Modelli societari. La responsabilità degli amministratori di s.p.a.

Libro dell'anno del Diritto 2012

Modelli societari. La responsabilita degli amministratori di s.p.a.

Lorenzo Delli Priscoli

Modelli societari
La responsabilità degli amministratori di s.p.a.

Innovando rispetto alla giurisprudenza formatasi dopo la riforma del diritto societario del 2003, la Cassazione ha nell’ultimo anno individuato una specifica responsabilità in capo agli amministratori di società per azioni in caso di amministrazione non diligente, a prescindere dalla violazione di particolari obblighi imposti dalla legge o dallo statuto. Pertanto qualsiasi scelta è per loro potenzialmente fonte di responsabilità se questi la abbiano compiuta senza adottare le opportune misure e cautele per evitare un pregiudizio alla società. Il nuovo orientamento giurisprudenziale si fonda su una lettura diretta a valorizzare l’ultima parte del primo comma dell’art. 2392 c.c., secondo il quale «gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze». Rimangono aperte principalmente due questioni: se l’amministratore debba essere tenuto ad esercitare il proprio lavoro con perizia e se tale giurisprudenza possa trovare applicazione anche alle società a responsabilità limitata, per le quali non è prevista una norma di tenore analogo all’art. 2392 c.c.

La ricognizione

Nell’ultimo anno la Corte di cassazione1 ha per la prima volta evidenziato che il sistema della responsabilità degli amministratori di società per azioni delineato dal codice civile dopo la riforma del 2003 si sviluppa su un doppio binario: non più solo la violazione degli obblighi che hanno un contenuto specifico, già delineato dalla legge2 e dallo statuto, ma anche l’inadempimento all’obbligo generale di amministrare con diligenza. Pertanto qualsiasi scelta di gestione, anche discrezionale e quindi insindacabile nel merito, può essere fonte di responsabilità degli amministratori se questi la abbiano compiuta senza adottare le opportune misure e cautele per evitare un pregiudizio alla società. Non deve peraltro ritenersi che siano sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali, anche se presentino profili di alea economica superiori alla norma, ma resta invece valutabile la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, così da non esporre l’impresa a perdite, altrimenti ampiamente prevedibili3. Mentre però per questi ultimi obblighi la diligente attività dell’amministratore è sufficiente ad escludere direttamente l’inadempimento a prescindere dall’esito della scelta, per gli obblighi specifici la responsabilità può essere esclusa solo nel caso previsto dall’art. 1218 c.c., quando cioè l’inadempimento sia dipeso da causa che non poteva essere evitata né superata con la diligenza richiesta al debitore. Si ripresenta dunque la tradizionale distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato: nelle obbligazioni di mezzi infatti la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell’attività del debitore, che adempie esattamente ove svolga l’attività richiesta nel modo dovuto. In tali obbligazioni è il comportamento del debitore ad essere in obligatione, nel senso che la diligenza è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l’ulteriore corollario che il risultato è caratterizzato dall’aleatorietà, perché dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi4. Nelle obbligazioni di risultato, invece, ciò che interessa e che è oggetto dell’obbligazione è il conseguimento del risultato stesso, essendo indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo . e valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obligatione5. Pertanto, nel primo caso l’onere della prova della non diligenza dell’amministratore è in capo alla società, nel secondo caso è l’amministratore a dover provare il proprio comportamento diligente, ossia che l’evento dannoso era fuori dalla sua sfera di controllo e quindi da lui non evitabile. In precedenza invece l’attenzione della giurisprudenza si focalizzava esclusivamente sulla violazione da parte degli amministratori di obblighi previsti dalla legge o dallo statuto6. Il nuovo orientamento giurisprudenziale si fonda su una lettura diretta a valorizzare l’ultima parte del primo comma dell’art. 2392 c.c., secondo il quale «gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze ». Si è ritenuto dunque che l’obbligo di diligenza, che alla lettera è riferito all’adempimento degli obblighi imposti dalla legge e dallo statuto, determini un’autonoma obbligazione di amministrare con diligenza. Del resto l’esistenza di un generale principio di diligente amministrazione lo si evince anche dalla previsione di un obbligo specifico di vigilanza sul rispetto di tali principi in capo agli organi di controllo, anche se, per un difetto di coordinamento, la statuizione espressa si rinviene soltanto per il collegio sindacale (art. 2403 c.c.: «il collegio sindacale vigila… sul rispetto dei principi di corretta amministrazione ») e per il consiglio di sorveglianza (art. 2403 terdecies, co. 1, lett. c), ma non per il comitato per il controllo sulla gestione (art. 2403 octiesdecies)7, anche sul quale però si ritiene che, ricorrendone la stessa ratio, gravi in via analogica un obbligo di vigilanza sul rispetto di una condotta diligente e corretta da parte degli amministratori8. Il principio di corretta e diligente amministrazione è dunque assunto a clausola generale di comportamento per gli amministratori, prima espressamente contemplata soltanto per le società quotate (cfr. art. 149, co. 1, lett. a e b, t.u.f., secondo cui «il collegio sindacale vigila…» non solo «sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo », ma anche «sul rispetto dei principi di corretta amministrazione »). Il rispetto delle regole, anche tecniche e non solo giuridiche, di buona gestione è oggi, pertanto, norma di diritto comune, e come tale è riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità. Le regole organizzative escono dunque dall’area della tecnica aziendalistica, superano i confini dei settori vigilati (banche, assicurazioni, società quotate) e si estendono a tutte le società azionarie.

La focalizzazione. La diligenza dopo la riforma del 2003

La riforma del 2003 del diritto societario ha modificato l’art. 2392 c.c. nel senso di eliminare il precedente riferimento alla diligenza del mandatario, e con essa alla diligenza del buon padre di famiglia (art. 1710, co. 1, «il mandatario è tenuto a eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia»), ossia la stessa di cui al primo comma di cui all’art. 1176 c.c. («nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia»)9, dovendosi invece ora interrogarsi se, vista la lettera del co. 1 dell’art. 2392 c.c. (secondo cui gli amministratori devono usare «la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze»), debba trattarsi di quella stessa diligenza professionale cui fa riferimento il secondo comma dell’art. 1176 («nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata»). L’applicazione di quest’ultima norma comporterebbe che, in aggiunta a quella «generica» di cui al primo comma dell’art. 1176 c.c.10 la diligenza presenti un ulteriore elemento che deve essere valutato, ossia la perizia, che consiste nella conoscenza delle regole e nell’attuazione dei mezzi tecnici propri di una determinata arte o professione11. Il nuovo art. 2392 c.c. sembrerebbe dunque evidenziare la volontà del legislatore di rafforzare la professionalità di chi gestisce un’impresa in forma di società per azioni, eliminando il malcostume delle cariche ricoperte solo formalmente, con disattenzione, trascuratezza e senza l’osservanza delle regole e dei principi di correttezza professionale che queste impongono12. Del resto la grave negligenza dell’amministratore ha addirittura rilievo penale: è infatti considerato reato (bancarotta semplice, art. 217 l. fall.), la condotta dell’amministratore che abbia «consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti» o abbia «compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento » (la più grave condotta punita dalla bancarotta fraudolenta (art. 216 l. fall.) richiede invece il dolo dell’amministratore).

2.1 Diligenza e perizia

Ci si chiede allora se, alla luce del nuovo indirizzo giurisprudenziale, l’amministratore debba essere tenuto ad esercitare il proprio lavoro con perizia. L’art. 2392 c.c. non fa alcun riferimento a tale dovere, ma questa considerazione non può essere valutata come un argomento a favore della non necessaria presenza della perizia, in quanto essa non è menzionata neppure dal co. 2 dell’art. 1176 c.c., ove pure invece è pacifico che debba sussistere. Peraltro, anche la giurisprudenza formatasi nel vigore della disciplina anteriore al 2003, che negava la sussistenza di un obbligo di perizia in capo agli amministratori, riteneva che il principio secondo cui il dovere di diligenza non comprende il dovere di perizia non può esonerare il singolo amministratore dal rispetto delle regole fondamentali di corretta amministrazione13. In effetti, il nuovo art. 2392 c.c., stabilendo che gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto «con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico14 e dalle loro specifiche competenze», sembra ricondurre la responsabilità degli amministratori delle società per azioni a quella di cui all’art. 1176, co. 2, c.c.15, sancendo di conseguenza il principio che la diligenza dovrà essere adeguata alle dimensioni della società e alla natura dell’incarico: quanto più la società è grande e contrae obbligazioni di rilevante quantità e qualità, tanto più l’amministratore dovrà avere la capacità tecnica di controllare che la società sia in grado di tener fede alle obbligazioni contratte16. Si ritiene quindi che debba e possa pretendersi uno standard di capacità e di accortezza da calibrare nella realtà dell’attività esercitata con riferimento al tipo di incarico e alle specifiche competenze: così, un avvocato consigliere di amministrazione deve essere più attento e responsabile sulle questioni legali17. Secondo una dottrina, più che il primo comma dell’art. 2392 c.c. verrebbe in rilievo l’obbligo di agire in modo informato di cui al sesto comma dell’art. 2381 c.c., per cui se l’amministratore deve essere in grado di valutare le informazioni che gli pervengono e di coglierne le implicazioni, allora risulterebbe arduo sostenere che egli possa essere completamente sprovvisto dei rudimenti della cultura d’impresa, indispensabili a svolgere proficuamente tale attività valutativa18. Ad ogni buon conto non vi è dubbio che l’attività dell’amministratore debba considerarsi attività professionale, dal momento che per individuare un amministratore di fatto si utilizzano proprio gli stessi indici (stabilità del rapporto, che deve protrarsi per un lasso di tempo significativo o comunque rivestire i caratteri della sistematicità, non potendo esaurirsi nel compimento di atti occasionali19) che si adoperano per valutare la sussistenza della professionalità dell’imprenditore20.

2.2 Attività di amministrazione e perizia

Il vero nodo da sciogliere è dunque capire se l’attività di amministrazione di una società possa considerarsi attività tecnica e come tale richiedere ed esigere il requisito della perizia in capo agli amministratori: infatti, proprio rifacendosi alla terminologia utilizzata dall’art. 1176, co. 2, «la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata». Può cioè sostenersi che l’attività di amministrazione, pur dovendo essere svolta con abitualità, non abbia un suo patrimonio di «regole del mestiere», per cui non avrebbe senso per essa utilizzare il termine perizia? Il problema è aggravato dalla circostanza che è mancata e manca tuttora da parte della giurisprudenza un’elaborazione di standards di diligenza professionale in rapporto ai quali commisurare la responsabilità degli amministratori per negligenza nella gestione21. Una risposta al quesito sembra poter venire dallo stesso art. 2392 c.c., secondo cui gli amministratori devono usare «la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze »22: la norma sembra a prima lettura equivoca e contraddittoria in quanto da un lato ripete quasi con le stesse parole la regola di cui all’art. 1176, co. 2, secondo cui chi esercita professionalmente un’attività deve possedere tutte le capacità tecniche necessarie per svolgere l’incarico; dall’altro il riferimento alle specifiche competenze sembra far ritenere che capacità tecniche eterogenee possano tutte contribuire e tutte essere valide per svolgere il ruolo di amministratore, con l’ulteriore conseguenza che nessuna sarebbe sempre necessaria (se sei perito potrai essere responsabile per mancanza di perizia, se non sei perito non potrai essere considerato responsabile). E allora l’interpretazione più ragionevole della norma sembra quella secondo cui essa dà atto da un lato della natura sui generis dell’attività di amministratore, che per essere svolta al meglio da un singolo individuo richiederebbe una pluralità di conoscenze tra loro assai distanti, e dall’altro che tale attività, proprio perché in una società per azioni difficilmente potrebbe essere esercitata da una sola persona, viene normalmente svolta da un insieme di persone (il consiglio di amministrazione). Quindi l’amministratore è responsabile per tutto ciò che è inerente alle proprie specifiche competenze nonché per l’efficienza e l’adeguatezza complessiva dell’amministrazione. A questo proposito viene dunque in considerazione la norma di cui all’art. 2481, co. 5, c.c. secondo cui gli organi delegati curano che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa. La responsabilità dell’amministratore tende quindi ad avvicinarsi a quella del medico quando lavora in équipe, ove ad una responsabilità per quanto di sua specifica competenza se ne aggiunge un’altra – propria soprattutto del capo-équipe che nel nostro caso può essere accostato all’amministratore delegato – per l’omesso controllo circa l’adeguatezza dell’assetto organizzativo dell’équipe stessa, ossia alla sua funzionalità rispetto allo scopo che si prefigge. L’amministratore delegato dunque può ben non disporre di tutte le competenze necessarie per amministrare: deve essere in grado però di rendersi conto di quelle di cui è privo e curare che le altre persone che siedono nel consiglio di amministrazione possano supplire a tali carenze23. Peraltro, anche gli amministratori che non abbiano una delega non possono considerarsi esenti da responsabilità in caso di inadeguatezza dell’assetto organizzativo: ciò innanzitutto perché il dettato dell’art. 2392 c.c., nel richiedere l’uso di una diligenza corrispondente non solo alle proprie specifiche competenze ma anche adeguata alla natura dell’incarico, consente a che non tutte le competenze si assommino nella stessa persona ma non anche che ogni amministratore possa limitarsi a svolgere il proprio incarico disinteressandosi di quello che fanno gli altri. Inoltre l’art. 2381, co. 3, c.c., stabilisce che il consiglio d’amministrazione debba valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo24. Lo stesso art. 2381, co. 5, c.c., stabilendo che gli organi delegati debbano riferire al consiglio d’amministrazione circa l’adeguatezza degli assetti organizzativi, non può che significare che il consiglio stesso ne debba controllare l’adeguatezza sulla base delle informazioni ricevute25, eventualmente sollecitando gli amministratori delegati ad apportare le modifiche che si ritenessero necessarie; tale interpretazione è rafforzata da un lato dalla circostanza che questa comunicazione deve essere effettuata anche al collegio sindacale (che ha istituzionalmente funzioni di controllo) e dall’altro anche dalla disposizione, già citata, del comma seguente, secondo cui tutti gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato (per cui essi non potranno addurre a propria discolpa il fatto di aver svolto il proprio compito senza sapere dell’inadeguatezza dell’assetto organizzativo). Pertanto, mentre gli amministratori delegati sono obbligati in positivo a realizzare un assetto organizzativo adeguato, gli altri hanno comunque un obbligo di vigilanza su tale assetto e sono dunque tutti solidalmente responsabili in caso di inadempimento (cfr. artt. 1292 e 1294 c.c.)26, anche se nei rapporti interni la loro responsabilità sarà minore rispetto a quella degli amministratori delegati. Gli amministratori sono invece esenti da responsabilità se il danno alla società derivi dall’inosservanza di doveri inerenti ad attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori, a meno che, pur a conoscenza di comportamenti pregiudizievoli per la società, non abbiano fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose (cfr. art. 2392 c.c.).

I profili problematici

Considerato che l’attività di amministrazione è un’attività di tipo intellettuale, che non ricorre alcuna limitazione di ordine normativo e che fra l’art. 1176 c.c. e l’art. 2236 c.c. vi è un rapporto di genere a specie, può ben affermarsi che è possibile applicare la fattispecie di cui all’art. 2236 c.c. anche alla disciplina della responsabilità degli amministratori, tanto più alla luce della nuova giurisprudenza della Cassazione in tema di diligenza degli amministratori volta a valorizzare al massimo il dovere in capo a quella particolare tipologia di professionista che è l’amministratore di società di esercitare uno sforzo diligente e caratterizzato dalla perizia27. Secondo l’art. 2236 c.c., dettato in tema di prestazione svolta dal professionista intellettuale28, se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave. La particolare disciplina in tema di responsabilità per l’esercente una professione intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà29, è il riflesso di una normativa dettata (come si legge nella relazione del Guardasigilli al codice civile n. 917) «di fronte a due opposte esigenze, quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista» stesso30. Deve peraltro ritenersi che la limitazione della responsabilità del professionista intellettuale ai soli casi di dolo o colpa grave nel caso di prestazione che implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà ai sensi dell’art. 2236 c.c., solo apparentemente costituisce una limitazione di responsabilità31, perché si applica alle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà (in quanto trascendono la preparazione media o perché non sono stati ancora studiati a sufficienza, ovvero dibattuti con riguardo ai metodi da adottare), e, come precisato dalla giurisprudenza, tale limitazione di responsabilità attiene esclusivamente all’imperizia32 (ovverosia all’impiego di conoscenze tecniche non adeguate), non all’imprudenza e alla negligenza. Dunque, quello che l’art. 2236 c.c. sanzionerebbe secondo un parametro meno rigoroso, è l’errore tecnico, nelle ipotesi in cui la perizia richiesta dalla prestazione sia superiore al livello medio corrente nell’attività professionale esercitata dal debitore33. In altre parole l’art. 2236 c.c. sembra un corollario dell’art. 1176, co. 2, c.c.: se la perizia che si può pretendere dall’amministratore è solo quella media, egli non potrà essere responsabile nel caso in cui la perizia richiestagli sia superiore alla media. Si comprende dunque – tenendo sempre presente che colpa e diligenza sono due facce della stessa medaglia34, ossia se si è diligenti non si è in colpa e viceversa – come la limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c. finisca con l’incidere più che sull’elemento soggettivo della colpa (poiché la diligenza richiesta è sempre quella media), sul contenuto dell’obbligazione, non potendosi esigere il superamento di problemi tecnici di particolare difficoltà. L’interpretazione meramente letterale dell’art. 2236 c.c. porterebbe infatti a risultati irragionevoli, perché una possibile lettura della norma, avulsa dal resto del contesto normativo in tema di diligenza, sembrerebbe essere nel senso che ci si debba contentare di un minor grado di diligenza quando vi siano da affrontare problemi tecnici di particolare difficoltà, ove anzi sarebbe legittimo attendersi ed esigere una diligenza maggiore. La norma ha invece, come accennato, solo lo scopo di non scoraggiare il professionista che si cimenta in imprese difficili ed obiettivamente rischiose (si pensi, come nell’esempio precedente, ad un medico che esperisce un disperato tentativo, mediante una complessa operazione chirurgica, di salvare una vita umana). La Cassazione interpreta invece l’art. 2236 c.c. come un’eccezione alla regola dettata dall’art. 1176 c.c.35, pur non traendo da questa premessa teorica delle conseguenze applicative: in altre parole non è dato individuare una fattispecie nella quale se la Cassazione anziché fare uso dell’art. 2236 c.c. avesse applicato l’art. 1176 c.c. avrebbe dato ragione al cliente anziché al professionista intellettuale. Non mancano peraltro pronunce in cui l’art. 2236 c.c. non viene ritenuto un’eccezione all’art. 1176 c.c. È stato per esempio affermato che gli artt. 1176 e 2236 c.c. esprimono «l’unitario concetto» secondo cui il grado di diligenza dev’essere valutato con riguardo alla difficoltà della prestazione resa e la colpa è inosservanza della diligenza richiesta36. Anche per l’amministratore di società occorrerà pertanto prestare attenzione a non considerare sempre scusabile il comportamento imperito (in quanto al di sotto dello standard medio di diligenza valutato in astratto) motivando con la scusante del problema tecnico di speciale difficoltà. Come è noto, con la riforma del diritto societario, il modello della società a responsabilità limitata è stato oggetto di integrale revisione. La relativa disciplina, infatti, non è più ricavata dai numerosi rinvii a quella dettata per la società per azioni, ma gode di una propria autonomia37. Ne costituisce una delle tante riprove proprio il nuovo regime della responsabilità patrimoniale degli amministratori, che non è più ancorato all’espresso richiamo all’art. 2392 c.c., ma trova una sia pur sintetica regolamentazione nell’art. 2476 c.c. Tale norma sancisce la responsabilità solidale degli amministratori di società a responsabilità limitata verso la società per i danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società. Nulla è detto dunque relativamente al criterio della diligenza alla luce del quale deve essere valutato il comportamento degli amministratori. Infatti, diversamente che per la società per azioni ove si specifica che i doveri degli amministratori devono essere adempiuti con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze (art. 2392 c.c.), detta precisazione non è riproposta nel dettato dell’art. 2476 c.c. Il silenzio del legislatore ha determinato diverse interpretazioni. Infatti, alcuni autori hanno sostenuto che il parametro di riferimento, nello svolgimento dei compiti di gestione della società, non sia quello della diligenza professionale, ma piuttosto quello della diligenza del mandatario38; altri ritengono invece che la portata generale dei parametri di cui all’art. 2392 c.c. consenta di ritenere i medesimi applicabili anche alla società a responsabilità limitata, pur in mancanza di un espresso rinvio alla disciplina delle società per azioni39. Un secondo orientamento motiva l’applicazione analogica dell’art. 2392 c.c. agli amministratori di società a responsabilità limitata partendo dalla natura contrattuale della responsabilità degli amministratori ed interpretando in modo estensivo la diligenza professionale ex art. 1176, co. 2, c.c., ossia sostenendo che la clausola della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico ricomprenda anche il riferimento alle specifiche competenze possedute dai singoli amministratori40. Alla luce della nuova giurisprudenza della Cassazione in tema di diligenza degli amministratori, deve ritenersi di dover aderire a quest’ultimo orientamento, sia per la natura contrattuale del rapporto che lega gli amministratori alla società a responsabilità limitata sia per l’evidenziata autonomia rispetto alla disciplina delle società per azioni, che, se non impedisce in astratto l’applicazione in via analogica dell’art. 2392 c.c., esige il consueto vaglio circa l’identità di ratio, che la norma non abbia carattere eccezionale e che sussista un vuoto normativo41. La funzione del procedimento analogico è infatti quella di colmare le lacune dell’ordinamento positivo42: con riferimento a quest’ultimo punto, afferma la Cassazione che il ricorso all’analogia è consentito dall’art. 12 delle preleggi solo quando manchi nell’ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria43. Ora, sembra che nel caso di specie questo vuoto normativo non esista44, in quanto la misura della diligenza nell’adempimento di un’obbligazione professionale è già disciplinata dall’art. 1176, co. 2, c.c.; inoltre non sembra neppure ricorrere l’identità di ratio, dato che il riferimento per le società per azioni alle specifiche competenze degli amministratori sembra dettato per l’ipotesi in cui la società sia di dimensioni non piccole, per la cui amministrazione si renda opportuna la presenza di una pluralità di amministratori, ciascuno portatore di una propria specifica competenza. La società a responsabilità limitata invece possiede spesso piccole dimensioni alle quali si associa un amministratore unico, che quindi deve necessariamente essere dotato di tutte le competenze necessarie per svolgere al meglio il proprio lavoro (nulla peraltro naturalmente gli impedirà, per singoli problemi tecnici, di chiedere l’aiuto di un consulente esterno, ma dovrà comunque per lo meno avere le competenze per rendersi conto di avere bisogno di questo aiuto). L’art. 2476 c.c., nel non ribadire il riferimento alle specifiche competenze, vuole dunque responsabilizzare al massimo l’amministratore di società a responsabilità limitata: il nuovo filone giurisprudenziale che individua un’autonoma fonte di responsabilità nella violazione del dovere di amministrare con diligenza non fa altro che rafforzare quest’interpretazione.

Note

1 Per gli amministratori di società per azioni cfr. Cass., 20.1.2011, n. 285; Cass., 11.3.2011, n. 5876; Cass., 27.4.2011, n. 9384; per gli amministratori delle società cooperative Trib. Salerno, sez. I, 3.5.2011.

2 Gli amministratori devono anzitutto conformarsi ai precetti penali, incorrendo in responsabilità, ad esempio, ove procedano ad indebite sottrazioni di fondi o di beni sociali; quanto alle regole di diritto societario, a quelle di ampia portata – quali i divieti di agire in conflitto di interessi (art. 2391 c.c.) e di esercitare un’attività in concorrenza con quella della società in assenza di specifica autorizzazione da parte dell’assemblea (art. 2390 c.c.) – si affiancano disposizioni assai più specifiche, la cui violazione, se foriera di danno, è anch’essa idonea a determinare la responsabilità dell’organo di gestione. Sono i casi, fra gli altri, del precetto che impone agli amministratori di convocare l’assemblea su richiesta della minoranza, del regime dell’acquisto di azioni proprie, del dovere di verificare la congruità della stima dei conferimenti in natura, delle norme in materia di diritto di opzione, nonché dell’art. 2404 quater, co. 2, c.c., in tema di fusione. Le disposizioni che più di frequente vengono in rilievo a livello operativo sono poi gli artt. 2485 e 2486 c.c., i quali stabiliscono che, una volta verificatasi una causa di scioglimento, gli amministratori devono iscriverla senza indugio nel registro delle imprese, con il che sorge l’obbligo di limitare la gestione alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale.

3 Tale responsabilità ricorda inevitabilmente il vizio di legittimità per eccesso di potere di un atto amministrativo; nel nostro caso il fine da perseguire dal quale gli amministratori deviano è l’interesse sociale, nel caso dell’eccesso di potere l’interesse pubblico. Può citarsi anche la sentenza della Suprema Corte 18.9.2009, n. 20106, secondo la quale si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando un sacrificio sproporzionato della controparte contrattuale, al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. È inoltre sempre vivo e attuale il dibattito circa l’alternativa tra directors’ primacy (modello statunitense e italiano) e shareholders’ primacy (modello europeo). Ad ogni modo il principio di divisione del lavoro tra capitale e funzione manageriale si traduce in una necessaria autonomia degli amministratori rispetto ai soci, con una conseguente necessaria loro attribuzione di poteri discrezionali: così ad esempio l’opzione tra strategie di lungo termine (più care a coloro che detengono azioni per finalità imprenditoriali) o di breve termine (preferite dagli investitori per scopi meramente finanziari) sarà ben difficilmente sindacabile ed essenzialmente rimessa agli amministratori (così Angelici, Su mercato finanziario, amministratori, responsabilità, in Riv. dir. comm., 2010, I, 11).

4 Cass., S.U., 11.1.2008, n. 577; Cass., S.U., 29.7.2005, n. 15781.

5 Partendo da queste basi, la giurisprudenza compie un ulteriore importante passo, affermando in via di principio che il professionista risulterà responsabile dell’inadempimento del proprio obbligo di mezzi solo nel caso in cui il cliente riesca a dimostrare che egli non ha fatto tutto il necessario per realizzare lo scopo perseguito dal cliente, cioè in base al confronto tra quanto non si è raggiunto e ciò che invece, osservando le regole tecniche della professione e prestando l’attenzione dovuta, si sarebbe potuto conseguire (cfr. Cass., 18.4.2007, n. 9238, secondo la quale incombe al cliente il quale assume di avere subito un danno, l’onere di provare la difettosa od inadeguata prestazione professionale, l’esistenza del danno ed il rapporto di causalità tra la difettosa od inadeguata prestazione professionale ed il danno).

6 Cfr. Cass., 29.9.2009, n. 18231; Cass., 28.4.2008, n. 10804; Cass., 23.3.2004, n. 5718.

7 Cfr. Montalenti, Il sistema dei controlli interni: profili critici e prospettive, in Riv. dir. comm., 2010, I, 935.

8 La disciplina sanzionatoria di cui agli artt. 2392 ss. c.c. interessa tutti gli amministratori che vengano meno ai propri doveri, senza che rilevi – sotto il profilo dell’individuazione dell’autore dell’illecito – l’esistenza di una nomina assembleare valida ed efficace, essendo al contrario sufficiente che l’inadempiente svolga attività gestoria in via di mero fatto: cfr. Cass., 3.7.1998, n. 6519, in Foro it., 1998, I, 3209; Cass., 6.3.1999, n. 1925 e Cass., 14.9.1999, n. 9795, entrambe in Giur. comm., 2000, II, 167, con nota di Abriani, Dalle nebbie della finzione al nitore della realtà: una svolta nella giurisprudenza civile in tema di amministratore di fatto.

9 La diligenza, anche se priva della sua componente tecnica rappresentata dalla perizia, doveva, allora come oggi, pur sempre essere orientata al fine della «massimizzazione del profitto dell’impresa»: cfr. Marulli-Silvetti, Le società per azioni, II, 1, in Giur. sist. dir. civ. comm. Bigiavi, III ed., Torino, 1996, 583.

10 La formula usata dal primo comma dell’art. 1176 c.c., affonda le sue radici nel diritto romano e viene interpretata nel senso che è necessaria e sufficiente una diligenza nella media, ossia buona ma non eccezionale.

11 Coerentemente, secondo la Cassazione, lo sforzo diligente richiesto al professionista per il corretto adempimento, dovendo appunto essere valutato in relazione all’art. 1176, co. 2, c.c., dovrà estrinsecarsi secondo un modello di condotta che si traduca in un adeguato impegno tecnico, con uso delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari ed utili in relazione alla natura professionale dell’attività esercitata (cfr. ad esempio Cass., 21.5.2008, n. 24791; Cass., 13.4.2007, n. 8826).

12 Cfr. in questo senso Abriani, Le regole di governance delle società per azioni: introduzione alla nuova disciplina, in Abriani-Onesti, La riforma delle società di capitali. Aziendalisti e giuristi a confronto, Atti del convegno di Foggia, 12 e 13 giugno 2003, Milano, 2004, 16.

13 Cass., 4.4.1998, n. 3483, in Giur. it., 1999, I, 324.

14 L’espressione «natura dell’incarico» impone di avere riguardo, ai fini dell’individuazione del grado di diligenza, non solo al generico contenuto dell’attività di gestione della società, ma anche alle funzioni che, in concreto, ciascun amministratore è chiamato ad esercitare in virtù del ruolo rivestito nel consiglio d’amministrazione, tanto che si è parlato di «professionalità graduata»: cfr. in questo senso Ambrosini-Aiello, Società per azioni. Responsabilità degli amministratori, in Giur. comm., 2010, II, 957.

15 Cfr. Zanardo, Delega di funzioni e diligenza degli amministratori nelle società per azioni, Padova, 2010, 165, secondo cui la modifica dell’art. 2392, co. 1, c.c., avrebbe formalizzato il passaggio dalla diligenza del buon padre di famiglia di cui al co. 1 dell’art. 1176 c.c. a quella professionale di cui al co. 2 dell’art. 1176 c.c.

16 Per quanto riguarda i sindaci di società cfr. Cass., 8.2.2005, n. 2538, in Dir. prat. soc., con nota adesiva di Pierantonio, Diligenza e professionalità dei sindaci nell’adempimento del loro incarico, sentenza secondo cui l’attività espletata dai componenti del collegio sindacale di una società di capitali ha carattere professionale e, pertanto, deve essere svolta con la diligenza richiesta dalla natura dell’attività (art. 1176, co. 2, c. c.), da valutare in rapporto alle specifiche caratteristiche di quella esercitata dalla società e dell’oggetto sociale della medesima, sicché é configurabile la responsabilità dei sindaci di una società di assicurazione, i quali abbiano omesso di rilevare l’illegittima formazione ed iscrizione in bilancio di determinate poste del passivo (nella specie, della riserva premi e della riserva sinistri), essendo irrilevante che il relativo controllo possa richiedere la soluzione di questioni di speciale difficoltà. Analoghi obblighi di diligenza professionale sono posti in capo al curatore fallimentare dall’art. 38 l. fall.: cfr. Cass., 13.7.2007, n. 15668, secondo cui, in tema di responsabilità del cessato curatore fallimentare, costituisce illecito l’inosservanza del dovere di diligenza, ex art. 38 l. fall., ove il professionista si sia avvalso di collaboratori non autorizzati né poi dal medesimo controllati, non abbia riferito mensilmente al giudice delegato sull’amministrazione ed abbia omesso di custodire personalmente il libretto bancario del fallimento, a lui intestato; per gli amministratori di società cfr. App. Milano, 7.4.2004, Banca borsa tit. cred., 2006, II, 180, che ritiene debba farsi riferimento al co. 2 dell’art. 1176 c.c., con nota adesiva di Viscusi, Brevi osservazioni in tema di conflitto di interessi, atti ultra vires e professionalità del banchiere.

17 Così Gambino-Santosuosso, Società di capitali, III ed., Torino, 2010, 137. Gli oneri a carico degli amministratori di società per azioni sembrano dunque essere particolarmente stringenti: non basta la diligenza dell’uomo medio, occorre la diligenza del buon amministratore determinata non in astratto ma in funzione della natura dell’incarico e delle specifiche competenze del singolo amministratore. Per determinare la diligenza dovuta si dovranno dunque considerare le dimensioni della società, la tipologia di quest’ultima, e le qualità individuali dell’amministratore che hanno costituito la base per la sua nomina (cfr. Toffoletto, Amministrazione e controlli, in AA.VV., Diritto delle società, Milano, 2006, 226).

18 Cfr. in questo senso Ambrosini- Aiello, Società per azioni. Responsabilità degli amministratori, cit., 953.

19 Zanardo, Delega di funzioni e diligenza degli amministratori nelle società per azioni, Padova, 2010, 164, il quale rileva la natura professionale dell’attività di amministrazione, ossia di gestione di un’impresa sociale, intendendosi per attività professionale quella che, sebbene non richieda il possesso di specifici requisiti di professionalità, presenti tuttavia caratteri di sistematicità, stabilità e continuatività d’esercizio; analogamente Ambrosini-Aiello, Società per azioni. Responsabilità degli amministratori, cit., 953; Cass., 5.12.2008, n. 28819; Trib. Torino, 6.5.2005, in Giur. it., 2005, 1858; App. Milano, 9.12.1994, in Soc., 1995, 926, con nota adesiva di Fattori, Attribuzione della qualifica di amministratore di fatto e conseguente responsabilità.

20Galgano, Diritto commerciale, L’imprenditore, IX ed., Bologna, 2005, 18, secondo cui il concetto di professionalità ha, in rapporto all’imprenditore, un significato più limitato di quello che il medesimo concetto assume nel linguaggio corrente (e, nello stesso codice civile, in rapporto ai «professionisti» intellettuali): «esso non designa uno stato personale o una condizione sociale, ma solo la stabilità e non occasionalità dell’attività esercitata… ciò che conta è l’abitualità, il costante ripetersi dell’attività economica». Conformemente Genovese, La nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990, 20, secondo cui, nell’art. 2082 c.c., il verbo «esercitare» significa già l’applicazione assidua e concreta e il sostantivo «attività» si riferisce all’esplicazione di un lavoro da parte dell’uomo attivo, mentre l’avverbio «professionalmente » di cui all’art. 2082 c.c. e l’aggettivo «professionale » di cui all’art. 2083 c.c. rafforzano l’idea della durata che le parole «attività» ed «esercizio» già esprimono; analogamente anche Bigiavi, La professionalità dell’imprenditore, Padova, 1948, 5; Loffredo, Speculazione immobiliare, professionalità, impresa, in Riv. dir. civ., 2003, II, 555. Cfr. però anche Terranova, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, in Riv. dir. comm., 2008, I, 5, secondo cui l’identificazione tra «professionalità» e «abitualità» è il frutto di un pericoloso equivoco, che ha fatto scambiare il ruolo socio-economico coperto da un determinato individuo (l’appartenenza ad un ceto professionale) con lo strumento attraverso il quale il predetto ruolo poteva essere acquisito (il persistere nel tempo dell’attività dotata dei requisiti previsti dall’art. 2082 c.c.). Lo stesso Autore aggiunge in uno scritto successivo (Terranova, Che cosa resta del piccolo imprenditore?, in Riv. dir. comm., 2010, I, 750) che «professionalità» e «abitualità» non sono concetti equivalenti o addirittura sovrapponibili, ma la prima designa una qualità che, talvolta, si può acquistare anche a prescindere dalla seconda.

21 Così Visentini, La regola della diligenza nel nuovo diritto societario, in Riv. dir. impr., 2004, 386.

22 Anche se la legge non ne fa menzione, non potrà non tenersi conto, nella valutazione del grado di diligenza esercitato, dei mezzi messi a disposizione dell’amministratore per l’espletamento dell’incarico, dovendosi considerare le risorse e le strutture interne della società amministrata: cfr. in questo senso De Crescienzo, La responsabilità degli amministratori, in Cagnasso-Panzani (a cura di), Le nuove s.p.a., Bologna, 2010, 822.

23 L’amministratore che abbia una perizia inadeguata rispetto ad una certa attività non dovrà svolgerla ma dovrà «chiedere aiuto» ad altro componente del consiglio di amministrazione che disponga, in quel campo, della perizia necessaria: cfr. De Crescienzo, La responsabilità degli amministratori, cit., 823, secondo cui quand’anche la perizia non costituisca un autonomo canone per la valutazione della responsabilità di un amministratore, costituisce sicura mancanza di diligenza la circostanza in cui l’amministratore, pur consapevole della propria mancanza di perizia, operi scelte senza adottare rimedi opportuni alle sue carenze cognitive.

24 Cfr. Kutufà, Amministrazione e controllo nel diritto delle società, Adeguatezza degli assetti e responsabilità gestoria, in AA.VV., Amministrazione e controllo nel diritto delle società, Torino, 2010, 710, autrice che rileva che il legislatore della riforma nulla ha detto in ordine al contenuto dell’obbligo di creare assetti adeguati e nessun ausilio è offerto al riguardo dalla legge delega o dalla relazione governativa al d.lgs. n. 6 del 2003; tuttavia dall’analisi della normativa regolamentare concernente ordinamenti settoriali quali quello bancario, assicurativo e delle società quotate emerge che tramite la predisposizione di tali assetti l’ente procedimentalizza la propria organizzazione aziendale, attraverso la predisposizione di sistemi interni che presidiano il rispetto dei principi di corretta amministrazione, creandosi un idoneo e dettagliato organigramma della società che precisi l’attribuzione delle relative competenze (assetto organizzativo); formalizzando procedure atte ad assicurare il corretto ed ordinato svolgimento dell’attività sociale in tutte le fasi ad essa necessarie (assetto amministrativo); predisponendo un efficiente sistema di rilevazione di supervisione contabile (assetto contabile).

25 Cfr. in questo senso Irrera, Assetti organizzativi adeguati e governo delle società di capitali, Milano, 2005, 128; Montalenti, Il sistema dei controlli interni: profili critici e prospettive, in Riv. dir. comm., 2010, I, 937.

26 Cfr. Trib. Salerno, sez. I, 3.5.2011, cit., secondo cui l’art. 2392 c.c., che pone a carico degli amministratori il dovere di vigilare sul generale andamento della gestione societaria, deve essere interpretato nel senso che ciascuno dei componenti del consiglio è tenuto ad attivarsi allo scopo di esercitare un controllo effettivo sull’operato degli altri, sicché l’affidamento di singoli e specifici compiti di amministrazione diretta ad alcuni soltanto degli amministratori non esclude la responsabilità degli altri. Ne consegue che il componente del consiglio di amministrazione di una società, chiamato a rispondere come coobbligato solidale per omissione di vigilanza, non può sottrarsi alla responsabilità adducendo che le operazioni integranti l’illecito sono state poste in essere, con ampia autonomia, da un altro soggetto.

27 Cfr. in questo senso De Crescienzo, La responsabilità degli amministratori, cit., 823.

28 Deve peraltro evidenziarsi che mai la Cassazione ha ritenuto di fare applicazione di tale norma a proposito di un imprenditore o di un amministratore di società.

29 Cfr. ad esempio Cass., 2.2.2005, n. 2042, che, a proposito di una fattispecie di responsabilità medica, ha descritto tale prestazione come quella che abbia a che fare con un caso implicante la soluzione di problemi di difficoltà tale da trascendere la preparazione media o non ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica, incombendo in tal caso al medico l’onere di fornire la relativa prova; cfr. anche Cass., 28.5.2004, n. 10297, in Giust. civ., 2005, I, 1601, secondo cui la prestazione in questione riguarda ipotesi in cui si richiede notevole abilità in quanto esse implicano la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale complessità e comportano un largo margine di rischi.

30 Ne conseguirebbe che solo la colpa grave e cioè quella derivante da errore inescusabile, dalla ignoranza dei principi elementari attinenti all’esercizio di una determinata attività professionale o propri di una data specializzazione, possa rilevare ai fini della responsabilità. Siffatta presunta limitazione di responsabilità, d’altra parte, non conduce a dover ammettere che, accanto al minimo di perizia richiesta, basti pure un minimo di prudenza o di diligenza. Anzi, c’è da riconoscere che, mentre nella prima l’indulgenza del giudizio del magistrato è direttamente proporzionata alle difficoltà del compito, per le altre due forme di colpa ogni giudizio non può che essere improntato a criteri di normale severità.

31 Cfr. in questo senso anche Gazzoni, Manuale di diritto privato, XII ed., Napoli, 2006, 1103, secondo il quale l’art. 2236 c.c. costituisce solo una precisazione e non già una limitazione di responsabilità, perché la colpa grave rapportata alla speciale difficoltà del caso finisce per atteggiarsi come una colpa lieve; Marchio, in Giur. it., 1974, I, 2, 975 secondo cui l’art. 2236 c.c. non stabilisce un determinato criterio astratto meno severo di valutazione della colpa ma esige dal professionista la perizia che può essere obiettivamente richiesta ad un professionista della sua categoria.

32 Cfr. Cass., 21.5.2008, n. 24791; Cass., 19.4.2006, n. 9085, in Corr. giur., 2006, 914, con nota adesiva di Carbone, Responsabilità medica, sentenza secondo la quale la limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell’art. 2236 c.c. si applica nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà e, in ogni caso, tale limitazione di responsabilità attiene esclusivamente all’imperizia, non all’imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell’esecuzione di un intervento o di una terapia medica, provochi un danno per omissione di diligenza.

33 Da una sentenza della Corte costituzionale (la n. 166/1973, che aveva ad oggetto appunto l’art. 2236 c.c.) emerge un certo disagio per giustificare questa apparente disparità di trattamento: il differente trattamento giuridico riservato al professionista la cui prestazione d’opera implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, e ad ogni altro agente che non si trovi nella stessa situazione, non può dirsi collegato puramente e semplicemente a condizioni (del soggetto) personali o sociali. La deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa ha in sé una sua adeguata ragione di essere nella volontà del legislatore di non dissuadere il professionista dall’affrontare un problema particolarmente complesso e poi risulta ben contenuta, in quanto è operante, ed in modo restrittivo, in tema di perizia e questa presenta contenuto e limiti circoscritti.

34 «La colpa è inosservanza della diligenza richiesta»: così si esprime Cass., 28.5.2004, n. 10297.

35 Cfr. Cass., 22.4.2005, n. 8546, in tema di responsabilità del prestatore di opera intellettuale, sentenza secondo la quale, poiché l’art. 1176 c. c. fa obbligo al professionista di usare, nell’adempimento delle obbligazioni inerenti la sua attività professionale, la diligenza del buon padre di famiglia, il medesimo risponde normalmente per colpa lieve; nella sola ipotesi che la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, l’art. 2236 cod. civ. prevede un’attenuazione di responsabilità, nel senso che il professionista è tenuto al risarcimento del danno unicamente per dolo o colpa grave; nello stesso senso Cass., 4.11.2002, n. 15404, in Nuova giur. civ. comm., 2004, I, 120, con nota di Gelli, Responsabilità medica e distribuzione dell’onere probatorio, sentenza secondo cui, ai sensi dell’art. 1176 c.c., che regola normalmente la responsabilità del professionista, il prestatore di opera intellettuale, obbligato ad osservare nell’adempimento dell’obbligazione la diligenza del buon padre di famiglia, risponde anche per colpa lieve, mentre, soltanto qualora la prestazione implichi la soluzione di problemi di particolare difficoltà, il professionista è tenuto al risarcimento dei danni unicamente per dolo o colpa grave, essendo in tale ipotesi prevista dall’art. 2236 c.c. – in deroga alle norme generali – l’attenuazione della responsabilità.

36 Cass., 28.5.2004, n. 10297.

37 Cfr. Galgano, Il nuovo diritto societario, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., II ed., I, Padova, 2004, 483: «La società a responsabilità limitata era, nell’originario disegno del codice civile, una sorta di società per azioni in piccolo... Dalla riforma del 2003 è emersa una diversa concezione di questo tipo di società, che si presta ad essere piuttosto considerato come un tipo intermedio fra le società di persone e la società per azioni». In effetti, la società a responsabilità limitata, secondo quanto afferma la relazione che accompagna il d.lgs. 17.1.2003, n. 6, di attuazione della delega, cessa di presentarsi come una piccola società per azioni e diviene una società personale che, pur godendo del beneficio della responsabilità limitata, è modellata sul principio della rilevanza centrale del socio e dei rapporti contrattuali tra i soci. In realtà, almeno per quanto concerne il sistema di amministrazione, viene riconosciuta un’autonomia statutaria così ampia che la nuova società a responsabilità limitata, più che collocarsi in una qualsiasi posizione intermedia tra società di persone e società per azioni, getta un ponte tra i due modelli consentendo quasi tutte le soluzioni possibili.

38 Così Lambertini, La società a responsabilità limitata. Organizzazione, governo e finanziamento, Padova, 2005, 238.

39 Cfr. in questo senso Ambrosini, Commento all’art. 2476 c.c., in Niccolini-Stagno d’Alcontres (a cura di), Società di capitali: commentario, Napoli, 2004, 1591; Pallaora, Profili della responsabilità degli amministratori di s.r.l. tra vecchia e nuova disciplina, in Giur. comm., 2009, II, 702.

40 Cfr. in questo senso De Angelis, Amministrazione e controllo nelle società a responsabilità limitata, in Riv. soc., 2003, 480.

41 1 Cfr. ad esempio così Gazzoni, Manuale di diritto privato, XIV ed., Napoli, 2009, 49.

42 Cfr. in questo senso già Bobbio, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1939, 103; Lipari, Le fonti del diritto, Milano, 2008, 216.

43 Cfr. ad esempio Cass., 6.7.2002, n. 9852: nella specie, il ricorrente aveva dedotto la violazione dell’art. 12 delle preleggi, sostenendo l’esistenza di una lacuna normativa in materia di diritto del lavoratore, dipendente da impresa in liquidazione, a conservare la sede di lavoro, ed aveva invocato l’applicazione analogica dell’art. 2103 c.c., ma la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso il diritto del lavoratore, già dipendente da una impresa di assicurazioni posta in liquidazione coatta amministrativa e poi assunto dalla impresa cessionaria del portafoglio di quest’ultima, a conservare la precedente sede di lavoro, precisando che in tale materia non sussiste alcuna lacuna normativa ma solo il difetto della tutela invocata dal lavoratore.

44 Non sempre è semplice comprendere se effettivamente esista il vuoto normativo: infatti può ben accadere che il legislatore volutamente non abbia disciplinato una certa fattispecie astratta, ad esempio per non accordare la stessa tutela pure riconosciuta a fattispecie (apparentemente) simili. Così, in una decisione (Cass., 13.8.2008, n. 21563) la Cassazione ha ritenuto che non fosse applicabile in via analogica al rapporto tra amministratori e società – nell’ipotesi di rinuncia all’incarico da parte dell’amministratore – la norma di cui all’art. 1727 c.c., che obbliga il mandatario a risarcire i danni provocati al mandante da una sua rinuncia al mandato senza giusta causa o l’art. 2383 c.c., che obbliga la società che abbia revocato un amministratore senza giusta causa a risarcire il danno subito da quest’ultimo. È stato infatti stabilito che anche a voler equiparare il rapporto tra società e amministratore al contratto di mandato, l’applicazione delle relative norme per analogia potrebbe avvenire, in base al principio ubi lex non dixit non voluit, solo in assenza di disposizioni dell’ordinamento societario per la fattispecie data, mentre, al contrario, deve rilevarsi che, in materia, vi è una disposizione chiara e completa, ossia l’art. 2385 c.c., che nulla stabilisce in ordine alle ragioni del recesso, laddove la ricorrenza di una giusta causa è prevista nella diversa e nient’affatto speculare ipotesi della revoca dell’amministratore da parte della società.

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