MOTO perpetuo

Enciclopedia Italiana (1934)

MOTO perpetuo

Giovanni Giorgi

Dicendo "ricerca del moto perpetuo (perpetuum mobile)" si è intesa la ricerca di una macchina che si mantenesse perpetuamente in moto senza essere ricaricata o fornita di energia (motore perpetuo di prima specie), e più ancora quella di una macchina che producesse lavoro dal nulla o fosse capace di fornire più lavoro di quanto ne assorbe (motore perpetuo di seconda specie). E lo scopo si sarebbe ritenuto raggiunto, nell'uno o nell'altro caso, anche senza pretendere che "perpetuo" significasse "durevole per un tempo infinito". Bastava solamente che il limite di tempo non fosse imposto dall'obbligo di rifornire energia.

La delimitazione fra i due problemi non era chiaramente apprezzata in antico: ma fino dai tempi più remoti l'ingegnosità di innumerevoli inventori si è rivolta senza successo, talora con scopi utilitarî per ottenere una sorgente gratuita di lavoro, talaltra con semplice aspirazione scientifica a costruire qualche orologio o dispositivo simile che rimanesse perpetuamente in moto, sia pure senza fornire lavoro esterno. E di fronte agl'insuccessi ripetuti, il problema del moto perpetuo è passato alla posterità insieme con quelli della pietra filosofale, della trisezione dell'angolo e della quadratura del circolo. Mezzi meccanici, termici, dispositivi fondati sulla capillarità e su altri fenomeni fisici sono stati adoperati in modi così svariati e ingegnosi che a prima vista davano l'illusione di raggiungere lo scopo; e quando la realizzazione sperimentale mostrava che il moto perpetuo non si otteneva, si attribuiva ciò a difetto di esecuzione e si ritornava a costruire, con realizzazioni più accurate o più grandiose, conservando a lungo la speranza che con sacrifici più grandi e con perfezionamenti ulteriori il meccanismo desiderato sarebbe stato raggiunto.

Gradualmente si acquistò la convinzione dell'impossibilità del perpetuum mobile, e nel 1775 l'Accademia di Parigi deliberò solennemente di non più prendere in considerazione nessuna proposta o progetto tendente a realizzare il moto perpetuo sotto alcuna forma.

I principî scientifici che giustificano questa conclusione furono però apprezzati e conosciuti solo nel sec. XIX attraverso lo sviluppo della termodinamica, e l'acquisizione precisa della nozione di energia, distinta da quella di potenza o di forza.

A seguito di molto vaglio sperimentale, è rimasto acquisito il primo principio della termodinamica, il quale afferma che l'energia non si crea e non si distrugge mai. Le macchine possono quindi trasformare energia, ma non produrla dal nulla, né aumentare quella che ricevono. Una macchina può ricevere energia meccanica, o termica, o elettrica, o chimica, e compiere lavoro di una o di altra forma nei limiti del quantitativo di energia che ha ricevuto; questa resa di lavoro può essere simultanea all'assorbimento di energia, o può avvenire accumulazione energetica nell'interno per restituire lavoro a epoca differita; ma in ogni caso il lavoro reso non può superare quello assorbito. Quindi impossibilità del moto perpetuo di seconda specie: cioè impossibilità del dispositivo che crea lavoro dal nulla, o lo aumenta.

Le condizioni in cui le trasformazioni possono avvenire sono poi delimitate dal secondo principio della termodinamica, secondo il quale si riconosce che alcune forme di energia sono più trasformabili, altre meno, e che quelle più attive o trasformabili tendono a convertirsi almeno parzialmente in quelle più pigre; e quindi mentre nell'universo (o in qualunque parte di esso sottratta a scambî energetici con l'esterno) rimane costante la somma di tutte le energie, non per questo rimane costante il loro rapporto; le energie di forma meccanica, elettrica, chimica, subiscono trasformazioni, parzialmente in modo irreversibile, in energia termica, e questa tende a passare da temperatura alta a temperatura bassa, senza ritorno.

Per effetto del secondo principio, in ogni macchina o congegno di qualunque tipo avvengono trasformazioni di carattere dissipativo, cioè da energia valorizzabile in energia termica a bassa temperatura, ed eventualmente anche in vibrazioni, movimenti disordinati e frazionati, e aure forme di energia non ricuperabile. Di qui l'impossibilità di raggiungere con mezzi umani anche il semplice moto perpetuo di prima specie.

Esempio, un orologio: caricando la molla o facendo risalire un peso, s'immagazzina energia: questa energia viene gradatamente trasmessa al rotismo, e quivi si trasforma in calore, per gl'inevitabili attriti e altre cause dissipative; si tratta di una degradazione da energia altamente convertibile a energia termica a bassa temperatura; quindi il processo è irreversibile, e l'energia così trasformata non può più essere restituita alla molla. Esaurita la carica di questa, l'orologio si ferma. Perché non si può costruire un orologio che cammini indefinitamente? perché in ogni meccanismo i fenomeni dissipativi, che fanno trasformare lavoro in calore e in vibrazioni, non possono mancare. Quindi il primo e il secondo principio della termodinamica, combinati insieme, esigono che il rotismo, per mantenersi in moto, assorba lavoro; e quindi la necessità che la molla sia ricaricata da un agente motore esterno.

Nell'asserire l'impossibilità del moto perpetuo, occorre però ben distinguere fra quello di prima e quello di seconda specie.

Poiché il primo principio di termodinamica non soffre, per quanto finora sappiamo, eccezioni, il lavoro non può essere creato dal nulla, ed è impossibile un meccanismo che dia lavoro senza ricevere energia o consumare qualche cosa. Dunque nello stato delle nostre cognizioni, la produzione gratuita dell'energia, in qualunque scala e in qualunque forma, si ritiene esclusa.

Il secondo principio di termodinamica, inteso nel senso ristretto di esigere che ogni processo sia accompagnato da una degradazione di energia, vale specificatamente per i sistemi diremo così terrestri, di dimensioni comparabili con quelle umane: per questo nell'enunciare l'impossibilità di un moto perpetuo di prima specie, abbiamo fatto allusione a macchine, meccanismi e congegni, non a sistemi fisici qualunque. In questi sistemi terrestri le cause dissipative dovute a resistenza dei fluidi, attriti, effetto Joule o consimili sono sempre presenti. Non è lo stesso nei sistemi fisici di dimensioni grandissime o piccolissime in confronto a quelle umane. I moti astronomici, i movimenti dei corpi celesti avvengono senza che vi sia un mezzo resistente che li ostacoli; e quando si tratti di sistemi di astri solidi, esenti da maree, nessuna dissipazione avviene: quindi i moti astronomici hanno generalmente il carattere di moti perpetui (di prima specie). Ciò non significa che siano di durata infinita: significa che attraverso intervalli di tempo di quell'ordine di grandezza che entra in conto per la vita degli astri (centinaia di milioni di anni) non si manifestano cause frenanti, che vadano assorbendo in modo percettibile l'energia iniziale.

Lo stesso, per un motivo quasi opposto, avviene per i moti molecolari, atomici e subatomici: il secondo principio di termodinamica ha valore e significato statistico, si applica ai grandi ammassi di molecole, e non alle molecole singole. Per una molecola considerata a sé, perde di significato ogni distinzione tra energia meccanica e termica, non si applica più la nozione di temperatura, non si può parlare di degradazione o dissipazione di energia. Per questo motivo, i movimenti di cui si occupa la "microfisica" non sono soggetti a estinzione. Esempio: in un recipiente pieno di gas o di liquido, anche se mantenuto a temperatura rigorosamente costante (e quindi senza scambio di energia con l'esterno) i moti molecolari si conservano indefinitamente; e possono venire osservati, come moti perpetui, visibili nella forma browniana, cioè osservando con l'ultramicroscopio un liquido che abbia particelle colloidali in sospensione; e la forza viva media di quei moti molecolari diminuisce solo quando si abbassa la temperatura; e non si riduce mai a zero perché non si può raggiungere lo zero assoluto (terzo principio della termodinamica). Altro esempio: i moti atomici interni alle molecole, i presunti moti elettronici interni agli atomi, non si estinguono mai. Dunque il moto perpetuo di prima specie, impossibile nei meccanismi e congegni costruiti dall'uomo, esiste nell'astronomia e nella microfisica. Ma non per questo si arriva, in nessuna scala di grandezza, al motore perpetuo di seconda specie.

Come è che, nonostante questo, si presentano senza cessa inventori che, sia pure sotto forma dissimulata, pretendono di risolvere qualche problema equivalente alla produzione gratuita dell'energia? Alcuni di essi francamente negano il primo principio di termodinamica, giustificandosi col dire che la scienza non deve ammettere dogmi a priori: ma non esibiscono nessuna scoperta di fenomeno nuovo che si sottragga a quel principio; semplicemente escogitano congegni che attraverso erronei ragionamenti vengono presentati come produttori di lavoro, ma sono fondati sempre su fenomeni che notoriamente ubbidiscono al detto principio termodinamico, e la cui combinazione quindi non può violarlo. Altri non vogliono negare il principio, ma non lo comprendono esattamente; confondono, p. es., forza con energia, e presentano deduzioni erronee di altro genere: p. es., dicono che la loro macchina non ha la pretesa di creare il lavoro dal nulla, ma riceve, p. es., una potenza costante di 120 kW. e la trasforma in una di 130; oppure pretendono di ricavare energia permanente dal peso di un corpo, pensando la gravità come "una forza gratuita che è sempre presente e non si esaurisce mai".

Più sottile si presenta però la discussione quando taluno vuole utilizzare come sorgente di energia il calore diffuso nell'atmosfera, e quando si contenta di realizzare un moto perpetuo di prima specie.

A quest'ultimo riguardo si deve osservare che nei congegni terrestri, siccome gli attriti e le dissipazioni di energia esistono sempre, chi realizzasse un motore perpetuo di prima specie, avrebbe anche risoluto il problema di seconda specie; perché basterebbe con esecuzione più accurata ridurre gli attriti, per avere come residuo del bilancio un lavoro ricavabile effettivo. Interessa piuttosto chiedere se veramente il calore ambiente o la radiazione ovunque diffusa possano costituire sorgente di energia per far funzionare in modo permanente un motore. Il primo principio di termodinamica non vi si oppone. Il secondo principio inibisce che questo possa avvenire quando l'ambiente è a temperatura uniforme e permanente, o la radiazione sia diffusa e ugualizzata e abbia raggiunto l'equilibrio con i corpi dell'ambiente; ma non vieta che un'utilizzazione del calore o della radiazione ambiente possa avvenire quando la temperatura o la distribuzione della radiazione siano disuniformi e variabili. In pratica, piccole disuniformità e variazioni di questa natura avvengono sempre; quindi è possibile, per quanto difficile, realizzare congegni che si mantengano in moto sfruttando le circostanze termiche ambienti: si ha così un partimlare moto perpetuo che vorremmo chiamare "di specie ridotta" di cui esistono alcuni esempî di realizzazione. Uno di questi esempî è il dispositivo bolometrico noto a tutti; ruota a palette con facce annerite da una parte e lucide dall'altra, imperniata in un'ampolla vuotata pneumaticamente; questa si mantiene quasi senza interruzione in moto per effetto della radiazione ambiente. Uno più interessante, e realmente pratico è dato da quegli orologi di recentissima costruzione (1934), che riescono a utilizzare le incessanti variazioni di temperatura dell'ambiente per prelevare l'energia occorrente a ricaricarsi; sono fondati su un dispositivo termico, per comprendere il quale basta pensare che un corpo termometrico qualunque, che si dilati e si contragga per effetto della temperatura esterna, può venire sfruttato quale agente motore allo scopo di ricaricare a frequenti intervalli una molla. Il risultato pratico è come se il moto perpetuo di prima specie fosse di fatto realizzato anche nel campo accessibile all'uomo.