Militarismo

Enciclopedia del Novecento (1979)

Militarismo

GGolo Mann

di Golo Mann

Militarismo

sommario: 1. Definizione. 2. Origini storiche. 3. Militaristi e civili. 4. Filosofia. 5. Origini psicologiche e sociali. 6. Militarismo e politica. 7. Il militarismo cambia. □ Bibliografia.

1. Definizione

Il problema di definire il militarismo è logicamente mal posto, come del resto accade per tutte le nozioni generali astratte dal processo storico, come nazione, liberalismo, conservatorismo, socialismo ecc.: possiamo definirle come vogliamo. Formalmente più corretto è il problema: quali atteggiamenti e azioni dell'uomo possiamo sensatamente ricondurre sotto l'etichetta di ‛militarismo'? Quali sono gli elementi di identità o di somiglianza che giustificano la loro sussunzione sotto un unico termine?

Ecco come G. Ritter definisce ciò ch'egli chiama ‟la confusa e abusatissima nozione di militarismo": ‟una crescita abnorme e una sopravvalutazione della sfera militare [...] attraverso cui si altera il naturale rapporto fra la politica e il mestiere della guerra" (v. Ritter, 1954-1968, vol. II, p. 118); ‟til militarismo si manifesta ogni qualvolta si mette unilateralmente l'accento sulla dimensione bellica della politica" (ibid., vol. I, p. 1). Secondo A. Vagts, ‟il militarismo consiste in un gran numero di abitudini, interessi, fattori di prestigio, azioni e idee, che hanno a che fare con l'esercito e con la guerra, oltrepassando però gli scopi propriamente militari. Non ci sono limiti alla sua influenza. Può arrivare a permeare tutta una società, dominandone completamente industria e arti. Respingendo il carattere scientifico della sfera puramente militare - mllitary way -, il militarismo esalta i valori di casta e di culto, di autorità e di fede" (v. Vagts, 1937, p. 13).

Si potrebbero citare numerose definizioni analoghe. Esse sono necessarie, ma non sufficienti, né in verità potrebbero mai esserlo: la realtà cui si riferiscono è troppo varia e complessa.

Il termine ‛militarismo' è di conio relativamente recente. Risale alla Francia del Secondo Impero, quando gli avversari di Napoleone III tacciavano il regime di militarismo e d'imperialismo; le due nozioni sono contemporanee e dalla Francia passarono in Inghilterra e in Germania. Nel 1870-1871 gli avversari di Bismarck, in particolare i portavoce del Partito Patriottico Bavarese, misero in guardia contro il militarismo e l'imperialismo, che avrebbero necessariamente segnato il destino della Germania se l'unificazione politica fosse avvenuta all'insegna dell'egemonia prussiana. Pensatori liberali come lo storico inglese Acton e lo storico dell'arte e filosofo della storia svizzero Burckhardt si mostrarono scossi dall'efficienza della rinnovata macchina bellica prussiana: dai piani di battaglia provvidenzialmente preparati già in tempo di pace e in territorio francese da ufficiali camuffati da turisti; dai ponti di ferro, che servivano per attraversare i fiumi in punti da lungo tempo predeterminati; dalla perfezione dei treni-ospedali, ecc. Da allora, o almento dalla caduta di Bismarck, che nella vecchiaia era diventato un uomo di pace, il rimprovero di militarismo si concentrò soprattutto sul Reich tedesco. Già la prima guerra mondiale fu condotta per stroncare il militarismo tedesco, i cui fondatori, secondo la propaganda inglese, furono il filosofo Nietzsche, lo storico Treitschke e un oscuro generale di nome Bernhardi: un trio stranamente assortito. Effettivamente, Treitschke parlava volentieri ai suoi studenti della ‟divina maestà della guerra", e prima del 1914 Bernhardi aveva scritto un libro dal titolo Deutschland und der nächste Krieg. Verso la fine della seconda guerra mondiale, i capi di governo alleati si impegnarono solennemente, a Jalta e a Potsdam, ‛ad annientare definitivamente il militarismo tedesco e il nazismo, e a sciogliere per sempre lo Stato Maggiore tedesco, che era riuscito più volte a richiamare il militarismo tedesco a nuova vita". Da allora il militarismo tedesco tace quasi del tutto.

Il militarismo, che sorse dapprima in Francia, dove si spiegava con la situazione francese, e divenne poi per circa settant'anni il capo d'accusa soprattutto contro il Reich tedesco, è stato rintracciato dagli storici anche in epoche e in popoli affatto diversi. A. J. Toynbee parla di un ‟militarismo suicida" degli Assiri, degli Spartani, dell'imperatore Carlo Magno e di Tamerlano (v. Toynbee, 1939, vol. IV, pp. 465 ss.; v. anche 1950). Il militarismo è stato ritrovato nella Francia di Luigi XIV e di Napoleone I, nella Prussia del XVIII secolo, nella Russia zarista a partire da Pietro il Grande, nel Giappone dall'inizio dell'era Meiji (1868) e soprattutto nel XX secolo. Oggi al centro della critica sta il militarismo americano; e, per coloro che sono inclini a un giudizio equilibrato, anche quello sovietico. Se la nozione di militarismo sia ancora utile per descrivere le condizioni di queste due potenze, o se, invece, per essere ancora adoperata, abbia bisogno di essere ridefinita, è una questione che discuteremo alla fine di questo articolo.

2. Origini storiche

Il termine militarismo deriva da miles, soldato. Almeno sino a oggi, i soldati sono sempre esistiti per fare, prima o poi, la guerra. Ma non tutte le guerre hanno avuto origine nello spirito militaristico.

Sulle origini della guerra, non possiamo che limitarci qui ad alcune brevissime considerazioni. Inizialmente, la guerra è un processo naturale, come la lotta fra due tribù selvagge che si contendono un terreno di caccia o una sorgente, necessari per la sopravvivenza. Non appena a combattere sono gli Stati, le Città-Stato o i Regni, sia pure di civiltà piuttosto primitiva, la guerra cessa di essere alcunché dì naturale; gli Stati sono infatti prodotti culturali, artificiali e non già naturali. Essi lottano per il potere, per il possesso, cose forse allettanti, ma non d'importanza vitale: lottano per un equilibrio all'interno di un sistema di Stati, per la gloria degli dei o dei re. Spiegazioni delle guerre fra Stati ispirate al ‛darwinismo sociale' sono perciò sicuramente errate, anche se sono state popolari per molto tempo e lo sono in parte ancora oggi.

Cionondimeno, non è affatto vero che tutte le guerre a noi note abbiano la loro causa nello spirito militaristico. Consideriamo, ad esempio, le guerre risultanti dalle regole universalmente riconosciute della politica. Secondo Tucidide, Atene era diventata troppo potente per Sparta: fu questo fatto a rendere la guerra inevitabile e, rispetto ad esso, tutte le altre cause da lui menzionate sono secondarie. Da ciò non si può concludere che Atene e Sparta fossero due Stati militaristi, anche se Sparta, com'è noto, lo era effettivamente. Analogamente, non è usuale chiamare militaristi i re persiani Dario e Serse soltanto perché guidarono le loro spedizioni contro la Grecia. Inconfutabile appare infatti la tesi, secondo la quale le fiorenti repubbliche marinare greche erano diventate una spina nelle carni del grande impero, spina che doveva essere eliminata, la conservazione dell'impero essendo appunto il primo dovere di un sovrano.

Il militarismo è la crescita abnorme della sfera militare, che, prima o poi, comporta conseguenze catastrofiche per lo Stato. Toynbee ce ne fornisce due esempi, uno tratto dalla storia del Vicino Oriente antico: l'Assiria, e l'altro dalla storia classica: Sparta.

Originariamente, gli Assiri dovettero soltanto difendersi dai barbari montanari dello Zagros e del Tauro e dai Siri. Dalla difesa passarono all'attacco, e per due secoli vessarono tutta l'Asia anteriore, conquistando città e trucidandone trionfalmente l'intera popolazione. Costituirono un esercito regio permanente e si dimostrarono fecondissimi in materia di invenzioni belliche: arcieri a cavallo con corazze a scaglie metalliche, carri da combattimento con grandi ruote e robusti rivestimenti protettivi, arieti e torri d'assalto mobili, ecc. Il modo crudelissimo con cui conducevano la guerra e trattavano i vinti suscitava inevitabili reazioni. Furono, infine, schiacciati da una coalizione di Babilonesi e di Medi che non riuscirono a fronteggiare. La distruzione del regno e della capitale Ninive fu così radicale che quando Senofonte, duecento anni dopo, ne vide le imponenti rovine, non riuscì a sapere nulla di preciso sulla loro storia. Ecco un esempio di ciò che Toynbee chiama ‟militarismo suicida".

Gli Spartani non avevano risolto il problema della sovrappopolazione su un suolo avaro - come la maggior parte delle città greche - fondando colonie oltremare; avevano invece assoggettato i vicini Messeni e si erano impadroniti del loro territorio. Fu dalla necessità di mantenere costantemente sottomessi i Messeni, resi schiavi e adoperati come lavoratori agricoli non retribuiti, che derivò l'organizzazione militaristica della società spartana, le cui caratteristiche principali furono la vita comunitaria in fratellanza d'armi e sotto una disciplina ferrea, e la cura estrema ed esclusiva delle virtù belliche. Donde una fossilizzazione della società spartana e un'arretratezza nell'ambito della civiltà greca, alla quale Sparta non poté mai dare alcun contributo sostanziale; la stessa vittoria su Atene, nel 404 a.C., rimase infruttuosa e a lungo andare risultò vana.

Si ritiene spesso che all'origine del militarismo vi sia l'irrigidimento degli apparati e dei valori bellici che, sorti dapprima dalla necessità, sopravvivono poi anche quando la necessità è stata da lungo tempo superata. Nasce allora una casta, o una classe, di militari professionisti, che non sanno fare altro che la guerra, non amano altro che la guerra e pongono le virtù militari molto al di sopra delle virtù civili. Tale classe vuole perpetuarsi, vuole godere dei propri privilegi, e trovare nel proprio cameratismo protezione e riconoscimento. La guerra, che in origine serviva a uno scopo relativamente razionale, diventa fine a se stessa; o, se non proprio la guerra, almeno la costante preparazione alla guerra. In Israele troviamo oggi un'organizzazione militare estremamente efficiente, un'altissima stima del soldato e una militarizzazione di tutta la gioventù. La ragione è evidente: risiede nel pericolo costante in cui versa Israele. Potrebbero rimanere le conseguenze, anche se venisse meno la causa. Ciò è poco probabile, dato il carattere fortemente razionale del popolo israeliano, ma non impossibile.

Nei tempi moderni, la Francia è stata per tre volte oggetto di minacce pericolosissime dall'esterno: nel XVI secolo e all'inizio del XVII da parte della potenza spagnola, dell'alleanza fra il ramo spagnolo e quello tedesco della casa d'Asburgo; durante la Rivoluzione da parte dell'Europa coalizzata: Inghilterra, Russia e Austria; nel tardo Ottocento e nel primo Novecento da parte del Reich tedesco. Nel primo e nel secondo caso, una volta superato il pericolo, la Francia si diede a sua volta a una politica di massima intensificazione delle proprie forze e di avventure militari e imperiali (Luigi XIV, Napoleone I). Nel terzo caso, i capi dell'esercito tentarono di assicurarsi nel paese una posizione poco confacente a dei generali in uno Stato democratico. Il processo Dreyfus, con la relativa demagogia militaristica (Vive l'Armée, à bas les Juifs!"), segnò il punto culminante di queste aspirazioni. Dopo una battaglia, durata dodici anni, per l'innocenza del capitano Dreyfus, i radicali, fra cui Clemenceau, riuscirono a ricondurre l'esercito a una posizione pur sempre considerevole, ma compatibile con i principi di una democrazia borghese.

In omaggio a una tradizione inglese risalente al XVII secolo, i cittadini del Nordamerica erano originariamente antimilitaristi, anche se non ostili alla violenza, e tali rimasero a lungo. Nel proprio continente non avevano nemici in grado di tener loro fronte, dal che Hegel, filosofo se non militarista, certo di umori fortemente bellicisti, dedusse che gli Stati Uniti non erano affatto uno Stato. Secondo Hegel, uno Stato deve avere dei nemici; poteva nascere e durare solo nel gioco di una pressione e di una contropressione militare. La guerra civile (1861-1865) e l'intervento americano nella prima guerra mondiale (1917-1918) rimasero, nonostante i notevoli sforzi militari ed economici, soltanto episodi che elevarono in modo non pernicioso il rango dei militari nella società. Secondo l'opinione di parecchi critici sia americani che stranieri, gli Stati Uniti sono invece diventati un paese militarista dopo la seconda guerra mondiale. Se le cose stanno così, la causa non può essere ricercata nell'aver fatto esperienza di un pericolo grave, poi superato. Né una vittoria della Germania e dell'Italia in Europa, nè una vittoria del Giappone in Asia orientale avrebbero rappresentato per gli Stati Uniti una minaccia diretta; la minaccia era solo indiretta o teorica, e gli Americani poterono, anche durante la guerra, completare i loro armamenti in tutta tranquillità e sicurezza. Di conseguenza, l'origine del nuovo militarismo americano non va ricercata nell'aver superato un pericolo mortale, ma nell'aver sperimentato la propria potenza. Questa è l'origine di ciò che il senatore J. W. Fulbright ha chiamato l'‛arroganza del potere'. Le enormi prestazioni tecnico-militari del 1942-1945 diedero agli Americani la fede che nulla era loro impossibile nel mondo intero, così come nulla era stato loro impossibile nel XIX secolo nel continente americano. Se in qualche parte del mondo si verificava qualcosa di non gradito: il trionfo dei comunisti in Cina o la prima bomba atomica russa, si trattava di tradimento. Gli Stati Uniti avevano il potere di impedire tutto ciò che si aveva interesse a impedire. Se il potere non veniva usato in maniera appropriata, ciò stava certo a significare che si era dato ascolto alle perfide insinuazioni di traditori del proprio paese. Com'è noto, l'‛arroganza del potere' è oggi in America nuovamente in via di sparizione. È evidentemente in corso un processo di ‛apprendimento'.

In Germania si sono avute due fasi del militarismo, storicamente del tutto diverse. La prima, nel XVIII secolo, riguarda soltanto la Prussia; fu allora che Mirabeau pronunciò la famosa frase: ‟Altri Stati dispongono di un esercito. In Prussia è l'esercito che dispone di uno Stato". Questo giudizio non era del tutto giusto. Gli inizi del militarismo prussiano risalgono alla guerra dei Trent'anni, nella quale il principato di Brandeburgo, cellula germinale del futuro regno, aveva sperimentato tutte le atrocità della guerra che possono derivare dall'impossibilità di difendersi, dall'impotenza e dall'assoluta mancanza di organizzazione militare. Il Grande Elettore, che aveva vissuto personalmente le calamità della guerra dei Trent'anni, divenne il fondatore dell'assolutismo prussiano, della potenza bellica e della burocrazia prussiana, di cui il paese aveva bisogno. Il problema era di mettere un piccolo Stato, costituito da pochi brandelli di campagna in mezzo a un vasto bassopiano, in condizione di difendersi contro i potenziali nemici: Svedesi, Polacchi, Russi e Austriaci. Sotto Federico Guglielmo I, nipote del Grande Elettore, oltre due terzi delle entrate dello Stato furono destinati all'esercito; una subordinazione di tipo militare caratterizzava tutta la gerarchia burocratica; non senza ragione lo stesso re veniva chiamato ‛sergente istruttore del Sacro Romano Impero'. Sono noti gli scopi per i quali Federico il Grande adoperò poi la potenza militare ereditata dal padre. Letterati ammiratori di Federico hanno paragonato Berlino con Sparta, e più tardi la Prussia con l'Assiria. Al vecchio sistema militare prussiano mancavano tuttavia alcuni degli elementi che sono in genere associati alla nozione di militarismo. I sovrani rimanevano padroni della loro politica e i più alti generali dovevano ubbidire come ogni altro suddito. Inoltre, l'esercito non era popolare, né avrebbe potuto esserlo. I soldati erano mercenari, spesso stranieri, pagati male e trattati peggio (su tutto questo basta rileggere il Candide di Voltaire); il grado di ufficiale era riservato esclusivamente ai nobili. C'era perciò estraneità tra ufficiali e soldati, tra esercito e popolo; e mancava qualsiasi demagogia. Il militarismo prussiano servì dapprima a mettere un piccolo Stato, con amare esperienze alle spalle, in condizioni di difendersi, e poi a fare di un piccolo Stato una grande potenza europea.

In modo affatto diverso si presentava la situazione cento o centocinquant'anni dopo. I militari erano stati estremamente impopolari nella Germania meridionale prima del 1870 e l'esistenza di forze armate veniva considerata del tutto inutile. Anche la borghesia liberale prussiana guardava con antipatia all'esercito, soprattutto alle truppe di linea, che considerava come uno strumento del potere regio. Furono i grandi successi di Bismarck, le guerre vittoriose contro la Danimarca, l'Austria e la Francia, e il fatto che l'unificazione tedesca fosse avvenuta non per opera degli oratori democratici, ma attraverso il ‛sangue e il ferro', a dare enorme popolarità al nuovo esercito tedesco-prussiano e a orientare in senso sempre più militaristico lo spirito della borghesia. Il successo politico-militare creò un militarismo, che sino allora era rimasto estraneo ai Tedeschi. Altri successi, soprattutto dopo la caduta di Bismarck, erano attesi con crescente impazienza.

Il militarismo può nascere da una sconfitta come da un successo, dal pericolo come dalla tracotanza che si accompagna alla sicurezza.

3. Militaristi e civili

Ci sono stati militaristi che non volevano la guerra. Federico Guglielmo I di Prussia non impegnò mai il suo sproporzionato esercito; lo risparmiava così come l'avaro risparmia il suo denaro. La guerra porta con sé ogni sorta di selvaggi disordini, che non risparmiano neanche il più disciplinato degli eserciti; di un granduca russo si racconta che odiava la guerra perché danneggia l'esercito; di un ufficiale britannico, in servizio in Nordafrica nel 1943, si riferisce la seguente esclamazione: ‟Come sarebbe bella questa vita senza questo dannato ammazzarsi!". Lo spirito militare brilla più sullo sfondo di una parata militare che sul campo di battaglia. A. Vagts (v., 1937, p. 15) arriva a sostenere addirittura che il militarismo prospera più in pace che in guerra. Secondo Vagts, perciò, la vera opposizione non è quella esistente tra militaristi e pacifisti, ma quella esistente tra militaristi e civili. I militaristi vogliono che l'esercito, e soprattutto i suoi capi, esercitino un'influenza decisiva sulla mentalità e sull'assetto politico della società. I civili contestano loro questo diritto; nell'esercito essi vedono un servitore e non il padrone dello Stato.

Questa tesi sarebbe più facilmente sostenibile se non vi fossero stati tanti militaristi anche tra i civili: capi di governo come Mussolini e Hitler; storici e filosofi della storia come Brooks Adams e Homer Lea in America, Georges Sorel in Francia, Fichte, Hegel e Oswald Spengler in Germania; poeti e scrittori come Rudyard Kipling, Paul Déroulède, Maurice Barrès, Charles Maurras, Gabriele D'Annunzio e molti altri; e se la borghesia e la piccola borghesia non fossero state spesso la rocca del militarismo. Bisognerà concepire l'opposizione in una forma più semplice, anzi tautologica: essa sussiste tra chi è militarista e chi non lo è, sia quest'ultimo militare o civile.

È un tratto sorprendente della storia americana che quasi tutte le guerre combattute dagli Stati Uniti abbiano portato alla presidenza un generale: la guerra d'indipendenza, G. Washington; la guerra anglo-americana del 1812 (insieme con altre azioni eroiche contro gli Indiani), A. Jackson e poi anche W. H. Harrison; la guerra civile, U. Grant; la seconda guerra mondiale, D. Eisenhower. Di questi generali-presidenti bisogna però dire che, una volta in carica, si comportarono in tutto e per tutto come civili. Questo vale soprattutto per i due più importanti, Washington e Eisenhower. Posto dinanzi alla guerra che l'Europa combatteva contro la Rivoluzione francese, Washington innalzò la neutralità americana al rango di dottrina. Nell'epoca tra la guerra di Corea e la guerra del Vietnam, Eisenhower seguì una politica estera sostanzialmente pacifica e prudentissima, anche se questo fatto poté essere facilmente oscurato dall'oratoria del suo Segretario di Stato. E fu ancora lui che, nel suo messaggio di congedo, proferì un solenne ammonimento contro il crescente potere del ‛complesso militare-industriale'.

In Francia, da due guerre sfortunate uscirono due capi di Stato militari: dalla guerra del 1870-1871, il maresciallo Mac Mahon, e dalla guerra del 1939-1940, il maresciallo Pétain. E Pétain proprio perché si aveva bisogno della sua autorità mitica per convincere i Francesi dell'inevitabilità della capitolazione. Analogamente, grazie a una gloriosa sconfitta il generale prussiano Hindenburg fu eletto nel 1925 presidente della prima Repubblica tedesca. Anch'egli, come Mac Mahon, non aveva intenzioni bellicose; i suoi interessi erano prevalentemente rivolti all'arricchimento pacifico della propria famiglia. Soltanto una forma di demenza senile può spiegare il suo comportamento negli ultimi anni di vita.

Non c'è dunque nessuna legge, secondo la quale alti militari con cariche politiche (ad esempio alti militari capi di Stato) ‛debbano' essere militaristi. Naturalmente, essi ‛possono' esserlo.

Un esempio classico è quello di Napoleone I. Egli aveva fatto la sua carriera come soldato, anche se sapeva già assai bene adoperare in suo favore l'arte della propaganda; e soldato rimase anche come sovrano. Tra gli altri, soprattutto A. Sorel ha cercato di mostrare, nell'opera L'Europe et la Révolution française (Paris 1885-1903), come le ‛guerre napoleoniche' fossero la conseguenza necessaria della situazione in cui il primo console si era trovato nel 1799, situazione che lo stesso generale Bonaparte aveva contribuito a creare con la campagna d'Italia del 1796. Si è anche supposto che gli alti ufficiali usciti dalle guerre della Rivoluzione, che nell'Impero rappresentavano un'aristocrazia militare con forti privilegi materiali, costituissero un fattore propulsivo di nuove guerre. Contro questa tesi va detto che gli stessi marescialli fin dal 1807, e più chiaramente dal 1809, erano stanchi della guerra; senza considerare poi che Napoleone non era certo uomo da lasciarsi dettare la politica dai suoi ufficiali. Quali che siano le spiegazioni oggettive che si possono dare delle guerre napoleoniche, non si potranno non prendere in considerazione quelle soggettive, che affondano le radici nell'animo dello stesso imperatore. Egli era soldato fin dalla nascita; a lungo andare, non poteva fare a meno della guerra; probabilmente, anche se nel 1812 fosse rimasto vincitore in Russia, avrebbe saputo trovare ragioni stringenti per una nuova guerra, ad esempio per una spedizione contro le Indie britanniche.

Durante i suoi quattordici anni di governo, sui campi di battaglia e negli ospedali militari morirono in media 80.000 Francesi all'anno. G. Bouthoul ha visto in questo fatto la funzione specifica, e quindi anche la causa specifica delle guerre napoleoniche (Les guerres. Eléments de polémologie, Paris 1951). Ora, bisognerebbe prima di tutto dimostrare che la funzione fosse proprio questa, che la Francia cioè ‛avesse bisogno', per ragioni economiche, di eliminare 80.000 giovani all'anno; il che non può essere dimostrato. È cattiva logica scambiare la conseguenza con la funzione. E anche se, in questo caso, fosse possibile accertare una funzione economica, sarebbe ugualmente cattiva logica scambiare la funzione con la causa. Si potrebbe parlare di causa solo se Napoleone fosse stato ‛cosciente' della funzione, cioè della necessità sociale di eliminare 80.000 uomini all'anno. Ma su ciò non v'è una parola nella sua corrispondenza e nei suoi discorsi.

E d'altra parte è certo che gli uomini, a lungo andare, non possono nascondere ciò che pensano e ciò che li muove; Napoleone poi non lo nascondeva assolutamente. Non nascondeva, ad esempio, di esser pronto a sacrificare senza scrupolo la vita umana. Diceva a Metternich, nel giugno 1813: ‟Lei non è un soldato, e non sa che cosa accade nell'animo di un soldato. Io sono cresciuto sui campi di battaglia, e un uomo come me se n'infischia della vita di un milione di uomini" (Mémoires, documents, et écrits divers laissés par le prince de Metternich, Paris 1880, voi. I, p. 151).

Diversamente da Napoleone, Adolf Hitler ha fatto la sua carriera come civile, come politico, come organizzatore di partito e demagogo. Il fatto che sia stato soldato nella prima guerra mondiale non cambia nulla, giacché l'esperienza della guerra, per quanto potesse aver operato su di lui, non lo portò nelle file dell'esercito della Repubblica tedesca ma nella politica. Non si stancò mai di riaffermare il primato della politica sia sull'economia che sulla sfera propriamente militare. Anche il suo modo di fare la guerra era determinato dalla politica; così, verso la fine, egli si rifiutò di sgombrare posizioni diventate strategicamente insostenibili e senza più valore come la Crimea, la Norvegia, Creta, la Grecia e i Balcani ‟per ragioni politiche, che i miei generali non possono capire". Il fatto che la sua fosse una politica folle fin dall'inizio non cambia nulla, da un punto di vista formale. Se attuare la nozione di militarismo significa divinizzare la guerra, orientare la nazione e la società esclusivamente verso la guerra, condurre una politica di conquiste territoriali orrendamente anacronistica, schiavizzare popoli stranieri, allora Hitler era un militarista. Ma se la nozione di militarismo implica anche il primato della sfera militare su quella politica, allora Hitler non era militarista. Egli diffidava dei suoi generali, spesso li odiava e li disprezzava, e arrivò al completo assoggettamento dell'esercito al partito solo e proprio quando, nel 1944, l'esercito tedesco era già battuto sia a oriente che a occidente.

Il generale Charles de Gaulle, il terzo francese diventato capo di Stato in seguito a una guerra, non rientra in questo quadro. Sebbene fosse un soldato ricco di intuito, di conoscenze, di idee nuove e moderne, de Gaulle va considerato prevalentemente come un uomo di Stato che, ponendo fine con uno dei suoi capolavori politici alla guerra d'Algeria, riuscì a imporsi ai generali francesi. De Gaulle era troppo uomo di formazione universale e umanistica, si sentiva troppo al di sopra di tutte le classi e caste della società per essere un militarista.

4. Filosofia

Quella del militarismo è una filosofia estremamente semplice; poche citazioni bastano ad illustrarla. ‟Durante la pace - dice Hegel - la vita civile si espande di più; tutte le cerchie dimorano in sé, e, a lungo andare, è un ristagno per gli uomini; le loro singolarità divengono sempre più fisse e si irrigidiscono. Ma, alla salute, appartiene sempre l'unità del corpo, e, se le parti divengono rigide in sé, è la morte. Una pace perpetua si pretende spesso come un ideale, al quale l'umanità deve giungere [...]. Sol che lo Stato è un individuo, e nell'individualità è contenuta essenzialmente la negazione. Quindi, anche se un certo numero di Stati si costituisce a famiglia, quest'unione, in quanto individualità, deve crearsi un'antitesi e generare un nemico. Dalle guerre risultano non soltanto rafforzati i popoli; ma nazioni che sono in discordia in sé, acquistano, mediante le guerre all'esterno, pace all'interno" (Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 1965, p. 392). Secondo il feldmaresciallo prussiano H. von Moltke, ‟la pace eterna è un sogno, e neanche un bel sogno; e la guerra è un elemento costitutivo dell'ordinamento divino del mondo. Nella guerra si dispiegano le più nobili virtù dell'uomo, il coraggio e l'abnegazione, la fedeltà al dovere e la dedizione, spinta sino al sacrificio della vita stessa. Senza la guerra, il mondo cadrebbe nella palude del materialismo".

Benito Mussolini, in un discorso tenuto alla fine delle manovre militari del 1934, diceva: ‟Stiamo diventando e diventeremo sempre più, perché lo vogliamo, una Nazione militare. Poiché non abbiamo paura delle parole, aggiungeremo: militarista. Per completare: guerriera, cioè dotata in grado sempre più alto della virtù dell'obbedienza, del sacrificio, della dedizione alla Patria" (Scritti e discorsi, vol. XIV, Milano 1935, p. 1114). Ancora Mussolini, nella voce Fascismo, da lui redatta per l'Enciclopedia Italiana: ‟Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla" (vol. XIV, p. 849). È degno di rilievo come il filosofo W. James, uno dei fondatori del pragmatismo americano, credesse anch'egli nelle ‛virtù belliche', pur cercando di separarle dalla guerra, non più sopportabile, secondo lui, in una società scientifico-industriale. Nel saggio The moral equivalent of war, in Memories and studies, propose di salvare - nel passaggio a una società pacifica, ordinata razionalmente - gli aspetti positivi della guerra; il che si poteva ottenere con gare sportive, con l'alpinismo, con viaggi di esplorazione, ma soprattutto impegnando i giovani in un duro servizio di lavoro. Nel caso di filosofi come Hegel o di uomini politici non militari come Mussolini, si può supporre che la convinzione della verità della loro teoria fosse disinteressata; mentre nel caso di soldati militaristi, come Moltke e il suo tardo successore, il generale E. Ludendorff, è ovvio il sospetto che abbiano voluto solo razionalizzare i propri bisogni e interessi; se non ci fossero più guerre, neanche i generali, a lungo andare, avrebbero più ragion d'essere. La spiegazione della guerra in termini di darwinismo sociale, secondo la quale i popoli - per nutrirsi - debbono lottare l'uno contro l'altro come animali da preda, non sarebbe altro che un'ulteriore razionalizzazione in questo senso.

5. Origini psicologiche e sociali

La forma militare e quella militaristica della coscienza, pur essendo in connessione fra loro, non sono la stessa cosa. Gli istinti bellici sono incomparabilmente più antichi delle idee militaristiche: nei popoli più primitivi a noi noti, si esprimevano, prima dell'inizio di una battaglia, in feste, in pratiche cultuali, in danze di guerra al suono di musiche sferzanti (di cui le nostre marce militari sono un residuo); e, dopo la battaglia, nel contare le teste o le mani troncate, nello scalpo, praticato dagli Indiani, ecc.

Abbiamo già detto che il militarista, invece, ama l'ordine, il comando e l'obbedienza; non può essere perciò incline agli orgiasmi guerreschi. Cionondimeno, i resti dei sentimenti genuinamente bellicosi, operanti in Europa ancora all'inizio del XX secolo, favorirono i suoi desideri. In Germania, furono i militaristi a decidere che ci sarebbe stata la guerra del 1914. Forse, però, non avrebbero potuto decidere in questo senso se non fossero stati rafforzati dall'isterica esaltazione delle masse, dall'aspettazione della guerra come una magnifica festa, che avrebbe cementato l'unità del popolo. Quanto a loro, erano, o si ritenevano, uomini freddi e calcolatori, ma seppero sfruttare per i loro scopi il cieco entusiasmo della nazione. Un tale entusiasmo è contagioso: in Germania coinvolse scienziati e scrittori di alto livello; lo stesso accadde in Francia, in Inghilterra, e più tardi anche in Italia. Vorrei citare un esempio singolare, che risale alla guerra franco-prussiana del 1870. Flaubert, per natura aristocratico, psicologo, pessimista, schernitore professionale della stupidità umana, all'inizio fu fortemente disgustato dal furore bellico dei suoi concittadini. Ma lo stato d'animo del paese fu più forte di lui. Pochi giorni dopo averne parlato con disprezzo cominciò a esserne contagiato: il processo risulta con chiarezza dalle sue lettere. Una volta annotò con approvazione la notizia che un contadino normanno aveva sbranato coi denti un prussiano; entrò personalmente in una unità militare; in breve, si lasciò sommergere dalla corrente di un odio gioiosamente goduto. Dopo la guerra, tornò subito ad essere l'uomo di sempre.

Con maggiore saggezza si comportò Sigmund Freud durante la prima guerra mondiale. Scosso dal comportamento dei suoi compatrioti, egli cercò di comprenderlo facendo ricorso alle sue teorie. Ne risultò il saggio Gedanken im Kriege, le cui idee vennero ulteriormente sviluppate nell'opera Das Unbehagen in der Kultur.

Secondo Freud, l'uomo moderno è oltremodo incivilito, ma non per questo cessa di essere uomo, e la sua natura profonda resta ancora quella dei tempi antichissimi. Una volta era assassino, e non perché spinto da motivi razionali, ma dal piacere. Questo istinto verso la sfrenatezza e verso il caos sopravvive ancora, nel suo inconscio, ed egli soffre, inconsciamente, degli ordinamenti che si è dato nel corso dei millenni. Egli vi ha fatto l'abitudine, li dà per scontati, ma al contempo desidera ardentemente sbarazzarsene. La guerra gli offre la possibilità di realizzare i suoi desideri, ritornando cosi allo stato primitivo. È in corso oggi una disputa tra marxisti, i quali sostengono che tutti gli istinti bellici sono socialmente condizionati, e psicologi, i quali, sulle orme di Freud, credono in un istinto aggressivo innato nell'uomo, ereditato dai suoi antenati primitivi e, prima ancora, dai suoi antenati animali. La disputa tra le due scuole non ha alcun senso, dato che né l'una nè l'altra tesi è verificabile nella pratica; si tratta di uno di quei problemi che Karl Marx avrebbe definito ‛meramente scolastici'. D'altronde, esse potrebbero essere giuste entrambe. Il fatto che nell'uomo ci sia un istinto aggressivo ‛innato' non è in contraddizione col fatto che possano esserci condizioni sociali capaci di stimolarlo, mentre altre sono atte a placarlo o a sublimarlo.

Che cosa distingue il carattere bellicoso da quello militaristico? Il militarista vuole appartenere a un'associazione, a una comunità di uguali, a un'organizzazione le quali, pur distaccandosi dalla società, vogliono imporre al resto della società, perché superiore, il proprio sistema di valori e, se possibile, il proprio dominio. La comunità di uguali è una comunità maschile. Un'eccezione alla regola è costituita da Sparta, dove anche le donne, pur non appartenendo alla comunità guerriera degli uomini, venivano educate alle virtù militari; Il militarismo è essenzialmente maschile; e non è un caso che il moderno movimento per l'emancipazione femminile sia di solito andato a braccetto con il pacifismo. Le uniformi sono oggi diventate, per ragioni di opportunità, più monotone; ma in pieno XX secolo avevano ancora, soprattutto quelle di gala degli ufficiali, un carattere tronfio che rammentava il gallo o il pavone. Questo non contrasta col fatto che solo di rado era del tutto assente dalla mentalità militare un elemento omosessuale; né esso mancava nelle ‛case degli uomini' dei popoli primitivi, a Sparta, o tra i soldati di professione, e soprattutto tra i marinai. Dal militarismo erano escluse le donne. La comparsa di donne in uniforme risale soltanto alla seconda guerra mondiale: è quindi cosa modernissima, il che non vuol dire che sia necessariamente indice di modernità. In America lo è: nella guerra delle macchine, nella guerra industrializzata e burocratizzata, le segretarie in uniforme sono utili come gli impiegati in uniforme, di sesso maschile. Nella Cina comunista, invece, la donna deve essere una combattente al pari dell'uomo: un ritorno alle condizioni originarie, premilitaristiche di una volta, così come Tacito le descrive nella Germania.

Nella storia europea il militarismo è, propriamente, un fenomeno moderno; esso presuppone uno Stato forte, quale cominciò a formarsi soltanto nel XVII secolo. Per questa ragione la nobiltà di spada, fin dai re merovingi e carolingi depositaria dei valori militari, non può essere definita propriamente militaristica. Il servizio militare era la sua professione, quasi l'unica che riuscirà a mantenere fino al XIX secolo; era il suo tratto distintivo; faceva parte della sua stessa esistenza, come la caccia. Lo vediamo ancora oggi dal significato di alcuni titoli nobiliari: marchese o margravio significano ‛difensore dei confini'; duca e Herzog ‛condottiero di eserciti'. L'inglese esquire, che fu aggiunto al nome dei nobili, e più tardi anche a quello dei gentiluomini di condizione borghese, significa ‛portatore dello scudo'. L'esercizio delle armi era l'elemento vitale della nobiltà, e non veniva posto in dubbio da nessuno: la sua necessità, utilità e autorevolezza non avevano bisogno di essere dimostrate alla massa del popolo. Indubbiamente, i famosi condottieri del XVII e del XVIII secolo: Turenne, Condé, Eugenio di Savoia, Marlborough e Maurizio di Sassonia si sentivano a loro agio in guerra, che recava loro vantaggi materiali e morali; e tuttavia essi amavano anche, soprattutto in vecchiaia, godersi in pace i loro castelli e i loro tesori artistici. L'ordinamento dei gradi e dei valori all'interno del quale vivevano aveva basi così solide, da non aver bisogno di alcuna teoria che lo giustificasse. Era un ordinamento internazionale. Un cameratismo internazionale univa gli ufficiali di origine nobile; per questo, anche quando le loro truppe si combattevano, essi si trattavano con cortesia cavalleresca; ad esempio, la cattura di un generale era soggetta a cerimonie precise. Questi erano gli usi ancora nel XIX secolo, nonostante l'enorme aumento del numero delle truppe dopo la Rivoluzione francese e la democratizzazione alla base. Una storiella della rivista satirica tedesca ‟Simplizissimus" (prima del 1914) illustrava brillantemente lo spirito di questo cameratismo internazionale: dei generali francesi visitano una guarnigione tedesca; il comandante tedesco tiene un discorso, con una coppa di champagne in mano: ‟E se dovessimo incontrare nuovamente questo nostro amabile avversario sul campo dell'onore, ci auguriamo che la guerra si concluda con la soddisfazione di entrambi". Solo nel XX secolo si è verificato un profondo mutamento. Quando il comandante dell'Afrikacorps tedesco J. von Arnim si arrese a Tunisi nel maggio del 1943, Eisenhower, generale in capo americano, si rifiutò di vedere il prigioniero, rompendo la consuetudine, fino allora invalsa, di discutere con lui la battaglia. Era un segno del tramonto delle antiche tradizioni cavalleresche. Quattro anni più tardi ve ne fu uno più sinistro: l'esecuzione di numerosi generali tedeschi e giapponesi, giudicati da tribunali militari alleati. I Romani avevano usato lo stesso trattamento verso i capi nemici catturati (Giugurta, Vercingetorige): si tornava dunque al punto di partenza.

Col XVII secolo gli obblighi feudali e militari della nobiltà cominciarono a venir meno; quanto ai suoi privilegi, furono liquidati dalle rivoluzioni del 1789 e del 1848 in quasi tutta l'Europa. L'esercizio delle armi rimaneva ancora, però, la professione preferita dei nobili; e in particolare, dove vigeva il maggiorasco, dei figli cadetti. In tal modo si trasmisero in blocco ai militari il concetto dell'onore e le convinzioni politiche peculiari della nobiltà: fedeltà, coraggio, obbedienza, prontezza a rischiare la vita per il re, o per la patria, per la repubblica, o per la patria socialista. La nobiltà era conservatrice per natura (le eccezioni confermano la regola); e conservatore era anche il militarista che, a rigore, soltanto adesso faceva la sua apparizione sulla scena. I valori della nobiltà e i valori militari si confondevano. Foch, Pétain, Weygand, i capi più importanti dell'esercito francese nella prima guerra mondiale, non appartenevano più alla nobiltà; ma le loro convinzioni politiche erano ancora quelle della vecchia nobiltà cattolica e monarchica, che disprezzava la Repubblica laica. Si parlò in Francia di un'alleanza tra la Chiesa cattolica e l'esercito, tra ‛sciabola e aspersorio' (sabre et goupillon). Il militarismo come atteggiamento consapevole e come teoria poté manifestarsi solo quando vennero minacciati quei principî che in precedenza solo pochi outsiders avevano osato mettere in dubbio; in ciò esso è storicamente affine al conservatorismo, il quale, come filosofia politica, poté, o dové, svilupparsi soltanto di fronte alla minaccia della democrazia. Entrambi stavano in rapporto dialettico con lo Stato democratico, o comunque con lo Stato in via di democratizzazione.

La casta nobiliare e quella militare, pur volendo mantenersi estranee allo Stato democratico, dovevano però, per la propria conservazione, cercare di procacciarsi la massima influenza possibile su di esso; erano così costrette a partecipare in prima persona alla vita politica, a fondare o a favorire partiti, a fare della demagogia e a cercare di conquistarsi il favore della borghesia.

I migliori risultati, sotto questo aspetto, furono ottenuti nel nuovo Reich tedesco del 1871. La stragrande maggioranza delle più alte cariche militari era ancora ricoperta da appartenenti alla nobiltà. Nei gradi inferiori, invece, era ormai impossibile evitare la penetrazione della borghesia; la qualità di ufficiale della riserva era un importante privilegio della borghesia che, diventata conservatrice, si contrapponeva alla massa del popolo e soprattutto al proletariato. Prima del 1914, un ufficiale socialdemocratico nell'esercito prussiano-tedesco era assolutamente inimmaginabile. Il militarismo della nuova Germania aveva cosi spaccato la nazione, articolando e acuendo la lotta di classe. Lo Stato Maggiore prussiano non desiderava un'eccessiva espansione dell'esercito, poiché non si aveva a disposizione un numero sufficiente di ufficiali politicamente fidati, nobili o appartenenti alla borghesia conservatrice. Questo spiega come mai le truppe che la Germania riuscì a mobilitare, nell'agosto del 1914, non superassero di numero quelle francesi, nonostante il rapporto fra le popolazioni dei due paesi fosse di 60 a 40.

La prima guerra mondiale ha ridotto in misura decisiva, anche in Germania, il predominio della nobiltà nell'esercito. Molti giovani ufficiali di origine nobile caddero già nel primo anno di guerra. I comandi più alti rimanevano ancora, come in passato, appannaggio dei membri della grande o piccola nobiltà; alla loro testa stava Hindenburg, dal 1916 comandante supremo delle forze armate, anche se solo di nome. I generali del vecchio stampo prussiano non erano all'altezza degli aspetti tecnici ed economici di una guerra meccanizzata e di massa. Il lavoro maggiore veniva quindi svolto da ufficiali provenienti dalla borghesia, come Ludendorff, Hoffmann, Groener e altri. Ludendorff rifiutò di esser fatto nobile; il futuro autore del libro Der totale Krieg, che voleva militarizzare anche gli operai delle fabbriche, rappresenta così la democratizzazione non solo della guerra, ma anche del militarismo.

6. Militarismo e politica

Karl von Clausewitz, in un libro sulla teoria della guerra divenuto classico (Vom Kriege, Berlin 1832-1834), ha definito la guerra come uno ‟strumento della politica", come una ‟continuazione della politica con altri mezzi". Egli propugna la subordinazione del condottiero al politico; ammonisce il politico a non pretendere dalla guerra più di quanto essa possa dare; insiste sulla necessità di obiettivi bellici razionali e delimitati, i quali, a loro volta, pongono un limite all'intensità e alla durata della guerra. Clausewitz, perciò, non va assolutamente considerato un militarista, anche se, ammaestrato da Napoleone, si rendeva benissimo conto del pericolo di una guerra totale (egli la chiamava ‟assoluta"). Secondo Clausewitz, la guerra totale deriva o dalla illimitatezza degli obiettivi bellici, o dal continuo accrescimento degli sforzi bellici di entrambi gli avversari, cui s'accompagna, di solito, un aumento della passionalità che allontana sempre più la pace.

In opposizione a Clausewitz, il militarista conseguente propugna la subordinazione dei politici ai militari; disprezza gli uomini politici civili, a meno che non condividano le sue idee e non siano pronti a seguirlo. Egli pensa che, per un ‛comandamento divino' o una ‛legge di natura', la guerra sia prima o poi inevitabile. In quanto incarnazione di questo comandamento, di questa legge, per lui gli armamenti non possono mai essere né abbastanza potenti né abbastanza costosi. Egli scopre continuamente ‛lacune' o categorie di armi nelle quali il presunto nemico è più forte. Promuove l'indottrinamento e la formazione paramilitare dei giovani, educandoli a una mentalità patriottica e militaristica e a ragionare in termini di ‛amico-nemico'. Parallelamente, i soldati vengono sottoposti a un ammaestramento politico. La minaccia nemica non è mai dipinta con colori abbastanza terribili. Se la guerra è probabile - e quando mai non lo è? - i militaristi consigliano la ‛guerra preventiva', nel momento che giudicano favorevole per il loro paese. Tali momenti sono assai frequenti. L'ideale dei militaristi sarebbe l'abolizione del parlamentarismo, l'abolizione di qualsiasi tipo di governo civile; quindi, una dittatura di generali. In tempo di guerra, il desiderio dei militaristi è mettere a tacere la diplomazia, o, che poi è la stessa cosa, unificare in una sola mano - s'intende, quella dei militari - la direzione politica e quella militare. Le alternative sono del tipo ‛tutto o niente'; il compromesso, la ‛pace imbelle' sono rifiutati. Non ci sono sacrifici, non ci sono sofferenze che non si possano pretendere dalla popolazione civile. La vita umana, anche quella dei propri concittadini, è valutata ben poco: ‟C'est la guerre".

Esempi istruttivi di politica militaristica sia in pace che in guerra ci sono forniti dal Reich tedesco nel periodo compreso tra il 1880 e il 1918 e dal Giappone tra il 1931 e il 1945.

Fin dall'inizio, l'esercito prussiano-tedesco fu in larga misura sottratto all'influenza del Parlamento; al Reichstag non spettava altro che l'approvazione del bilancio ogni sette anni. Il ‛comandante in capo' era lo stesso re-imperatore, che nominava gli ufficiali; il suo personale ‛gabinetto militare' operava senz'alcun controllo di tipo democratico; il ministro della guerra era responsabile solo verso il re-imperatore; il capo di Stato Maggiore, con l'aiuto degli addetti militari, perseguiva una politica propria. Lo stesso Bismarck dovette condurre negli ultimi tempi una dura battaglia, vinta di stretta misura, contro i militari-politici. Questo avvenne nel 1887, quando il quartiermastro generale, conte Waldersee, si adoperò per una guerra preventiva contro la Russia. Waldersee scrisse allora in una lettera: ‟Molti uomini verranno massacrati; ma, finché non mi si dimostrerà che un uomo può morire più di una volta, non mi riesce di credere che la morte sia per il singolo individuo una sventura".

Verso la fine degli anni novanta, l'attività dello Stato Maggiore si concentrò su un piano d'operazioni che includeva ormai anche la Francia. I generali davano per scontato che la guerra imminente, e inevitabile, sarebbe stata una guerra su due fronti. Bisognava quindi annientare la Francia, prima che in Russia la pesante macchina della mobilitazione terminasse il suo lavoro. Da quest'idea fondamentale ebbe origine il ‛piano Schlieffen', così chiamato dal nome del capo di Stato Maggiore conte Schlieffen. Il piano prevedeva una gigantesca manovra avvolgente contro la Francia (a nord sei volte più forte che a sud) attraverso l'Alsazia e il Belgio, con l'obiettivo di accerchiare l'esercito francese, attaccano di fianco e da tergo e batterlo in sei settimane; dopo di che, il grosso dell'esercito tedesco avrebbe potuto muovere in piena tranquillità contro la Russia. Amorosamente elaborato, il piano fu poi lievemente modificato dal successore di Schlieffen, Moltke, ma conservato nell'essenziale. Da ciò derivava, in primo luogo, la tesi tedesca secondo cui la mobilitazione equivaleva alla guerra: se la Russia avesse fatto un solo passo verso la mobilitazione, bisognava scatenare la guerra; in secondo luogo, la necessità di costringere subito la Francia alla guerra, se necessario con qualche ‛incidente' appositamente escogitato e una dichiarazione di guerra della Germania; e, in terzo luogo, la violazione della neutralità del Belgio, con gli effetti che ciò avrebbe certamente avuto sull'atteggiamento dell'Inghilterra. G. Ritter, e dopo di lui G. Craig, hanno dimostrato la fatale influenza del piano Schlieffen sulla diplomazia tedesca durante la crisi del luglio del 1914 (v. Ritter, 1954-1968, vol. II; v. anche 1956; v. Craig, 1955).

Albertini sostiene che Bethmann Hollweg, il civile che guidava la politica tedesca, faceva il doppio gioco quando all'ultimo momento tentava ancora di salvare la pace. È possibile: in questo caso anche lui, come Guglielmo II, era finito in balia dei militari (cfr. L. Albertini, Le origini della guerra del 1914, 3 voll., Milano 1943).

Durante la prima guerra mondiale l'influenza del comando supremo dell'esercito crebbe fino al momento in cui, nel giugno del 1917, il governo civile cessò praticamente di funzionare. Il binomio Hindenburg-Ludendorff, sostenuto da un'enorme popolarità, frutto di una propaganda demagogica, dettava la strategia e, al di là di essa, la politica. Ludendorff riuscì a imporre la guerra sottomarina illimitata, pur sapendo che così avrebbe trascinato in guerra l'America; respinse tutte le possibilità di pace, naturalmente incerte, che pure si offrivano, come ad esempio la mediazione del papa o l'iniziativa dell'ex ministro degli esteri britannico lord Lansdowne; insieme col generale Hoffmann dettò il trattato di pace ‛cartaginese' di Brest-Litovsk; nel marzo del 1918 ordinò l'ultima grande offensiva in occidente, senza aver fatto prima neppure il tentativo di un'‛offensiva di pace', come consigliavano i politici civili, ormai impotenti. Quando uno di questi politici civili, il principe Max von Baden, gli chiese cosa sarebbe successo se l'offensiva fosse fallita, rispose: ‟Allora per la Germania sarà la fine" (M. von Baden, Erinnerungen und Dokumente, Stuttgart 1927). Tutto o niente. L'obiettivo rimase sempre una ‛pace di Hindenburg', anziché una ‛pace imbelle': enormi conquiste territoriali a oriente e a occidente, miranti a garantire alla Germania una sicurezza militare duratura, e specialmente buone posizioni di partenza per la prossima guerra.

‟Sapevo che la guerra era perduta già nel febbraio del 1918, ma ho voluto lasciar fare a Ludendorff ancora una volta", disse Hindenburg nel 1931 al cancelliere del Reich Brüning (cfr. H. Brüning, Memoiren, 1918-1934, Stuttgart 1970). Solo quando ebbe compreso che la guerra era perduta Ludendorff, con un'abilità sorprendente in un uomo così brutale, riuscì a scaricare le responsabilità su un governo parlamentare frettolosamente convocato.

Negli anni trenta la situazione del Giappone era ancora più cruda e pesante di quella della Germania prima del 1914. I militaristi giapponesi non si valevano di influenze presso la corte, di piani di operazione o della diplomazia segreta militare, ma ricorrevano all'assassinio. Tra il 1930 e il 1936 assassinarono tre primi ministri: Hamaguchi nel novembre del 1930, Inukai nel maggio del 1932 e Saito nel febbraio del 1936. Questi sanguinosi colpi di Stato erano opera di giovani ufficiali dell'esercito che a poco a poco s'impadronirono del potere. Sul piano morale, si richiamavano alle antiche tradizioni del Giappone; si opponevano ai demoralizzanti influssi europei, al parlamentarismo, alla democrazia, al pacifismo; sul piano politico, volgevano le loro mire imperialistiche contro la Cina. Né mancarono di svolgere il loro ruolo, in questa situazione, argomenti ispirati al darwinismo sociale, come la sovrappopolazione del Giappone. L'idea di una guerra preventiva cadde: era impossibile per i militaristi giapponesi sostenere che il paese era in pericolo e la guerra inevitabile. In vari ‛incidenti', come quello di Mukden (un maggiore giapponese giustiziato dai Cinesi), si colse il pretesto per conquistare la Manciuria e fondare lo Stato di Manchoukuo, dipendente dal Giappone. Dalla Manciuria l'imperialismo giapponese continuò a espandersi; nel 1937 cominciò una guerra non dichiarata tra il Giappone e la Cina. L'evolversi della situazione in Europa - la guerra italo-etiopica, la guerra civile in Spagna, gli armamenti e le minacce di Hitler, l'alleanza italo-tedesca dell'ottobre 1936 - favori l'imperialismo giapponese; dal patto tedesco-giapponese del novembre 1936 (patto anti-Comintern), cui aderì nel 1937 anche l'Italia, derivò una politica comune europeo-giapponese di aggressione e di rapina. Da allora fu chiaro che, se fosse scoppiata la guerra in Europa, il Giappone vi avrebbe probabilmente partecipato, sfruttandola per i propri scopi. La legge del marzo 1938 sulla mobilitazione nazionale conferì allo Stato poteri dittatoriali sull'economia del paese; lo Stato era ormai dominato dai generali e dagli ammiragli.

L'attacco giapponese contro Pearl Harbor (7 dicembre 1941) non fu un attacco preventivo. Per motivi costituzionali e di politica interna, il presidente Roosevelt non avrebbe mai potuto ottenere che gli Americani iniziassero una guerra contro il Giappone. Può darsi ch'egli lo desiderasse, giacché altrimenti l'intervento dell'America nella seconda guerra mondiale, da lui giudicato indispensabile, non sarebbe stato possibile; ma era questa una ragione di più, per i generali giapponesi, di non fargli il favore. Le misure con le quali aveva molestato il Giappone durante il 1941 - il congelamento di tutti i conti giapponesi, la chiusura dei consolati - non erano per il Giappone che punture di spillo.

Effettivamente, il Giappone si era mantenuto neutrale durante la guerra europea, cominciata nel settembre 1939 con l'invasione tedesca della Polonia; politica che gli era stata facilitata dal patto russo-tedesco dell'agosto 1939. Soltanto nell'attacco tedesco all'Unione Sovietica i militaristi giapponesi videro l'occasione da cogliere per impegnarsi a fondo; l'avversario da eliminare non era più la Cina, ma gli Stati Uniti. Fin dall'inizio, l'America aveva opposto un no alla espansione del Giappone in Cina; secondo la dichiarazione - più tardi detta ‛dottrina' - del Segretario di Stato Stimson (gennaio del 1932), gli Stati Uniti non avrebbero mai riconosciuto gli acquisti territoriali ottenuti con la forza. Ma era un no puramente teorico, non sostenuto da alcuna azione effettiva. Questo no eternamente ripetuto, però, convinse i militaristi giapponesi che il vero nemico era la grande potenza al di là del Pacifico; la guerra russo-tedesca, dalla quale ci si aspettava la subitanea dissoluzione dell'Unione Sovietica, sembrava offrire un'occasione che, se perduta, non si sarebbe più presentata: ora o mai più. Donde la distruzione di gran parte della flotta americana nel porto di Pearl Harbor. Fu questa un'iniziativa militaristica, non un'iniziativa politicamente saggia.

Dei politici civili avrebbero dovuto capire che il colpo contro Pearl Harbor poteva, certo, paralizzare sul momento la potenza americana, ma non poteva spezzarla; che l'orgoglio nazionale, provocato dallo scacco, avrebbe spinto il paese a tendere le forze al massimo, e che la tecnologia americana, pur sempre protetta da due oceani, avrebbe potuto non solo ricostruire rapidamente quanto era stato distrutto a Pearl Harbor, ma accrescere indefinitamente la produzione bellica. Pearl Harbor riecheggia la politica di Ludendorff: ‛Voi o noi', ‛Tutto o niente'. È noto il prezzo che dovette poi pagare il Giappone.

Il generale D. MacArthur, comandante in capo delle forze americane impegnate contro il Giappone, non era tout court un militarista. Ovunque fosse possibile, risparmiava la vita dei suoi soldati. Per quanto ne sappiamo, prima del dicembre 1941 non aveva mai consigliato una guerra preventiva contro il Giappone. Era tuttavia decisamente un egocentrico, come lo sono spesso i militaristi; aveva un'altissima opinione di sé; era maestro nell'arte di mobilitare l'opinione pubblica in proprio favore, né gli mancavano inclinazione e talento per gli atteggiamenti teatrali. Se avesse dovuto guidare lui la ‛crociata in Europa' dell'America, la strategia decisa da Roosevelt e da Churchill, ed espressa dal motto ‛prima Hitler', gli sarebbe sembrata certamente quella giusta. Ma giacché operava nel Pacifico, la condannò; in ciò appoggiato da certi sentimenti antieuropei e filocinesi, propri di un'antica tradizione americana. Egli soffriva che il suo teatro di guerra fosse considerato secondario in paragone di quello europeo; soffriva di aver a disposizione uomini e materiali in quantità minore di Eisenhower, suo ex subordinato; né faceva mistero dei suoi giudizi e dei suoi sentimenti. La superiore personalità e la diplomazia del presidente Roosevelt evitarono lo scoppio del conflitto; come vincitore del Giappone, MacArthur raccolse gloria bastante anche per il più ambizioso degli uomini; e come proconsole americano a Tōkyō dimostrò capacità di statista.

Più amara fu la conclusione del suo secondo comando, nella guerra di Corea (1950-1953). Negli intenti del presidente Truman, l'intervento americano in Corea - formalmente un'‛azione di polizia' dell'ONU - doveva rientrare nella politica di containment, da poco elevata al rango di dottrina: non si trattava di far ‛retrocedere' (roli back) i comunisti, ma di mantenerli nei confini che avevano raggiunti tra il 1945 e il 1947. I comunisti nordcoreani avevano invaso la Corea del Sud: era necessario ricacciarli indietro. L'obiettivo venne raggiunto dalle truppe di Mac Arthur in tre mesi. Alla fine di settembre erano arrivate al 38° parallelo, il confine tra la Corea del Nord e quella del Sud.

A questo punto, sarebbe già stato ragionevole concludere l'armistizio, al quale si arrivò soltanto tre anni più tardi. MacArthur pretese, invece, dai Nordcoreani una capitolazione incondizionata: una pretesa tipicamente militaristica, implicante l'esclusione di ogni compromesso, la rinuncia alla politica. Alla richiesta del presidente Truman, se un'aggressione contro la Corea del Nord e un'offensiva contro la frontiera coreano-manciuriana avrebbe condotto all'intervento della Repubblica Popolare Cinese, costituitasi l'anno prima, egli rispose di no. Grande esperto della ‛mentalita' orientale', come veniva considerato, avrebbe dovuto conoscere meglio la situazione. E forse la conosceva meglio: forse voleva forzare la guerra con la Cina. Non aveva mai perdonato alla Cina, la quale, come ringraziamento dell'aiuto che proprio lui, MacArthur, le aveva prestato nella liberazione dal giogo giapponese, aveva voltato le spalle all'America ed era diventata comunista. Prima di inviare le sue truppe verso il fiume Yalu, dichiarò che ormai non era più in questione la Corea, ma la ‟libertà dell'Asia"; prese anche l'iniziativa di una spettacolare visita a Chiang Kai-shek, a Taiwan: parole e azioni che difficilmente potevano essere intese dai comunisti cinesi in modo diverso da come lo furono in realtà. Seguì la controffensiva cinese, che terminò con un disastro per gli Americani e per le truppe dell'ONU. Alla fine di dicembre, le fronti correvano nuovamente, come alla fine di settembre, lungo il 38° parallelo, e qui si irrigidirono in una guerra di posizione.

Nei mesi successivi il conflitto tra il generale e il presidente, che aveva covato a lungo, scoppiò apertamente. Aerei cinesi, decollando dagli aeroporti della Manciuria, attaccarono le basi americane nella Corea del Sud. MacArthur pretese, come rappresaglia, il bombardamento degli aeroporti e delle città della Manciuria. In guerra non doveva esserci alcun ‛santuario', movendo dal quale il nemico potesse operare impunemente. Ciò significava che egli condannava il principio di una guerra fatta a metà, limitata dalla politica. A Washington non si voleva la guerra illimitata contro la Cina, e si temeva che il bombardamento di località cinesi sarebbe stato un passo decisivo in questa direzione. I capi degli Stati Maggiori riuniti (Joint Chiefs of Staff) si trovarono, in questo, d'accordo con il presidente (il generale Bradley disse: ‟La guerra contro la Cina sarebbe una guerra fatta nel momento sbagliato, nel luogo sbagliato e contro il nemico sbagliato"). L'autorità e la popolarità di MacArthur negli Stati Uniti erano enormi, senz'altro paragonabili a quelle del binomio Hindenburg-Ludendorff in Germania durante la prima guerra mondiale. Le sue critiche all'atteggiamento del presidente si facevano sempre più aperte e violente; è da credere che si ritenesse inamovibile. Tanto più grande dovette essere la sua meraviglia quando, l'11 aprile del 1951, venne esonerato dal comando. In quell'occasione, il presidente Truman così si espresse sui suoi generali: ‟I generali prima si assumono e poi si licenziano (You hire them and you fire them)". E MacArthur, nel discorso di congedo davanti al Congresso a Washington, disse che era ‟una nuova, finora sconosciuta e pericolosa opinione, quella secondo la quale i membri delle nostre forze armate debbono obbedienza e lealtà a coloro che sono temporaneamente investiti dell'autorità del potere esecutivo, anziché al paese e alla costituzione, che hanno giurato di difendere. Nessuna tesi potrebbe essere più pericolosa". Era una filosofia non proprio chiara. Come si poteva restare fedeli alla costituzione, rifiutando obbedienza al presidente, che appunto in conformità alla costituzione esercitava i suoi poteri di capo supremo delle forze armate?

Ora, o MacArthur, da puro militare, aveva rinunciato a ogni forma di politica, pretendendo l'impossibile dai Nordcoreani e comportandosi come se la grande Repubblica Popolare Cinese, che aveva dato prova di sé durante la guerra, non esistesse; oppure aveva condotto di testa sua una politica pericolosa, che non era quella della suprema autorità civile di Washington. Licenziando da un giorno all'altro l'idolo di milioni di Americani, il presidente Truman dimostrò il coraggio e l'integrità di una democrazia (R. H. Rovere e A. M. Schlesinger jr., The general and the president, 1951).

7. Il militarismo cambia

Questo è un articolo storico. Alla storia appartiene ormai la guerra di Corea dalla quale, nel momento in cui scriviamo, ci dividono ventisei anni ricchi di avvenimenti. Una figura come il generale MacArthur sembrerebbe oggi fortemente anacronistica. Caste militari privilegiate, che si distaccano dal resto della società e allo stesso tempo la governano, esistono oggi soltanto nei cosiddetti paesi in via di sviluppo, come per esempio il Sudan.

Anche i regimi di generali o colonnelli in Sudamerica, in Africa e nell'Asia sudorientale sono solo in rarissimi casi regimi militaristici, nel senso cioè che vogliono la guerra. Né si può giudicare in blocco il loro ruolo politico e sociale. Essi possono favorire i ricchi, come in Brasile, o fare una politica più o meno socialista, come in Perù e in Egitto. Sostanzialmente, i militari sono al governo - soprattutto in Africa - perché hanno il monopolio della forza, perché rappresentano il gruppo di gran lunga meglio organizzato, perché i membri del corpo degli ufficiali posseggono, relativamente, una cultura e una formazione superiori, e infine perché sono i soli a rappresentare, contro i particolarismi regionali ed etnici, il principio dello Stato moderno. Non avrebbe molto senso considerarli alla stregua della vecchia nozione di militarismo; e lo stesso vale per i guerriglieri, che oggi rendono la vita insicura in molti paesi del mondo, e che vengono addestrati esclusivamente al combattimento corpo a corpo, agli attacchi di sorpresa, all'uccisione degli ostaggi, agli attentati terroristici, ai dirottamenti di aerei, ecc. Tutto ciò non costituisce il militarismo, così come noi lo abbiamo caratterizzato.

È opinione di molti critici che il militarismo continui a esistere, come in passato, nelle grandi potenze industriali e soprattutto nelle due superpotenze: Unione Sovietica e Stati Uniti. Non è più, però, il militarismo di cui abbiamo parlato in questo articolo.

Nel 1964 i più importanti Stati industrializzati spesero per gli armamenti, tenendo conto anche della svalutazione della moneta, circa dieci volte di più che nel 1913, l'anno in cui il militarismo classico, soprattutto quello tedesco, raggiunse l'apice. Per il riarmo della Germania e la preparazione della seconda guerra mondiale, Hitler spese in sei anni cento miliardi di marchi, cifra che, sempre tenendo conto della svalutazione, non è certo superiore al bilancio americano per la difesa per il 1969: ottanta miliardi di dollari. Gli Americani hanno gettato più bombe sul Vietnam del Nord, un piccolo e povero paese agricolo, che sulla Germania durante la seconda guerra mondiale. Sono stati adoperati anche mezzi chimici, sconosciuti nel 1945, che hanno provocato la distruzione dei raccolti, dei boschi e, da ultimo, addirittura un'alterazione delle condizioni atmosferiche. Sono questi i fatti e le cifre che testimonierebbero di una spaventosa intensificazione del militarismo dopo il 1913 e dopo il 1945. Ma non è più il vecchio militarismo. L'opposizione tra casta militare e potere civile è pressoché scomparsa. Il potere militare e quello civile, l'economia civile e quella militare (defense prosperity) si sono fusi in un'unità.

Tipico in questo senso è l'atteggiamento dei sindacati americani (Labor Unions). Un tempo decisamente antimilitaristi, hanno appoggiato in maggioranza la corsa agli armamenti e persino la guerra nel Vietnam: in questo caso l'interesse alla defense prosperity si unisce a tendenze antintellettuali e antiliberali. E qualche volta i generali si sono comportati in modo più ragionevole degli strateghi accademici da tavolino e dei teorici della guerra nucleare.

Circa il ‛complesso militare-industriale', disponiamo di ricerche incomparabilmente più numerose e accurate sugli Stati Uniti che sull'Unione Sovietica. E questo per due motivi. In primo luogo, la politica americana, anche la politica di guerra, è cosa sostanzialmente pubblica; anche i segreti più gelosi vengono prima o poi alla luce; mentre i corrispondenti materiali russi sono accessibili soltanto in modo indiretto e malcerto. In secondo luogo, i critici del neomilitarismo americano sono in gran parte marxisti. Per loro gli armamenti americani e l'imperialismo americano sono un'inevitabile conseguenza del sistema economico dominante, sono l'ultima salvezza del ‛tardo capitalismo'. Gli armamenti sovietici, invece, sono considerati come una triste necessità, come un ostacolo sulla via verso il paradiso, ostacolo dal quale il Cremlino si libererebbe molto volentieri. Questa interpretazione presta il fianco a obiezioni.

Certo l'Unione Sovietica, dal 1945 in poi, non ha attuato interventi militari tanto insensati come quello americano nel Vietnam; e certo la sua politica estera è stata spesso più prudente e più pronta di quella americana a giovarsi dell'esperienza storica. Difficilmente si potrà dimostrare, però, che la potenza militare ha svolto nella politica russa un ruolo minore che in quella americana. Al contrario, lo Stato totalitario dominato da un'unica ideologia ha bisogno più dello Stato liberal-democratico, per motivi d'integrazione interna, di un nemico minaccioso sia sul piano ideologico che su quello militare. Se si ritiene che la dispendiosissima edificazione della potenza marittima russa nei sette mari o l'appoggio militare agli Arabi non abbiano altro scopo, in ultima analisi, se non la difesa della potenza continentale russa, altrettanto si potrebbe dire della politica militare mondiale degli Americani. La cosa è vera in entrambi i casi o non lo è in nessuno; ovvero è in entrambi i casi una mezza verità. Della precisione con cui è in grado di operare l'apparato militare sovietico ha dato un'idea convincente l'‛aiuto fraterno' toccato ai Cechi e agli Slovacchi nell'agosto 1968. D'altro canto, troppo angusta si rivela la tesi neomarxista, secondo cui gli Stati capitalisti hanno bisogno di armamenti giganteschi anzitutto per mantenere le proprie strutture di potere all'interno e, in secondo luogo, per proteggere i propri interessi economici nel mondo. Nel Medio Oriente, anche gli Stati Uniti, come le potenze europee, hanno accettato senza opporre resistenza l'esproprio delle compagnie petrolifere americane. Un tempo gli eserciti degli Stati dell'Europa occidentale servivano in buona parte a un'élite per integrare o, detto più chiaramente, per dominare la società. Per la Francia, per l'Italia, per la Germania occidentale degli anni settanta questo non è più vero. Soprattutto nella Repubblica Federale Tedesca, una volta rocca del militarismo, l'esercito è diventato un elemento al quale gran parte della società guarda con indifferenza, e persino con antipatia.

Se badiamo soltanto alla superficie delle cose, nell'Unione Sovietica sopravvivono resti del vecchio militarismo, che in America sono quasi del tutto scomparsi: reggimenti della Guardia, uniformi di generali sovraccariche di decorazioni, il passo da parata o dell'oca, la sciabola sguainata nel saluto militare, la presentazione esibizionistica delle armi più moderne nelle feste sulla Piazza Rossa a Mosca. Sono ricordi della vecchia Prussia, dalla quale il militarismo zarista era stato fortemente influenzato. Nella sostanza, tuttavia, i marescialli sembrano integrati nell'apparato generale del potere politico tanto quanto il military establishment in America. Non costituiscono un'élite che si ponga al di fuori del potere civile, nemmeno quando pretendono, e ottengono, una particolare influenza sull'educazione patriottico-militare dei giovani e sul rafforzamento dello spirito militare. Sono politicizzati così come la politica è militarizzata (v. Lewytzkyi, 1971). Si potrebbe anche parlare di un complesso militare-industriale nell'Unione Sovietica, con la differenza che non esiste, sul versante industriale, il movente del profitto.

Anche per gli armamenti americani il movente del profitto non svolge più il ruolo che aveva nel 1960, quando il presidente Eisenhower mise in guardia contro il ‛complesso militare-industriale'. A quel tempo, erano più di settecento gli ex generali e gli ex colonnelli che prestavano servizio nelle industrie belliche, mettendo a disposizione, oltre alle loro conoscenze specifiche, anche le loro relazioni personali col Pentagono (v. Vilmar, 1965, p. 299). Non si può, del resto, definire questi ufficiali militaristi di vecchio stampo: uomini come i generali prussiani Moltke e Roon sarebbero inimmaginabili ‛in business'. Negli anni sessanta il collegamento indiretto Pentagono-industria bellica è diventato un sistema, nel quale lo stesso Pentagono emerge come top management. Controlla la produzione dei suoi contraenti, funzione che richiede da sola 40.000 impiegati; fornisce il capitale di cui i contraenti hanno bisogno; programma il finanziamento del progresso tecnologico, che le singole imprese non sono più in grado di finanziare (v. Melman, 1970; v. Senghaas, 1972). Anche le grandi università dipendono ormai in larga misura dagli incarichi di ricerca del Pentagono, il quale dispone inoltre di un apparato gigantesco per influenzare direttamente o indirettamente l'opinione pubblica (v. Fulbright, 1970). Complessivamente, il Pentagono controlla un giro d'affari che corrisponde all'incirca al prodotto nazionale lordo dell'Italia. Ovvia è la decisiva influenza che un'azienda di Stato così gigantesca esercita sulla scienza, sull'economia, sulla politica e sulla psicologia del paese.

Bisogna però distinguere con maggior precisione. Gli Stati Uniti non hanno evidentemente nulla a che fare con il militarismo di vecchio stampo, con la supremazia di una casta militare che vive per e della guerra, e sostituisce la guerra alla politica. Di soldati brutali che vedono nell'uccidere nemici una professione soddisfacente ne esistono sempre: ricerche psicologiche condotte sulla mentalità dei ‛berretti verdi', un corpo scelto impiegato nel Vietnam, lo hanno accertato in misura sorprendente. Ed esistono anche molti Americani che considerano questi soldati buoni concittadini, tipici campioni di rude virilità. Ma c'è anche un numero presumibilmente altrettando grande di Americani che non trovano alcun motivo di compiacimento né nei ‛berretti verdi' né, in generale, nella guerra del Vietnam. Il crollo del morale dei soldati nel Vietnam, le notizie terrificanti dai teatri di guerra, l'inanità dell'intera vicenda, lo spettacolo d'impotenza dato da una potenza immensamente superiore hanno lasciato un'impronta incancellabile nell'opinione pubblica americana. I profeti che preannunciarono una ‛catena di Vietnam' hanno oggi scarse probabilità di vincere la scommessa.

Anche la tesi secondo cui ‛tardo capitalismo' e imperialismo, o militarismo, sono inscindibilmente collegati, richiederebbe un'analisi critica più accurata di quanto non sia possibile in questa sede. Non c'è dubbio che la guerra di Corea abbia giovato all'economia americana, che nel 1949 si trovava in fase di recessione. Ma significherebbe ancora una volta scambiare la conseguenza con la causa, la conseguenza con la funzione, se traessimo la conclusione che, poiché la guerra di Corea ha giovato all'economia americana, i capitalisti americani l'hanno voluta e hanno costretto il presidente Truman a intraprenderla. La decisione del presidente Truman di intervenire militarmente in Corea fu una decisione individuale, rientrante nella tradizione classica della politica estera: secondo Truman non si poteva, ‛perduta' la Cina, perdere anche la Corea del Sud, lasciandola nelle mani dei ‛comunisti'. Non si tratta qui di discutere se tale giudizio fosse giusto: la cosa evidente è che Truman seguì il suo convincimento in buona fede e non si fece consigliare né dagli imprenditori né dai dirigenti sindacali. Per quanto riguarda la guerra del Vietnam, essa ha giovato tanto poco all'economia americana quanto poco ha contribuito all'integrazione della società americana. È stata utile a singole industrie, ma per l'economia nel suo complesso, per la società nel suo complesso ha rappresentato un danno gravissimo. Anche Wall Street reagiva, di solito, positivamente alle voci di pace; e si è comportata nello stesso modo quando finalmente è stato stipulato l'armistizio. Con queste considerazioni affrettate non si vuol contestare l'esistenza, negli Stati Uniti, di legami sotterranei tra i due centri di potere costituiti dall'industria e dallo Stato; si vuol solo dire che i loro effetti su una politica estera bellicista non sono cosa tanto semplice come il neomarxismo suppone.

Allo stesso modo, è molto difficile mettere a confronto la responsabilità dei militari americani con quella dei civili per quanto riguarda il disastro nel Vietnam. Quando nel 1954, durante la battaglia di Dien Bien Phu, il Segretario di Stato Foster Dulles caldeggiò un massiccio intervento a favore dei Francesi, furono i signori del Pentagono a sconsigliarlo. Tra i documenti del Pentagono ce ne sono alcuni estremamente istruttivi sull'epoca in cui l'intervento americano raggiunse l'apice. Essi non danno un quadro univoco. Avvertimenti improntati a prudenza e pessimismo venivano - raramente - da entrambe le parti, militari e civili. Più spesso, da entrambe le parti, troviamo cecità, fredda testardaggine e macabra praticità: con la corretta applicazione delle regole del giuoco, con obiettivi di bombardamento convenientemente scelti, con l'uso sistematico della tortura e rinforzi di 200.000 uomini alla volta, il grande progetto tecnico in cui l'America era ormai impegnata doveva essere condotto a termine.

Ora, per quanto i generali si siano compromessi in questa faccenda, l'autore di queste righe, tutto considerato, deve ritenere il sanguinoso errore del Vietnam come un errore prevalentemente ‛politico', provocato quindi da politici civili.

Quella del Vietnam è stata una guerra politica anche perché, nonostante gli orrori, è rimasta una guerra rigorosamente limitata e localizzata, e gli Americani non hanno ‛punito' né i Russi né i Cinesi per l'aiuto dato ai Nordvietnamiti. Per paradossale che sembri, nel Vietnam è stato preservato il primato della politica, in conformità con i principi di Clausewitz. La cosa si spiega con un mutamento della teoria americana della guerra, che risale all'inizio degli anni sessanta.

Negli anni cinquanta l'idea della guerra preventiva era di moda in America tra gli strateghi da tavolino della guerra nucleare; invece di guerra preventiva, si parlava di preemptive strike: un'aggressione nucleare contro l'Unione Sovietica a scopo preventivo. Da parte sua, il Segretario di Stato Dulles predicava il principio della massive retaliation: a un attacco ‛convenzionale', cioè non nucleare, da parte dei Russi contro, ad esempio, Berlino Ovest, bisognava rispondere con un'offensiva nucleare. Il presidente Eisenhower condivideva all'incirca questa visione delle cose, concludendone però che la guerra era diventata ‛impensabile'. A ciò i teorici della guerra nucleare obiettavano che il principio della ‛deterrenza nucleare' poteva essere efficace soltanto se si credeva realmente nella possibilità di una guerra nucleare, o almeno se si agiva come se la si credesse possibile (v. Kahn, 1962).

Il generale M. D. Taylor, che negli anni cinquanta era capo di Stato Maggiore dell'esercito americano, rifiutò il principio della massive retaliation, battendosi invece per il principio della ‛reazione flessibile', cioè per l'intensificazione rigorosamente graduale dell'uso di armi tradizionali, mentre le armi nucleari erano da adoperare soltanto in caso di estrema necessità. Solo così si poteva restituire alla guerra l'antica ‛dignità'. Come consigliere del presidente Kennedy, Taylor riuscì a far prevalere la sua concezione. Anche la guerra del Vietnam divenne così una guerra ‛limitata', condotta con criteri politici, senza impiego di armi nucleari. Essa non è riuscita però a riguadagnare la sua ‛dignità': al contrario. La guerra totale, nucleare, rimane ‛impensabile'; il concetto di una guerra politicamente limitata, con cui si è cercato di ‛salvare' la guerra, è stato compromesso in modo gravissimo dalla vicenda del Vietnam.

La conseguenza, per quanto riguarda l'oggetto e lo scopo di questo articolo, è che il termine ‛militarismo', nato nel XIX secolo, e tutto ciò ch'esso implica, non è più atto a descrivere la situazione attuale. Il pericolo di ciò che Toynbee chiamava ‟militarismo suicida" è oggi più minaccioso di quanto sia mai stato nella storia dell'umanità. Esso non deriva più, però, da un'esaltazione dello spirito militare, dalla supremazia di una casta di guerrieri, ma piuttosto dalla tecnologia e dalla paura, a essa associata, dei nemici potenziali. Si cerca di superarla con innovazioni come il ‛filo rosso' tra Washington e Mosca, l'accordo per la cessazione degli esperimenti nucleari, i colloqui SALT (Strategic Arms Limitation Talks) tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, che hanno già portato ad un primo risultato: una limitazione reciproca delle armi nucleari offensive e difensive. Ma dobbiamo constatare, purtroppo, che entrambe le parti sfruttano avidamente le lacune di questi accordi per conservare o procurarsi la superiorità.

In politica si osservano, riguardo alla conservazione della pace, due orientamenti che, pur sostanzialmente diversi, in pratica si confondono l'uno con l'altro. Il primo, rappresentato soprattutto dai Sovietici, risale idealmente agli anni venti: ‛sicurezza' attraverso accordi collettivi. Chi scrive non può condividere questa speranza; la ‛sicurezza collettiva' non ha dato allora buoni risultati. E bisogna anche dire che almeno uno dei due blocchi di potenze, quello sovietico, non è destinato a sciogliersi a una scadenza prevedibile. Non si fanno saltare in aria le rocce con l'inchiostro. Il secondo orientamento è storicamente molto più antico: una politica razionale di equilibrio multilaterale all'insegna di una nuova ‛pentarchia', che dovrebbe essere formata da Stati Uniti, Europa occidentale, Unione Sovietica, Cina e Giappone.

È stato uno storico e ammiratore di Metternich, il diplomatico americano H. Kissinger, ad allacciare relazioni diplomatiche tra Pechino e Washington, a migliorare in certo modo i rapporti tra Mosca e Washington, come anche a porre fine alla guerra del Vietnam. Bisogna tuttavia constatare due profonde differenze tra la nuova pentarchia, ancora da realizzare, e la vecchia pentarchia classica europea. Dopo il Congresso di Vienna, le potenze europee erano fra loro incomparabilmente meno estranee di quanto non lo siano ora le nuove potenze mondiali, che hanno dimensioni incomparabilmente maggiori. Inoltre, al tempo di Metternich, come anche al tempo dell'ultimo Bismarck, che era diventato un uomo di pace, la guerra rimaneva pur sempre l'ultima ratio dei re.

C'era la pace sebbene, o, piuttosto, ‛perché' in qualsiasi momento ‛poteva' esserci la guerra. Se ‛non può' più esserci la guerra, allora la vecchia politica di gabinetto è un aiuto provvisorio, ma niente di più. Si rendono ormai necessarie strutture politiche completamente nuove; il che non significa che si riuscirà a trovarle e a realizzarle.

Il fatto che non possa più, o almeno non debba più, esserci la guerra comporta anche un difficile mutamento nella mentalità dei soldati. Per il soldato di una volta, una vita che non avesse fatto l'esperienza di una vera guerra era una vita fallita. Ciò per cui ci si preparava con tanta solerzia era qualcosa di reale: prima o poi la guerra ci sarebbe stata; questo modo di vedere può anche essere considerato come una delle cause principali delle guerre passate: la guerra ‛veniva', perché si era certi che prima o poi sarebbe venuta. Ora, servire un apparato bellico enorme ed enormemente dispendioso senza sapere se verrà mai adoperato, o addirittura col proposito di non adoperarlo mai, è un compito psicologicamente pesantissimo e, a lungo andare, probabilmente impossibile. La probabile conseguenza di questa situazione è che o si smobiliterà a poco a poco l'apparato bellico oppure, alla fine, si arriverà ugualmente alla guerra totale, pur non credendoci e non desiderandola. Che la vecchia formula militaristica, la quale equiparava la mobilitazione alla guerra, sia oggi superata, è cosa evidente: le grandi potenze militari, con le loro divisioni intatte e, più ancora, con le loro armi nucleari, sono costantemente in fase di ‛mobilitazione'.

Per concludere: la vecchia nozione di militarismo non si adatta più all'ultimo terzo del XX secolo. Astratta dalla realtà del XIX secolo e valida tutt'al più fino al 1945, è stata raggiunta e inghiottita da una nuova realtà, incomparabilmente più intricata e pericolosa.

Chi non vuole disperare, dal pericolo dovrà trarre gli auspici.

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