Misure cautelari. La presunzione di adeguatezza

Libro dell'anno del Diritto 2012

Misure cautelari. La presunzione di adeguatezza

Katia La Regina

Misure cautelari
La presunzione di adeguatezza

In materia cautelare, una rilevante novità è rappresentata dal percorso intrapreso dalla giurisprudenza costituzionale per circoscrivere gli ambiti di operatività della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere di cui all’art. 275, co. 3, c.p.p., come integrato dal d.l. 23.2.2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito in l. 23.4.2009, n. 38.

La ricognizione. La modifica dell’art. 275 c.p.p.

Il d.l. 23.2.2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito in l. 23.4.2009, n. 38, ha apportato significative modifiche in ordine ai poteri giudiziali di scelta delle misure cautelari1. La novella, infatti, ha considerevolmente ampliato il catalogo dei reati rispetto ai quali, ove ricorra la condizione della gravità indiziaria, il giudice dispone senz’altro l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere, «salvo che siano stati acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari» (art. 275, co. 3, c.p.p.). L’operazione è stata portata a termine includendo nel novero delle fattispecie soggette alla speciale disciplina i delitti comportanti la legittimazione investigativa della Procura Distrettuale Antimafia (art. 51, co. 3 bis e 3 quater, c.p.p.), il delitto di omicidio volontario (art. 575 c.p.), di prostituzione minorile di cui all’art. 600 bis, co. 1, c.p., di pornografia minorile – con esclusione dell’offerta o della cessione ad altri di materiale pornografico – di iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600 quinquies c.p.), nonché, salva la ricorrenza delle rispettive circostanze attenuanti, di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), anche di gruppo (art. 609 octies c.p.) e di atti sessuali con minorenne (art. 609 quater c.p.). Or iginar iamente prevista solo in relazione al delitto di cui all’art. 416 bis c.p. o a quelli commessi avvalendosi delle condizioni da esso previste, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di cui all’art. 416 bis c.p., anche per le menzionate fattispecie risulta operativa la duplice presunzione implicata nell’art. 275, co. 3, c.p.p.; la prima, di carattere relativo, impone al giudice di ritenere sussistenti le esigenze di cui all’art. 274 c.p.p., salvo il caso in cui non sia dimostrata la loro mancanza; la seconda, di carattere assoluto, investe la scelta della misura. Presupposta la sussistenza di esigenze cautelari, l’unico strumento adeguato per farvi fronte è la custodia cautelare in carcere, con conseguente esclusione di margini per apprezzare l’idoneità di una misura diversa da quella inframuraria a fronteggiare i pericula libertatis. È proprio quest’ultima la presunzione caduta a più riprese sotto la scure della Consulta.

La focalizzazione. Riduzione di operatività della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare: i cd. reati sessuali

Il primo passo compiuto dalla Corte costituzionale per arrestare la spinta verso l’implementazione degli ambiti della disciplina eccezionale ha preso corpo nella declaratoria di illegittimità dell’art. 275, co. 3, secondo e terzo periodo, c.p.p., nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 600- bis, co. 1, 609 bis e 609 quater c.p., è applicata la custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure2. Al fondo di questa decisione vi è la ricognizione dei limiti entro i quali, specie rispetto ad una sfera di libertà inviolabile, possono operare meccanismi costruiti attorno a presunzioni assolute. Queste – si afferma – sono accettabili solo nella misura in cui «rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit»; di conseguenza, «tutte le volte in cui sia «agevole» formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione », la presunzione stessa può dirsi lesiva del principio di uguaglianza, risultando arbitraria ed irrazionale3. Così è, dunque, rispetto all’automatismo postulato per le figure criminose interessate dalla declaratoria di illegittimità costituzionale perché rispetto ad esse – come, del resto, evidenziato da più parti già all’indomani della novella – non può formularsi quella stessa valutazione di ragionevolezza della scelta legislativa che, invece, ha giustificato la deroga alla disciplina ordinaria nei procedimenti relativi a delitti di mafia. Sotto questo profilo, infatti, si rammenterà come in passato la stessa Corte costituzionale4, nonché la Corte europea dei diritti dell’uomo5, avevano colto nella specifica connotazione strutturale dei predetti delitti – e, dunque, nella verosimile protrazione dei contatti tra l’imputato e l’associazione – la ragion d’essere di una scelta caduta su l’unica misura evidentemente adeguata a recidere i legami tra l’interessato ed il contesto criminale di appartenenza. Già sotto questo profilo emerge il divario esistente rispetto ai cd. reati sessuali perché questi sono spesso «meramente individuali» e tali da presentare «disvalori nettamente differenziabili»; in altri termini, essi pongono esigenze cautelari diverse da caso a caso e tali da poter essere soddisfatte con misure diverse dalla custodia in carcere. Nonostante questa prospettiva sarebbe stata sufficiente a segnare la sorte della disposizione oggetto di censura, la Corte costituzionale non rinuncia a stigmatizzare l’opzione legislativa anche sotto il profilo della strumentalizzazione della custodia cautelare per fini ad essa totalmente estranei; da un lato, infatti, si esclude che la presunzione assoluta di adeguatezza possa giustificarsi sulla scorta della «gravità astratta del reato», desumibile dalla misura della pena e dal rango dell’interesse protetto, perché questi parametri – lungi dal rilevare direttamente ai fini della verifica delle esigenze cautelari e del loro grado – assumono rilevanza «in sede di giudizio di colpevolezza»; dall’altro, si nega che la predetta presunzione possa legittimarsi nell’allarme sociale suscitato dalla considerata forma di criminalità e trovare, dunque, la propria giustificazione nell’obbiettivo di offrire una risposta al senso di insicurezza sociale. L’ingiustificata parificazione ai delitti di mafia e l’assegnazione alla coercizione processuale dei tratti funzionali propri della pena non conducono, tuttavia, alla radicale rimozione della presunzione oggetto di scrutinio. Essa, infatti, è costituzionalmente illegittima nella misura in cui priva completamente di rilievo il principio del «minore sacrificio necessario»6, ovvero quel criterio che – come diretta promanazione dell’art. 27, co. 2, Cost. – impone di contenere la restrizione della libertà personale entro i limiti che risultino indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari nel caso concreto. La conseguenza è che i delitti di cui agli artt. 600 bis, co. 1, 609 bis e 609 quater c.p. continuano ad essere oggetto di una disciplina speciale che, tuttavia, è temperata dall’operatività di una presunzione di adeguatezza della custodia in carcere divenuta relativa, ovvero superabile ogniqualvolta sussistano specifici elementi da cui desumere l’idoneità di misure diverse a soddisfare le esigenze cautelari.

2.1 L’omicidio volontario

Nonostante la sentenza n. 265/2010 avesse investito solo alcuni dei delitti ricompresi nell’elencazione del novellato art. 275, co. 3, c.p.p., fu subito chiaro che le implicazioni concettuali della decisione sarebbero state capaci di scardinare la presunzione assoluta di adeguatezza anche in relazione a fattispecie ulteriori rispetto a quelle espressamente considerate. Non sorprende, dunque, che il disegno del legislatore del 2009 sia stato successivamente valutato dalla Corte costituzionale proprio sulla scorta dei medesimi principi di fondo. Le considerazioni prospettate dalla Consulta nel 2010 sono, infatti, state riaffermate, sia pure con gli opportuni adattamenti, in rapporto al delitto di omicidio volontario di cui all’art. 575 c.p.p.7 Al centro dell’argomentazione sviluppata nel nuovo intervento del Giudice delle leggi vi è sempre l’irragionevole parificazione del reato in parola al catalogo dei c.d. delitti di mafia; l’omicidio, del resto, non è una fattispecie che implica o presuppone necessariamente l’esistenza di un vincolo di appartenenza ad un sodalizio criminoso che, nella generalità dei casi, può essere spezzato solo con il ricorso alla più severa tra le misure; esso, al contrario, è molto spesso il risultato di una condotta individuale, di una pulsione scatenata da fattori contingenti – quali, ad esempio, i «comportamenti lato sensu provocatori della vittima» – o da tensioni vissute nell’ambito di contesti specifici, quale quello familiare o dei rapporti socio- economici. Per questa ragione è da escludere che la «struttura » della fattispecie e le sue «connotazioni criminogene» possano dirsi coerenti con una presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare; l’omicidio di cui all’art. 575 c.p.p. presenta, infatti, caratteristiche tali che non consentono di escludere a priori che le esigenze cautelari possano trovare una idonea risposta in misure diverse dalla custodia, comunque capaci di disinnescare il «fattore scatenante ». L’illegittimità costituzionale dell’art. 275, co. 3, secondo e terzo periodo, c.p.p. anche in questo caso è comunque solo parziale; sulla scia di quanto precedentemente affermato, l’incompatibilità con il principio del «minore sacrificio necessario» si pone nella assolutezza della presunzione che, pertanto, risulta relativizzata e, come tale, superabile dall’acquisizione di elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

2.2 L’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope

Più difficile dire se la presunzione legale di adeguatezza della custodia cautelare potesse adattarsi a fattispecie che, pur non rientrando nel novero dei delitti di mafia, presentano caratteristiche di accentuata prossimità con il relativo fenomeno criminale. In effetti, già all’indomani della novella del 2009, anche quanti dubitavano della coerenza costituzionale dell’espansione operata dalla legge, non mancavano di sottolineare come la presunzione normativa avrebbe potuto adattarsi «a tutte le tipologie di reati di cui all’art. 51, comma 3-bis e 3-quater», c.p.p., trattandosi di casi «che poco si distanziano da quelli evocati nella versione [fino ad allora] vigente dell’art. 275, comma 3 c.p.p.»8. Nondimeno, la Corte costituzionale9 ha ritenuto estensibili, quantomeno rispetto al delitto di cui all’art. 74 d.P.R. 9.10.1990, n. 30910, le ragioni che avevano in precedenza indotto alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 275, co. 3, c.p.p. in riferimento a taluno dei cd. reati sessuali nonché al delitto di omicidio volontario. Anche in questo caso sullo sfondo della pronuncia vi è l’obbiettivo di riaffermare i valori sottesi al principio del «minore sacrificio necessario », strutturando un sistema costruito attorno a meccanismi individualizzanti di selezione del trattamento cautelare11. A tal fine, non è di ostacolo la circostanza che la fattispecie considerata nella normativa speciale, diversamente da quelle già oggetto di scrutinio, postuli – come reato di tipo associativo – «uno stabile vincolo di appartenenza del soggetto a un sodalizio criminoso, volto al compimento di una pluralità non predeterminata di delitti». La presunzione di adeguatezza, infatti, non trova il proprio fondamento nella natura pluripersonale della fattispecie, ed eloquente dimostrazione ne è l’esclusione dal regime cautelare derogatorio della figura associativa di cui all’art. 416 c.p., che vi rientra solo in relazione ai casi di cui al co. 6. Neppure è a dirsi, sottolinea la Consulta, che le caratteristiche della fattispecie scrutinata siano necessariamente tali da replicare i tratti tipici del delitto di associazione di tipo mafioso. Non deve fuorviare, infatti, la circostanza che si tratti di un delitto accomunato a quelli di mafia da uno specifico criterio di legittimazione investigativa, perché la selezione delle fattispecie che ricadono nell’art. 51, co. 3 bis, c.p.p. è ispirata da ragioni di opportunità organizzativa degli uffici del pubblico ministero, anche in relazione alle peculiarità che le tecniche di indagine devono assumere rispetto a taluni reati. Nulla a che vedere, dunque, con l’esistenza di un dato di esperienza generalizzato che consenta di parificare le fattispecie in questione. Al contrario, nell’associazione finalizzata al narcotraffico, non solo non è postulato alcun radicamento sul territorio, ma potrebbe difettare anche una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, perché per l’integrazione del delitto di cui all’art. 74 d.P.R. 9.10.1990, n. 309 è sufficiente anche soltanto una rudimentale organizzazione di attività e di mezzi per la realizzazione di un fine comune. La fattispecie, in altri termini, è capace di qualificare situazioni insuscettibili di reductio ad unum quanto a «contesto, modalità lesive del bene protetto e intensità del legame tra gli associati». Per questa ragione, la custodia cautelare, non è detto che possa costituire l’unico strumento capace di soddisfare le esigenze cautelari; la presunzione assoluta contemplata dall’art. 275, co. 3, secondo periodo, c.p.p. è, dunque, dichiarata costituzionalmente illegittima, con conseguente trasformazione, rispetto al delitto oggetto di scrutinio, in presunzione solo relativa.

I profili problematici

Irrisolta, almeno allo stato, la questione della compatibilità del regime cautelare derogatorio rispetto alle ulteriori fattispecie oggetto del disegno legislativo del 2009. Vengono alla mente le previsioni incluse nella categoria dei cd. reati sessuali che, non essendo state considerate nelle ordinanze di rimessione, non sono state attinte dalla sentenza n. 265/2010. In particolare, il riferimento attiene alla violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies c.p.), alla pornografia minorile (art. 600 ter c.p.) e alle iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600 quinquies c.p.). Non è difficile, tuttavia, immaginare quale potrebbe essere la sorte della deroga ove fossero sollevate altrettante questioni di legittimità costituzionale; se si considera, infatti, che le argomentazioni valorizzate a più riprese dalla Consulta si incentrano sulla natura individuale della condotta, sulla specificità dei contesti in cui si manifesta la spinta criminogena o sulla contingenza della medesima, risulta evidente come anche per i delitti in parola non esista un dato di esperienza generalizzato che giustifichi la presunzione assoluta di cui all’art. 275, co. 3, c.p.p. e, dunque, la sottrazione al principio del «minore sacrificio necessario ».

Note

1 Sulla novella v. Bricchetti-Pistorelli, Estesa l’obbligatorietà della custodia in carcere, in Guida dir., 2009, n. 10, 45; Marandola, I profili processuali delle nuove norme in materia di sicurezza pubblica, di contrasto alla violenza sessuale e stalking, in Dir. pen. e processo, 2009, 947; Marzaduri, Il ricorso alla decretazione d’urgenza condizionato dal diffuso allarme sociale, in Guida dir., 2009, n. 10, 39; P. Moscarini, L’ampliamento del regime speciale della custodia in carcere per gravità del reato, in Dir. pen. e processo, 2010, 227; Ramacci-Spangher (a cura di), Il sistema della sicurezza pubblica, Milano, 2010, passim.

2 C. cost., 21.7.2010, n. 265, in Cass. pen., 2011, 146; per un’analisi della pronuncia v. Tonini, La Consulta pone limiti alla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, in Dir. pen. e processo, 2010, 949 ss.

3 La prospettiva riafferma l’orizzonte tracciato da C. cost., 16.4.2010, n. 139, in Guida dir., 2010, n. 15, 69, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, co. 4, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati dalla norma, il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, non ammette la prova contraria.

4 Cfr. C. cost., 24.10.1995, n. 450, in Giur. cost., 1995, 3540.

5 C. eur. dir. uomo, 6.11.2003, Pantano c. Italia, in Dir. pen. e processo, 2004, 123.

6 Su tale principio v. C. cost., 19.7.2005, n. 299, in Giur. cost., 2005, 2917.

7 Cfr. C. cost., 12.5.2011, n. 164, inedita.

8 Testualmente, Marandola, I profili processuali delle nuove norme in materia di sicurezza pubblica, di contrasto alla violenza sessuale e stalking, cit., 951.

9 Cfr. C. cost., 22.7.2011, n. 231, inedita.

10 Lo speciale regime cautelare si estende al delitto in parola in quanto trattasi di una fattispecie indirettamente richiamata dall’art. 51, co. 3 bis, c.p.p.

11 In altri termini, «entro il «ventaglio» delle misure prefigurate dalla legge, il giudice deve individuare quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari nel caso concreto e prescegliere la meno afflittiva»: così, Tonini, La Consulta pone limiti alla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, cit., 951.

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