Milano e la borghesia degli imprenditori

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

Milano e la borghesia degli imprenditori

Pier Luigi Porta

L’istruzione superiore: la nascita del Politecnico

Scopo di questa esposizione è quello di effettuare un esame della cultura economica della borghesia imprenditoriale milanese, soprattutto nell’intervallo di tempo tra il 19° e il 20° sec. arrivando sino agli anni del fascismo. Ci occuperemo, in questo caso, soprattutto della cultura alta, come si usa dire, ossia della diffusione dell’istruzione superiore in rapporto con il consolidamento della borghesia imprenditoriale. Milano rappresenta, al confronto in sede europea, un polo economicamente avanzato a partire almeno dall’età medievale, con notevole continuità in epoca moderna: un fenomeno che, soprattutto dalla seconda metà del 19° sec., si arricchisce e si accentua con l’enorme sviluppo industriale, i grandi progressi dell’agricoltura nei territori circostanti, lo straordinario proliferare di iniziative di grande rilievo nel comparto bancario e finanziario (incluso il trasferimento a Milano del mercato di Borsa), in generale con l’impetuosa creazione di nuove vie di comunicazione e la crescita delle attività del terziario commerciale nel loro insieme.

Questo enorme sviluppo determina anche profonde modificazioni della struttura sociale della città. Il ballo Excelsior, rappresentato per la prima volta al Teatro alla Scala nel 1881 (ad aprire l’anno di una grande Esposizione nazionale a Milano), è il simbolo che meglio trasmette l’orgoglio e il senso della lotta per il progresso tecnologico, economico e sociale attraverso le «scoperte portentose e le opere gigantesche del nostro secolo», come afferma il suo coreografo Luigi Manzotti (1835-1905). È qui che prende anche forma e si consolida il mito della ‘capitale morale’. Ci chiediamo, dunque, quali siano i retroscena e i risvolti culturali della Milano economica nella fase della sua più spettacolare affermazione.

Occorre premettere che, come è del resto ben noto, la cultura universitaria a Milano ha una storia particolare. Milano non difetta certo di scuole di prestigio in tutto lo svolgersi della sua storia, addirittura nell’intero arco dell’era cristiana. Vi manca, tuttavia, a lungo una Università, ossia uno Studio generale. Neppure l’epoca napoleonica, tra i momenti alti del consolidamento dell’immagine e del prestigio della città, supplirà a questa mancanza. In realtà, vi sono però sorte e hanno conosciuto considerevole sviluppo nel corso del tempo istituzioni molto simili a un’università. Tale, per es., è il caso delle Scuole Palatine, istituite agli inizi del Cinquecento, successivamente destinate a occupare una posizione centrale, soprattutto all’epoca delle riforme teresiane, nella seconda metà del 18° secolo. L’imperial regio governo di Vienna non trascura l’istruzione superiore in Lombardia, manifestando nel complesso (malgrado diversità di vedute al suo interno) una certa preferenza per il dinamismo e la capacità di innovazione dell’ambiente milanese, rispetto a un più accentuato immobilismo dell’antica istituzione accademica lombarda, l’Alma Mater ticinensis, ossia l’Università di Pavia. È così che le Scuole Palatine di Milano diventano la sede di numerose cattedre, soprattutto in campo scientifico, e, dal 1769, anche la sede di una delle prime cattedre universitarie di economia al mondo, occupata inizialmente da Cesare Beccaria (1738-1794), con la denominazione di scienze camerali: Kameralwissenschaft resta a lungo il nome tedesco di quella che da noi diviene economia pubblica o economia civile e, infine, economia politica.

Al tempo stesso occorre ricordare la presenza a Milano dell’istruzione superiore in campo medico, la cui vicenda è stata ricostruita ripercorrendo la storia dell’Ospedale Maggiore (noto ai milanesi come la Ca’ Granda), fondato nel 15° secolo. Da quella istituzione prenderanno forma, assai più tardi, gli Istituti clinici di perfezionamento che, insieme alla cosiddetta Accademia scientifico-letteraria, costituiranno il nucleo fondativo dal quale sorgerà (bisognerà però attendere gli anni Venti del 20° sec.) l’Università degli studi, ancor oggi nota come ‘la Statale’. Notiamo subito che non si giustificherebbe tale appellativo se non fossero in precedenza intervenute altre iniziative di livello universitario che tuttora restano tra i maggiori segni caratteristici dell’alta cultura milanese e che interessano da vicino il campo dell’economia nelle sue multiformi espressioni all’interno della vita cittadina.

La prima istituzione universitaria vera e propria creata a Milano è del 1863 ed è rappresentata da quello che, più tardi, prenderà il nome ufficiale di Politecnico, ossia dal Regio Istituto tecnico superiore previsto dalla legge 15 novembre 1859, la cosiddetta legge Casati (poco più tardi estesa allo Stato unitario), in ragione della sempre più sentita esigenza di dare più precisa forma, in parallelo con quanto accade anche in altri Paesi (specie la Francia, la Germania, la Svizzera), alla formazione degli ingegneri. La nascita del Politecnico è promossa da un matematico di fama e di grande apertura internazionale, Francesco Brioschi (1824-1897), e consolidata dai suoi numerosi allievi tra i quali Giuseppe Colombo, Giuseppe Ponzio, Cesare Saldini. Patriota milanese dal 1848, già rettore dell’Università di Pavia, Brioschi era anche il presidente della citata Accademia scientifico-letteraria, essa stessa creata dalla legge Casati.

La fondazione del Politecnico rappresenta un evento di primaria importanza ai fini della comprensione della cultura delle classi imprenditoriali milanesi. Anche qui Milano ama distinguersi, sin dall’inizio, da Pavia soprattutto per uno speciale rigore della disciplina e degli studi: il che, tra l’altro, guadagna alla nuova istituzione l’ironico nomignolo di ‘Asilo Brioschi’. Del resto, i milanesi hanno sempre amato ironizzare sulle proprie glorie, come ben dimostra Carlo Emilio Gadda, ingegnere milanese egli stesso, quando (nei suoi ‘quadri di vita milanese’) dipinge il più noto e il più attivo degli allievi di Brioschi, il famoso ingegner Colombo (che resterà a lungo nume tutelare dell’Istituto), come «uno dei più autentici pilastri del nòster pulitèknik»; oppure quando il monumento a Leonardo, circondato da quattro allievi, che a tutt’oggi domina la piazza della Scala, diventa per i milanesi un lìter in quàter!

A proposito di Leonardo milanese: il suo nome verrà curiosamente a intersecare anche la vicenda del Politecnico, allorché, più tardi, se ne rinnoverà la sede collocandola all’interno del quartiere della cosiddetta Città studi. Nei milanesi (specie dopo il tramonto della gloriosa epoca napoleonica) alberga – ed è ancor oggi assai vivo – un bisogno insopprimibile, pur se irrealizzabile, di più elevata nobiltà intellettuale, che conduce in questo caso ad attribuire il toponimo Leonardo da Vinci alla piazza destinata appunto alla nuova sede del Politecnico, rimuovendolo però dalla sponda sinistra del Naviglio pavese, che lo aveva a lungo giustamente detenuto e che dovrà invece contentarsi del pur prestigioso nome di un contemporaneo di Leonardo, il cardinale Ascanio Sforza, fratello minore e astuta spalla del duca Ludovico Sforza, detto il Moro. A differenza di Leonardo, tuttavia, Ascanio Sforza naturalmente con i Navigli milanesi non c’entra per nulla, così come del resto nulla ha Leonardo a che vedere con il Politecnico. A Brioschi, poi, la città di Milano intitolerà, invece, una delle tante tranquille strade della periferia cittadina fuori Porta Ticinese, in uno dei quartieri più popolari della città.

Il Politecnico, come qui accennato, ebbe un ruolo decisivo nella cultura di una città tendenzialmente orientata all’attività pratica e un po’ pomposamente diffidente verso gli otia, ossia verso gli studi. Il successo del nuovo Istituto fu indubbiamente notevolissimo. Il Manuale dell’ingegnere civile e industriale (1877) del già ricordato Giuseppe Colombo (1836-1921) e la sua leadership quasi secolare sono l’emblema della cultura del Politecnico: formare professionisti colti, capaci di mantenere rapporti internazionali, tecnicamente preparatissimi, dotati anche di una certa cultura umanistica e, soprattutto, in grado di creare e gestire attività produttive avanzate; tutto ciò pur senza mirare a un livello culturale particolarmente elevato, né pretendere di essere matematici o scienziati e neppure grandi innovatori tecnologici. Se questa era la pragmatica ‘filosofia’ dell’ingegner Colombo, ciò non toglie che l’Istituto nella sua storia abbia toccato vertici elevatissimi: l’esempio più noto riguarda l’attività di Giulio Natta (1903-1979), insignito del premio Nobel per la chimica nel 1963. Sarà lo stesso ingegner Colombo, ormai quasi ottantenne, come si può leggere dalle cronache di quei giorni, a tracciare il profilo della straordinaria esperienza del Politecnico allorché, nel novembre del 1914, se ne celebrò il primo cinquantenario.

Tra i molti nomi di spicco dei componenti della nuova cultura imprenditoriale, fecondata e resa visibile attraverso il marchio del Politecnico di Milano, possiamo qui ricordare alcuni grandi imprenditori e dirigenti industriali che sono l’anima della Milano industriale dell’epoca: tra gli altri Giovanni Battista Pirelli, Angelo Salmoiraghi, Giulio Prinetti, Bartolomeo Cabella, Alberto Riva, i fratelli Egidio e Pio Gavazzi, Pio Borghi, Ettore Conti, Giacinto Motta, Ercole Porro, Enrico Forlanini, Guido Semenza, Carlo Vanzetti, Piero Radaelli.

Importanti sinergie collegano ben presto il Politecnico anche con altre espressioni della nuova imprenditoria milanese, quali la Fondazione Carlo Erba, la Società Umanitaria, la Scuola superiore d’agricoltura, la Società di incoraggiamento d’arti e mestieri, quest’ultima risalente all’azione di Carlo Cattaneo ed Enrico Mylius: in essa è da ritrovare forse la più reale anticipazione del Politecnico di Brioschi. Ricordiamo, per importante inciso, che «Il Politecnico» di Cattaneo era stato un periodico (poi risuscitato proprio da Brioschi) dedicato a finalità di «pronta cognizione» – scriveva Cattaneo stesso – di quanto «dalle più ardue regioni della Scienza può facilmente condursi a fecondare il campo della Pratica, e crescere sussidio e conforto alla prosperità comune e alla convivenza civile» («Il Politecnico», 1839, 1, 1, p. 3). Si rafforza enormemente, con il Politecnico di Brioschi, la tradizionale elevata e solida considerazione che la società lombarda riserva alla figura dell’ingegnere, figura già allora da gran tempo codificata e organizzata in collegi professionali dei quali Milano deteneva il primato. Pur tra le molte difficoltà iniziali, il Politecnico riesce a emergere anche grazie al sostegno di numerosissimi ex allievi che si affermano economicamente come punti di riferimento dell’Italia industriale mettendo a frutto doti di spiccata professionalità. Il concorso delle risorse locali, pubbliche e private, è di enorme rilievo. Di più: professione ingegneristica non significa solo manifattura. Gli ingegneri sono radicati in tutta la società: per es., cospicuo ruolo esercitano negli enti, nelle aziende, nella gestione delle infrastrutture agricole così come ovviamente nell’edilizia. Molto simili considerazioni valgono, naturalmente, anche per il coevo Istituto di Torino, come subito si accennerà.

Il gruppo dirigente del nuovo Istituto milanese, nel periodo qui considerato, è in linea generale vicino all’area di un moderatismo liberale singolarmente attento alla realtà sociale: è questa una caratteristica del moderatismo politico milanese che ha una sua continuità nella storia della città fino a questo dopoguerra e che trova all’epoca notevoli appoggi nella massoneria cittadina, così come per altri versi sarà presente anche in campo cattolico un afflato analogo in rapporto con altre iniziative sociali e culturali. Tra queste ultime spiccherà la fondazione a Milano della prima e maggiore Università dei cattolici italiani.

La nuova cultura degli ingegneri milanesi trova ampio e fertile riflesso nella pubblicistica dell’epoca. A parte i grandi quotidiani milanesi, nati nella seconda metà del 19° sec., come il «Secolo», la «Perseveranza», il «Sole», sui quali tutti trionferà il più giovane «Corriere della sera», una delle espressioni più notevoli della cultura tecnico-scientifica, che viene talora detta cultura degli ingegneri, è la rivista «L’industria», che esce il 2 gennaio 1887, pubblicata la domenica da una ‘Società d’industriali italiani’. Aveva avuto inizio per l’attivismo di un valoroso imprenditore tessile come Ernesto De Angeli (1849-1907) – un uomo fattosi da sé, animatore tra l’altro della locale Camera di commercio – che aveva raccolto attorno all’iniziativa personalità del mondo produttivo tra le quali Eugenio Cantoni, Franco Tosi, Corradino Sella, Edoardo Amman oltre ad alcuni dei protagonisti già menzionati.

L’Università commerciale e gli studi economici tra i due secoli

L’intersezione culturale più interessante che attraversa l’esperienza del Politecnico di Milano è in ogni caso quella con gli studi economici: si tratta di un’esperienza che però culminerà, all’apertura del nuovo secolo, con la nascita di un istituto indipendente, ossia della Università commerciale (come viene denominata), fondata da Ferdinando Bocconi (1836-1908) nel 1902 e intitolata al figlio Luigi, disperso nella terribile disfatta di Adua.

Premettiamo due considerazioni che consentono di prospettare meglio il tema. Innanzitutto, il Politecnico di Milano è coevo (anzi leggermente più giovane) dell’omonimo Istituto torinese: del resto la legge Casati nasce come legge dello Stato sabaudo, già esteso alla Lombardia dopo la Seconda guerra d’indipendenza. Inoltre, l’istruzione superiore nel campo dell’economia aveva iniziato a dar vita, sempre nella seconda metà dell’Ottocento, alle cosiddette Scuole superiori di commercio (avviate sempre dalla legge Casati) che, nella maggior parte dei casi, diventeranno in seguito la premessa alla proliferazione delle facoltà di Economia e commercio. Anche su questo versante i rapporti tra Milano e Torino vanno acquistando grande importanza, così come hanno rilievo i rapporti con altre coeve istituzioni quali la Società Umanitaria (fondata nel 1892) a Milano o il Regio Museo industriale (istituito nel 1862) di Torino. Anche nel campo delle discipline economiche la legge Casati ebbe rilievo con una sua impostazione lungimirante nei confronti dell’istruzione tecnica, secondo un indirizzo che verrà poi rovesciato dalla riforma Gentile. Un altro avvenimento parallelo di grande importanza è la fondazione nel 1875 dell’Istituto Cesare Alfieri di Firenze, con largo concorso degli enti locali, precursore delle future facoltà di Scienze politiche.

Al volgere del secolo, dunque, le sedi nelle quali prendono forma gli studi d’impresa sono essenzialmente gli Istituti tecnici superiori e le Scuole superiori di commercio. È qui che avviene la formazione imprenditoriale e manageriale dell’Italia nuova. L’Italia unita era dotata, nel 1861, di ventuno Università che conservavano, con qualche modifica ed eccezione, le facoltà tradizionali di Giurisprudenza, Medicina, Lettere e Scienze. La seconda metà dell’Ottocento vede quel modello di università sottoposto a crescenti istanze di modificazione e ampliamento. Così ai Politecnici viene subito riconosciuto lo status universitario e la facoltà di rilasciare diplomi di laurea, e lo stesso viene fatto per le Scuole superiori di commercio.

Per quanto concerne Milano in particolare, occorre notare che la necessità di allargare la preparazione dei futuri ingegneri alle discipline economiche viene avvertita fin dalle origini e ispira la scelta di dare spazio all’interno del Politecnico a insegnamenti di economia industriale che consolidano un loro specifico ruolo all’interno dei percorsi di studio. La simbiosi tra preparazione tecnica e competenze economiche è un elemento che accompagna costantemente la vita degli ingegneri e del quale l’istituzione mira a farsi carico.

Occorre tenere presente che quanto avviene in Italia può essere meglio compreso alla luce di significativi paralleli internazionali. L’idea di Politecnico è anche riflesso di analoghe espressioni in altre lingue. Limitando l’orizzonte alle lingue europee, si parla infatti in Francia di Écoles polytechniques, in Germania di Technische Hochschulen, nel mondo anglosassone di Institutes of technology.

Accanto a queste esperienze ne vanno collocate altre, anche differenziate tra loro, che hanno però in comune il proposito di ampliare la gamma delle discipline accademiche e di innovare nei metodi al fine di produrre una cultura nuova attenta ai progressi della tecnica e alle trasformazioni economiche e sociali delle società industriali moderne. Si pensi, per es., all’istituzione del cosiddetto tripos in economia creato da Alfred Marshall nella Cambridge del primissimo Novecento o all’esperienza dello storico Sir William Ashley che, nello stesso periodo, lascia Harvard per fondare a Birmingham una nuova facoltà commerciale: iniziative di grande successo presso le classi dirigenti del Paese che sentono il bisogno di una formazione economica di tipo nuovo. Ancora significative sono in Inghilterra la fondazione dell’Imperial College di Londra (1907) come pure l’istituzione della fabiana London School of economics (1893) o ancora in Francia quella dell’École libre de sciences politiques di Parigi (1871) alla quale doveva poco più tardi affiancarsi l’École des hautes études commerciales.

Mentre la Francia rappresenta forse il modello maggiore per le sue alte scuole di ingegneria, la Germania è probabilmente la terra che, meglio di ogni altra, costruisce e attua il modello degli studi economici e commerciali di livello superiore. Il successo delle cosiddette Handelshochschulen tedesche, anche colà spesso frutto del coinvolgimento di energie locali quali le Camere di commercio, è emblematico di un tipo di formazione specifico, gradito alle emergenti classi imprenditoriali, anche perché svolto all’interno di istituti ben funzionanti dove il modello di studente è assai lontano da quello (più imprevedibile) offerto dalle università tradizionali. Gradualmente, le esperienze maturate, in Germania come in Italia, trovano spazio nelle istituzioni accademiche tradizionali che nel tempo subiscono significative trasformazioni. In Italia le esperienze pionieristiche di Scuole superiori di commercio sono quelle di Venezia (1868), di Genova (1884) e di Bari (1886): notevole, in particolare, quest’ultima anche perché (a differenza di quanto era avvenuto nel corso del cosiddetto Settecento riformatore) nell’epoca postunitaria il Sud appare quasi del tutto estraneo allo spirito del ballo Excelsior.

Veniamo ora a considerazioni che riguardano più da vicino la fondazione di quella che assume la denominazione di Università commerciale. Dopo l’avvio dell’Istituto tecnico superiore sembrava in qualche misura sancito, soprattutto nei confronti del grande ateneo lombardo con sede a Pavia, un ruolo specifico della metropoli milanese nel campo dell’istruzione superiore di carattere tecnico-scientifico. Numerose sono le iniziative di uomini d’industria che si propongono di fare di Milano il massimo polo tecnico-scientifico del Paese. In proposito si può ricordare uno scritto epistolare, ben presto reso pubblico attraverso la stampa («L’industria», per es., lo pubblica integralmente il 19 giugno successivo), del 28 maggio 1898 – all’indomani di ben note drammatiche giornate che insanguinarono Milano – nel quale il già ricordato Ferdinando Bocconi, fondatore dei Magazzini Bocconi (che più tardi, rinati dopo un disastroso incendio, prenderanno il nome de La Rinascente), annunzia all’ingegner Colombo, nella sua qualità di direttore dell’Istituto tecnico superiore, l’intenzione di creare presso l’Istituto una Scuola superiore di commercio. Non solo – come si è detto sopra – diverse scuole del genere erano sorte in Italia come all’estero, ma sono anche numerosi gli scritti e i documenti dell’epoca che parlano di ‘Politecnici del commercio’ come espressione di una nuova concezione dell’insegnamento tecnico e scientifico. Uno dei massimi economisti italiani, Maffeo Pantaleoni (1857-1924), titolare di cattedra presso la Scuola superiore di Venezia, giunge a teorizzare la progressiva sostituzione dell’intera struttura universitaria esistente con una rete di Scuole superiori specializzate.

L’idea di Bocconi era destinata ad acquistare immediatamente un significato e una risonanza particolari all’interno dell’ambiente milanese. Essa doveva, quattro anni più tardi, condurre alla creazione non già di una nuova sezione del Politecnico, bensì di una istituzione interamente autonoma ossia, appunto, l’Università commerciale. La denominazione stessa era nuova e dà espressione al proposito – nelle parole del primo rettore e presidente, il commendatore Leopoldo Sabbatini, che non era un accademico, bensì il segretario della Camera di commercio milanese – di «elevare a grado e dignità di studi superiori gli studi commerciali», sì da portare «nel campo economico-commerciale la luce, l’indirizzo, lo svolgimento che un’altra Scuola – vanto di Milano – ha portato, con splendidi risultati per tutto il paese, nelle applicazioni tecniche» (cit. in Bagiotti 1952, pp. 1-2).

Nella Milano di fine secolo il progetto Bocconi subisce dunque una trasformazione che appare anche ricollegabile con il mutamento del quadro politico urbano di riferimento. Dalla Milano controllata dai moderati, tra i quali spiccava la nobile figura di Gaetano Negri, si transita a un nuovo sfondo politico-amministrativo, il quale viene a essere determinato nelle elezioni locali di fine 1899 che portano in primo piano la democrazia radicale. Nei programmi di quest’ultima non mancava il cenno a nuove istituzioni di studio e di ricerca. Il segretario della Camera di commercio Sabbatini diviene in quel frangente la figura di riferimento. Colombo e il Politecnico non sono assenti, ma certo la loro presenza risulta in qualche misura posta ai margini nel momento della realizzazione del progetto Bocconi. Protagonisti della nascita della Bocconi sono dunque le nuove autorità comunali e molte delle forze economico-finanziarie di rilievo nella città. Sabbatini inoltre, membro della loggia Carlo Cattaneo, è anche espressione della massoneria milanese: e la massoneria costituisce all’epoca un ambito di collegamento per diverse iniziative in campo culturale e sociale. Massoni erano pure i Bocconi e lo sarà la maggiore figura accademica della nuova università, ossia il giurista Angelo Sraffa (1865-1937).

È più che plausibile che fosse lo stesso Bocconi, almeno in certa misura, a farsi promotore di un cambiamento di rotta che non poteva che dare un volto nuovo e forse meno appesantito al suo progetto. Egli decise cioè, pur in fase di avanzata realizzazione, per l’abbandono dell’idea di coniugare la desiderata Scuola di commercio con il Politecnico e di imboccare invece la strada di una completa autonomia e libertà di decisione: una via certo più rischiosa, ma anche, probabilmente, più attraente.

Il Comune cede al nuovo Istituto un ampio palazzo in via Statuto, in una zona relativamente centrale: esso resterà la sede della Bocconi fino alla Seconda guerra mondiale, quando verrà inaugurata la nuova sede (nell’area attuale, all’esterno della cerchia ‘spagnola’, fuori Porta Lodovica) con lo splendido edificio ‘razionalista’ dell’architetto Giuseppe Pagano, oggi purtroppo assai poco valorizzato per il sovrapporsi di numerosi rimaneggiamenti e ampliamenti.

I maggiori sviluppi dell’insegnamento dell’economia nella Milano dell’epoca possono dunque collocarsi al principio del decennio giolittiano nel contesto di un generale rinnovamento degli studi tecnici e applicativi con forte accentuazione del sapere utile, qual è imposto dall’accelerazione dei processi di sviluppo e dalla crescente complessità delle funzioni imprenditoriali che si accompagnano all’affermazione e al consolidamento del capitalismo industriale nel Paese. Il regio decreto del 20 settembre 1902 conferisce la denominazione di Università alla Scuola di studi commerciali Luigi Bocconi e crea la stessa come ente di diritto pubblico a seguito del riconoscimento statale dello Statuto.

L’esigenza di alta cultura per le classi commerciali e industriali e il bisogno di affinare il carattere scientifico dell’insegnamento impartito ricevono largo plauso come rispondenti a un grande interesse pubblico. Il cosiddetto Programma Sabbatini della nuova Università sottolinea come l’insegnamento più importante debba riguardare le scienze economiche. Vi è qui un elemento qualificante che conferisce a tale Programma un respiro tale da distaccarlo dal taglio delle Scuole superiori di commercio esistenti. Dai documenti preparatori, ora resi pubblici nella Storia di una libera università (3 voll., 1992-2002), si riconosce che «le scuole commerciali […] hanno esercitato e sono destinate tuttora a esercitare una funzione importantissima». Ma, al tempo stesso, non si fa mistero del fatto che «oggi sia lecito e doveroso aspirare a risultati ancor maggiori».

Noi crediamo di poter nettamente affermare che, lasciate le attuali scuole superiori di Commercio alla loro funzione essenzialmente professionale, al loro compito di predisporre buoni agenti secondari di commercio – sia venuto il momento di pensare a creare nuovi istituti che impartiscano la coltura la più elevata, veramente scientifica, la coltura che è necessaria, indispensabile a chi sia chiamato, per circostanze di fortuna e di famiglia […] a prendere nel movimento dei grandi traffici posizione eminente. […] La nuova scuola deve essere anzitutto un istituto di alti studii economici.

Mentre nel programma originario Bocconi aveva sottolineato l’importanza di avere «ingegneri [che] sapessero non solo produrre, ma anche organizzare l’impresa dal lato commerciale, fossero insomma capaci di diventare veri capitani d’industria», tramontata la simbiosi con il Politecnico, ora il Programma Sabbatini metteva al primo posto il carattere scientifico degli studi economici, un’idea cara soprattutto a Sraffa, grande avvocato e consulente della neonata Banca commerciale, che partecipa attivamente alla fase fondativa dell’Università Bocconi, della quale poi reggerà le sorti a lungo come rettore. Al tempo stesso il Programma Sabbatini mette in rilievo l’importante natura accessoria degli insegnamenti giuridici, mentre per le discipline tecniche e il cosiddetto banco modello ci si attiene in sostanza alla prassi delle Scuole superiori.

Si dovrà poi rilevare, attraverso gli sviluppi successivi dopo l’avvio dell’istituzione, che le discipline giuridiche e i loro docenti avranno un rilievo maggiore di quanto il programma iniziale lasciasse supporre. Al tempo stesso, l’insegnamento della disciplina economica non seguirà i criteri di rigida scientificità allora instaurati dalla Scuola neoclassico-marginalista nella quale l’Italia deteneva posizioni di primato a livello internazionale con economisti come Vilfredo Pareto (1848-1923) e Pantaleoni. Pareto, come è noto, insegnava a Losanna. Nei confronti di Pantaleoni vi fu il tentativo esplicito di coinvolgerlo addirittura come direttore della Scuola, nella fase preparatoria, ancor prima che la stessa prendesse la forma di università. Ma il tentativo fallì.

Non vi era, evidentemente, da parte dei maggiori esponenti della scuola marginalista un interesse sufficientemente forte a investire energie in una simile intrapresa, in cui naturalmente erano prevalenti interessi di natura pratica e formativa. Né, d’altra parte, i rigidi principi liberistici di cui l’indirizzo scientifico dominante si faceva portatore – soprattutto dalle colonne del «Giornale degli economisti», massima rivista scientifica italiana di livello internazionale – erano destinati a fornire il perno concettuale della formazione degli studenti. La borghesia degli imprenditori lombardi aveva certo maggiore inclinazione per forme di pragmatica duttilità in materia di politica economica.

Negli insegnamenti economici dell’Università Bocconi spiccano i nomi di Ulisse Gobbi (1859-1940) e Luigi Einaudi (1874-1961). Gobbi è un economista milanese oggi largamente dimenticato: ma egli tenne alla Bocconi trentennale magistero. Era un economista di scuola storica, allievo di Luigi Cossa a Pavia. La vena storicista del suo insegnamento è ben nota ed egli si vantava di non avere mai insegnato ai suoi studenti a idolatrare l’homo oeconomicus, né di aver loro trasmesso la fede nei teoremi del massimo di ofelimità in libera concorrenza.

Einaudi, invece, proveniva da diversa esperienza. Piemontese, laureatosi in giurisprudenza a Torino, si era presto avvicinato alla collaborazione con la «Critica sociale» di Filippo Turati dove era apparso il suo primo contributo a stampa: uno scritto sulla crisi agraria in Inghilterra. Einaudi aveva partecipato da studente e aveva anche avviato la carriera accademica all’ombra del Laboratorio di economia politica, fondato a Torino da Salvatore Cognetti de Martiis presso la facoltà di Giurisprudenza e presto divenuto polo di attrazione dei migliori studenti con un chiaro orientamento verso gli studi economici. Il Laboratorio fu la sede nella quale Einaudi realizzava la sua vocazione di economista. Tra i compagni di strada vi erano nomi eccellenti, come Pasquale Jannaccone, Antonio Graziadei, Camillo Supino, Gioele Solari e quel Luigi Albertini destinato a divenire in breve arco di tempo lo storico direttore del «Corriere della sera», che porterà il giornale milanese a livelli di grande prestigio, abbandonando poi la direzione dopo l’avvento della dittatura. Einaudi stesso avrà intensa collaborazione con il «Corriere», specie tra il 1903 e il 1925.

Il caso di Einaudi porta dunque alla luce altri aspetti di rilievo dell’importanza e del senso degli intensi rapporti tra cultura milanese e cultura torinese, ai quali abbiamo già fatto cenno. Il suo apporto alle idee fondatrici dell’Università Bocconi è stato certamente notevole. Nella vastissima produzione di Einaudi, della quale manca tuttora un’edizione critica decorosamente completa, merita speciale attenzione il volume delle Lezioni di politica sociale (1949), che riflette una parte della sua attività di scrittore e di docente in Svizzera, dove egli si rifugiò dopo l’8 settembre, durante la Seconda guerra mondiale. Il volume merita menzione anche in questa sede, soprattutto perché vi è sintetizzato il carattere fondamentale della ricerca e dell’insegnamento di Einaudi basato su un liberalismo aperto al sociale – si pensi alla speciale insistenza sul principio dell’uguaglianza di possibilità o di punti di partenza –, una concezione che solo oggi forse potrebbe venire pienamente apprezzata e compresa.

Il corpo docente della Bocconi dei primi anni del nuovo secolo comprende nomi illustri (oltre ai già citati) come quelli di Alberto Beneduce, Achille Loria, Giorgio Mortara, Corrado Gini, Gaetano Mosca e, tra i giuristi, Francesco Carnelutti, Alfredo Rocco. Un’analisi dei bocconiani illustri è troppo complessa per essere qui riassunta. Certamente l’apporto della Bocconi alla cultura imprenditoriale è stato notevolissimo e ha costituito una componente fondamentale della crescita economica e civile del Paese. L’esperienza bocconiana si caratterizza nella sostanza come scuola giuridico-economica. In particolare, almeno fino alla comparsa tra il corpo docente della personalità di Gino Zappa (1879-1960), gli studi tecnici di natura contabile, o aziendalistica in genere, non spiccano nel conferire all’istituzione un carattere innovatore e d’avanguardia. La nascita della Bocconi è tra gli eventi che contribuiscono a una graduale svolta nella formazione degli economisti in Italia, che per molto tempo era avvenuta soprattutto nelle facoltà di Giurisprudenza. È una svolta che trarrà impulso in seguito anche dalla nascita e dalla proliferazione delle facoltà di Economia nell’intero Paese.

La cultura d’impresa al volger del secolo

La vicenda degli anni formativi della cultura d’impresa e della formazione della borghesia degli imprenditori, dei commercianti e dei banchieri a Milano nel periodo compreso tra la caduta della Destra negli anni Settanta e l’entrata in guerra nel 1915 include anche altri importanti elementi.

In particolare, alcune delle personalità che hanno maggiormente segnato lo studio e l’applicazione dell’economia in Italia all’epoca sono qui da menzionare per l’influenza indiretta esercitata anche sulla mentalità e la formazione dell’imprenditorialità lombarda.

Tra i non milanesi è opportuno menzionare Francesco Saverio Nitti (1868-1953), che ha avuto la capacità come economista di inserire il problema dell’arretratezza del Mezzogiorno d’Italia entro una più vasta analisi dei problemi dello sviluppo dell’economia italiana.

Di origini lucane, Nitti tenne cattedra a Napoli: sul piano teorico trasse ispirazione dalle correnti dottrinali prevalenti in Germania alla fine dell’Ottocento, come testimoniato anche dai suoi manuali diffusi a livello internazionale. Con i suoi scritti, oltre che con l’azione in sede politica, egli ha profondamente innovato le modalità d’intervento del settore pubblico nell’ambito delle infrastrutture e, soprattutto, nel settore assicurativo e finanziario, con importante azione nel campo del welfare e della sicurezza sociale. Contrapponendosi alle tesi liberiste, si è posto in opposizione a quella che egli chiamava scuola individualistica

la quale pretendeva che il semplice agire delle forze economiche tenda a stabilire l’equilibrio fra la produzione e il consumo, a far coincidere il prezzo e il costo dei prodotti, ad attuare la legge del minimo mezzo, quando vede nella realtà avvenire il contrario (F.S. Nitti, La scienza delle finanze, 1903-1936, in Id., Edizione nazionale delle opere, Scritti di economia e finanza, 4° vol., a cura di F. Forte, 1972, p. 58).

Anche alla luce del lungo periodo di difficoltà economiche che avevano caratterizzato a livello internazionale l’ultima parte dell’Ottocento e in forte assonanza con le linee interpretative sviluppate in Germania dai ‘socialisti della cattedra’, Nitti riteneva che nella società moderna ai tre principi della responsabilità individuale, della concorrenza sfrenata e della lotta fra individui e classi sociali si dovessero sostituire altri tre principi costituiti dalla responsabilità sociale, dalla giustizia sociale e dall’arbitrato sociale.

Ancora tra i non milanesi merita menzione Luigi Luzzatti (1841-1927), veneto e docente a Padova, uomo di grandissima conoscenza pratica del sistema economico e dotato di straordinarie capacità di intuizione nell’interpretare le vicende dell’economia. Luzzatti è anche il grande promotore della cooperazione bancaria: le sue maggiori realizzazioni riguardano infatti l’avvio delle Banche popolari. Inoltre egli dispiegò un eccezionale impegno anche sul fronte della legislazione sociale.

In tema di cooperazione occorre qui menzionare l’insegnamento e l’azione di un notevole economista lombardo, poi trasferitosi a Roma, Giovanni Montemartini (1867-1913). Montemartini si batteva per il cosiddetto socialismo municipale che tendeva a sollecitare le amministrazioni locali, limitando così l’intervento dello Stato, a fornire alla collettività beni e servizi in sostituzione o in aggiunta a quelli forniti da privati. La municipalizzazione dei servizi pubblici ha di fatto rappresentato un contributo fondamentale al modo di fare economia e di concepire l’organizzazione, la gestione e le finalità dell’impresa.

Infine, Milano rappresenta la sede nella quale si è costituita e ha cominciato a operare la cosiddetta Banca mista o Banca universale, soprattutto con la fondazione nel 1894 (con largo apporto tedesco di capitali nonché di risorse umane) della Banca commerciale italiana. Si tratta di un modello di intermediazione bancaria che nasce sulle ceneri del cosiddetto Credito mobiliare e che modifica in maniera fondamentale la natura del rapporto tra banca e impresa nella dinamica del sistema economico. È il concetto di banca che verrà ben presto teorizzato da Joseph A. Schumpeter (1883-1950), massimo economista del 20° sec., che ha avuto in Italia larghissima eco nel corso del Novecento.

La cultura d’impresa nella realtà qui studiata risulta variamente influenzata e forgiata da numerosi elementi e influenze del tipo qui accennato. Più in generale si può affermare che hanno operato ed esercitato profonda influenza sulla concezione dell’impresa spunti e analisi che fanno capo alla cosiddetta scuola storica tedesca in economia, la quale sottolinea l’interdisciplinarità, il vaglio della conoscenza empirica e della narrazione storica, i limiti della concorrenza e del mercato, la necessità dell’intervento dello Stato nella vita economica non principalmente collegato a motivi congiunturali, la preoccupazione per gli aspetti di giustizia sociale e distributiva del sistema economico.

Nella Milano dell’epoca si può pensare, per es., alla formazione intellettuale di un economista oggi poco noto come Angelo Mauri (1873-1936) che, almeno nelle fasi iniziali, è per molti aspetti parallela a quella di Filippo Meda (1869-1939), personaggio forse un poco più noto per le sue attività nel mondo cattolico. Profonda è l’influenza su questi giovani del magistero di Giuseppe Toniolo (1845-1918), autore e promotore, tra altre cose, del Programma dei cattolici di fronte al socialismo, il ben noto Programma di Milano, nel 1894. Mauri è milanese, ma come docente la sua esperienza è segnata dall’ambiente torinese nel quale egli vive tra il 1903 e il 1916. A Torino egli fa il suo ingresso nel mondo accademico con il conseguimento nel 1905 della libera docenza in economia politica presso la facoltà di Giurisprudenza dove viene anche incluso tra i membri del Laboratorio di Cognetti, già menzionato. In particolare, Mauri instaura un rapporto di stima e collaborazione con chi all’epoca dirigeva il Laboratorio torinese, ossia Achille Loria (1857-1943), economista di ispirazione marxista.

È presente in questi autori la concezione di una ‘terza via’, che muove dal basso, di municipalismo sociale, che sta (scrive Mauri) tra «l’accentramento burocratico e livellatore dello Stato da un lato e l’individualismo più sfrenato giustificato dal liberalismo dall’altro», tendenze entrambe che non permettono alle comunità locali di agire e sviluppare le proprie potenzialità. È una linea di pensiero che, largamente ispirata alla dottrina sociale dell’enciclica Rerum novarum del 1891, censura del capitalismo «l’usura vorax» (secondo l’espressione di Leone XIII) e (afferma Mauri) l’«opera funesta di sconvolgimento etico e pratico della vita sociale». Su entrambi i versanti il suo ideale risiede in quell’«affratellamento dell’arte» (Porta 2001, pp. 162-63) che si realizza nel corporativismo nel suo significato originario. Sono idee mutuate non solo da Toniolo, ma dalla grande scuola tedesca di Adolf Wagner e Gustav von Schmoller.

Infine, nel tracciare il quadro formativo della borghesia imprenditoriale a Milano, non sembra possibile trascurare l’influenza del pensiero sociale rappresentata a Milano soprattutto da Filippo Turati (1857-1932). Anche qui siamo in presenza di una concreta ‘terza via’ teorizzata come possibile all’insegna del socialismo riformista. Turati fonda a Milano la rivista «Critica sociale» nel 1891, mentre a Torino nel 1894 Nitti e Luigi Roux danno vita all’importante periodico «Riforma sociale», alla cui direzione si unirà, con il nuovo secolo, anche Einaudi, che terrà in vita la testata sino al 1935.

Queste linee di pensiero si traducono anche in campo cattolico in iniziative formative che sotto la guida di Toniolo danno vita a corsi di economia sociale la cui rilevanza non può certo essere paragonata con le grandi istituzioni delle quali si è discorso in questo saggio. Resta però il fatto che si tratta di presenze che raccolgono tutta una serie di istanze complementari tra loro e funzionali alla cultura d’impresa sempre segnata da una certo orizzonte di solidarietà e di civismo tipico della città. Il significato di tali esperienze è anche prolettico, rappresentando esse (con il senno di poi) un prodromo della fondazione dell’Università Cattolica, auspicata da Toniolo stesso, che avverrà a Milano nel 1921. Il progetto della Cattolica è, come si dirà, imperniato sulle scienze sociali pur secondo un modello che celebra il primato delle scienze politiche rispetto alle scienze economiche.

La cultura economico-sociale dopo la Grande guerra

Gli elementi di continuità che contrassegnano gli sviluppi della cultura economica della città dopo la Grande guerra sono numerosi e fanno sostanziale riferimento alla dinamica delle due grandi istituzioni che abbiamo ricordato nei capitoli precedenti. Piuttosto che percorrere in dettaglio quegli sviluppi, sembra opportuno porre l’attenzione su mutamenti di indirizzo e di contenuto che interessano soprattutto la formazione economica in tutto il Paese. Il Novecento è infatti l’epoca del sorgere e del diffondersi delle nuove facoltà di Economia e commercio, che in larga parte derivano dalla trasformazione di precedenti Scuole superiori di commercio sorte in molte città. Diventa qui importante poter meglio collocare l’esperienza milanese all’interno del quadro nazionale. Il maggiore avvenimento nuovo nella Milano del periodo qui considerato, sul piano delle istituzioni culturali, è certamente dato dalla fondazione nel 1921 dell’Università cattolica del Sacro Cuore, la quale nasce con l’intento di operare anche nel campo della cultura economica con un’impostazione e con obiettivi diversi da quelli che avevano ispirato la nascita, e continuavano a guidare la conduzione, della Bocconi.

Abbiamo detto sopra che la formazione economica muta i suoi caratteri con l’istituzione delle Scuole superiori di commercio prima e poi con la nascita dell’Università commerciale milanese. Si tratta, come è facile comprendere, di un mutamento graduale: di fatto, le facoltà di Giurisprudenza continueranno a svolgere una funzione di formazione economica distinta rispetto all’impostazione più tecnica e aziendalistica delle scuole superiori. Se si guardasse agli sviluppi della ‘cultura alta’ (per es., la formazione degli economisti accademici), si riscontrerebbe facilmente che la provenienza da facoltà giuridiche resta a lungo consistente, pur se nel tempo si fanno luce personaggi accademici, anche di primo piano, la cui formazione passa attraverso gli istituti tecnici prima e le scuole superiori al livello di laurea. Questo processo subisce un potenziamento dal momento in cui, nel corso del Novecento, proliferano le facoltà di Economia e commercio che, quasi senza eccezione, nascono dalla trasformazione di precedenti Scuole superiori, una trasformazione per molti aspetti parallela a quella che si ha nell’esperienza tedesca, con la graduale incorporazione delle Handelshochschulen entro gli atenei.

Molto spesso le Scuole (o Istituti) superiori di commercio prendono avvio, come già osservato, per iniziativa di forze e risorse locali, pubbliche e private. Vengono, come tali, poste sotto la sorveglianza di un ministero competente per le attività produttive: a mano a mano che si consolidano, matureranno anche le condizioni giuridiche per la loro trasformazione in facoltà di Economia e commercio, venendo a quel punto a collocarsi sotto l’egida del ministero dell’Educazione nazionale.

Durante il ventennio fascista, una volta varata la riforma Gentile all’inizio degli anni Venti, la situazione dell’insegnamento universitario subì diverse trasformazioni, non solo in ambito economico, tali da creare le premesse per un intervento di normazione dal centro che sarà l’opera, nel 1938, del ministro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon. Le cosiddette Tabelle del ’38 resteranno a lungo in vigore, pur con modifiche e integrazioni, almeno fino alla recente riforma, detta volgarmente del tre più due, dovuta al ministro Luigi Berlinguer (varata con la l. 10 febbraio 2000 nr. 30). Con le Tabelle del ’38 veniva a essere stabilita in modo piuttosto rigido la struttura dei singoli corsi di laurea che le facoltà erano autorizzate ad attivare con valore legale e si fissavano le condizioni di ammissione ai medesimi. Gli studi economici furono così a lungo regolati dalla Tabella ottava, che resterà in vigore, quasi senza alterazioni, fino alla fine degli anni Sessanta, per poi subire le prime consistenti modifiche. Durante l’ultimo decennio del 20° sec., le trasformazioni dell’alta formazione economica hanno subito un’intensificazione frenetica, sotto la spinta di impulsi ingenerati dal modello bocconiano di quegli anni, sino a giungere poi alla riforma Berlinguer.

Per quanto riguarda, in particolare, la realtà milanese, dopo la Grande guerra maturano anche le condizioni per il varo dell’Università degli studi nel capoluogo lombardo. Si tratta di una vicenda complessa e ricca di contrasti, anche nei confronti dell’ateneo ticinese, che verrà condotta in porto positivamente da Luigi Mangiagalli (1850-1928), medico e politico lombardo, prima senatore poi sindaco di Milano, al quale il governo Mussolini, durante i tempestosi mesi del 1924, non potrà negare il varo dell’Università degli studi.

Come già era accaduto per il Politecnico, l’avvio avviene in locali abbastanza modesti. L’ateneo statale di Milano avrà più degna collocazione soltanto nel secondo dopoguerra con l’assegnazione all’Università del palazzo quattrocentesco della Cà Granda, arricchito e ampliato dal magnifico cortile seicentesco di Francesco Maria Richini e finemente restaurato dopo i danni subiti nel 1943.

L’Ateneo milanese era d’altra parte previsto nella riforma Gentile. Esso nasce con una certa preminenza della facoltà medica (alla fine del secolo dei quattordici rettori succedutisi, otto erano stati espressi dalla facoltà di Medicina e chirurgia), ma notevoli sono immediatamente anche i contributi della facoltà di Scienze, degli studi umanistici e, in particolare, degli studi giuridici, dove trova spazio la formazione economica. Primo preside della facoltà di Giurisprudenza è Sraffa, all’epoca ancora rettore dell’Università Bocconi. L’Istituto di economia e finanza vi avrà un ruolo considerevole con l’insegnamento di Costantino Bresciani Turroni e di Giorgio Mortara.

Nel 1921, come già anticipato, nasce a Milano l’Università cattolica del Sacro Cuore. L’istituzione milanese si inserisce entro il quadro di un contesto internazionale che vede fiorire una serie di istituti cattolici di istruzione superiore, completamente diversi dalle tradizionali università papaline, tra i quali spiccano in Europa le Università di Lovanio e di Friburgo (Svizzera).

In Italia, la nascita dell’ateneo del Sacro Cuore rappresenta il coronamento dell’azione di numerosi personaggi e autorità del mondo cattolico. Il vento politico dopo l’Unità non era stato certo favorevole alla cultura cattolica, anche in assenza di un vero e proprio Kulturkampf di impronta bismarckiana. Inoltre, dall’interno della Chiesa la spinta antimodernistica impressa da papa Pio X (tipicamente rappresentata dalla lettera enciclica Pascendi dominici gregis del 1907) aveva lasciato ben poco spazio per assecondare i propositi qui accennati, impersonati soprattutto dal magistero e dall’azione di Toniolo. Soltanto all’indomani della scomparsa di Toniolo, avvenuta nel 1919, maturarono le condizioni per il varo dell’Istituto Giuseppe Toniolo di studi superiori, per iniziativa del quale sarebbe sorto in seguito l’ateneo del Sacro Cuore. L’Istituto Toniolo venne costituito in ente morale con r.d. 24 giugno 1920: ne era presidente il conte Ernesto Lombardo, vicepresidente padre Agostino Gemelli (1878-1959) dell’ordine dei frati minori, e annoverava tra i consiglieri Meda, Mauri, Lodovico Necchi, Armida Barelli e i monsignori Adriano Bernareggi e Francesco Olgiati. Padre Gemelli è la figura chiave della realizzazione della Cattolica e ne sarà il primo rettore sino alla morte, nel 1959, avendo superato positivamente nel 1945 il difficile esame dei rapporti con il regime.

L’Università Cattolica rappresentava la risposta dei cattolici italiani alle sfide del presente in un campo assai importante e delicato, che non è primariamente né esclusivamente quello dell’imprenditoria industriale e commerciale e delle professioni, ma include accanto a quello anche altri settori della vita politica e amministrativa. Padre Gemelli – medico, già ghislieriano, allievo di Camillo Golgi (il medico di fama internazionale, primo italiano insignito del premio Nobel), notoriamente cresciuto sotto l’influenza della scuola di psicologia di Cesare Lombroso – vedeva nel nuovo ateneo il compimento di obiettivi di sensibilizzazione e partecipazione sociale lungamente coltivati da forze cattoliche che avevano a Milano le massime espressioni.

Non è dunque casuale che la fondazione di una facoltà di Scienze sociali sia stata tra le iniziative previste e tentate sin dalla fondazione. Filosofia e scienze sociali e politiche sono i terreni forti sui quali si spende la Cattolica: questo nell’intento di rispondere – come allora si scrisse (lo riporta il rettore Lorenzo Ornaghi in un suo contributo) – al «sentitissimo bisogno» di operatori qualificati «nel campo politico, alla testa delle unioni del lavoro e dei nostri organismi sindacali, nelle varie amministrazioni pubbliche e private, nelle banche, nei commerci, nelle industrie».

Il percorso del progetto fu inizialmente alquanto accidentato; ma si approdò abbastanza presto a ottenere il riconoscimento per la Scuola di scienze politiche, economiche e sociali, abilitata a rilasciare la laurea in scienze politiche e sociali e in scienze economiche. Tra gli economisti domina la figura di Francesco Maria Vito (1902-1968), che sarà più tardi il successore di Gemelli come rettore. Marcello Boldrini è un punto di riferimento in campo statistico.

La Cattolica, dopo il primo avvio nell’edificio di via Sant’Agnese, ebbe ben presto sede nell’area attuale, comprendente lo stabile dello splendido monastero di Sant’Ambrogio dalle deliziose arcate bramantesche, il cui ampliamento affaccia sullo slargo che porta oggi il nome di largo Gemelli. Invero, curiosamente, a Toniolo la città ha invece soltanto dedicato, in zona del tutto diversa e più periferica, una piccola strada che costeggia l’edificio del pensionato della nuova sede della Bocconi.

In generale, si può aggiungere che – come accade anche per la Bocconi e in parte per le iniziative pubbliche del Politecnico e dell’Università degli studi – anche la genesi della Cattolica, al di là della dialettica di guelfi e ghibellini, riflette l’aspirazione milanese a un distacco, pur mai interamente consumato, da Roma capitale insieme con il senso di una superiorità che deriva da istanze che muovono dalla società civile anziché dall’iniziativa dello Stato.

Se si scorrono i numerosi discorsi inaugurali del primo rettore emergono con assoluto rilievo tre temi, strettamente intrecciati: il rapporto (sinergico) tra scienza e fede, l’autonomia universitaria, l’importanza della ricerca e dell’insegnamento in campo economico-sociale. Sul piano istituzionale Gemelli è abilissimo nello sfruttare le aperture della riforma Gentile: autonomia, per Gemelli, significa soprattutto maggiore spazio per le università libere e, specificamente, maggiori possibilità per la scelta nell’articolazione dei curricula degli studenti, un punto che Gemelli difende con caratteristica energia. Allorché lo spirito ‘liberale’ delle leggi Gentile verrà soppiantato dal rigido centralismo della riforma De Vecchi, nel 1938, Gemelli si troverà in difficoltà. In particolare, le nuove Tabelle del ministro facevano intravedere il rischio che un ateneo come la Cattolica, che molto aveva speso sul fronte delle scienze sociali e politiche, potesse vedersi tagliata la strada nel dare adeguato spazio ai diversi campi dell’economia. Anche qui astutamente, Gemelli riuscì a ottenere – contro il parere pur autorevole di Gentile – che nelle nuove Tabelle della riforma De Vecchi fosse mantenuta la possibilità di attivare corsi di laurea in economia e commercio per le facoltà di Scienze politiche.

Si deve ricordare che Gentile rivestiva all’epoca (e lo aveva fatto piuttosto a lungo) la carica di vicepresidente dell’Università Bocconi, la quale ovviamente deteneva, se non un monopolio, certo una posizione di preminenza per gli studi economici a Milano. La mossa di Gemelli faciliterà lo sviluppo degli studi economici alla Cattolica, sino poi al varo della facoltà di Economia e commercio, che si affiancherà alla facoltà di Scienze politiche nel secondo dopoguerra.

Tra le personalità che ruotavano intorno alla Cattolica di padre Gemelli, oltre a quelle già ricordate, occorre qui menzionare Amintore Fanfani (1908-1999) e Pasquale Saraceno (1903-1991), entrambi giovani autorevolissimi tra i professori dell’Università Cattolica. Fanfani era uno studioso brillantissimo, che conquistò la cattedra universitaria di storia economica alla Cattolica neppure trentenne, nel 1936; Saraceno, un poco più anziano, veniva dalla Bocconi e soprattutto dall’esperienza dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) di Alberto Beneduce (il maggiore allievo di Nitti) e Donato Menichella: sarà anche egli straordinario alla Cattolica, per la disciplina di tecnica industriale e commerciale, nel 1943. Queste due personalità ci danno una chiara idea della formazione alla quale mirava la Cattolica in campo economico.

Nasce e si sviluppa nelle aule della Cattolica lo spirito di quello che sarà il centro-sinistra fanfaniano tra gli anni Cinquanta e Sessanta; così come si sviluppa qui l’idea-guida dell’impresa a partecipazione statale del modello IRI alla quale si affiancano la teoria e la politica della cosiddetta programmazione economica, che sarà tanta parte dell’attività scientifica e operativa di Saraceno nel secondo dopoguerra. La Cattolica rappresenta così l’anima tendenzialmente statalista della formazione economica milanese, la cui parabola ha conosciuto vertici elevatissimi prima del declino di fine secolo.

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