Motivazione del provvedimento amministrativo

Diritto on line (2018)

Antonio Cassatella

Abstract

L’istituto viene esaminato a partire da una ricostruzione di carattere storico e comparato, che ne evidenzia la diffusione nella maggior parte degli ordinamenti giuridici. Sono poi analizzate le vicende che hanno portato alla progressiva emersione del dovere di motivazione nell’ordinamento italiano, enucleando anche i profili di ambiguità del fenomeno e le problematiche teorico-applicative sottese ad esso, con riguardo al dibattito circa l’irrilevanza della motivazione nel sindacato di legittimità. Vengono quindi individuati i fondamenti teorici della codificazione dell’istituto nell’art. 3 della l. n. 241/1990, intesa come norma che conferisce un’autonoma rilevanza procedimentale e pre-processuale alla motivazione dei provvedimenti amministrativi, esaminandone i profili strutturali e funzionali, oltre che le problematiche interpretative connesse.

Profili storico-comparatistici

La progressiva emersione del dovere di motivare i provvedimenti amministrativi – al pari di altri atti eteronomi come la sentenza e la stessa legge – è il riflesso del passaggio storico e culturale da sistemi giuridici in cui l’autorità sovrana non doveva fornire alcuna giustificazione del proprio operato a sistemi in cui la decisione va giustificata, dimostrando la sua compatibilità con i parametri normativi che conformano, di volta in volta, l’esercizio del potere.

Il dovere irrelato di motivazione va dunque riconnesso alla specifica posizione istituzionale di garanzia che ciascun organismo pubblico assume rispetto all’attuazione dei valori ed interessi che la norma attributiva del potere affida alle sue cure, imponendo di assumere la responsabilità della propria azione in rapporto al raggiungimento di risultati compatibili con le finalità della norma stessa (Cassatella, A., Il dovere di motivazione nell’attività amministrativa, Padova, 2013, 275 ss.).

Questi risultati si fondano sull’evoluzione dell’istituto nei principali sistemi giuridici occidentali.

Dopo una prima fase di elaborazione pretoria, avviata alla metà del XIX sec. sulla base della frammentaria disciplina legale dell’epoca, il dovere di motivazione è stato introdotto in tutte le leggi generali dell’azione amministrativa: § 58 AVG del 1925, in Austria; §§ 553-557 APA del 1946, negli Stati Uniti; art. 43 della legge 17.7.1958, in Spagna; § 39 VwVfG del 1976, in Germania; art. 1 della legge 11.7.1979 79-587, in Francia; art. 3, l. 7.8.1990, n. 241, in Italia.

La sintesi di questa tendenza è attualmente rappresentata dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che annovera, fra gli elementi costitutivi del principio di buona amministrazione, il dovere di motivare le singole decisioni, nel solco di quanto previsto fin dal Trattato di Roma con riferimento a tutti gli atti delle istituzioni europee (cfr. ora l’art. 296 TFUE, che estende l’operatività del dovere a regolamenti e direttive).

Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, l’istituto è elevato a principio comune alle tradizioni costituzionali degli Stati membri, nella parte in cui la sua conoscenza è strumentale rispetto all’effettività della tutela dei diritti riconosciuti dall’Unione, ove lesi da decisioni sfavorevoli (C. giust., 15.10.1987, C-222/86, Unectef c. G. Heylens e altri).

A simili conclusioni è giunta anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che individua nel dovere di motivazione un corollario del principio del giusto procedimento previsto dall’art. 6 CEDU, con riferimento ad atti che incidono sull’esercizio dei diritti di libertà tutelati dalla Convenzione (C. eur. dir. uomo, 20.10.2009, Lombardi Vallauri c. Italia).

Il fenomeno non si esaurisce, peraltro, in ambito europeo, avendo ormai assunto rilevanza globale. L’istituto si va diffondendo pure in ordinamenti extra-europei (Sud Corea, Giappone, Cina) e negli ordinamenti sezionali in cui operano organismi quali WTO, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Unesco e simili.

L’analisi comparata permette di isolare alcune caratteristiche della diffusione globale del dovere di motivazione, così da poter individuare, in via induttiva, un ideal-tipo comune alle principali tradizioni giuridiche, contraddistinto da specifici tratti strutturali e funzionali.

Sul piano strutturale, la motivazione va intesa sia come un momento dell’attività che come un elemento dell’atto.

Quale momento dell’attività, essa consiste nella individuazione dei presupposti fattuali (tatsächlichen Gründe, hechos) e delle ragioni giuridiche (rechtlichen Gründe, grounds, motifs, fundamientos de derechos) della decisione formata all’interno del procedimento, in vista della produzione dei suoi effetti giuridici e della realizzazione delle sue finalità pratiche.

L’adempimento del dovere di motivazione implica che tali elementi vengano rappresentati e sintetizzati nel testo del provvedimento amministrativo che incorpora la decisione: la forma della motivazione segue quella del provvedimento, risultando quasi sempre scritta, ad eccezione delle rare ipotesi di atti emanati in forma orale. Quale elemento dell’atto, la motivazione è strumentale ad indicare i fattori che hanno determinato la decisione ed a circoscrivere, in rapporto ad essi, gli stessi effetti riconducibili all’esercizio di una data funzione.

Sul piano funzionale, la motivazione è strumentale alla soddisfazione di una pluralità di valori, riconducibili al pluralismo istituzionale che connota tutti gli ordinamenti contemporanei.

Dal punto di vista dell’amministrazione, essa opera come un fattore di responsabilizzazione dell’organo decidente, in rapporto alla cornice normativa di riferimento ed agli interessi sottesi alla sua attuazione (funzione di responsibility, da ricondurre alla posizione di responsabilità funzionale dell’apparato amministrativo, nel nostro ordinamento riconosciuta dall’art. 97, co. 3, Cost., anche in rapporto ai compiti assegnati all’amministrazione ai sensi dell’art. 3, co. 2, Cost.).

A tale funzione può aggiungersi quella di razionalizzazione dell’attività svolta nel corso del procedimento, a garanzia della ragionevolezza, imparzialità e proporzionalità delle decisioni, e, quindi, della legalità sostanziale del provvedimento (funzione di razionalizzazione, da ricondurre alle esigenze di razionalità e non arbitrarietà del potere discrezionale, riconosciuta dall’art. 97, co. 2, Cost.).

Per il destinatario diretto o indiretto, essa è invece strumentale alla comprensione del percorso decisionale dell’autorità, in vista della possibile impugnazione del provvedimento sfavorevole (funzione di garanzia pre-processuale, da ricondurre alle esigenze di tutela nei confronti dell’azione amministrativa illegittima o illecita e di piena conoscenza dell’operato della pubblica autorità, riconosciuta dagli artt. 24 e 103 Cost.).

Nell’ottica del giudice, la motivazione rappresenta l’indice testuale della razionalità estrinseca della decisione, utilizzabile ai fini del suo sindacato (funzione di garanzia processuale, da ricondurre alle caratteristiche del controllo giudiziale delle decisioni amministrative, riconosciuta dagli artt. 24 e 113 Cost.).

Nella prospettiva degli organi di vertice politico-amministrativo, la motivazione permette il controllo e la valutazione dell’attività degli organi subordinati, rispetto agli obiettivi prestabiliti da norme ed atti di programmazione (funzione di accountability interna, tipica dei rapporti fra “principale” ed “agente” che connotano l’organizzazione pubblica, riconosciuta dagli artt. 54, 95, 98 Cost.).

Per gli eventuali terzi non destinatari, la motivazione costituisce un fattore di pubblicità e trasparenza della decisione, in vista di ogni più ampio controllo dell’attività dei pubblici poteri, specie rispetto a scelte che possono incidere sul benessere collettivo (funzione di accountability esterna, talvolta intesa come funzione di legittimazione sociale, da ricondurre ad un’esigenza di controllo democratico dell’azione amministrativa, riconosciuta dagli artt. 1, 2, 21, 54 Cost.).

I restanti profili dell’istituto sono invece caratterizzati da una serie di notevoli divergenze, connesse alla disciplina stabilita nei singoli sistemi giuridici.

Basti menzionare le questioni del rapporto fra vizi della motivazione e della decisione, della rilevanza processuale dell’istituto, della sua estensione ad atti generali e normativi, discusse nella maggior parte degli ordinamenti con soluzioni che divergono in rapporto a quanto prevede il diritto positivo ed agli indirizzi interpretativi della giurisprudenza.

Il dovere di motivazione nell’ordinamento italiano

Anche in Italia l’istituto è contraddistinto da una chiara matrice pretoria, per effetto degli orientamenti giurisprudenziali che hanno imposto il dovere di motivare determinate categorie di provvedimenti a partire di primi decenni del secolo scorso (Bergonzini, G., La motivazione degli atti amministrativi, Vicenza, 1979, 4 ss.).

Già nel caso Vastarini Cresi, alla fine del XIX sec., il Consiglio di Stato aveva precisato come il vizio di eccesso di potere si potesse cogliere in rapporto alla logicità e razionalità dei motivi dell’atto, lasciando peraltro aperta la questione del modo attraverso cui tali motivi dovevano essere esternati e conosciuti dal destinatario e dallo stesso giudice (Cons. St., IV, 7.1.1892, n. 3).

Alcuni anni dopo, fu sottolineato come i provvedimenti dovessero essere motivati in forma scritta sulla base del principio desumibile in via analogica dall’art. 3, l. 20.3.1865, n. 2248, all. E, (inerente al dovere di motivazione dei decreti assunti al termine dei procedimenti di ricorso), o «[ponendo] mente all’indole del procedimento, alla natura degli interessi in conflitto e dei rapporti giuridici [che l’atto] chiude e deve regolare» (Con. St., IV, 17.5.1907, n. 178).

Le esigenze pratiche connesse alla rilevanza strumentale della motivazione nell’ambito del sindacato di legittimità hanno favorito la progressiva diffusione del dovere di motivare nel sistema giuridico italiano, anche in assenza di una disciplina generale di riferimento: nelle originarie trattazioni della materia si faceva riferimento agli atti ablatori, ai dinieghi, alle sanzioni, ai provvedimenti di secondo grado e simili.

Sulla base della prassi giurisprudenziale, la motivazione venne icasticamente definita come «l’esposizione delle considerazioni di ordine giuridico, tecnico ed amministrativo, che giustificano l’emanazione del provvedimento e in base alle quali la volontà dell’amministrazione si è determinata» (Zanobini, G., Corso di diritto amministrativo. I. Principi generali, Milano, VIII ed., 1958, 279 ss.).

Questa sintesi esprimeva, a ben guardare, un’esigenza di razionalizzazione di un fenomeno connotato da perduranti ambiguità.

Il criterio empirico della “natura” del procedimento e dell’atto risultava alquanto incerto, al punto di giustificare soluzioni operative di segno opposto, sia con riferimento all’estensione dell’ambito applicativo dell’istituto che al livello di sufficienza ed adeguatezza della motivazione (ne dava già ampio conto Iaccarino, C.M., Studi sulla motivazione, Roma, 1933, 40 ss.).

Se tali difficoltà erano superabili mediante la codificazione dell’istituto o il consolidamento degli orientamenti giurisprudenziali, più profondi erano i rilievi inerenti alla rilevanza processuale della motivazione, e, dunque, alla stessa utilità dell’elaborazione pretoria.

Nell’ordinamento italiano si è presto radicata l’idea che il sindacato di legittimità debba concentrarsi sull’analisi del materiale istruttorio acquisito in giudizio, per valutare la compatibilità dell’attività decisoria rispetto alla fattispecie prevista dalla norma attributiva del potere (Cammeo, F., Gli atti amministrativi e l’obbligo di motivazione, in Giur. It., III, 1908, 253 ss.).

Alla fine degli anni settanta, tale esigenza fu ritenuta espressiva di una tendenziale «dequotazione» della motivazione, ad indicare la necessità di sindacare la decisione oltre il diaframma rappresentato dal provvedimento, nell’ambito di un giudizio esteso all’intero rapporto controverso (il neologismo di deve a Giannini, M.S., Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., XVII, Milano, 1977, 265 ss.).

Il giudice avrebbe dunque dovuto conoscere la motivazione “sostanziale” della decisione (ossia i suoi fattori causali, come emersi nel procedimento), più che la motivazione “formale” (ossia l’esternazione scritta dei motivi). Ciò avrebbe implicato, nelle attese, un’estensione dell’oggetto del giudizio (dal “come si motiva” al “come si è deciso”) ed una maggiore efficacia conformativa del giudicato di annullamento, evitando che nella riedizione del potere l’amministrazione confermasse il contenuto dell’atto, limitandosi a fornire una differente argomentazione a suo sostegno (c.d. “vittoria di Pirro”, nell’uso forense).

Pur muovendo da condivisibili esigenze di ampliamento della tutela processuale, la tesi non mancò di sollevare critiche da parte della dottrina che riteneva comunque essenziale, ai fini della piena comprensione dei percorsi logico-argomentativi seguiti dalla p.a., la motivazione dei provvedimenti basati su presupposti indeterminati o su ponderazioni discrezionali di interessi (Romano Tassone, A., Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano, 1987, 191 ss.).

Ad ogni modo, la tesi del ridimensionamento esauriva la sua funzione critica nell’ambito del sindacato di legittimità, e non poteva (né può essere) strumentalmente utilizzata per ridurre la funzione latamente garantistica dell’istituto, che precede il processo ed è autonoma rispetto ad esso. Non può quindi condividersi l’assunto, profilato rivisitando la lontana posizione di Giannini con echi rawlsiani, per cui, «la motivazione è obbligo che viene rispettato … soprattutto nei casi in cui la normativa non impone modi di esternazione delle ragioni particolarmente analitici o quando si viene a collidere con la discrezionalità tecnica dell’amministrazione, quando le regole procedimentali vengano accuratamente seguite, in modo tale che si possa ragionevolmente ritenere che gli organi pubblici abbiano agito sotto un velo di ignoranza sull’esito finale del loro operato, così escludendo parzialità ed inefficienze» (Cons. St., IV, 27.1.2012, n. 429).

A tale tesi può del resto obiettarsi, con le parole di Emilio Betti, che «la esattezza e correttezza della motivazione preme non meno che la legittimità e giustizia della disposizione: un provvedimento che decida bene e ragioni male, non adempie rettamente alla sua destinazione», e non appaga quindi il «senso di giustizia» sotteso ad esso: si aggiunge come sia una giustizia – o, meglio, una garanzia – da attuarsi nel procedimento, prima ancora che nel processo (Betti, E., Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, 237).

L’esperienza comparata conferma, d’altronde, la necessità di valorizzare l’autonoma dimensione garantistica della motivazione, in rapporto alla pluralità di funzioni cui è preordinato l’istituto: Francia e Germania mostrano, ad esempio, come il livello di tutela processuale non giustifichi un ridimensionamento del dovere di motivare, in coerenza con l’assunto per cui la stessa protezione della prerogative individuali deve essere garantita nel procedimento, prima che nel processo (che resta un fatto eventuale e successivo al procedimento).

La tesi della «dequotazione» sembra infine incompatibile – anche nella chiave di politica del diritto sottesa a recenti indirizzi giurisprudenziali, non solo italiani – con l’attuale evoluzione dell’istituto, quale componente fondamentale della buona amministrazione che va emergendo nel contesto degli Stati costituzionali di diritto (Cassatella, A., op. cit., 385 ss.).

La codificazione del dovere di motivazione nella l. n. 241/1990

L’inserimento del dovere di motivazione fra le norme di principio contenute nel capo I della l. n. 241/1990 evidenzia la centralità dell’istituto, nel solco dei contributi teorici alla base della vigente disciplina (Corso, G., Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., agg. V, Milano, 2001, 775 ss.).

Già nei primi anni ottanta, la rinnovata attenzione per l’attività decisionale della p.a. aveva portato una parte della dottrina a qualificare il provvedimento come il riepilogo dell’attività conoscitiva e valutativa compiuta nel corso del procedimento, assegnando alla motivazione il compito di rappresentare la sintesi verbale di quanto avvenuto nella fase decisoria: tesi che trovava conferma nella codificazione dell’istituto nel § 39 VwVfG del 1976 e nella legge francese dell’11.7.1979, per citare gli esempi più vicini all’esperienza degli studiosi italiani.

L’art. 3 della l. n. 241/1990 impone coerentemente di indicare i «presupposti di fatto e le ragioni giuridiche» che hanno «determinato la decisione in relazione alle risultanze dell’istruttoria» (sugli antecedenti teorici della norma, rappresentati dai contributi di Nigro e Pastori, pure in qualità di membri della Commissione incaricata di predisporre il progetto di legge, Ramajoli, M., Lo statuto del provvedimento amministrativo a vent’anni dall’approvazione della l. n. 241/1990, ovvero del nesso di strumentalità triangolare fra procedimento, atto e processo, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2010, 466).

Sotto il profilo strutturale, l’art. 3 conferma come il dovere di motivare consista in un momento specifico dell’attività (ogni provvedimento «deve essere motivato»), che assume una propria rilevanza anche sul piano organizzativo (l’art. 6, co. 2, lett. e), affida al responsabile del procedimento il compito di predisporre uno schema di provvedimento, ferma la possibilità che l’organo si discosti da esso, indicandone le ragioni nella motivazione del provvedimento finale).

Si tratta del segmento conclusivo della fase decisoria, in cui la scelta già maturata sulla base delle risultanze istruttorie viene circostanziata tramite l’individuazione dei fattori che hanno avuto diretta incidenza sulla selezione dell’alternativa idonea ad attuare l’interesse prestabilito dalla legge o individuato discrezionalmente dalla stessa p.a., con l’apporto eventuale dei partecipanti al procedimento.

La motivazione è doverosa per ogni provvedimento, a prescindere dalla natura vincolata, tecnico-discrezionale o discrezionale dell’attività, e dalla natura sfavorevole o meno dell’atto.

Il livello di sufficienza della motivazione va determinato in rapporto alla mole di dati acquisiti nella fase istruttoria. La motivazione “sufficiente” equivale, pertanto, alla piena assunzione di responsabilità rispetto alle alternative emerse nel procedimento, tale da consentire la soluzione delle problematiche affrontate nella formazione della decisione.

La natura dell’attività decisionale incide, tuttavia, sulle modalità di adempimento del dovere di motivare.

Nel caso degli atti vincolati, si dovranno indicare i presupposti di fatto che hanno determinato la sussunzione della fattispecie concreta entro quella astratta contemplata dalla norma attributiva del potere (es. caratteristiche strutturali dell’immobile abusivo, ai fini dell’irrogazione dell’ordine di demolire); nel caso degli atti tecnico-discrezionali, sarà necessario individuare sia i presupposti di fatto che i criteri tecnici o scientifici utilizzati per la loro valutazione (es. indicazione dei criteri che consentono di ricondurre una determinata patologia alle attività svolte, ai fini del riconoscimento di un’indennità di servizio); nel caso degli atti discrezionali, sarà invece doveroso indicare i criteri politico-amministrativi sulla base dei quali si è data prevalenza ad un dato interesse su altri interessi emersi nel corso del procedimento (es. individuazione dei criteri che hanno giustificato la chiusura serale anticipata di un locale a protezione della sicurezza urbana, in luogo di misure meno afflittive per il gestore).

Là dove la motivazione non sia idonea ad indicare tali elementi, l’atto dovrà considerarsi illegittimo, per mancato adempimento del dovere di motivare: risulta nominalistico il dibattito inerente alla qualificazione del vizio come violazione di legge o eccesso di potere, trattandosi di una ragione da sola sufficiente a determinare l’annullamento dell’atto ai sensi dell’art. 21 octies della l. n. 241/1990, in rapporto alle previsioni dell’art. 113 Cost.

Una parziale eccezione è prevista per la motivazione in forma “semplificata”, attualmente prevista dall’art. 2, comma 1, della l. n. 241/1990, applicabile a fronte di istanze manifestamente irricevibili, inammissibili, improcedibili o infondate. Esigenze di buon andamento amministrativo impongono, in tal caso, di adempiere al dovere di motivare mediante il «sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo» ai fini della reiezione: la disposizione incide sull’estensione della motivazione, ma non sul suo contenuto, conforme a quello previsto dall’art. 3 della stessa legge.

Altra eccezione, di segno opposto, è prevista sempre nei procedimenti ad istanza di parte, nell’ipotesi in cui sia stato comunicato il preavviso di rigetto ai sensi dell’art. 10 bis della legge: in primo luogo, il preavviso deve contenere la preventiva indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che, sulla base dell’istruttoria già condotta, possono giustificare il diniego, anticipando così l’adempimento del dovere prescritto dall’art. 3, l. n. 241/1990 in rapporto alla pre-decisione ormai raggiunta; in secondo luogo, gli ulteriori apporti istruttori dell’interessato andranno presi espressamente in considerazione nella motivazione del provvedimento finale (Cons. St., VI, 18.10.2017, n. 4833).

L’art. 3, co. 1, l. n. 241/1990 stabilisce, inoltre, che la motivazione consista nella parte del provvedimento in cui sono esplicitati i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della decisione («la motivazione deve indicare...»).

La motivazione va quindi intesa come un’autonoma componente strutturale del provvedimento, dove vanno testualmente individuati gli elementi fattuali e giuridici che circoscrivono il dispositivo e contribuiscono a tipizzarlo, in vista della produzione dei correlati effetti giuridici. In tal senso depone anche l’orientamento giurisprudenziale per cui la formazione della motivazione deve essere contestuale a quella del dispositivo, tanto che la parte motiva «deve precedere e non già seguire l’atto» (Cons. St., III, 2.5.2016, n. 1656).

Il rapporto fra motivazione e provvedimento non è ulteriormente esplicitato dalla legge, ma può desumersi anche sulla base delle previsioni dell’art. 11, l. n. 241/1990, che impone di motivare i provvedimenti con cui si manifesta la determinazione a contrarre della p.a., ai fini della stipulazione di accordi procedimentali. L’art. 11, comma 2, richiede di motivare anche gli stessi accordi ai sensi dell’art. 3: disposizione che conferma come il dovere di motivazione debba essere correlato all’attività decisionale dell’amministrazione, anche nell’ipotesi in cui la decisione sia il frutto dell’accordo fra le parti del procedimento (Cons. St., IV, 15.5.2017, 2258).

Si pone, peraltro, il problema relativo alla qualificazione della parte motiva del provvedimento quale elemento essenziale dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies della l. n. 241/1990, qui intesa come norma che fissa gli indici minimi di riconoscimento della fattispecie provvedimentale, omettendo tuttavia di darne una elencazione.

Giurisprudenza e dottrina si trovano in uno stato di seria impasse, derivante dalla lacuna legislativa e dalla soggettività dei criteri utilizzati per colmarla, individuati ora nell’applicazione analogica della disciplina della sentenza (art. 132 c.p.c., che annovera la motivazione fra gli elementi essenziali), o del contratto (art. 1325 c.c., che non la annovera fra tali elementi), ora in autonome classificazioni, avulse dal diritto positivo.

L’orientamento prevalente nega che la motivazione sia un elemento essenziale del provvedimento, con due importanti conseguenze applicative: la totale assenza della motivazione non è causa di nullità dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies, ma di annullabilità per violazione di legge (Cons. St., IV, 2.4.2012, n. 1958); ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione del provvedimento, non è necessaria la conoscenza della sua motivazione, ma del dispositivo, perché solo attraverso di esso si manifesta e produce la lesione delle prerogative soggettive del destinatario (Con. St., V, 7.8.2015, n.3881).

Queste conclusioni sembrano dubbie: benché l’inserimento della motivazione fra gli elementi essenziali dell’atto sia questione di mero diritto positivo, deve osservarsi come la funzione garantistica cui assolve l’istituto, in vista della specificazione degli effetti giuridici dell’atto, induca ad annoverarla fra essi (lo stesso può dirsi per la motivazione degli accordi, inteso l’art. 11, co. 2, come norma imperativa ai sensi dell’art. 1418 c.c.). Ciò induce ad individuare il termine di decorrenza dell’impugnazione nel momento in cui il destinatario abbia piena cognizione della decisione e del suo integrale contenuto lesivo, nei termini derivanti da dispositivo e motivazione, intesi come fattori co-essenziali ai fini dell’integrazione della fattispecie provvedimentale.

L’unica eccezione all’obbligo di inserire la motivazione nel corpo del provvedimento può rinvenirsi nelle previsioni dell’art. 3, co. 3, della l. n. 241/1990, che disciplina la c.d. motivazione per relationem o aliunde: pure in tal caso, la legge appare ispirata ad un netto rigore, perché permette di individuare la motivazione in un «altro atto» (avente efficacia decisoria: es. diniego di nulla osta, parere obbligatorio o vincolante sfavorevole; valutazione tecnica), a condizione che esso sia reso disponibile (Cons. St., V, 4.8.2017, n. 3907).

Deve invece escludersi che la motivazione possa essere ricavata in forza dell’integrale rinvio all’intero materiale istruttorio, nonostante gli orientamenti di una parte della giurisprudenza, che giunge a tali soluzioni ribadendo la necessità di interpretare le disposizioni della l. n. 241/1990 senza eccessivi formalismi, con il rischio di ridurre le stesse garanzie procedimentali a tutela del destinatario dell’atto (Con. St., IV, 15.11.2011, n. 6042).

Questioni aperte

Oltre ai singoli aspetti problematici cui si è fatto riferimento, l’art. 3 della l. n. 241/1990 lascia aperte ulteriori questioni applicative, da cogliere in rapporto ad altre disposizioni della l. n. 241/1990 ed alla legislazione speciale che regola l’esercizio delle singole funzioni amministrative.

Il principio di motivazione non ha, infatti, rilevanza assoluta, ma deve essere valutato in rapporto alla generale disciplina dell’azione amministrativa ed alla pluralità di valori che connotano il nostro ordinamento. Questo, anche in rapporto alla necessità di contemperare le garanzie procedimentali con il buon andamento e l’efficienza degli apparati amministrativi e giudiziali.

Fra le varie questioni, sembra opportuno soffermare l’analisi su quelle di maggiore impatto pratico.

Un problema sovente dibattuto nella prassi attiene alla possibilità di adempiere al dovere prescritto dall’art. 3 della l. n. 241/1990 mediante la cd. “motivazione numerica”, ossia tramite la sintetica indicazione di un punteggio che esprime il valore di una prova concorsuale o di un’offerta tecnica, nell’ambito delle corrispondenti procedure selettive.

Il diritto positivo non vieta espressamente la motivazione numerica, che può essere un utile espediente per velocizzare la valutazione delle prove svolte nell’ambito dei concorsi pubblici, di esami di Stato, o delle offerte presentate in una gara d’appalto. Al contempo, l’espressione numerica non valorizza la trasparenza e razionalità dell’attività valutativa, e tantomeno consente al destinatario una piena comprensione delle ragioni che hanno determinato una valutazione negativa: molto spesso, dunque, la motivazione numerica viene censurata in quanto insufficiente e poco chiara.

Le soluzioni date al problema dalla giurisprudenza amministrativa variano in rapporto alle caratteristiche dei procedimenti e degli interessi in gioco, mentre la dottrina è per lo più attestata su posizioni critiche rispetto all’abuso di questo espediente.

Nell’ambito delle procedure di gara, le esigenze di trasparenza e par condicio consentono alle commissioni di esprimere una motivazione numerica solo quando i criteri di valutazione dell’offerta siano stati predeterminati in maniera rigida, e tale da rendere l’attribuzione del punteggio una mera operazione aritmetica.

Nell’ambito delle procedure abilitative, l’Adunanza Plenaria ha ribadito la legittimità della motivazione numerica, precisando, in aderenza all’orientamento maggioritario del Consiglio di Stato, come essa sia sufficiente nel momento in cui si fondi su «criteri predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, valendo comunque il voto a garantire la trasparenza della valutazione» (Cons. St., A. P., 20.9.17, n. 7, con rinvio a C. cost., 8.6.2011, n. 175). Ciò sposta il problema sulla necessità di giustificare la scelta dei criteri valutativi (Cons. St., V, 12.6.2017, n. 2809).

Il vero fattore di discrimine, ai fini della legittimità della motivazione numerica, attiene dunque alle caratteristiche della procedura e dei criteri sui quali si basa la formulazione del giudizio.

Nel caso in cui le commissioni valutino la preparazione dei candidati mediante il ricorso a criteri elastici, connessi alla disciplina oggetto di prova, non può negarsi la necessità di integrare brevemente il punteggio con l’indicazione delle ragioni che hanno determinato l’esito (diversamente può accadere per l’attribuzione di punteggi correlati al superamento di prove a risposta multipla, svolte anche attraverso supporti informatici). A conclusioni analoghe si è giunti in Germania e Spagna, per quanto resti aperto il problema di come bilanciare l’interesse del concorrente a conoscere la puntuale motivazione del voto negativo, e l’interesse dell’amministrazione a garantire il celere svolgimento delle procedure concorsuali: questione da risolvere sul piano – preliminare – dei metodi di accertamento della preparazione dei candidati.

Altra questione notoriamente dibattuta è quella della possibilità di integrare in corso di giudizio la motivazione insufficiente, sul presupposto che trovino applicazione, in tal caso, le previsioni dell’art. 21 octies, co. 2, l. n. 241/1990, in materia di vizi “formali” del provvedimento.

Il tema della cd. convalida processuale dei vizi della motivazione ripropone, in termini aggiornati, la necessità di concentrare il sindacato di legittimità sul contenuto della decisione e non sulle sovrastrutture formali che ne caratterizzano il regime giuridico, anche a garanzia della stessa efficienza del processo e della concentrazione del controllo giudiziale su quanto si è effettivamente deciso (riemergono, qui, le suggestioni della tesi di Giannini).

In giurisprudenza e dottrina sono tuttavia prevalenti le tesi critiche, derivanti dalla consapevolezza che, specie con riferimento a provvedimenti discrezionali o tecnico-discrezionali, la convalida in corso di giudizio rischia di tradursi nella giustificazione a posteriori della scelta già compiuta, col possibile effetto di incentivare l’arbitrio amministrativo. Si aggiunga come la motivazione postuma sia spesso surrettiziamente elaborata “ora per allora” dal difensore dell’amministrazione, in rapporto alle censure addotte nei confronti dell’atto discrezionale o tecnico-discrezionale, con evidente lesione del principio di parità delle parti.

La Corte Costituzionale ha peraltro riconosciuto come sia dubbia, a monte, la possibilità di qualificare l’art. 3, l. n. 241/1990 come una norma procedimentale, o attinente alla sola forma degli atti, trattandosi di una disposizione posta a presidio della «legalità sostanziale» dell’agire amministrativo. Ciò escluderebbe – in termini condivisibili – l’ammissibilità di ogni motivazione postuma o di sanatorie processuali mediante il richiamo all’art. 21 octies, comma 2 (C. cost., ord., 29.4.2015, n. 92).

La stessa esperienza comparata conferma i dubbi in ordine all’ammissibilità di questi interventi correttivi, in rapporto alla necessità di motivare il provvedimento nel momento stesso in cui viene emanato: nell’ordinamento tedesco, la motivazione postuma è ammessa dalla VwVfG e dal VwGO per indicare i soli presupposti di fatto preesistenti alla formazione della decisione, ma non per addurre ragioni giuridiche mai esternate nel provvedimento impugnato. Similmente accade in Francia ed Inghilterra.

Un’altra questione attiene agli effetti conformativi del giudicato di annullamento dei provvedimenti discrezionali per difetto di motivazione: si è già visto, a questo proposito, come in passato si ritenesse che, in tal caso, la vittoria del ricorrente fosse virtuale, consentendo alla p.a. di rinnovare l’atto annullato confermandone il contenuto lesivo. Di qui, la necessità di procedere all’ulteriore impugnazione del provvedimento, con chiari effetti defatigatori a danno del privato.

Parte della giurisprudenza ha tentato di risolvere il problema attraverso un effetto conformativo “rinforzato”, attraverso il quale grava sulla p.a. soccombente l’onere di rinnovare l’atto una sola volta, riesaminando la questione controversa «nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza potere in seguito tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati» (Cons. St., III, 3.11.2017, 5087, cd. principio dello “one shot temperato”).

Questa tendenza va accolta con favore, nella parte in cui cerca di stabilire un punto di equilibrio fra l’estensione del sindacato alle ragioni giustificative del provvedimento e la rilevanza procedimentale della motivazione. A tale risultato si perviene nel momento il riscontro del vizio della motivazione implica l’accertamento della insussistenza delle specifiche ragioni giustificative addotte dalla p.a. a sostegno di una determinata scelta, sul presupposto che l’art. 3, l. n. 241/1990 non imponga un mero adempimento formale, ma sia configurabile come una norma modale che incide sul metodo di formazione della decisione (Cassatella, A., op. cit., 275 ss.).

Un altro ordine di questioni concerne l’ambito applicativo del dovere di motivazione, con riguardo alle prescrizioni contenute nell’art. 3, co. 2, l. n. 241/1990, che esclude l’applicazione dell’istituto agli atti normativi ed agli atti amministrativi generali.

Sia i lavori preparatori della l. n. 241/1990 che la legislazione successiva confermano come l’art. 3, co. 2, non contenga un divieto di motivare tali atti, ma debba essere interpretato come previsione derogatoria che fa salvo il rinvio alle singole leggi speciali.

Non sussistono, del resto, ostacoli di ordine logico o concettuale in ordine alla necessità di motivare anche gli atti normativi (ossia i regolamenti e gli atti di regolazione) o gli atti generali che, pur non direttamente ed immediatamente lesivi delle prerogative individuali, sono espressione di specifiche potestà amministrative: l’adempimento del dovere di motivazione è qui finalizzato a garantire la pubblicità e trasparenza della funzione esercitata, oltre che una piena e puntuale assunzione di responsabilità rispetto agli effetti delle scelte regolative o programmatiche. Se ne ha conferma anche in giurisprudenza, sulla base di una valorizzazione delle norme di principio contenute nell’art. 3, co. 1 (Cons. St., VI, 2.3.2010, n. 1215).

Nella medesima direzione sono orientate alcune leggi speciali che hanno imposto la motivazione di determinati atti di regolazione (art. 23, l. 28.12.2005, n. 262, per gli atti di Banca d’Italia e Consob), di programmazione e pianificazione: in tali casi, le disposizioni di settore possono imporre specifici adempimenti inerenti alla forma ed alle modalità di esternazione della motivazione, lasciando tuttavia inalterata la struttura di fondo dell’istituto (art. 8, l.r. Emilia-Romagna, 24.3.2000, n. 20).

Un ulteriore aspetto problematico concerne il rapporto fra disciplina generale e speciale dell’attività amministrativa, con riferimento alla possibilità che le singole leggi speciali o di settore (anche regionali) possano derogare alle previsioni dell’art. 3 della l. n. 241/1990, vietando o limitando la motivazione dei singoli provvedimenti.

Dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale emerge come le deroghe possano riguardare la forma e le modalità di esternazione della motivazione, ma non debbano mai spingersi a vietare la motivazione dei singoli atti, quand’anche ciò dipenda da ipotetiche ragioni di buon andamento amministrativo.

A corretto avviso della Corte, infatti, l’art. 3 della l. n. 241/1990 «è radicato negli artt. 97 e 113 Cost.», dovendosi quindi ritenere incostituzionali, per violazione dei predetti parametri, le norme che ne vietano l’applicazione (C. cost., 2.11.2010, n. 310).

Fonti normative

Art. 296 TFUE; art. 41 Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; art. 6 CEDU; artt. 1, 2, 3, 21, 24, 54, 95, 97, 98, 103, 113 Cost.; artt. 2, 3, 10 bis, 11, 13, 21 septies, 21 octies, l. 7.8.1990, n. 241; art. 7, l. 18.8.2000, n. 262; art. 23, l. 28.12.2005, n. 262; art. 5, d.lgs. 19.8.2016, n. 175; art. 8, l.r. Emilia-Romagna, 24.3.2000, n. 20; § 58 AVG del 1925 (Austria); § 39 VwVfG del 1976 (Germania); § 553-557 APA del 1946 (Stati Uniti); art. 43, l. 17.7.1958 (Spagna); art. 1, l. 11.7.1979 79-587 (Francia).

Bibliografia essenziale

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