Mito

Dizionario di filosofia (2009)

mito


Dal gr. μῦϑος «parola, discorso, racconto, favola, leggenda». Nel pensiero filosofico il termine indica, già dall’antichità, il racconto fantastico che non prevede dimostrazione e in questo senso è opposto al logos (la dimostrazione ben fondata della verità), cui si attinge invece attraverso l’argomentazione razionale.

Il mito nel pensiero antico

Generalmente concepito come una forma diminuita di conoscenza, che al massimo riesce a garantire caratteristiche di verosimiglianza ma non di verità, già per Platone, il primo pensatore che si ponga consapevolmente il problema del rapporto tra la facoltà mitopoietica dell’anima e quella propriamente generatrice di verità e di conoscenza, il mythos sta al logos come l’opinione alla scienza, come l’incertezza del sensibile alla certezza del razionale. Nel Gorgia (523 a), introducendo il m. escatologico relativo ai destini delle anime dopo la morte, Socrate oppone esplicitamente il termine μῦϑος (nel senso di favola) a λόγος (discorso vero), precisando che il suo discorso va inteso però nei termini della verità. Va infatti sottolineato che Platone stesso ritiene, in certi casi, che il m. possa essere validamente chiamato in causa nel processo conoscitivo. Talvolta, non potendo il logos attingere tutta la verità, questa può essere manifestata attraverso il mythos; e soltanto in forma di m. Platone introduce, per es., le sue credenze circa il destino oltremondano dell’anima, sia nel Fedone (113 c-115 a) sia nella Repubblica (614 a-621 d), attraverso il m. di Er. In questo genere di credenze infatti è impossibile per la ragione raggiungere una conoscenza piena e incontrovertibile e il m. è chiamato a supplire – anche con una certa dose di rischio, come si dichiara nel Fedone 114 d – a questa incapacità. Spesso i m. si presentano con l’autorità di antiche tradizioni, o di racconti miracolosi, e quindi devono raggiungere e far vibrare le corde emotive dell’anima, garantendo, per es., l’ordine morale (Leggi 865 d; 872 d-e); in altri casi essi sono presentati come grandiose rappresentazioni intuitive di ciò che in realtà potrebbe essere indagato secondo un percorso razionale; tale il ricorso al m. della caverna per esplicare i gradi del processo conoscitivo nella Repubblica (514 a-517 a). Nel Timeo (29 d) il ricorso al m. rappresenta una possibilità di conoscenza del mondo sensibile alternativa alla via razionale, offrendo un’immagine soltanto plausibile dell’oggetto della conoscenza, una narrazione probabile di ciò che non può essere conosciuto in modo perfetto; diversamente dai m. circa il destino delle anime dopo la morte, che prevedono una validità morale e religiosa, non si richiede in questo caso un’adesione per fede, ma una sorta di assenso legato alla credibilità. L’opposizione radicale di m. e razionalità si ritrova anche in Aristotele; nella Metafisica (I, 2, 982 b e segg.) egli rintraccia nella meraviglia la spinta fondamentale sia del filosofo sia del φιλόμυϑος; se l’uno e l’altro tentano di rispondere alla stessa sollecitazione, ossia il terrore suscitato nell’uomo dall’imprevedibilità degli eventi, solo l’ἐπιστήμη, la conoscenza salda e sicura che soltanto l’approccio razionale della filosofia può garantire, assicura l’affrancamento dal terrore del divenire. Paragonato alla solidità dell’episteme, il rimedio fornito dal m. contro il terrore si rivela inevitabilmente inaffidabile, insicuro, inefficace. Nella Poetica (I, 1451 b) si incontra un uso del termine μῦϑος nel senso di «finzione poetica, favola, racconto immaginario», contrapposto alla verità e alla storicità dei fatti reali narrati dagli storici. L’interpretazione razionalistica dei m., già sostenuta dai sofisti (Fedro, 229 b-230 a), troverà in Evemero (3° sec. a.C.) il suo massimo sostenitore e sarà variamente utilizzata in funzione antipagana dai padri della Chiesa; mentre l’idea che il m. celi, sotto forma allegorica, profonde verità e solidi insegnamenti morali, affermatasi a partire dal 5° sec. a.C. soprattutto per opera di Ferecide e Acusilao, avrà una rinnovata vitalità con il neoplatonismo.

Dalla tarda antichità all’età moderna

Nella tarda antichità l’impiego delle tecniche allegoriche per l’interpretazione dei m. poetici, adottate principalmente dagli interpreti di Omero ed Esiodo, viene esteso anche ai m. filosofici presenti nelle dottrine di ispirazione pitagorico-platonica, e nei testi platonici stessi. Nel 1° sec., in Filone di Alessandria l’allegoresi permette di integrare metafisica greca e pensiero cristiano; quasi contemporaneamente, in Plutarco, si ha l’elaborazione in chiave filosofica dei m. e degli oracoli della sapienza greca. In entrambi i casi si assiste a un attenuarsi del discrimine fra pensiero razionale e pensiero mitologico. Per Plutarco il m. è «narrazione sugli dei» che è necessario accogliere «santamente e filosoficamente […] dalla bocca degli esegeti» (De Iside et Osiride, 11). L’ulteriore allineamento fra m. e mistero (Filone, De providentia, 2, 40; Clemente Alessandrino, Stromata, 9, 56, 5), che in Plotino è ormai acquisito («a ciò alludono i misteri e i miti degli dei», Enneadi, V, 1, 7), potenzia l’impiego dell’allegoria in ambito filosofico, ma comporta, al tempo stesso, l’introduzione di una teoria del velamen, inteso come occultamento di verità da non divulgare ai non meritevoli. Il m. è veicolo di un messaggio ‘codificato’ riservato a pochi: «è questo il significato della famosa prescrizione dei misteri “non divulgare nulla ai non iniziati”» (Enneadi, VI, 9, 11). Tale teoria, presente già in Platone (Repubblica, 378 a) e poi in Plutarco, Plotino, Porfirio (De antro nympharum) e Giamblico («sui misteri divini, adottavano modi di esprimersi il cui senso per i non iniziati era insondabile e occultavano i loro discorsi e i loro scritti sotto il velo dei simboli», De vita pythagorica, 104), se, in certa misura, preannuncia la futura tecnica interpretativa medievale dell’integumentum, comporta però, a differenza di quella, un aspetto iniziatico congiunto e costitutivo della possibilità stessa di comprensione: il m. – filosofico o intepretato filosoficamente – afferisce a un livello di conoscenza ulteriore e metarazionale. Durante il Medioevo il m. antico viene interpretato prevalentemente mediante tecniche allegorico-morali; larga accoglienza riscuotono inoltre le tesi evemeriste (già presenti in Plutarco, De Iside et Osiride, 23), che vedono nei protagonisti e nelle vicende narrate la trasposizione di eventi e personaggi storici. Tali tesi sono sostenute in ambito cristiano, poiché rivelano l’infondatezza del paganesimo. Le tecniche intepretative allegorico-morali ed evemeristiche sono ancora prevalenti in G. Boccaccio, che dedica ai miti pagani la Genealogia deorum gentilium, fonte di successivi trattati rinascimentali quali il De deis gentium varia et multiplex historia (1548) di L.G. Giraldi o i Mythologiae sive explicationis fabularum libri decem (1568) di N. Conti, testo, quest’ultimo, ancora utilizzato da Bayle nel Dictionnaire historique et critique (1695-96). Se la critica evemeristica andrà affrancandosi dalla componente allegorico-morale di impostazione sostanzialmente cristiana, convergendo, a partire dalla seconda metà del Seicento, con una più generale critica delle religioni, una forte ripresa del valore allegorico e simbolico del m., come adombramento di misteri che completano la ragione permettendole di innalzarsi verso livelli ulteriori di conoscenza, si ha con il neoplatonismo di Ficino e Pico della Mirandola. Nel commento ai testi di Platone, Ficino (In Convivium, 15-17; In Phaedrum, 2-4) dedica cospicue riflessioni alla possibilità di penetrare le conoscenze adombrate dai m. presenti nei dialoghi platonici: «Queste cose narra Aristofane […] sotto le quali come velami è da stimare divini mysterii esser ascosi» (Sopra lo amore, 4, 2). Un nuovo atteggiamento interpretativo è proposto nel De sapientia veterum (1609) da F. Bacone che ascrive al m. una finalità non esclusivamente edificante e religiosa, ma anche pratico-scientifica e filosofica. Bacone interpreta i miti di Pan, Orfeo, Proteo, Cupido riconducendoli, rispettivamente, all’Universo, alla filosofia, alla materia, all’atomo e riconosce, inoltre, in Prometeo e Dedalo gli archetipi del rapporto fra uomo e natura, e del ruolo della meccanica.

La riflessione sul mito da Vico al sec. 20°

È con Vico che la riflessione sul m. si attesta a un livello ulteriore e inaugura una prospettiva storico-antropologica. Nella Scienza nuova il m., ancorché completo nella propria espressione, è considerato come momento precedente e involuto rispetto alla riflessione razionale. La comprensione mitica segna una fase autonoma, non complementare o superiore rispetto alla ragione. Il m. si esprime in favole («μῦϑος, la favola») che sono «maniera di pensare d’intieri popoli […] ne’ tempi della loro maggior barbarie»; e che precedono la ragione: «la mente umana, la qual è indiffinita, essendo angustiata dalla robustezza de’ sensi, non può altrimente celebrare la sua presso che divina natura che con la fantasia» (Scienza nuova, III, sez. 2, cap. 5, 4-6). Nell’epoca dell’idealismo romantico, Schelling svolge, nei corsi berlinesi del 1842-46, le riflessioni sulla filosofia della mitologia (da cui è tratta la postuma Philosophie der Mythologie, 1856-58). Il m. (e con esso la mitologia) sorge dalla vicenda teogonica che la coscienza ripercorre contrapponendosi negativamente al Dio che genera sé stesso e alla natura. La coscienza si ‘estrania’ nella storia, fino a discoprirsi nelle epoche mitologiche, ossia nelle vicende narrate dai miti, e poi nelle forme che il m. assume nelle epoche storiche (le «età del mondo»). Il m. è inteso come prodotto naturale, «divenire organico» della coscienza, in cui non si dà distinzione fra il contenuto e la forma, fra la materia narrata e il suo rivestimento figurativo; esso è pienamente significativo, e, al di fuori di ogni allegoria, rinvia alla «religione spirituale compiuta». Lo studio del m. fra il sec. 19° e il sec. 20° è stato condotto secondo molteplici approcci disciplinari: in chiave sociologica (Durkheim, Lévy-Bruhl) e, successivamente, in chiave rinnovata a partire da J.G. Frazer fino ad arrivare all’antropologia strutturalistica di Lévi-Strauss o all’etnologia di Malinowski (➔ oltre); in chiave storico-religiosa e con impostazione fenomenologica, mediante le riflessioni di Otto sul rapporto fra m. e «numinoso» (Das Heilige, 1917; trad. it. Il sacro) e con gli studi di Eliade; nell’ambito della psicoanalisi, ove secondo Freud il linguaggio simbolico trova espressione sia nel m., sia nel sogno (Die traumdeutung, 1900; trad. it. L’interpretazione dei sogni), assunzione condivisa dai successivi indirizzi freudiani e dallo stesso Jung che estende la riflessione sull’attività simbolica all’elemento metaindividuale rappresentato dagli ‘archetipi’. Con Cassirer si assiste a una riflessione sul m. propriamente filosofica; nella Filosofia delle forme simboliche (Die philosophie der symbolischen Formen, 1923-29; in partic. vol. II, Das mythische Denken; trad. it. Il pensiero mitico) il m. viene riassorbito all’interno della più generale connotazione dell’uomo come «produttore di simboli» (animal symbolicum, secondo la definizione di An essay on man, 1944, I, 2; trad. it. Saggio sull’uomo). La comprensione e l’espressione si esplicano nell’uomo in forme e in attività simboliche (forme immanenti e plurali come i loro contenuti, che segnano il superamento del concetto kantiano di «schema»), entro le quali si collocano sia il m., sia la stessa conoscenza scientifica. In relazione alla storia della cultura, Cassirer scrive che in luogo del vinculum substantiale, è proprio il vinculum functionale a rivelare la profonda unità delle forme dell’attività simbolica umana (II, 6). Sviluppi più recenti, in ambito filosofico, si sono avuti con la Mythos-Debatte, in rapporto all’«errore mitico» che, secondo le tesi di Horkeimer e Adorno (Dialektik der Aufklärung, 1947; trad. it. Dialettica dell’Illuminismo) connota la stessa razionalità strumentale moderna, o in relazione alla cosiddetta mitologia della ragione conseguente alla democratizzazione dei saperi. In opposizione alla ripresentazione, dovuta a W. F. Otto (Mythos und Welt, 1962), del m. come dato originario, estraneo alla differenziazione fra vero e falso, sono condotte le ricerche di Blumemberg, incentrate sulla tensione interna fra mitizzazione e demitizzazione che connota il sorgere stesso del fenomeno mitico (Wirklichkeits­begriff und Wirkungspotential des Mythos, 1971; trad. it. Il futuro del mito; Arbeit am Mythos, 1979; trad. it. Elaborazione del mito).

Il mito nella riflessione antropologica

La riflessione antropologica sul m. all’inizio fu strettamente legata all’indagine sulla genesi e lo sviluppo della religione e dei sistemi credenze, analizzati in base a uno schema evoluzionistico del pensiero che postulava un progressivo sviluppo dalla società primitiva a quella civilizzata. Vari autori (E. B. Tylor, Lévy-Bruhl), sulla scia del Cours de philosophie positive di Comte, identificarono i diversi stadi della storia umana in base al tipo di mentalità che domina in ciascuno di essi, postulando un passaggio dalla religione alla scienza. Mettendo l’accento, piuttosto che sull’organizzazione intellettuale, sulle emozioni e sugli affetti che dominano il comportamento e il pensiero dei primitivi, l’antropologia evoluzionistica tendeva a dare al rituale la priorità sul m., considerato una sorta di duplicato del procedimento del culto, il solo veramente importante dal punto di vista dei bisogni collettivi, di cui costituirebbe la giustificazione o il commento orale. Anche l’indagine di J.G. Frazer, che nel 1890 cominciò a pubblicare The golden bough (trad. it. Il ramo d’oro), amplissima lettura in dodici volumi di miti provenienti da tutti i paesi del mondo, privilegiò il rituale. Proponendosi di dimostrare che le società umane si sviluppano in tre stadi – magia, religione e scienza – Frazer non faceva della mitologia il luogo specifico di un pensiero dotato di una sua autonomia. Le interpretazioni speculative o psicologiche del m. furono criticate successivamente dall’approccio funzionalista, sostenuto in particolare da Malinowski, il quale sottolineò il ruolo che il m. svolge effettivamente nel contesto sociale e istituzionale. Il m. è considerato parte di un insieme più vasto, la vita sociale quale complesso di istituzioni, di valori, di credenze e di comportamenti, e gli viene attribuito il ruolo di rinforzare la coesione sociale, l’unità funzionale del gruppo, presentando e giustificando, in una forma codificata e gradevole da ascoltare, facile da tenere a mente e da trasmettere di generazione in generazione, l’ordine tradizionale delle istituzioni e dei comportamenti. Il m. è dunque, secondo la definizione di Malinowski, una sorta di ‘carta costituzionale’ della comunità, in quanto giustifica l’azione e l’organizzazione della società in un dato momento facendo riferimento a un passato mitico o sacro. Seppure criticato in quanto incapace di rendere giustizia alla specificità e alla complessità simbolica del m., l’approccio ‘sociologico’ di Malinowski ha esercitato una notevole influenza. Tuttavia il contributo forse più autorevole all’analisi del m. nell’ambito dell’antropologia si deve a Lévi-Strauss, che nei quattro volumi delle Mythologiques (1964-72; trad. it. Mitologica) e in La geste d’Asdiwal (1958; trad. it. Le gesta di Asdiwal) ha esteso al campo della mitologia i principi e i metodi dell’analisi strutturale. Partendo dal presupposto che il m. sia un sistema di comunicazione del quale occorre identificare le categorie e le strutture, Lévi-Strauss postula due livelli di lettura: un livello narrativo manifesto e un livello più profondo, che può essere colto individuando tra gli elementi costitutivi del racconto («mitemi») rapporti di opposizione e di omologia indipendenti dall’ordine narrativo, cioè dalla loro posizione e dalla loro funzione nella catena lineare del racconto. Per far apparire questa struttura permanente, i mitemi vengono distribuiti su due assi, l’uno orizzontale, che segue l’ordine stesso del racconto, e l’altro verticale, che raggruppa in colonne tutti i mitemi suscettibili di classificazione nello stesso gruppo a causa delle loro affinità tematiche. È questa disposizione in colonne che dà ai mitemi il loro vero senso, facendoli apparire non come elementi isolati, ma come gruppi di relazioni, che si oppongono o si corrispondono. Nella visione dell’antropologo francese il m. costituisce uno strumento intellettuale utilizzato per riflettere e risolvere o mediare a livello simbolico sia le antinomie universali (morte/creazione, materno/paterno, natura/cultura), sia quelle specifiche di ciascuna cultura. Secondo Lévi-Strauss, inoltre, dei miti non si deve cercare un prototipo unico, una versione autentica di cui esistono varianti e deformazioni. Tutte le versioni si equivalgono, in quanto in ognuna è all’opera lo stesso dispositivo mentale, sicché spesso solo confrontando versioni molteplici e attraverso le loro differenze si può rintracciare una struttura comune e isolare l’architettura del mito.