MILONE da Cardano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 74 (2010)

MILONE da Cardano

Maria Pia Alberzoni

MILONE da Cardano. – La data di nascita non è nota, ma in considerazione della carriera è possibile collocarla tra il 1120 e il 1125.

Il nome della famiglia deriva dal toponimo Cardano al Campo (presso Varese e diocesi di Milano); non è possibile stabilire se essa fosse già inurbata, oppure se, come sembra, la presenza di da Cardano a Milano sia successiva all’episcopato di Milone. Non era dunque una famiglia appartenente alla vassallità vescovile e l’indicazione in merito alla sua nobiltà si appoggia sulla tarda Matricula nobilium (sec. XIV, Giulini, IV, pp. 644-646) dalla quale si evince che a Cardano era presente anche un ramo dei Castiglioni.

M. ebbe sicuramente un nipote di nome Giordano che fu al suo seguito – come attesta la sua presenza in qualità di testimone in un importante atto di M., rogato a Rivoli il 20 dic. 1172 – e che forse può essere identificato con il Giordano iudex presente a Torino a un atto del 23 marzo 1171 (Gabotto, 1899, p. 70; Le carte dello archivio arcivescovile ..., pp. 48, 53) con il quale un feudatario del vescovo rinunciava alla terza parte della decima di Settimo. Mentre nessun esponente dei da Cardano nel XII secolo e agli inizi del XIII è presente ai vertici del Comune di Milano, sicuramente con l’appoggio di M. essi trovarono qualche spazio nelle istituzioni ecclesiastiche cittadine, facendo forza più che sulla nobiltà dei natali sulla formazione culturale.

Il suddiacono Ugo da Cardano, ordinario della Chiesa di Milano, tra il maggio 1197 e il 1199 sottoscrisse atti dell’arcivescovo Filippo da Lampugnano; nel 1206 era ancora suddiacono e presenziava a una sentenza dei visitatores Lombardie in una causa che vedeva opposti l’arcivescovo e il cimiliarca; nel 1213 Ugo era ancora presente come diacono nel capitolo della cattedrale. Tra i probabili consanguinei di M. è ancora possibile ricordare il magister Gualtierio da Cardano, canonico di S. Giorgio in Palazzo (morto tra il 1225 e il 1230), la cui nipote Pomma aveva sposato Gerardo di Madregnano di Milano. I da Cardano – ma non è chiaro se si trattasse di parenti di M. oppure solo di persone originarie di quella località – riuscirono a inserirsi con maggior fortuna nel monastero di S. Ambrogio, dove durante l’abbaziato di Guglielmo Cotta (1235-67) sono attestati i monaci Cardano e Giacomo da Cardano.

M. era dotato di ampia cultura giuridica, acquisita probabilmente a Bologna. Il primo atto utile per la ricostruzione biografica di M. è una sentenza, da lui pronunciata per ordine dell’arcivescovo Oberto da Pirovano nell’agosto del 1149 (Giulini, VII, pp. 114 s.). A quella data M. è indicato come suddiacono della Chiesa di Milano, quindi già inserito nel clero della cattedrale, entro il quale percorse una rapida carriera: prima del dicembre 1150, infatti, ricevette l’ordinazione presbiterale e, con il titolo di presbiter, sottoscrisse alcuni documenti arcivescovili tra il 1150 e il 1154. In questi anni M. proseguì e completò gli studi, giacché nel luglio del 1154, ancora per ordine dell’arcivescovo Oberto, pronunciò la sentenza in una causa tra la badessa del monastero di S. Radegonda e i vicini della cappella di S. Simpliciano e in tale occasione era definito «venerabilis frater noster magister Milo, nostre ecclesie sacerdos» (Le pergamene milanesi … S. Simpliciano, pp. 71-74).

M. dovette molto al favore dell’arcivescovo Oberto, che apprezzò le sue capacità e gli delegò la soluzione di importanti cause, soprattutto quelle tra enti ecclesiastici. A conferma della fiducia in lui riposta, Oberto, tra il luglio del 1156 e il 26 settembre dello stesso anno, conferì al poco più che trentenne M. la dignità di arciprete della cattedrale, che era la seconda carica della Chiesa milanese: nei diplomi vescovili, infatti, la sottoscrizione di M. segue immediatamente quella dell’arcivescovo e precede quella dell’arcidiacono Galdino.

Al pari degli altri esponenti dell’alto clero e dell’arcivescovo Oberto, M. fu deciso sostenitore di Alessandro III, la cui causa si era unita a quella di Milano nel lungo confronto con l’imperatore Federico I Barbarossa. L’8 ag. 1160 M. si recò insieme con l’arcivescovo a Carcano, dove l’esercito milanese era impegnato nell’assedio del castello, la roccaforte degli Imperiali nel territorio della Martesana. Qui Oberto tenne un discorso alle truppe per esortarle in nome di Dio e di s. Ambrogio a scendere in battaglia fiduciose, perché Dio era con loro contro lo scomunicato imperatore (Gesta Friderici I imperatoris). Il 18 marzo 1162, il giorno prima che venisse notificato ai Milanesi l’ordine del Barbarossa di abbandonare la città, insieme con l’arcivescovo Oberto, con l’arcidiacono Galdino, con il cimiliarca Algisio e con altri ecclesiastici, M. si recò a Genova dove si trovava Alessandro III e con lui il 25 marzo si imbarcò per la Francia, dove rimase per oltre tre anni. Un segno dei buoni rapporti instauratisi tra i vertici della Chiesa milanese e il pontefice è il privilegio di protezione apostolica per la cattedrale di S. Maria che il 14 ott. 1162 da Tours Alessandro III indirizzò a M. arciprete e a Galdino arcidiacono. Il gruppo degli ecclesiastici milanesi ritornò in Italia nel novembre 1165, sempre al seguito del pontefice, e il 5 sett. 1167 M. tornò a Milano con il nuovo arcivescovo e cardinale, nonché legato apostolico, Galdino, succeduto a Oberto nel 1166.

Galdino manifestò in diverse occasioni la stima nei confronti di M. e, pur favorendo la sua nomina a vescovo di Torino in funzione antimperiale, gli concesse di mantenere la dignità di arciprete della Chiesa milanese, per poter continuare ad averlo come collaboratore soprattutto nelle controversie ecclesiastiche: si sono infatti conservate alcune sentenze di M. pronunciate a Milano de mandato dell’arcivescovo Galdino (170.VII.30: Le pergamene milanesi … S. Vittore al Corpo; 1170.X.21: Le pergamene … S. Maria in Valle; 1171.XI.30: Frisi; due nel luglio 1173: Le pergamene della canonica …, pp. 257-259, 270-272; 1174.VIII.14: Le pergamene … S. Margherita; 1174.IX.2: Bollea, pp. 258 s.). L’elezione di M. a vescovo di Torino avvenne probabilmente nel 1169, anno della morte del predecessore Carlo, giacché in un atto del 27 febbr. 1170, il primo relativo al suo episcopato, M. appare non solo come vescovo di Torino già consacrato, ma soprattutto impegnato in un’azione di alto valore politico e simbolico, quale la solenne investitura «per lignum et cartam et sacramentum» del castrum di Montosolo a Pietro Porcello e ai signori di Revigliasco. Proprio in occasione della solenne investitura di Montosolo M. inaugurò una linea d’azione nuova, giacché in quella che a ragione è stata considerata «una vera e propria assemblea generale» egli intese dare un chiaro segno della sua volontà di agire in stretto raccordo con il Comune di Torino: Pietro Porcello, un potente laico, che aveva avuto da Federico I l’investitura formale del castrum nel 1168, e i signori di Revigliasco, infatti, si impegnavano a mettere a disposizione il castrum, se richiesti dal vescovo «vel suo misso sive communi Taurinensi» (Bordone, pp. 639 s.; Le carte dello archivio arcivescovile, pp. 47 s.).

In accordo con il Comune M. avviò una decisa opera di recupero dei beni e dei diritti della Chiesa di Torino, riaffermando la sua giurisdizione su Alpignano, Chieri, Rivoli: si trattava di una collaborazione rafforzata dalla presenza dei vassalli vescovili ai vertici dell’amministrazione comunale, segno evidente della convergenza di interessi tra M. e la città. L’unità di intenti tra l’episcopio e il Comune portò a esiti interessanti per entrambe le parti, quali il netto ridimensionamento delle mire di Umberto III conte di Savoia sulla città e su numerose fortezze del territorio e un più fattivo controllo dei beni della Chiesa, come attesta il breve de feudis (Carte inedite o sparse, pp. 215-228) avviato nel 1175-79, ripreso nel 1185 e poi proseguito con aggiunte fino agli inizi del XIII secolo, il primo inventario di feudi della Chiesa torinese. È possibile ipotizzare che la stretta collaborazione tra ceti dirigenti comunali e vescovo fosse un tentativo da parte di M. di attuare anche a Torino lo stile di governo felicemente sperimentato a Milano, soprattutto negli anni dello scontro con il Barbarossa. Si trattava inoltre di una soluzione in qualche modo funzionale a supplire alle frequenti assenze di M. dalla diocesi, giacché egli nei 18 anni di episcopato torinese mantenne sempre la dignità di arciprete della Chiesa milanese e frequentemente soggiornò a Milano (marzo, luglio e ottobre 1170, novembre 1171, luglio 1173, agosto-settembre 1174, settembre 1176, giugno 1179, febbraio 1181, novembre 1182, marzo e settembre 1184, luglio 1186), dove fu sovente impegnato nelle questioni giudiziarie soprattutto durante gli episcopati di Galdino e di Algisio, mentre durante l’episcopato di Uberto Crivelli (maggio 1185 - ottobre 1187) egli fu a Milano solo nel luglio del 1186. Si deve notare infine che proprio in seguito agli accordi di Venezia del 1177, nei quali M. svolse un ruolo significativo, egli si avvicinò sensibilmente al Barbarossa, come testimonia la costante presenza di M. ai diplomi emanati da Federico I durante il suo soggiorno nel palazzo imperiale di Torino (giugno 1178), a Casale Monferrato (marzo 1186), a Borgo San Donnino (aprile 1187): di lui e di suo figlio Enrico VI, al pari di altri vescovi lombardi quali Alberto di Vercelli, Bonifacio di Novara, Guglielmo d’Asti e Lanfranco di Bergamo, M. si mostrò fedele alleato.

Le iniziative più clamorose furono le cause vinte da M. contro Umberto III, nel marzo del 1184 accusato di aver sottratto alla Chiesa di Torino il castrum di Pianezza e nel settembre del 1185 di essersi impossessato del castrum di Avigliana, di Rivalta, di metà di Carignano e del castrum di Torrette, oltre a tutto quanto possedeva a Torino; M. chiedeva anche 700 libbre segusine, per risarcire i danni arrecati dal conte a Rivoli e in altre località. Altrettanto fruttuoso fu l’intervento per ottenere che i consoli di Chieri riconoscessero l’honor et districtus della cattedrale di Torino sul luogo di Santena.

M. non si limitò peraltro a intraprendere azioni politiche, ma ebbe cura anche di sostenere le istituzioni ecclesiastiche della sua diocesi: attorno al 1170 fondò il monastero di S. Maria di Confiento nel territorio di None, negli anni Ottanta fece una donazione al monastero di S. Giacomo di Stura; in epoca incerta confermò il possesso di alcune chiese al monastero di Rivalta, nel 1173 confermò la fondazione della prepositura dei Ss. Bartolomeo e Secondo di Lombriasco, nel 1175 donò all’abate di Cavour le decime sui nuovi ronchi nella valle del Chisone; nel 1176 investì della prevostura di Oulx la chiesa di S. Giovanni in Barge e nel 1186 concesse all’abate Pietro di Lucedio l’esenzione dal pedaggio di Rivoli.

Se consideriamo che già dopo la morte dell’arcivescovo Galdino una parte del capitolo milanese aveva sostenuto l’elezione di M. contro quella dell’arcidiacono Uberto Crivelli e che dopo quasi tre mesi si giunse a una elezione di compromesso nella persona del cimiliarca Algisio da Pirovano, prende consistenza l’ipotesi di una decisa ostilità tra Crivelli e M.; ostilità che certo si acuì allorché alla morte di Algisio Crivelli, che nel 1182 era stato creato cardinale prete del titolo di S. Lorenzo in Damaso, nel maggio del 1185 fu eletto arcivescovo.

Crivelli nella sua inarrestabile carriera giunse nel novembre del 1185 al soglio papale (con il nome di Urbano III), ma anche da Verona dove si trovava la Curia papale mantenne la carica di arcivescovo di Milano sia in funzione antifedericiana sia per evitare che M. gli succedesse. A questo punto i soggiorni di M. a Milano sembrano diradarsi, forse a indicare che il presule, allora sulla sessantina, aveva deposto la speranza di ottenere la sede milanese. L’unico documento rogato nella sua città natale fu la consistente donazione stabilita nel luglio del 1186 con il consenso di Urbano III, perché si creasse un nuovo canonicato nella cattedrale. M. intendeva certo dimostrare la sua gratitudine verso la Chiesa maggiore di Milano, nella quale aveva continuato a occupare la dignità di arciprete e a percepirne le rendite, e forse mirava a inserire tra gli ordinari Ugo, probabilmente un suo congiunto.

Non è da escludere che l’elezione di M. ad arcivescovo sia stata contrastata a causa delle origini non nobili della sua famiglia; ciò spiegherebbe da una parte la tenacia con cui M. perseguì il progetto di ascendere alla cattedra di Ambrogio, e dall’altra il motivo per cui la sua candidatura non poté imporsi a fronte di Galdino della Sala, di Algisio da Pirovano e, infine, di Crivelli, tutti appartenenti a lignaggi già ampiamente affermati sia in ambito cittadino sia entro le istituzioni ecclesiastiche milanesi.

Durante gli anni dell’episcopato torinese di M. si verificarono un irrobustimento e una nuova organizzazione della cancelleria vescovile, l’introduzione di camerari e assessori nelle cause giudiziarie, quali Iohannes Mediolanensis iudex (forse lo stesso Iohannes Baserdi, giudice della Chiesa milanese in un documento del maggio 1188) che interviene come assessor di M. nella causa con il conte di Savoia, e il 2 e il 5 sett. 1185 a Torino. Anche alcuni ecclesiastici milanesi seguirono M. in quella città, in particolare Satrapa, preposito di S. Ambrogio che divenne anche canonico della cattedrale di Torino, e in quanto tale sottoscrisse alcuni documenti vescovili tra il 1170 e il 1178 (anno della sua morte), e Rogerius, canonico di S. Lorenzo di Milano e scriba del vescovo.

Il 5 dic. 1187 M. poté coronare l’ambito e a lungo perseguito progetto di diventare arcivescovo: l’elezione avvenne un mese e sedici giorni dopo la morte del predecessore. Forse per evitare periodi di sedevacanza M. mantenne ancora per qualche tempo la carica di vescovo di Torino, come attesta una carta del 16 genn. 1188 (Savio, 1898), ma ben presto le sue cure si concentrarono sulla guida della Chiesa milanese e della provincia ecclesiastica.

Fin dai primi mesi del 1188 M. nominò chierici di sua fiducia, quali il magister Filippo da Lampugnano, a succedergli nella carica di arciprete; quindi sembra aver reso stabile l’istituto dei giudici della Chiesa di Milano – carica nel 1188 ricoperta da Eriprando iudex, da Giovanni Baserdi (probabilmente il medesimo che lo aveva affiancato anche durante l’episcopato torinese e che sarà assessor di M. fino al 1195) e Arnoldo de Superaqua – ed essersi da subito avvalso della collaborazione di una familia: oltre al camerario Guido, Prevede Cixendarius, Anselmo de Broderio e Nuxiantus, ai quali è possibile aggiungere un Anselmo, ostiario dell’arcivescovo. Accanto a lui emergono anche altri importanti giudici, tra i quali i giudici imperiali Passaguerra e Ottone Zendadario. Nella carica di camerario nel 1192 è attestato Enrico, in seguito (1199) canonico di S. Ambrogio.

Oltre alla consueta attività giudiziaria esercitata da M. sovente con l’appoggio di esperti giudici (tra il 1188 e il 1195 sono note almeno 8 sentenze pronunciate da M. o da lui affidate ai suoi assessores relative all’arcidiocesi di Milano, mentre altre riguardano Chiese suffraganee di Tortona e Bergamo: Le carte dell’Archivio capitolare di Tortona, pp. 155 s., 161-163), nel 1192 Celestino III gli delegò il giudizio nella causa tra il vescovo Ugo di Tortona e il suo capitolo, che lo accusava di aver contravvenuto a un precedente accordo in merito al numero dei canonicati. Nello stesso anno il papa gli ordinò di difendere i diritti della Chiesa di Tortona nei confronti delle pretese del Comune. Un analogo incarico gli era stato affidato nel 1189 in difesa del vescovo di Piacenza Tedaldo contro i consoli di quella città, in precedenza condannati da M. per le loro pretese sul pedaggio di Fiorenzuola, che il vescovo reclamava come suo diritto. Nel marzo del 1190 Clemente III affidò a M. e al cancelliere della Chiesa milanese Rolando il compito di verificare la fondatezza delle pretese del monastero di S. Pietro in Ciel d’Oro di Pavia nella località di Sorbolo (diocesi di Parma), dove i parrocchiani volevano sottrarsi alla giurisdizione del monastero. Per incarico papale nel 1190 e nel 1193 M. dovette infine giudicare la causa che da diversi decenni vedeva opposti i monaci e i canonici di S. Ambrogio e, soprattutto, garantire che la sentenza da lui pronunciata nel marzo del 1190 fosse osservata.

M. non sembra essersi impegnato a fondo nella soluzione del processo intentato dal monastero di Scozola (Sesto Calende), situato nell’ arcidiocesi di Milano ma dipendente da Pavia, che in quegli anni fu discusso alla Curia romana, ma che solo al tempo di Innocenzo III sarebbe stato risolto in favore di Milano. In ambito cittadino egli intervenne, come già i suoi predecessori, per regolamentare la presenza dei conversi e la loro attività nell’ospedale del Brolo, di pertinenza vescovile.

Durante l’episcopato di M. non si registrano scontri tra l’arcivescovo e il Comune milanese; gli fu così possibile, come era avvenuto a Torino, instaurare un buon accordo con il capitolo della cattedrale, all’interno del quale spiccano alcuni ecclesiastici di sua fiducia e da lui collocati in posizioni importanti, quali il già ricordato Filippo da Lampugnano e il cancelliere Rolando.

M. morì a Milano il 16 ag. 1195 e fu sepolto nella cattedrale di S. Maria accanto al pulpito, dove ancora nel XVII secolo (Giulini, IV, p. 82) era visibile l’epitaffio: «Isthic pontificis requiescunt ossa Milonis / cui Deus aeterne concedat gaudia vitae».

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M.P. Alberzoni

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