Mimica

Universo del Corpo (2000)

Mimica

Bruno Callieri
Franco Ruffini

La mimica (dal greco μῖμος, derivato di μιμέομαι, «imitare») è l’arte propria dei mimi (attori) o del mimo (genere di rappresentazione), cioè l’arte di esprimere sulla scena i sentimenti mediante i gesti e gli atteggiamenti del corpo. Per estensione, il termine indica il complesso dei movimenti espressivi, soprattutto del volto, che accompagna (e talora anche sostituisce) il linguaggio articolato.

1. La mimica del volto

di Bruno Callieri

L’affermazione di Plinio il Vecchio «profecto in oculis animus habitat» (Naturalis historia, 11, 54, 145), pur riferendosi per lo più allo sguardo, si adatta anche agli altri innumerevoli movimenti del volto (corrugamento delle sopracciglia, strizzamento degli occhi, ammiccamento, smorfie, sogghigno, movimenti delle labbra e delle gote ecc.), la cui muscolatura è finemente innervata. Le capacità mimiche, diversissime in ciascun individuo e nelle varie età, rispecchiano non solo lo stato d’animo del momento, ma anche la tipologia caratteriale.

Si ritiene che i movimenti volontari, stricto sensu, non rientrino nella mimica, per la presenza dell’intenzionalità, che invece dovrebbe esulare da essa; tuttavia, pure nei movimenti volontari e nel linguaggio sono più o meno sempre presenti componenti mimiche, come lato espressivo involontario, forse insopprimibile. Anche nella mimica degli attori, infatti, accanto al fattore volontario, intenzionale, che la determina e ne condiziona l’artificiosità, c’è sempre un elemento di immediata spontaneità in rapporto all’immedesimazione con il personaggio rivissuto sulla scena e con cui ci si identifica, sia pure parzialmente.

Il tratto mimico, astratto dal contesto situazionale, non ha specifico significato; lo acquisisce, invece, ‘gestalticamente’, se inserito in una situazione globale di comportamento espressivo; soltanto in un determinato sfondo una certa figura (comportamento) assume quel significato peculiare, che può anche essere irriducibilmente ambiguo, ma è nondimeno sempre significante. Nella mimica l’informazione viene colta per analogia, cioè senza la convenzionale codificazione simbolica propria del linguaggio verbale. Il sistema analogico risulta essenziale per la trasmissione di stati emotivi, di sentimenti, di affetti: si pensi, per es., allo sguardo, al sorriso, al broncio, al pianto, alla risata. La mimica, il gesto, l’intonazione della voce che sottolineano la frase spesso sono essenziali per l’esattezza dell’informazione. Questa interdipendenza fra mimica e parola cade quando prevale la finzione o l’impersonale; in psicologia, l’esempio più evidente può essere offerto dalla dissociazione verbo-mimica dello schizofrenico.

Nell’ambito della mimica, lo sguardo costituisce senza alcun dubbio l’espressione dotata di maggiori possibilità comunicative e, nello stesso tempo, il tratto umano più ricco di mistero e, a volte, di indecifrabilità; è anche il luogo dove maggiormente si addensano le ambigue possibilità proiettive della sensitività, della sospettosità, della diffidenza.

Fin dal Settecento con J.K. Lavater, e poi soprattutto con L. Klages nel Novecento, la mimica ha costituito un proficuo campo di indagine per lo studio della comunicazione interpersonale; accentuandone la componente intenzionale, essa viene considerata come uno dei modi fondamentali (insieme con la ‘gestica’ e la ‘sigetica’, ossia lo studio dei silenzi e delle pause) di comunicazione non verbale (Critchley 1970). La particolareggiata e precisa descrizione dei tratti mimici e gestuali del comportamento rappresenta un compito difficile e quasi inesauribile della fenomenologia descrittiva delle modalità di coesistenza: l’apporto delle arti figurative è, in questo campo, immenso. In verità, le modalità mimiche della comunicazione sono infinite. Sul piano classico della ‘teoria dell’espressione’ (Klages, H.W. Gruhle) è possibile descrivere accuratamente soltanto alcune principali realizzazioni mimiche, specie nello sguardo e nel volto: per es., la mimica del pianto, del riso, della noia, del disprezzo, dello stupore, dell’ammirazione, dell’ironia, del ribrezzo, della curiosità, del dispiacere, del dolore, della soddisfazione. Comunque, la mimica si realizza in moduli motori ampiamente personali e, conseguentemente, irriducibili a schemi. In quanto si modellano su attività psichiche, i movimenti mimici, sempre relazionati alle tipologie di personalità fin dalle primissime età della vita, lasciano le loro tracce nella fisionomia; e ciascun individuo acquisisce la sua forma personale o stile mimico, il suo modo particolare di gestualità comunicante e di silenzio. Nello studio del gioco muscolare della mimica, che può presentare ampie variazioni, anche razziali (si pensi, per es., alla mimica dei cinesi), l’antropologia fenomenologica del corpo-vissuto ha consentito approcci fecondi (Callieri-Frighi 1959). Secondo le dottrine intuizionistiche di H.-L. Bergson, l’uomo coglierebbe in maniera immediata, preriflessiva, lo stato d’animo altrui che risuona nella propria esperienza, pur non riuscendo assolutamente a spiegare su che cosa si fondi questo sapere.

I possibili rapporti tra modo di essere psichico ed espressione mimica possono venire così riassunti: 1) svolgimento adeguato e indipendente dalla volontà (per es., la mimica di un autentico stato di contentezza o di dolore); 2) svolgimento volutamente adeguato (per es. maschera cortese e allegra o riservata e triste in diverse situazioni sociali); 3) svolgimento volutamente inadeguato (contraffazione, convenzione, menzogna); 4) svolgimento involontariamente inadeguato (manierismi psicotici, grimaces, paramimie e stereotipie schizofreniche, smarrimenti confusionali); 5) svolgimento progressivamente impoverito (stati demenziali, cerebrorganici, apatici).

Circa le alterazioni patologiche della mimica, vanno ricordati gli stati morbosi neurologici che impoveriscono o impediscono l’espressione mimica: nelle paralisi del nervo facciale, nelle miastenie, nelle paralisi dello sguardo, nelle cerebropatie e, soprattutto, nelle sindromi parkinsoniane, si osservano alterazioni più o meno marcate della mimica; la bradimimica e la bradicinesia del senile, nonché l’ipomimia della facies parkinsoniana e quella da impregnazione di farmaci neurolettici sono tipiche e riconoscibili a prima vista; e così pure le ipermimie e ipercinesie dei coreici (ballo di San Vito) e degli encefalitici.

È opportuno inoltre menzionare i molteplici e importanti disturbi psichiatrici: il rallentamento psicomotorio triste e abbattuto del depresso, la disperata facies melanconica, la maschera inquieta dell’angoscia, la vivacità spesso inadeguata e frammentaria dell’euforia maniacale, l’atonia o l’indifferenza dello schizofrenico catatonico, la perplessità smarrita del confuso, l’attenzione densa eppur attonita dell’allucinato, dell’individuo affetto da delirium tremens, del cocainomane, l’espressione ispirata di alcuni deliranti, costituiscono i più noti punti di repere dell’alterazione mimica (e gestuale) nella sua integrazione e sintonia intenzionale; frequentemente queste alterazioni sono estremamente pregnanti (Petiziol-Sammartino 1969), consentendo una vera e propria tipizzazione iconografica (Magli 1995).

Non va dimenticato che in alcune gravi destrutturazioni della coscienza (demenza) e della persona (schizofrenia) la mimica è profondamente appiattita o inadeguata (smorfie, grimaces) o inespressiva, una vera e propria amnesia mimocinetica.

2. L’arte del mimo

di Franco Ruffini

Il mimo ha una lunga storia che risale a molti secoli addietro, presentandosi con una tipologia multiforme, dal buffone al genere realista. Non sempre il mimo è stato muto, non sempre è stato ‘mimico’, anche se l’assenza di parola e la sostituzione di questa con un linguaggio del corpo ne sono state spesso le caratteristiche maggiormente poste in risalto. Più correttamente, dovremmo limitarci a dire che il mimo è, tra i generi dello spettacolo, quello che ha posto l’accento sull’uso del corpo come strumento primario e tendenzialmente autosufficiente: e ciò serve a escludere dal campo del mimo la danza, in cui il corpo è sì primario ma non autosufficiente, in quanto subordinato alla musica. Nel mimo il corpo non viene visto come portatore o come sussidio del discorso verbale, come accade nel teatro drammatico in senso lato, ma come alternativa al discorso verbale, oppure come protagonista di un discorso linguistico non verbale. Il primo è il caso del mimo buffone, acrobata e giocoliere; il secondo congloba i vari tipi di pantomima, da quella realistica a quella cosiddetta d’ispirazione. Storicamente, il mimo ha dunque oscillato, con frequenti ritorni e sovrapposizioni, tra un uso del corpo come supporto di abilità performative alternative alla parola, oppure come supporto di un codice linguistico sostitutivo della parola.

L’idea del mimo come un narratore che, per quanto privo della parola, può dire tutto servendosi delle mani e della mimica facciale è quella che si afferma maggiormente all’inizio del Novecento. Mains et masques, un libretto scritto nel 1914 dal grande mimo Séverin, può essere considerato appunto il testamento della concezione del mimo come supporto di un codice linguistico non verbale: testamento nel duplice senso di registro delle ricchezze, che in questo ambito il mimo aveva acquisito, e come annuncio di morte. Con Séverin e con il 1914, per fissare un nome e una data, muore definitivamente il mimo narratore di storie. L’altra specie di mimo era già tramontata, nell’Ottocento, con il grande J.-B.-G. Deburau che, in ogni caso, non era stato più il mimo buffone, ma uno stralunato Pierrot all’incrocio tra pantomima, balletto e funambolismo.

La vera rivoluzione in questo ambito avviene in Francia, negli anni Venti del 20° secolo, con É. Decroux, il quale non cerca una terza via tra il mimo narratore e quello acrobata, ma radicalmente rovescia la seguente premessa che è alla base di entrambe le alternative: sia che il mimo racconti una storia, sia che si produca in virtuosismi fisici, essenziale è ‘che cosa’ il corpo mostra; si tratti dei segni di un codice o dei numeri di un repertorio circense, il mimo si misura con il prodotto della sua prestazione. Decroux, invece, ritiene essenziale il processo che consente di ottenere la prestazione. In un certo senso, è un ritorno alle origini del mimo, seppure con una perentoria inversione di prospettiva. Il mimo originario non raccontava storie perché non c’era nessuna storia a legare la successione dei suoi numeri; il mimo di Decroux non racconta storie perché il corpo non può e non deve raccontare: esso può solo ‘presentare’. L’accento si sposta dal che cosa (la storia) al come (il raccontare o il presentare). Parallelamente, la drammaticità si sposta da ciò che il corpo in azione mostra allo stesso corpo in azione. È questo il nucleo generatore di tutta la concezione di Decroux: come definire e come attivare la drammaticità del corpo in azione. Tale drammaticità riguarda il mimo, ma il suo campo di pertinenza generale è l’attore tout court: infatti il mimo è un ‘attore dilatato’. Anche se la presenza in scena non può non rappresentare, l’obiettivo ultimo di Decroux è ciò che egli chiama la ‘presenza che non rappresenta’.

Il rifiuto della narrazione muta e quello di un corpo votato a imprese impossibili sono le basi per comprendere le qualifiche di ‘astratto’ e ‘corporeo’ che Decroux attribuisce al suo mimo. Esso è astratto in quanto le configurazioni che presenta non sono segni né di un codice iconico né, tanto meno, di un codice linguistico; sono configurazioni astratte non nell’accezione che il termine ha nell’ambito delle arti figurative, ma perché astraggono da una finalità segnica. È corporeo in quanto elegge il corpo e nient’altro a sede e sorgente della drammaticità, cioè della presenza. Dalla definizione di mimo come astratto e corporeo derivano importanti conseguenze teoriche e operative. Prima fra tutte, il primato indiscusso del tronco rispetto alle altre parti del corpo e, in particolare, rispetto al viso e alle mani. Queste parti non soltanto sono idonee a veicolare segni, iconici o convenzionali, ma per la funzione che assolvono nella vita quotidiana, sono inclini a farsi portatrici di segni. Le mani e il volto, dice Decroux, non hanno condizioni di lavoro severe come quelle del busto, e proprio per questo è quest’ultimo a dover essere privilegiato. Compaiono, in tale riferimento, due concetti fondamentali: la severità e il lavoro. La severità, la ricerca di condizioni operative non agevoli, si precisa nella nozione di disagio e in quella di disequilibrio. Il disagio, da un lato, si lega a un uso del corpo centrato sulle parti più voluminose e meno flessibili; dall’altro, e più sostanzialmente, alla condizione base di disequilibrio. Questo non è la perdita di equilibrio (lo squilibrio, potremmo dire), ma al contrario è il mantenimento di un equilibrio instabile, precario, in altri termini difficile. Esso non riguarda solo la posizione eretta dell’intero corpo, ma qualsiasi posizione di ogni parte del corpo: nella posizione eretta, si concretizza nel mantenere il baricentro al limite della base di appoggio; analogamente, per le altre posizioni si tratta di trovare quella condizione limite che rende instabile - cioè difficile - la posizione stessa. Il disequilibrio impone il controllo, per non degenerare nello squilibrio. L’automatismo, cioè il movimento privo di controllo, è possibile senza danno soltanto in condizioni di equilibrio stabile. Decroux cerca di eliminare l’automatismo indirettamente, sopprimendo le condizioni fisiche che lo rendono possibile. Come conseguenza di una tale strategia si ottiene, da un lato, la precisione del movimento e, dall’altro, una sua drammaticità indipendente da ciò che, in un dato contesto, il movimento stesso potrebbe significare. L’azione in disequilibrio, dovendo essere controllata, è precisa; per lo stesso motivo è drammatica, a prescindere dalla storia eventualmente presentata e, in senso logico, prima di una tale eventuale storia.

Per quanto riguarda il lavoro, la sua nozione di base si precisa, in Decroux, nel raffronto tra il mimo e la danza. Il mimo non può essere confuso con la danza, in quanto il primo si fonda sul lavoro, mentre la seconda si basa sulla danza stessa. Il lavoro è oggettivo, si misura sul fine da raggiungere. Il danzatore salta per saltare, per mostrare la sua leggerezza; il mimo salta per superare un certo ostacolo e, a tal fine, esplica una determinata quantità di lavoro. L’azione del mimo non ha in sé stessa il proprio fine: è un’azione reale e, in quanto tale, richiede un lavoro definito nella quantità e nelle modalità; quella del danzatore, invece, che ha in sé stessa il proprio fine, è un’azione non reale, che richiede sforzo muscolare, certamente, ma lo sforzo muscolare è qualcosa di diverso dal lavoro.

L’oggettività del lavoro, il fatto che esso si esprima solamente in azioni reali, potrebbe portare a una spersonalizzazione del mimo. Non è così, però, in quanto egli aggiunge al lavoro il modo. Questo non contribuisce all’efficacia dell’azione, ma non è superfluo, poiché esprime la spinta soggettiva all’azione. In un certo senso, il modo è lo specifico del mimo. Egli non racconta storie in quanto non produce segni: presenta delle storie, cioè una serie di azioni reali. L’oggettività del lavoro che queste azioni comportano è colorita, personalizzata appunto da una messa in forma del lavoro che non ne incrementa l’efficacia, ma vi aggiunge la spinta del soggettivo. In questa prospettiva, il mimo senza parola è superiore all’attore dotato di parola, dal momento che quest’ultima non è in grado di esprimere contemporaneamente il che cosa e il come. A corollario, il come sarà tanto più evidente quanto meno sarà importante il che cosa. In conclusione, il mimo si differenzia sia dalla danza sia dal teatro: da questo perché fa a meno della parola e perché, pur non rinunciando alla storia, la minimizza allo scopo di far risaltare il modo; da quella perché, pur fondandosi sull’azione non significante, ne fa un lavoro commisurandola a un fine esterno da conseguire.

Il mimo per Decroux è, come si è detto in precedenza, un attore dilatato, in quanto l’assenza di parola e di qualsiasi altro segno dilata, appunto, i problemi del corpo, amplificandone anche la drammaticità. Il controllo è necessario anche all’attore e l’automatismo che si ingenera per mancanza di controllo gli è funesto. Ma nel mimo gli effetti positivi del controllo e quelli negativi della sua insufficienza sono potenziati, e dunque più evidenti sia sulla scena reale dello spettacolo sia su quella metaforica dello studio. Vitalizzato dal disequilibrio e dal disagio, il corpo del mimo diviene sede di una drammaticità pre-espressiva che è lontana tanto dalla eterea levità della danza quanto dalla terrena concretezza del teatro. I problemi posti da Decroux, paradossalmente, hanno un fondamento estraneo alla tradizione del mimo, in quanto viene elusa l’alternativa tra mimo narratore muto e mimo funambolo, e comportano implicazioni che ne travalicano l’ambito, per invadere a pieno titolo quello dell’attore: la ‘presenza’ e le condizioni che la garantiscono si trovano, infatti, al centro della problematica per l’attore che voglia sottrarsi alla pura e semplice imitazione, come storicamente si è verificato nella ricerca del Novecento.

Il dopo Decroux, quando si è confinato nel genere mimo, è stato sostanzialmente un’involuzione. Ha registrato, invece, uno sviluppo quando ha sconfinato oltre i limiti del genere. A prescindere dal livello estetico e dal riconoscimento di pubblico, involuzione è stato il mimo di J.-L. Barrault o quello di M. Marceau, per citare i due nomi più famosi. Rivendicando entrambi una funzione rappresentativa del mimo, hanno trovato o l’insufficienza semantica del corpo muto (com’è avvenuto per Barrault), oppure una sua vocazione, che è di fatto una limitazione, all’ambito del patetico (com’è avvenuto per Marceau).

Grande importanza, al contrario, hanno avuto, nel campo generale dell’attore, le nozioni di lavoro e di azione reale che sono state particolarmente approfondite da Decroux, pur non essendo esclusive del suo mimo. Esse hanno costituito un sicuro riferimento - anche se sviluppato in modo autonomo - per la ricerca, per es., della modern dance.

Una trattazione a parte, poi, meriterebbe il cosiddetto terzo teatro, come venne chiamato quell’arcipelago di gruppi non ufficiali, che furono attivi in tutto il mondo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del 20° secolo. Fondandosi, anche in relazione ai suoi connotati di teatro non riconosciuto, sull’autopedagogia, il terzo teatro ha ritrovato e adottato, quali principi pratici dell’addestramento (il cosiddetto training), quelli che erano stati i fondamenti teorici dell’insegnamento di Decroux.

Il disequilibrio come mezzo da usare allo scopo di imporre il controllo, la precisione intesa come obiettivo ma anche come orientamento per l’azione reale, la ricerca della soggettività come messa in forma di un lavoro oggettivo, più che tecniche da apprendere, si sono rivelati tecniche per apprendere. E proprio in questo essere metodi per un’autopedagogia, i principi del mimo di Decroux hanno dimostrato tutta la loro grande efficacia e ricchezza.

bibliografia

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