arrivo. E per i primi immigrati la trafila è lunga.

L’altra zona di attrazione di immigrati particolarmente importante in questo periodo è quella romana. L’interesse delle scienze sociali per questa realtà è stato tuttavia molto più modesto. Tra le poche ricerche di rilievo sull’argomento ci sono quelle di Franco Ferrarotti, in particolare lo studio pubblicato con il titolo Roma da capitale a periferia (1970) che analizza il processo di crescita della città, legando insieme il ruolo della rendita fondiaria e quello dell’abusivismo edilizio e sottolineando le loro implicazioni per le trasformazioni sociali e la struttura di classe nella città. Gli immigrati a Roma ancora negli anni delle leggi contro l’urbanesimo avevano trovato nell’edilizia il principale sbocco occupazionale. La povertà delle situazioni di partenza, unita al carattere precario del lavoro e al sottosalario, comportava per loro insediamenti miseri in quelle baracche che sono state poi celebrate nella letteratura e nella filmografia dell’epoca. Sono questi gli operai che costruiranno la nuova città nel dopoguerra contribuendo essi stessi all’abusivismo. Scrive Ferrarotti:

Per uscire dalla baracca decine di migliaia di famiglie si sono imposte sacrifici disumani. Per anni hanno convogliato a Roma piccolissimi patrimoni paesani […] per essere sempre più come gli altri hanno costruito accanto al loro qualche altro alloggio. Del resto il lavoro operaio è precario: come non comprendere le loro ragioni? E poi l’abusivismo non è di un solo tipo […] chi vende i lotti e chi li acquista appartengono ai più diversi tipi sociali (pp. IX-X).

Altrettanto difficili sono i primi anni degli immigrati nelle regioni del Nord. L’inizio è faticoso e le reazioni della società locale non sono di grande apertura, come ben documentato da studi recenti e denunciato fin da subito da studi come quello, particolarmente importante, di Goffredo Fofi (1963, 19752).

Negli anni del miracolo l’immigrazione, ancora più disordinata di quella recente, partiva soprattutto dalle zone dell’ ‘osso’ del Meridione: quelle dell’interno dell’Appennino, dell’agricoltura di sopravvivenza, e in misura non certo minore da quelle ‘città contadine’, soprattutto pugliesi […]. Artefici del miracolo i contadini del Sud dovettero accettare il loro intensivo sfruttamento in condizioni sociali e di lavoro spaventevoli. Sono gli anni delle ‘cooperative’ di lavoro, forme di subappalto gangsteristico della manodopera immigrata; […] gli anni del “non si affitta ai meridionali”; gli anni della divisione tra operai e immigrati (19752, pp. 301-302).

Il libro di Fofi affronta queste tematiche attraverso un’inchiesta militante che, unendo analisi e denuncia, mostrava la complessità della situazione, indicata appunto dalla ‘divisione tra operai e immigrati’, rilevante in particolare nella fase iniziale del processo di inserimento. Molti anni dopo, nell’introduzione al libro di Michelangela Di Giacomo (2013) Fofi ribadirà la necessità di tener conto di «sfondi, percorsi, insediamenti […] e anche delle rivolte». E poi ancora dei protagonisti: «gli immigrati, gli operai piemontesi, le diverse opzioni sindacali, le istituzioni, la città». E infine delle «politiche padronali a cominciare da una FIAT ancora mastodontica» (p. 11).

Nello stesso periodo – e con pari impegno nel lavoro di inchiesta e di denuncia – veniva pubblicato il libro di Franco Alasia e Danilo Montaldi Milano, Corea (1960). Le interviste di Alasia e il saggio di Montaldi indagano in primo luogo sulla collocazione non ancora industriale degli immigrati, meridionali e non (soprattutto veneti). Per loro l’impiego regolare in fabbrica è una prospettiva incerta e in qualche caso un miraggio. Ma c’è lavoro nelle piccole imprese, nelle botteghe del sottosalario, nei servizi e soprattutto nell’edilizia e nei lavori pubblici. «Per lavorare a Milano – si legge nella premessa – ci vuole la qualifica, la specializzazione. Nella massa che arriva al mattino la maggioranza non ne ha una, né la avrà mai. La maggioranza comunque lavora». E infatti «dagli scavi e dalle gallerie della metropolitana salgono tutti i dialetti d’Italia; barbe alpine, massacani, garzoni siciliani» (20103, pp. 14-15). Sono questi gli abitanti delle ‘coree’ nella periferia milanese. Le condizioni del loro insediamento e le logiche che regolano l’autocostruzione non sono diverse da quelle descritte da Ferrarotti per Roma:

La Corea – scrive Montaldi – nasce come un insieme di casette monofamiliari popolate al massimo, esempi di architettura spontanea, col tetto quelle dei veneti, a terrazzo quelle dei meridionali perché al paese le case sono fatte così e inoltre il terrazzo […] permette di elevarla di un piano entro un paio di anni. Perché l’immigrato non intende più uscire dalla Corea per tornare al paese [...]; con i soldi che altrove vogliono per l’affitto si acquista una lambretta usata [...]; ormai l’immigrato è un milanese: la lambretta serve per il lavoro» (pp. 59-60).

Stabilizzazione e declino

Quelle condizioni furono superate attraverso un processo tutt’altro che lineare con forme di disagio e di discriminazione che non sono mai venute meno del tutto. Ma un processo di integrazione, realizzatosi nel corso del tempo, fondato sulla realtà di fabbrica e sullo stesso conflitto industriale, è innegabile. Per es. con il passare del tempo si registrano presenze sempre più massicce nelle mobilitazioni e nel sindacato. Gli stessi protagonisti del cambiamento della struttura dell’occupazione industriale finiscono progressivamente per dominare anche la scena della vita operaia e sociale delle città del Nord.

La frattura tra ‘immigrati’ e ‘operai’ nel corso degli anni si riduce sia pure faticosamente e con processi diversi nelle diverse città. Nel caso di Torino, dove la frattura era ancora più evidente che altrove, in questo processo di integrazione è stato particolarmente significativo l’impegno del sindacato e delle organizzazioni della sinistra. Il loro ruolo è consistito anche nell’indirizzare e canalizzare la spinta conflittuale proveniente dagli immigrati, scrive Di Giacomo (2013): «Quanto più grande è il desiderio di riscatto sociale maturato negli ultimi arrivati prima ancora della partenza dai luoghi nativi, tanto più grande la delusione a contatto con la realtà, tanto più forte il desiderio di lotta». E questo spiega il carattere radicale e in larga misura imprevisto di mobilitazioni anche violente, come i fatti di piazza Statuto del 1962, nei quali gli immigrati ebbero un ruolo predominante, scavalcando largamente le intenzioni e gli obiettivi delle organizzazioni sindacali. Alla fine è proprio sulla capacità di individuare rivendicazioni comuni sul piano del lavoro e delle condizioni di vita che la frattura si sanerà. Ma «ci sono voluti 10 anni affinché tutte le culture inizialmente molto lontane tra loro e con pregiudizi reciproci così forti da precludere molte possibilità di cooperazione potessero trovare nelle condizioni di lavoro che le accumunavano le ragioni dell’avvicinamento». Sono in primo luogo le condizioni materiali a unificare le esigenze e le spinte rivendicative giacché «gli stessi torinesi delle classi meno abbienti finivano per soffrire […] dello stesso scarso potere contrattuale dei lavoratori e della conseguente intensificazione dei ritmi di lavoro» (p. 231).

Più che un caso rappresentativo, Torino sembra essere un caso estremo, per il carattere tumultuoso dell’immigrazione, per l’entità del fenomeno e il suo impatto demografico, per la presenza di una realtà produttiva e imprenditoriale basata soprattutto su un’unica grande fabbrica e – in rapporto a ciò – per le tensioni iniziali e la radicalità dello scontro. Il tessuto produttivo dell’altra grande realtà industriale meta degli immigrati, Milano, è diverso. Tuttavia il processo di superamento della divisione tra meridionali e locali e l’integrazione degli immigrati nel nuovo contesto si realizzano, sia pure in maniera diversa, ovunque, anche grazie alla componente operaia.

C’è a questo proposito una specificità italiana, o meglio del nucleo centrale del sistema produttivo industriale italiano di quegli anni, rappresentata da una forte selettività nella domanda di lavoro. Essa si esprime nella richiesta non tanto di antiche qualificazioni operaie bensì di forze di lavoro capaci di prestazioni lavorative elevate, tali da garantire livelli alti di produttività, grazie alla loro capacità di reggere elevati carichi di lavoro e di adattamento ai ritmi della moderna società industriale. Da questo punto di vista i giovani immigrati meridionali, dotati di un certo grado di scolarizzazione, costituiscono una componente privilegiata.

Un risvolto di questo processo a livello di composizione dell’occupazione, messo in evidenza da studi dell’epoca, è il ruolo sostitutivo svolto da una parte dei giovani immigrati nei confronti della forza lavoro locale. Un’analisi condotta da Massimo Paci (1973) con riferimento agli anni Sessanta mostrava come nelle aree di maggior sviluppo industriale le forze di lavoro locali più anziane venissero spesso sostituite da giovani meridionali. I processi di ristrutturazione da un lato portavano all’espansione della moderna industria manifatturiera in settori di punta del sistema produttivo, dall’altro comportavano la crisi di settori che erano stati molto importanti in passato, come quello tessile. E il risultato era l’uscita dal mercato del lavoro di operai anziani e di operaie locali che vi erano stati tradizionalmente occupati. Si tratta di un aspetto significativo che darà luogo a un dibattito di estremo interesse sul mercato del lavoro in Italia nel corso degli anni Settanta.

È utile un confronto tra questa esperienza migratoria e quella all’estero dello stesso periodo. Oltre alla stabilità caratterizzante la prima, che a lungo andare comportava anche il trasferimento dell’intero nucleo familiare, c’è un altro aspetto di rilievo, rappresentato dalla composizione sociale del flusso migratorio interno. Si è già accennato al fatto che in esso la componente borghese e, soprattutto, piccolo borghese ha un peso molto maggiore. Partono già nelle fasi iniziali i giovani scolarizzati destinati ad avere occupazioni a livello superiore anche in fabbrica. Continuano a partire giovani di estrazione borghese che trovano occupazione, anche grazie alla riduzione dell’offerta di lavoro locale, nell’apparato burocratico e nel sistema scolastico in grande espansione in quegli anni.

Accanto alle partenze individuali ci sono quelle che coinvolgono le intere famiglie, anche se non sempre chi emigra per primo è il capofamiglia. Partono giovani che aspirano a lavorare in fabbrica o a trovare lavori manuali di altro genere. E insieme a loro partono fratelli e sorelle minori che hanno potuto usufruire della scuola dell’obbligo e proseguono gli studi al Nord. Ma sono soprattutto i ricongiungimenti familiari che portano nelle città industriali ragazzi e bambini dal Sud: una seconda generazione destinata a proseguire, terminare e – nei casi più sfortunati – interrompere gli studi al Nord. Insomma il quadro sociale si presenta molto variegato anche se la componente proletaria e popolare è quella determinante.

È obbligatorio fare riferimento a una tematica alla quale, retrospettivamente, si presterà in seguito un’attenzione particolare: la realtà delle famiglie immigrate e, al loro interno, della componente femminile. Gli studi su questi aspetti delle migrazioni interne hanno messo in luce il grande processo di fuoriuscita delle donne in età da lavoro dal mercato del lavoro. E indubbiamente l’aumento del numero delle casalinghe tra gli anni Cinquanta e Sessanta – e soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta – è stato di dimensioni enormi. Anna Badino (Tutte a casa? Donne tra migrazione e lavoro nella Torino degli anni Sessanta, 2008) e altre ricercatrici hanno analizzato la condizione delle donne e la sua evoluzione con riferimento sia alla prima generazione, quella cioè delle protagoniste dell’emigrazione interna, sia alle loro figlie e nipoti, mettendo in evidenza le difficoltà di inserimento e i processi di trasformazione culturale.

Anche nel caso delle migrazioni interne a un certo punto arriva il momento del declino. Ma proprio a questo proposito c’è da fare un’ulteriore precisazione, circa il modo in cui tale processo si compie al Nord, sottolineando un aspetto che ha implicazioni per l’esito del processo stesso. La grande ondata di immigrazione operaia declina con la crisi del 1973 e si può dire venga suggellata dall’insuccesso degli scioperi alla FIAT nel 1980, legati, tra l’altro, anche alla massiccia riduzione del personale. Ma la minore occupazione nella grande fabbrica riguarda tutto il Centro-Nord, e avrà un momento particolarmente acuto in occasione della crisi nel 1992-93.

Eppure trent’anni prima – quando non si parlava che di arresto dei flussi migratori o di emigrazione di ritorno – c’era comunque chi partiva e chi tornava. Tornavano i vecchi operai che avevano lavorato soprattutto nelle industrie del Nord-Ovest – una per tutte, la FIAT – per effetto dei licenziamenti di massa e dei primi processi di deindustrializzazione. Partivano i giovani che, andati a studiare per es. all’Università Bocconi o al Politecnico di Milano o di Torino, si stabilivano definitivamente al Nord. Partivano, ancora, quelli che andavano a fare gli insegnanti o gli impiegati pubblici nei comuni del Nord-Est.

Così come per le migrazioni all’estero, all’origine del declino c’era anche qualcosa che riduceva l’effetto di spinta dalle regioni meridionali. In queste, nonostante un peggioramento della situazione economica, proseguiva ancora quel flusso di risorse di tipo welfaristico. E su questo aspetto per altro ha insistito molta letteratura, sottolineando la presunta mancata mobilità dalle regioni del Mezzogiorno. Ma quello che non si è mai messo in evidenza – e qui compare il pregiudizio e la ristrettezza della analisi – sono le nuove condizioni dell’emigrazione al Nord. Non si tratta solo delle discriminazioni determinate dall’avvelenamento del clima culturale del Paese per l’azione della Lega Nord (il cui orientamento xenofobo non riguarda solo gli stranieri, che ne sono le vittime principali, ma anche i meridionali). Si tratta del fatto che lo spostamento dell’asse territoriale dello sviluppo verso il Nord-Est ha fatto mutare anche la composizione della domanda di lavoro. Qui, in una situazione caratterizzata da elevati tassi di occupazione, i salari dei diversi membri della famiglia sono salari parziali, non pieni. Ma grazie al ruolo di camera di compensazione svolto dalla famiglia anche le situazioni di precarietà possono essere più facilmente ammortizzate. Infine nelle aree di industrializzazione diffusa in ambiente extrametropolitano la proprietà dell’abitazione è molto frequente anche tra i lavoratori dipendenti, e questo riduce drasticamente per loro i costi di riproduzione della forza lavoro. Ciò pone il lavoratore immigrato meridionale – impiegato o operaio che sia – in condizioni molto diverse da quelle del lavoratore locale. Il che vuol dire che in termini relativi l’immigrato meridionale del Nord-Est sta, rispetto ai locali, peggio di come stava l’immigrato meridionale nelle aree del triangolo industriale negli anni Sessanta. Di questo aspetto si parla poco, e raramente si fa caso alle caratteristiche della domanda di lavoro nel suo contesto politico, sociale e istituzionale.

La ripresa

Da diversi anni ormai dal Mezzogiorno si è ripreso a partire. Ma le partenze avvengono nelle condizioni alle quali abbiamo prima accennato e che sono ben illustrate negli scritti sul tema, tra i quali vanno ricordati in maniera particolare quelli raccolti in un numero speciale di «Sociologia del Lavoro» (2011). Dopo molte discussioni sui motivi della scarsa disponibilità dei giovani meridionali a emigrare, finalmente nel 2008, nel Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, la SVIMEZ, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, rileva che oltre 600.000 persone hanno lasciato il Sud d’Italia (in buona parte per destinazioni interne) nei dieci anni precedenti. E la notizia fa grande scalpore. Negli anni successivi il ritmo delle partenze dal Meridione prosegue con forte intensità, e negli anni della crisi (tra il 2008 e il 2013) altre centinaia di migliaia di persone si sposteranno verso Nord: sono numeri non certo eclatanti, soprattutto in considerazione delle condizioni del Mezzogiorno. Ma la questione principale è un’altra: la portata effettiva delle nuove migrazioni interne è di proporzioni molto più rilevanti, dal punto di vista sociale e numerico, di quanto sia registrato dagli stessi dati statistici istituzionali, che si limitano a mostrare la punta dell’iceberg.

D’altronde, anche i dati disponibili raramente sono oggetto di commento e di analisi, fatta eccezione per pochi specialisti. Così, per es., raramente si discute dell’intenso processo di mobilità territoriale, anch’esso spesso sottolineato dalla SVIMEZ, che avvenne all’interno delle grandi aree del Paese, cioè nel Sud e nel Nord, nonché all’interno delle stesse regioni. Per necessità o per virtù, in Italia, e soprattutto dal Mezzogiorno, ormai ci si sposta molto (Bonifazi 2013). E c’è ancora un fenomeno che i dati istituzionali raramente riescono a mostrare: il pendolarismo di lunga distanza dei lavoratori meridionali. Le inchieste giornalistiche, e soprattutto il crescente numero di video militanti o amatoriali, mostrano e raccontano al pubblico questa esperienza di cui sono protagonisti giovani – e a volte anche adulti con esperienze lavorative alle spalle – che partono dalla Campania o dalla Puglia per lavorare quattro o cinque giorni a settimana dormendo due notti fuori e due in treno. Anche questa è la nuova emigrazione, impossibile da valutare soltanto sulla base di analisi più o meno raffinate dei dati statistici aggregati.

Tra i luoghi comuni correnti c’è la sottolineatura – come novità – delle partenze dei laureati, contrapposte alle ‘partenze con la valigia di cartone di una volta’. Tuttavia l’emigrazione dei laureati è l’unica che non si è mai arrestata, soprattutto nell’ultimo trentennio, nemmeno nei periodi in cui il saldo migratorio dalle regioni del Meridione appariva prossimo allo zero. Ciò che ora viene presentato come una novità è un fenomeno che è andato consolidandosi ormai da quasi mezzo secolo e che era intenso anche quando prevaleva la convinzione che l’emigrazione dal Mezzogiorno fosse finita.

Ci sono altre novità che riguardano chi parte, i protagonisti della nuova migrazione Sud-Nord. Il livello di scolarizzazione dei protagonisti è aumentato sistematicamente perché è aumentata l’istruzione nel nostro Paese. Il numero dei laureati che partono è cresciuto, ma molti di loro partono con l’equivalente della valigia di cartone, cioè con poche credenziali, poca sicurezza e scarse possibilità di trovare un lavoro stabile e adeguato al titolo di studio posseduto. E la loro precarietà occupazionale esprime anche la precarietà del fenomeno migratorio.

Anche all’epoca della grande migrazione interna, di quell’epopea ben raccontata dal cinema e dalla letteratura, vi erano poche indagini sociali come quelle di Fofi a Torino o di Ferrarotti a Roma, e il dato statistico era insufficiente a rappresentare l’entità del fenomeno. Passarono, infatti, molti anni prima che la gente decidesse di (o potesse, essendo ancora in vigore le leggi contro l’urbanesimo) chiedere la residenza nel comune di arrivo. Ma ora i tempi dell’emigrazione senza cambiamento di residenza si sono allungati di molto, tranne che per la componente borghese e altamente scolarizzata (magistrati, impiegati di alto livello, insegnanti, presidi e così via). Questi periodi di permanenza senza cambio di residenza anagrafica – che si erano accorciati durante gli anni del grande sviluppo industriale e sociale del Paese – sono diventati pressoché infinti per i nuovi emigranti, per quelli che vanno avanti per anni con contratti a tempo determinato (quando va bene), oppure con contratti di collaborazione (quando va meno bene, ma almeno non si lavora al nero) e ancora di più per quelli che lavorano semplicemente al nero. E il fenomeno riguarda decine e decine di migliaia di giovani, anche altamente scolarizzati.

Un aspetto piuttosto eclatante di queste nuove emigrazioni è che le rimesse non esistono più. Anzi, come qualche raro lavoro di indagine diretta ha dimostrato, c’è un flusso di rimesse ‘alla rovescia’, con le famiglie che inviano denaro dal Sud ai loro figli e alle loro figlie emigrate al Nord a fronte di occupati con salari modesti (Pilato, in «Sociologia del lavoro», 2011). Questi sono i nuovi emigranti dal Sud al Nord. Non solo ingegneri e donne magistrato (che pure ci sono e ben si notano, pur non rappresentando la maggioranza), ma anche pendolari a lunga distanza, oppure molti giovani occupati a tempo determinato per brevi periodi in questa o quell’altra regione del Nord.

Va infine ricordato un processo di rilievo che ha luogo all’interno delle regioni del Mezzogiorno: il movimento migratorio ormai storicamente consolidato, e sempre attivo, dalle aree interne montuose e collinari verso la pianura. Queste zone hanno perso e continuano a perdere popolazione, che si sposta non solo verso Nord o verso l’estero, ma anche verso i centri maggiori e le zone di pianura costiera.

Tutti questi fenomeni concorrono a una modificazione radicale della struttura demografica delle regioni del Mezzogiorno che ha notevoli implicazioni sociali. In tutto il Sud, e con maggior gravità nelle zone interne, si sta registrando un repentino e pesante processo di invecchiamento della popolazione. Esso è causato direttamente e soprattutto indirettamente dall’emigrazione e dall’esodo. Con le partenze del passato sono andate riducendosi le classi di età fertili, ma il fenomeno era allora compensato dagli elevati tassi di natalità. Ora anche questi si sono ridotti significativamente.

Dal punto di vista demografico il Meridione ha ancora indici di vecchiaia o di dipendenza meno elevati di quelli delle regioni del Centro-Nord. Ma è altrettanto vero che gli indicatori dell’invecchiamento della popolazione aumentano nel Mezzogiorno a un ritmo più spedito che altrove. E qui, nel crocevia migratorio italiano, gli effetti dell’emigrazione e dell’immigrazione si intrecciano: l’emigrazione dei giovani e delle forze di lavoro, con la riduzione delle dimensioni familiari, determina la crescente incidenza di famiglie di soli anziani o di anziani soli, autosufficienti e non. Il che richiama dall’estero forze di lavoro per le attività di cura.

Queste tendenze – da collegare alla perdurante gravità della situazione economica del Mezzogiorno – hanno spinto la SVIMEZ a parlare di ‘catastrofe demografica’. Per l’effetto congiunto delle tendenze migratorie e delle tendenze demografiche si riducono le forze di lavoro, non solo per le attività di mercato ma anche per le attività di cura. Un’implicazione di questo processo complessivo è la diffusa presenza nel Sud d’Italia di lavoratrici immigrate impegnate nella cura degli anziani, nelle aree urbane come in quelle rurali e non solo nelle famiglie benestanti. Ciò perché alle carenze del sistema di welfare si aggiungono le trasformazioni della famiglia e la stessa maggiore presenza femminile nel mercato del lavoro (anche nel Mezzogiorno) che rendono meno disponibili al lavoro informale di accudimento i membri, in sostanza le donne, della stessa famiglia. Da ciò il ricorso al mercato internazionale della forza lavoro attraverso quello che è stato definito care drain: il drenaggio di immigrati (più specificamente di immigrate) dall’estero per il lavoro di cura.

Emigrazione di ritorno e immigrazione

La ‘fine dell’emigrazione’ e la scoperta dell’immigrazione

Si è così giunti l’ultimo tassello di questa analisi dedicata al crocevia migratorio italiano: l’immigrazione straniera. Ma ci si occuperà del fenomeno solo in riferimento ai suoi nessi con l’emigrazione e con le stesse migrazioni interne.

Alla fine degli anni Settanta, quando tutto il dibattito era concentrato sulla ‘fine dell’emigrazione’ e sulla problematica delle migrazioni di ritorno, si cominciò a notare l’arrivo dei primi lavoratori provenienti dal Terzo mondo. Si trattava di un fenomeno assolutamente non previsto, anzi largamente escluso dal dibattito sul mercato del lavoro in Italia. Si trattava di un flusso molto complesso per composizione nazionale, etnica e composizione di genere, nonché per destinazione occupazionale; un fenomeno, peraltro, profondamente diverso dalle grandi migrazioni europee, all’epoca ormai in fase di rallentamento. La prima componente era costituita da lavoratori tunisini impegnati nell’agricoltura e nella pesca in alcune aree della Sicilia. Una seconda, ben più consistente, aveva provenienze molto varie e distanti fra di loro (dai Paesi cattolici dell’America Latina e dell’Asia alle ex colonie italiane) ed era costituita in prevalenza da donne impegnate nel lavoro domestico, soprattutto nelle grandi città. A queste due componenti, nella seconda metà del decennio e limitatamente ad alcune aree del Nord-Est, si aggiunse l’arrivo di lavoratori dalla Jugoslavia per l’opera di ricostruzione post-terremoto nel Friuli. Ma presto l’area delle provenienze si estese, così come l’area di destinazione in Italia.

L’interesse per la questione era dapprima molto modesto. Ma con la pubblicazione dei primi dati del Censimento generale della popolazione del 1981 si prese pienamente coscienza dell’esistenza di questa nuova realtà: l’Italia si scoprì ‘Paese di immigrazione’. Dal censimento risultava che per la prima volta dalla fine della guerra nel corso del decennio intercensuario era arrivata (o tornata) in Italia più gente di quanta non ne fosse partita. Infatti la popolazione residente totale nel nostro Paese alla data del censimento risultò pari a circa 56.250.000 unità: una cifra superiore non solo a quella del censimento precedente ma – quel che più conta – anche a quella che si sarebbe avuta in assenza di movimenti migratori.

Una seconda novità è rappresentata dal fatto che per la prima volta nella storia dell’Italia del dopoguerra l’entità complessiva della popolazione presente nel Paese alla data del censimento risultava superiore a quella della popolazione residente. In altri termini, c’era più gente in Italia di quanta non ne risultasse iscritta presso le anagrafi comunali: fatto tipico delle aree di immigrazione, dato che a coloro che già risiedono nel Paese si aggiungono gli immigrati appena arrivati che ancora non hanno chiesto o ottenuto la residenza. Il contrario avviene nei Paesi e nelle aree di emigrazione; e infatti in passato, soprattutto nelle regioni meridionali, la maggiore consistenza numerica della popolazione residente rispetto a quella presente aveva indicato l’esistenza di un flusso in uscita.

A una lettura più attenta e articolata dei dati risultava però che questa immagine di ‘Paese di immigrazione’ valeva per l’Italia nel suo complesso, e a maggior ragione per le regioni del Centro-Nord, ma che nel Mezzogiorno il quadro risultava alquanto diverso: qui non solo la differenza tra popolazione residente e polazione presente continuava a risultare a vantaggio della prima, ma anche i saldi migratori continuavano a essere negativi: nel corso degli anni Settanta il Mezzogiorno aveva ancora continuato a caratterizzarsi come area di emigrazione.

Alle novità demografiche emerse dal censimento del 1981 contribuirono due distinti fenomeni: l’emigrazione di ritorno degli italiani e la nuova immigrazione degli stranieri, ancora raramente registrata dalle anagrafi comunali. In termini di grandezze demografiche l’effetto dei due flussi in entrata era lo stesso, ma si trattava di fenomeni di natura e con implicazioni politiche, sociali ed economiche radicalmente diverse. Basti solo pensare ai motivi che sono alla base dei due flussi. Nel caso dell’emigrazione di ritorno, l’origine va ricercata nell’esaurirsi dell’esperienza, dovuta anche all’aprirsi di nuove opportunità, probabilmente esagerate, nelle regioni italiane di emigrazione. Nel caso dell’immigrazione, invece, le condizioni di vita e di lavoro in Italia – così come negli altri Paesi dell’Europa mediterranea – sono ben lungi dallo scoraggiare un fenomeno che nasce da una forte spinta all’emigrazione dai Paesi di provenienza. È improbabile comunque che emigranti di ritorno e immigrati si siano ritrovati nelle stesse collocazioni lavorative.

Emigrazione e immigrazione a confronto

La collocazione degli immigrati va vista alla luce dei due grandi processi che interessano già da allora il mercato del lavoro a livello internazionale, vale a dire una crescente internazionalizzazione e una sempre più consolidata segmentazione. Una questione che aveva attratto l’attenzione degli studiosi delle migrazioni internazionali in quel periodo riguarda il ruolo della forza lavoro degli immigrati rispetto all’occupazione locale. Ci si chiedeva se tale ruolo fosse complementare o sostitutivo, se cioè gli immigrati prendessero i posti di lavoro non coperti dei lavoratori italiani o se invece entrassero in concorrenza con essi sostituendoli in alcune occupazioni. Nel primo caso si sarebbe trattato di una ‘immigrazione da domanda’, cioè trainata dalla domanda di lavoro in espansione nei Paesi di arrivo, nel secondo caso si sarebbe trattato di un’immigrazione dovuta essenzialmente alla spinta migratoria dei Paesi poveri, cioè di una ‘immigrazione da offerta’, e quindi in un certo senso subita dai Paesi di immigrazione con la conseguente concorrenza tra immigrati e locali sul mercato del lavoro. La questione era mal posta perché non teneva conto dei grandi cambiamenti che avevano avuto luogo nei Paesi di immigrazione proprio nel corso degli anni Settanta con la trasformazione in senso terziario dell’economia e con l’ampliamento di alcune aree occupazionali, sia nell’ambito dell’economia ufficiale sia in quello dell’economia informale. In Italia il tradizionale dualismo della struttura occupazionale aveva assunto caratteristiche nuove e nuovi segmenti della domanda di lavoro, che offrivano condizioni in generale precarie, assumevano sempre maggior rilievo soprattutto nel settore dell’agricoltura e dei servizi. In essi trovavano lavoro gli immigrati stranieri. In particolare nell’ambito dei servizi alle persone (collaborazione domestica o assistenza agli anziani) emerse subito un’intensa domanda di manodopera, per cui si andò creando una nuova tipologia di lavoro, aperta agli immigrati e non corrispondente in alcun modo né alle aspettative dell’offerta di lavoro presente nel Paese né tanto meno a quelle di coloro che erano tornati in Italia dopo aver posto fine alla loro esperienza migratoria. Questo spiega, tra l’altro, l’apparente paradosso della coesistenza in Italia, e in particolare nel Sud, di occupazione straniera e disoccupazione.

Per quanto riguarda il Mezzogiorno i fenomeni di modernizzazione dell’economia che avevano caratterizzato il periodo precedente subiscono un rallentamento, accompagnato da una notevole distorsione. E questo rende la condizione degli emigranti di ritorno particolarmente problematica. La letteratura sul tema insiste molto sulle tipologie degli emigrati di ritorno, sull’uso poco produttivo delle rimesse e delle risorse accumulate, sulle loro caratteristiche culturali e la scarsa tendenza all’innovazione. Quello che non viene sottolineato a sufficienza è la carenza delle prospettive occupazionali nel mutato e non migliorato quadro del mercato del lavoro nel Meridione. Avendo vissuto e lavorato per anni in un contesto produttivo moderno, spesso nella grande industria, con un sistema organizzativo efficente, non tutti hanno avuto la capacità, tornando al Sud, di inserirsi in un mercato del lavoro dove le regole erano spesso violate. E, una volta tornati, la loro stessa socializzazione industriale è risultata poco utile ed efficace nel contesto del Mezzogiorno.

E qui emergono significative differenze tra le caratteristiche assunte dalle migrazioni intraeuropee, che hanno visto gli italiani come emigranti, e quelle internazionali che si registrano a partire dagli anni Settanta e che vedono come protagonisti gli immigrati dai Paesi del Sud del mondo. Le prime avvenivano in una situazione economica caratterizzata dal grande e crescente ruolo dell’industria manifatturiera, con conseguente incremento dell’impiego di lavoratori immigrati nel settore primario del mercato del lavoro (nel core sector dell’economia, come si diceva all’epoca). Ciò aveva un’implicazione ulteriore per i processi d’integrazione degli immigrati nella società di arrivo. L’organizzazione del lavoro fordista e taylorista dominante a quell’epoca permetteva infatti di assorbire anche in fabbrica forza lavoro non qualificata, dando a essa immediatamente stabilità. E, sia pure con tutte le discriminazioni, anche pesanti nei loro confronti, a lungo andare gli immigrati italiani potevano essere integrati nelle strutture orizzontali di organizzazione dei lavoratori. Perciò si può parlare per quella fase dell’emigrazione italiana – e in generale delle migrazioni intraeuropee di quel periodo – di migrazioni internazionali industriali, anzi di migrazioni fordiste, in riferimento non solo alla stabilità ma anche al progressivo accesso ai diritti sociali, determinato dall’entrare a far parte della classe operaia dei Paesi di arrivo. Certo, persistevano elementi di subalternità, ma la tendenza era verso un progressivo inserimento, sia pure a livelli e con tempi diversi a seconda dei Paesi di destinazione, processo che appare oggi molto più difficile e complesso, anche per le mutate condizioni strutturali.

Emergono in queste migrazioni ulteriori elementi che le distinguono dalle migrazioni odierne. Uno di questi, particolarmente significativo in Europa, è rappresentato dal numero relativamente ristretto di nazionalità presenti sulla scena migratoria. In un Paese come la Germania, nel periodo compreso tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, le nazionalità partecipi del fenomeno migratorio erano ben poche rispetto a quelle attuali. Oltre agli italiani e agli spagnoli, seguiti successivamente dai turchi, c’erano in sostanza solo i greci, gli jugoslavi e, in misura molto più ridotta, i portoghesi (presenti peraltro massicciamente in Francia). Si trattava dunque di un’immigrazione più semplice dal punto di vista della composizione del fenomeno e ciò per due ordini di motivi: da una parte il minor grado di differenza degli immigrati fra di loro e rispetto alla popolazione del Paese ospitante, dall’altro lato la minore articolazione e vastità delle aree occupazionali di destinazione degli immigrati.

Di conseguenza, sia per le modificazioni interne alla domanda di lavoro, sia per i cambiamenti relativi al tipo e alla provenienza dell’offerta di lavoro, gli schemi interpretativi volti a spiegare la composizione e l’evoluzione delle migrazioni internazionali nei Paesi industrializzati non sono facilmente applicabili alla nuova situazione. E questo, in Italia, non ha favorito la comprensione del fenomeno nella sua fase iniziale.

Emigrazione, identità nazionale e identità regionali

Tornando agli emigrati, l’esistenza degli ‘italiani fuori dall’Italia’, ha sempre avuto un ruolo fondamentale nelle trasformazioni della società italiana e nella stessa costruzione dell’identità nazionale. Le implicazioni sociali e culturali dell’emigrazione per le aree di provenienza sono state diverse nelle due grandi emigrazioni. Ma particolarmente importanti sono state quelle indotte dalla seconda, che pure coinvolse un numero di persone molto più modesto e durò per un periodo più breve. Ciò perché questa seconda grande esperienza migratoria ebbe luogo in concomitanza e si intrecciò con altri importanti processi di cambiamento e sviluppo della società italiana e con una complessiva trasformazione dei rapporti di classe, soprattutto nelle zone di provenienza.

Rispetto all’identità nazionale entrambe le esperienze migratorie hanno rappresentato un rilevante fattore di stimolo e rafforzamento, ma in modo diverso. Nella grande emigrazione transoceanica – e soprattutto nelle sue prime fasi – gli emigranti, provenienti da regioni diverse e con un’identità e un senso di appartenenza regionale, furono identificati e trattati come italiani (Franzina, in Storia dell’emigrazione italiana, 2001). L’identità nazionale, per così dire, fu imposta dall’esterno. Partiti come siciliani, napoletani o piemontesi, gli emigrati si trovarono a essere visti e trattati come italiani dalla società e dalle istituzioni dei Paesi di insediamento. In questa stessa direzione agirono le organizzazioni e i movimenti politici, soprattutto quelli socialisti, oltre che le istituzioni nazionali operanti nel settore, a cominciare dalla Società Dante Alighieri e dalla stampa italiana all’estero.

Lo sviluppo del senso di appartenenza nazionale tuttavia non avvenne in contrapposizione al senso di appartenenza regionale e locale, espresso dalla formazione delle prime associazioni di immigrati provenienti da qualunque posto d’Italia. Queste associazioni non si sono mai poste in contrapposizione alle organizzazioni nazionali. Anzi, per qualche verso non solo il legame con l’Italia, ma anche la sensibilità per una certa retorica nazionalista, sono presenti tra gli italiani all’estero.

Le loro associazioni, fondate sul paese, la provincia o la regione di provenienza, sono tutt’ora particolarmente numerose e diffuse soprattutto nei Paesi d’oltreoceano. Esse non sono associazioni di soli italiani perché accolgono al loro interno anche cittadini dei Paesi di insediamento, spesso figli di emigrati e a volte figli di figli di emigrati. In generale, da quel che risulta da diverse indagini sul tema, essi dichiarano una doppia appartenenza: si sentono al contempo americani e italiani, uruguaiani e italiani e così via.

Un’ulteriore spinta all’associazionismo regionale, e al legame con le regioni di provenienza e con l’Italia, è venuta dall’attività dell’istituto regionale, in seguito alla legge istitutiva e all’attribuzione dei compiti in ambito migratorio. La rilevanza delle associazioni di italiani all’estero si è espressa anche attraverso gli scambi con le regioni di provenienza e i convegni che in Italia svolgono le organizzazioni regionali.

Da rilevare un problema che riguarda le prospettive dell’associazionismo: i giovani frequentano sempre meno le associazioni e si innalza l’età dei membri degli organismi direttivi e dei principali animatori, soprattutto in America Latina. In Europa si sono registrati anche processi di rivitalizzazione o aggiornamento dell’associazionismo con protagonisti ed esponenti diversi da quelli delle associazioni storiche (Prontera 2014). Ma in generale resta aperto il problema della partecipazione giovanile. E questo porta a riflettere sulla situazione dei giovani italiani all’estero. La principale differenziazione è tra quelli che appartengono alle seconde (o terze) generazioni – che sono state socializzate nei Paesi di immigrazione e non hanno vissuto direttamente l’esperienza del migrante (o l’hanno vissuta da bambini) – e i nuovi arrivati. I primi sono ovviamente più legati all’emigrazione storica, i secondi, anch’essi diversi al loro interno e in generale orientati verso destinazioni europee, ne sono più distanti e si muovono secondo catene migratorie nuove, stili di vita, prospettive occupazionali e modelli migratori caratterizzati da flessibilità e a volte da precarietà. Essi vivono in una dimensione europea o cosmopolita non corrispondente a quella di italiani all’estero.

Più problematico e complesso è stato il ruolo delle migrazioni interne nel consolidare il senso di identità nazionale. Sicuramente, negli anni di grande sviluppo del dopoguerra, un’ondata senza precedenti di migrazioni interne ha avvicinato le regioni del Paese. Alla tradizionale immigrazione piccolo e medio borghese per gli impieghi pubblici, la magistratura, l’esercito o gli organi periferici dei ministeri, da sempre presente nell’Italia unita, seguì o si affiancò l’ondata di immigrazione a composizione prevalentemente popolare e proletaria. Delle vicende di quest’ultima si è sottolineata l’importanza soprattutto in rapporto ai processi di trasformazione della classe operaia italiana. Dopo le prime tensioni a livello operaio – ma soprattutto dopo le prime esplicite reazioni xenofobe (‘non si affitta ai meridionali’) –, al crescere della classe operaia e, al suo interno, della componente di provenienza meridionale, corrispose un processo di integrazione che fu sostenuto anche da una strategia sindacale unificante. Non si trattò solo di elementi di integrazione a livello locale, fondati sulla comune condizione operaia, ma più in generale di un spinta unitaria che avvicinava le due parti del Paese attraverso contatti sempre stretti tra emigrati e aree di partenza, tra i giovani venuti al Nord e le loro famiglie. A questo corrisposero le strategie dei sindacati impegnati nella mobilitazione per le riforme, con lo sviluppo del Mezzogiorno come tema centrale: ‘Nord e Sud uniti nella lotta’ era lo slogan di molte manifestazioni sindacali tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta.

Poco ora resta di tutto ciò. Questa emigrazione, con gli elementi di trasformazione culturale che implicava, aveva – come quella verso gli altri Paesi europei – le connotazioni proprie dell’emigrazione industriale e fordista. Non a caso essa declinò con la crisi del fordismo e della grande industria che seguì al primo shock petrolifero. Le trasformazioni politiche e culturali che essa aveva indotto non hanno avuto il tempo per consolidarsi sufficientemente. Un processo a ritroso ha quindi avuto luogo, con spinte alla divisione e alla frammentazione della società italiana, come appare evidente nelle condizioni della classe operaia e nei suoi orientamenti. A quella che era stata l’integrazione degli immigrati meridionali nella società industriale corrisponde da tempo un processo di segno ben diverso, espresso anche dall’adesione di operai, ex operai e loro figli al partito xenofobo e antimeridionale della Lega Nord: un paradosso peraltro non nuovo nel mondo delle migrazioni. È pur vero che all’esacerbarsi dei toni nei confronti dell’immigrazione straniera da parte di questa formazione politica non ha corrisposto un pari aumento dell’aggressività nei confronti degli italiani non locali. Ma la ferita rimane comunque aperta.

Il crocevia migratorio di fronte alla crisi e oltre

La crisi in corso non ha rallentato in maniera particolare i movimenti all’interno del crocevia migratorio italiano. Ne ha tuttavia modificato le tendenze: accentuandone alcune, riducendone altre e modificando comunque le caratteristiche e la composizione delle collettività.

Per quanto riguarda le migrazioni interne, rispetto alle quali la conoscenza del fenomeno è più approfondita e i dati sono meno controversi, non si può dire che ci siano grandi novità rispetto alle tendenze illustrate dalla SVIMEZ già nel 2008 con la sottolineatura di una ripresa delle partenze dal Mezzogiorno evidenziatasi nei dieci anni precedenti. Su questo tema la SVIMEZ ha particolarmente insistito negli anni successivi, quelli della crisi, sottolineando i rischi di un eccessivo depauperamento delle risorse umane nel Meridione e di un impoverimento della struttura demografica. Negli anni della crisi i saldi migratori tra Sud e Centro-Nord, pur mantenendosi sempre negativi, si sono ridotti. E ciò è facilmente comprensibile se si considera che la crisi ha investito tutto il Paese e che la capacità di richiamo dalle regioni del Nord per le forze lavoro del Mezzogiorno si è ulteriormente ridotta.

Con l’intensificarsi della crisi, tuttavia, alle destinazioni interne si sono sommate sempre più – fino a diventare le più significative – quelle per l’estero. E questo è un punto particolarmente importante. La pressione migratoria è divenuta più alta perché più gravi sono le condizioni che la determinano: la difficoltà dell’economia, con la riduzione del PIL e il conseguente significativo aumento dei tassi di disoccupazione. Questo è vero in particolare per il Sud d’Italia, anche se i problemi dell’occupazione riguardano tutto il Paese. La gravità e il perdurare della crisi in Europa rendono sempre più difficile la situazione dei Paesi mediterranei, compresa l’Italia, e questo spiega anche la ripresa delle migrazioni in Europa, che peraltro è particolarmente forte dalle regioni del Centro-Nord.

La crisi, oltre a generare movimenti di popolazione, può causare tensioni, paure e aggressività nei confronti degli stranieri, anche in zone dove essa non è particolarmente grave. Questo umore preoccupato è emerso, per es., dal referendum contro l’immigrazione straniera (in sostanza quella europea), tenutosi nel 2014 in Svizzera, dove la campagna in alcuni cantoni (come il Ticino) si è caratterizzata per un esplicito tono anti-italiano. Iniziative a carattere xenofobo sono state ricorrenti in Svizzera. Già nel 1970 ebbe vasta risonanza un’iniziativa contro ‘l’inforestieramento’ della popolazione (riferito, all’epoca, soprattutto agli italiani): il famoso referendum promosso da James Schwarzenbach, che fu sconfitto ma destò molta preoccupazione tra gli emigranti italiani. La novità attuale, rispetto ad allora, consiste non solo nella vittoria, sia pure di stretta misura, di una proposta radicalmente anti-immigrati, ma anche nel fatto che nella campagna elettorale sono stati usati argomenti a carattere populista, puntando su temi quali la riduzione dei salari dei lavoratori locali per effetto della concorrenza di lavoratori stranieri, le difficoltà nel mercato del lavoro e la precarietà. Il tono anti-italiano è stato particolarmente duro nel confinante Canton Ticino, meta di lavoratori frontalieri. Al contrario, nelle aree di maggior sviluppo e di massima presenza, anche stabile, di immigrati, come Zurigo, la proposta non è passata. Ciò è un ennesimo segno della forza del pregiudizio e della propaganda che su di esso si basa.

Situazioni di questo tipo, in particolare riferite agli italiani, non risultano invece dalle cronache di altri Paesi europei, come per es. la Germania, dove la ripresa dell’immigrazione dall’Italia sembra essere più significativa. Rispetto alle dimensioni del fenomeno le fonti, per forza di cose di natura amministrativa, danno immagini diverse. Così, il numero degli iscritti all’AIRE nel mondo – e quindi teoricamente dei nuovi emigrati – negli anni della crisi è aumentato di molto, passando dai 3.402.000 del 2008 ai 4.388.000 del 2012. Al contrario, le cancellazioni anagrafiche per l’estero, comprese quelle per i Paesi europei, risultano di entità molto più modesta. Inoltre, nel caso della Germania, le fonti tedesche danno un numero di nuovi arrivi di gran lunga superiore a quello fornito dalle corrispondenti fonti italiane (cancellazioni anagrafiche). In ultima analisi si può dire che indubbiamente c’è ripresa dell’emigrazione e che la crisi e il peggioramento della condizione economica in tutto il Paese ne siano la causa. Ma sulla effettiva portata e composizione del fenomeno si possono avanzare solo ipotesi.

Sull’altro versante, cioè per quel che riguarda l’immigrazione, non si è avuto ancora a livello di massa il fenomeno di ritorno nei Paesi di provenienza che molti si aspettavano. Ma l’impulso che si era avuto nei primi anni Duemila è stato senza dubbio frenato dalla crisi. A questo riguardo c’è da dire che, contrariamente a quanto avvenuto in Europa in occasione delle altre grandi crisi dell’ultimo secolo, non c’è stata né un’ondata di rientri né una drastica riduzione delle partenze. E ciò va visto in rapporto all’elevata segmentazione del mercato del lavoro, che ha mantenuto alta la richiesta di un certo tipo di forza lavoro (per es. quella femminile per i servizi domestici e soprattutto per il lavoro di cura).

E anche nei casi in cui c’è stata non solo una riduzione della domanda di lavoro ma anche una significativa ondata di licenziamenti, questi ultimi non hanno implicato, necessariamente, ritorno nei Paesi di provenienza. In generale gli immigrati, occupati in settori diversi e presenti nelle varie regioni del Paese, sono stati colpiti diversamente dalla crisi. Nel Veneto, per es., secondo uno studio dell’Osservatorio regionale sul lavoro (Sacchetto, Vianello 2013), gli immigrati occupati nell’industria, che prima della crisi aveva rappresentato un settore occupazionale in espansione, sono restati in loco ma c’è stato sia uno scivolamento in basso della loro condizione nell’occupazione ufficiale (con il passaggio a lavori con mansioni, retribuzioni e livello di stabilità più modesti) sia il passaggio al lavoro ‘nero’. Più in generale, dalle regioni del Nord si è registrato uno spostamento, modesto in termini numerici ma significativo, di immigrati verso le regioni del Mezzogiorno: uno spostamento non registrato dalle anagrafi, ma che è stato tuttavia riscontrato da molteplici indagini di campo (De Filippo, Strozza, in «Sociologia del lavoro», 2011; Immigrazione e diritti violati, 2013). Si è realizzato cioè un nuovo fenomeno di emigrazione, interna all’immigrazione e con destinazione e caratteristiche opposte rispetto a quelle dei decenni precedenti: prima dal Sud al Nord e dal lavoro nero all’occupazione stabile, ora dal Nord al Sud, dal lavoro nell’industria verso il lavoro informale in agricoltura e altre occupazioni precarie.

In ultima analisi, anche ciò che è avvenuto nel corso della crisi mostra, ancora una volta, il carattere dell’Italia come crocevia migratorio e il diverso ruolo che in esso svolgono, per le loro caratteristiche economiche e sociali, le differenti realtà regionali, soprattutto il Mezzogiorno e il Centro-Nord. Nonostante ciò, raramente si tiene tuttavia conto dell’esistenza del crocevia migratorio: i due fenomeni – emigrazione e immigrazione – non vengono visti e trattati come processi intrecciati dalle forze politiche e dall’opinione pubblica.

Eppure la materia è la stessa, giacché si tratta di soggetti con problematiche simili. Le discriminazioni, soprattutto nelle prime fasi dell’esperienza migratoria, riguardano gli italiani emigrati all’estero così come gli stranieri immigrati in Italia. L’accesso ai diritti sociali e alle politiche di welfare tocca gli uni e gli altri. I problemi scolastici delle seconde generazioni riguardano sempre, da noi come all’estero, le famiglie degli immigrati. È comprensibile dunque come lo studio dell’esperienza passata e recente dell’emigrazione italiana possa servire a comprendere meglio la realtà degli immigrati in Italia e a produrre politiche sociali adeguate. Ma è altrettanto vero che l’osservazione dell’immigrazione in Italia può servire a comprendere realtà e problemi degli italiani emigrati all’estero, gettando una nuova luce sul passato.

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