NEBO, Monte

Enciclopedia dell' Arte Antica (1995)

NEBO, Monte (Ναϐαū, Nabo o Nebo; ebr. Nĕbo)

M. Piccirillo

) Monte della Transgiordania, uno dei più alti (806 m) della catena Abarim, a E del Mar Morto, di fronte a Gerusalemme.

Sorgenti d'acqua perenne hanno permesso la continuità degli insediamenti sulla montagna, attestati dall'epoca preistorica fino ai nostri giorni. Per le epoche più antiche (fino al II millennio a.C.), oltre ai manufatti silicei, si conservano circoli megalitici, dolmen, menhir e tombe. Per il I millennio a.C., ceramica dell'Età del Ferro è stata recuperata tra le rovine della fortezza di el-Mešhad, a guardia dello wādī 'Ayūn Musa. La fortezza di el-Mešhad proteggeva in epoca romano-bizantina la strada che univa la città di Livias nella valle del Giordano, ai piedi del monte N., con la città di Esbous sull'altopiano, stazione della Via Nova Traiana.

La montagna di N. è legata, nella tradizione biblica, alla morte di Mosè (Deut., 34); tale identificazione è già attestata nell’Onomastikòn (136,6) di Eusebio. I cristiani costruirono sulla cima di Sīyagha, la più avanzata verso la valle, una chiesa-memoriale in onore di Mosè.

La ricerca archeologica si è finora interessata soprattutto dei monumenti d'epoca bizantina sulla cima di Sīyagha, delle rovine di al-Mukhayyat, e della valle di 'Ayūn Musa. L'esplorazione condotta dagli archeologi dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, iniziata nel 1933, continua tuttora.

L'identificazione delle rovine sulla cima di Sīyagha con il Memoriale di Mosè è stata resa possibile da un passo dell'Itinerarium Egeriae (capp. X-XII); l'origine del santuario è narrata nella Vita Petri, il vescovo ibero (Georgia) vissuto nel V secolo.

Nel VI sec. i santuarî della montagna sono ricordati da Teodosio (530) che indica nelle vicinanze di Livias «l'acqua che (Mosè) fece sgorgare dalla roccia, il luogo della morte di Mosè e le terme di Mosè dove si curano i lebbrosi» (De situ Terrae Sanctae, 19). L'anonimo Pellegrino di Piacenza (570) scrive che «dal Giordano al luogo dove Mosè morì ci sono 8 miglia» (Itinerarium, X, 13).

La basilica primitiva, che sorgeva sul punto più alto della cima settentrionale di Sīyagha, era costruita con grandi blocchi di pietra calcarea, di forma quadrangolare all'esterno, e a triconca all'interno (la cella tricora), decorata con colonne e capitelli scolpiti con sobria eleganza. Il pavimento fu mosaicato al tempo dell'abate Alessio. Con le iscrizioni, restano alcuni lacerti del programma decorativo a croce nei pressi del sỳnthronon dell'abside assiale. A O della cella tricora, a un livello più basso, c'era il vestibolo, mosaicato a grandi tessere bianche, affiancato da due piccoli vani anch'essi mosaicati. Una grande croce a treccia decorava il vano meridionale che nella basilica posteriore sarebbe stato occupato dalla memoria. Due cappelle funerarie, costruite su un gradone della montagna più basso di ι m, affiancavano a Ν e a S il santuario. Sotto il pavimento mosaicato di questi ambienti primitivi sono state ritrovate 6 tombe a fossa in muratura costruite sulla roccia della montagna. Nell'area della triconca una delle tombe tagliava un muro con conci a bozza di un edificio preesistente che proseguiva verso O, muro che ha fatto ipotizzare un monumento pre-cristiano sulla cima di Sīyagha.

Un porticato o corridoio mosaicato, che correva sul lato Ν del probabile cortile antistante la chiesa, conduceva tramite una breve scala al diakonikòn-battistero del santuario, costruito sul gradone settentrionale tra la cappella funeraria e un ambiente del monastero. Il fonte battesimale, in muratura e a forma di croce, era coperto da un ciborio e occupava il centro dell'area orientale dell'aula unica della cappella (12,68 x 6,80 m di larghezza massima). Il programma tripartito del mosaico pavimentale (un pannello a croci fiorite in relazione con la scala, il tappeto con le scene di caccia e pastorizia, il motivo a squame che inquadra il fonte) era stato messo in opera e terminato nell'agosto del 530 (425 della Provincia Arabia) da un'equipe di mosaicisti composta da Soelos, Kaiomos ed Elia, al tempo del vescovo Elia, dell'abate Elia e dei consoli Lampadio e Oreste.

Nella seconda metà del VI sec., forse dopo un crollo del santuario dovuto a una forte scossa tellurica, i monaci decisero di ristrutturare il monumento. Il primo lotto dei lavori, che comprendeva la basilica, il diakonikòn a Ν e la cappella del battistero a S, fu terminato nel 597/98 (490 della Provincia) al tempo del vescovo Sergio e dell'abate Martirio. La triconca, con la chiusura delle absidi laterali, divenne il presbiterio della nuova basilica colonnata a tre navate. L'edificio ebbe un nartece nella facciata con scala di accesso. Del programma decorativo del mosaico pavimentale rimangono alcuni resti della navata centrale e gran parte della decorazione a motivi geometrici delle navate laterali e degli intercolumni. Sulla testata orientale della navata S venne costruita la memoria di Mosè sovrapposta al mosaico. Abbondanti frammenti di mosaico parietale, recuperati all'esterno della cella tricora, attestano che almeno la semicalotta dell'abside centrale era mosaicata.

Le nuove cappelle furono costruite dopo aver ricoperto gli ambienti all'esterno del santuario, pareggiando il terreno a livello del pavimento della basilica. La stretta e lunga cappella Ν (23,65 x 6,80 m) fu divisa in due ambienti da un doppio gradino. La nuova cappella battesimale fu costruita sull'area della cappella funeraria preesistente che già precedentemente, nella prima metà del secolo, era stata obliterata da una sala mosaicata con un reticolo a fiori. Qualche anno dopo, al tempo del vescovo Leonzio e dell'abate Teodoro, il rinnovamento fu completato con l'aggiunta sulla parete meridionale di una cappella dedicata alla Theotokos.

Il monastero. - Parallelamente allo sviluppo edilizio del santuario, anche il monastero circostante subì delle trasformazioni.

È possibile che esso si sia sviluppato da un nucleo iniziale di celle e ambienti comunitari sorti intorno al primitivo santuario. Ne facevano parte gli edifici isolati semirupestri sulle pendici della montagna, nei quali i monaci potevano condurre una vita semi-eremitica sul tipo della laura palestinese nel deserto di Giudea. Raggiunse la sua massima estensione nel corso del VI sec., con ali di edifìci costruiti a diverse quote. Verso la fine dello stesso secolo, probabilmente in concomitanza con il terremoto che portò alla ricostruzione del santuario, iniziò il progressivo abbandono dell'ala orientale, e di tutti gli edifìci isolati sulle pendici della montagna. Contemporaneamente, il monastero si estese verso O con la costruzione di una nuova ala che poggiava su un lungo ambiente semi-interrato ad archi. Non molto tempo dopo la costruzione, anche quest'ala fu abbandonata e usata successivamente come discarica. Le abitazioni dei monaci si ridussero alle celle dell'atrio e a quelle a S della basilica. Da un'iscrizione della chiesa di S. Stefano a Umm ar-Rasās/Kastron Mefaa, sappiamo che il monastero era ancora attivo nell'VIII secolo. Dall'esame dei reperti (monete, ceramica, iscrizioni) si deduce che fu abbandonato nel corso del IX sec., con occupazioni sporadiche in epoca successiva. Tra le iscrizioni è da ricordare un'epigrafe incisa su marmo in lingua samaritana.

Sulla cima di Sīyagha il monastero del N. doveva apparire come una cittadella fortificata. Alla costruzione e ai successivi restauri parteciparono i fedeli e i vescovi della diocesi di Madaba e le autorità civili e militari della Provincia.

Il villaggio di N. (Khirbet al-Mukhayyat). - Sulla cima meridionale della montagna sono visibili i resti di un antico abitato: acropoli, muro di cinta, abitazioni sulle pendici occidentali dello wādī 'Afrit e una necropoli a Ν del tell. Dallo studio dei corredi funerarî delle tombe e della ceramica di superficie risulta che il tell fu abitato almeno dal III millennio a.C. fino all'epoca bizantino-araba. Eusebio identifica la località con la biblica città di N. (Num., 32, 38; Is., 15, 2; 1er, 48, 21), descrivendola come un luogo deserto 8 miglia a S di Esbous (On., 136, 14). Il biografo di Pietro l'Ibero conosce con lo stesso nome un villaggio sulla montagna di N. dove abitava il pastore che in visione vide la tomba di Mosè, origine del santuario cristiano sulla cima di Sīyagha (Vita Petri, p. 85).

Del villaggio d'epoca bizantina finora si conoscono tre chiese, due cappelle sovrapposte e un piccolo monastero. La chiesa di S. Giorgio, a pianta quadrangolare di forma irregolare (12,10 x 12,50 m) e situata sul punto più alto dell'acropoli, occupa il settore orientale del piccolo monastero che la circonda su tre lati. Il presbiterio rialzato absidato è affiancato da due ambienti di servizio. Al momento dello scavo, erano ancora in situ le basi dell'altare, la sottostante custodia del reliquiario e la base del pulpito nella navata meridionale. La decorazione musiva fu eseguita, al tempo del vescovo Elia e del generale Flavio Belisario (536), dai mosaicisti Nahoum, Kiriakos e Toma. Tra i numerosi motivi figurativi si notano alcuni temi di origine classica, come i busti delle Stagioni, una maschera fogliata, la personificazione della Terra, scene di caccia, vendemmia e mietitura.

La chiesa dei Ss. Martiri Lot e Procopio (16,25 x 8,65 m) sorge sulla parte piana dell'acropoli e occupava il settore SE del piccolo monastero di cui faceva parte. È a tre navate con due ambienti di servizio ai lati del bèma rialzato absidato. Il pavimento mosaicato, tra i meglio conservati della regione, risale al tempo del vescovo Giovanni (in sede nel 562). Un pannello rettangolare, chiuso in una treccia con due pecore ai lati di un alberello carico di frutti, decorava il bèma. Il tappeto della navata centrale è suddiviso in due riquadri chiusi in una doppia fascia a nastro, con pennacchi lungo i bordi. Scene di pastorizia, caccia e vendemmia si alternavano nei girali del pannello orientale formati da quattro tralci di vite con partenza dagli angoli. Il secondo pannello quadrangolare è decorato da quattro alberelli tra i quali sono raffigurate coppie di animali affrontati. Sul lato È due tori si affrontano ai lati di un altare, scena commentata dalla citazione del Salmo, 51, 25b. I pannelli degli intercolumnî recano motivi nilotici; notevoli sono un battelliere e un pescatore ai lati di una chiesa.

La chiesa di Amos e Kasiseos, che prende il nome da due benefattori, misura 18 x 10,50 m, e sorge ai margini dell'abitato sulle pendici dello wādī 'Afrit. Dall'indagine archeologica ancora in corso, essa sembra essere l'edificio sacro più antico del villaggio, costruito nella seconda metà del V secolo. Sul presbiterio absidato, con il sỳnthronon e le basi dell'altare, restano anche le basi dell'ambone. Il pavimento della chiesa è lastricato in pietra. La chiesa è affiancata a Ν da una cappella con un doppio pavimento mosaicato: la cappella inferiore con presbiterio quadrangolare fu costruita e mosaicata al tempo del vescovo Fido, probabilmente in sede alla fine del V secolo. Il programma compositivo basato sul doppio tralcio di vite con partenza da un cantaro ansato, a formare registri sovrapposti di girali, si ripete nel presbiterio e nell'aula della cappella. I girali sono decorati con motivi figurativi improntati a scene di caccia e di vendemmia. Un ambiente a O della cappella, in relazione con la vera di una cisterna sottostante, era stato mosaicato a cura del diacono Kaiomos.

Al tempo del vescovo Giovanni (in sede nel 562), la cappella fu ricostruita a una quota più alta di 1 m con una pianta absidata allargata di 1 m verso N. Il nuovo mosaico fu quasi sicuramente messo in opera dalla stessa équipe di mosaicisti della chiesa sull'acropoli. Un meandro di svastiche e quadrati decorato con volatili chiude il tappeto sui lati. Il centro di ogni lato recava il ritratto di un benefattore. Resta un busto di donna sul lato E e un busto di ecclesiastico sul lato N. Un'iscrizione dedicatoria è impaginata all'interno di un timpano con conchiglia sorretto da quattro colonnine, con l'aggiunta di volatili sull'acroterio, di due pavoni ai lati e di due candelieri accesi tra le colonnine. Scene di caccia, pastorizia e agricoltura, cesti, fiori e pesci accompagnano, nel tappeto centrale, la personificazione della Terra tra due karpophòroi.

Il complesso monastico, conosciuto dai beduini con il nome di el-Kenise («la Chiesa»), sorge stille pendici orientali dello wādī 'Afrit, di fronte al villaggio. È composto, nel suo nucleo centrale, da tre vani intercomunicanti che fanno capo alla chiesa che occupa il punto più alto dei gradoni della montagna degradanti verso N. Una cripta funeraria si apriva al centro dell'aula unica originariamente mosaicata. Resta solo un lacerto del presbiterio absidato con due grappoli d'uva che escono da un vaso ansato.

Le chiese dello wādī 'Ayūn Musa. - Rovine di monasteri sono visibili nei pressi delle sorgenti di 'Ayn Ğedide, e di 'Ayn Kenise a S della montagna, e di 'Ayn Ğemmale a O di 'Ayūn Musa. L'esplorazione archeologica iniziata nel 1984 ha finora riportato alla luce le chiese di due piccoli complessi ecclesiastici.

Il monastero di Kaianos sorge in mezzo alle vigne irrigate dall'acqua delle fonti. La chiesa, che ne occupa il settore N, fu costruita al tempo del vescovo Ciro, agli inizî del VI sec., e comprende due tombe a fossa in muratura. L'edificio è a tre navate con presbiterio rialzato quadrangolare. Motivi figurativi di caccia, vendemmia e pastorizia decoravano i quattro girali della zona occidentale della navata centrale e i girali d'acanto della fascia. Diverse iscrizioni in greco ricordano i nomi del clero, dei monaci e dei benefattori. Il contenuto dell'iscrizione dedicatoria del presbiterio era ripetuto in un'iscrizione in aramaico cristiano-palestinese, tra le più antiche finora attestate nell'area. Nella seconda metà del VI sec. la chiesa fu ricostruita. Il programma decorativo del nuovo mosaico fu impostato su motivi del repertorio geometrico, con l'eccezione di un benefattore a cavallo che interrompeva il reticolo della navatella N, e dei ritratti di tre benefattori in un pannello della navata centrale sull'ingresso della chiesa. Figurativamente interessante è il cammelliere di cui sono andati distrutti la testa e il nome. Vestito di un perizoma e con un mantello gettato sulla spalla, con l'arco a tracolla e una grande spada al fianco, si adatta alla descrizione che Ammiano Marcellino e Girolamo danno dei soldati ausiliarî arabi dell'esercito romano. La chiesa fu abbandonata nella prima metà del VII secolo.

La chiesa del diacono Tommaso sorge lungo il sentiero che ancora unisce le Fonti alla strada romana: occupa il settore Ν del piccolo complesso quadrangolare, ed è solidamente costruita con blocchi lavorati a bozza. Il presbiterio quadrangolare rialzato era chiuso da una balaustra con plutei e pilastrini scolpiti. Una seconda balaustra fu aggiunta in un secondo tempo nella navata meridionale di fronte all'ambiente di servizio S, forse destinato a custodia per le reliquie. L'edificio ha conservato una delle opere più genuine dei mosaicisti di Madaba. Un pannello quadrangolare chiuso in una treccia decorava l'area del bèma. Tra quattro alberelli carichi di frutti, posti su due piani sovrapposti, sono raffigurati un leone e uno zebù affrontati, con un agnello al centro della composizione. L'agnello venne a trovarsi sotto l'altare e fu coperto dalla custodia del reliquiario quando la chiesa fu provvista di un altare fisso con colonnine. Un tappeto continuo chiuso in una fascia di motivi acantiformi decora la navata centrale. Nei girali, con le quattro maschere fogliate degli angoli, sono raffigurati volatili e frutti. Sul fondo bianco del tappeto, due tralci di vite con uscita da un cantaro formano otto serie di tre girali decorati con scene di pastorizia, caccia, vendemmia e raccolta dei frutti. Il reticolo geometrico della navata S è interrotto da un medaglione nel quale è raffigurata un'aquila ad ali spiegate stante sugli artigli. Le lettere A e Ω aggiunte sui lati all'altezza della testa danno un carattere cristologico a un motivo di repertorio piuttosto comune.

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