Mozart

Il Libro dell'Anno 2006

Mozart

«Vedi, sono capace di scrivere in tutti i modi che voglio, elegante o selvaggio, corretto o contorto» 

(Wolfgang Amadeus Mozart)

Attualità di un genio

di Sandro Cappelletto

27 gennaio

In tutto il mondo si celebra il 250° anniversario della nascita di Mozart. Fra gli eventi più significativi il concerto di gala dei Wiener Philharmoniker diretti da Riccardo Muti al Grosses Festspielhaus di Salisburgo, città natale del musicista, e l’inaugurazione a Vienna della Mozarthaus, museo e spazio di manifestazioni allestiti nell’appartamento di Domgasse dove Mozart abitò con la moglie Constanze dal 1784 al 1787.

Dimmi come vedi Mozart e ti dirò chi sei

«Di un artista, bisognerebbe scrivere una nuova biografia almeno una volta ogni cinquant’anni», diceva Hermann Abert parlando di Mozart. La storia della musica intesa e raccontata come storia, anche, della diffusione e della ricezione del lavoro di un autore, della formazione e delle metamorfosi del gusto e delle opinioni, non era ancora diventata una disciplina critica, ma l’intuizione del filologo e storico della musica tedesco appare netta; come accade negli esperimenti di laboratorio, il punto di vista dell’osservatore – quanto prevede, delimita, esclude – condiziona il risultato.

Allora – era il 1919 – da tempo vacillava l’immagine del ‘Raffaello della musica’ attribuita a Mozart dal suo primo biografo Franz Niemetschek, professore al ginnasio della Kleinseite a Praga, che scrisse nel 1798, e ripresa dalla breve biografia che Stendhal, quasi ricalcando quel testo, redasse nel 1814. Durante l’Ottocento, la ricezione della sua opera aveva conosciuto il successo e l’oblio, la devozione e la trascuratezza, nel frequente mutare dell’orizzonte di attesa del pubblico. «Mozart non è più alla moda, bisogna convenirne. Ora, di tutte le qualità che possono brillare in un’opera, in un quadro, in una statua, quella che ci rimette di più a non essere alla moda, è la grazia. Il sentimento comune degli uomini disprezza facilmente la grazia. Ciò che è energico e forte piace più a lungo, ed è proprio delle anime volgari stimare soltanto ciò che un po’ temono», constatava nel Journal de Paris del 1825 ancora Stendhal, con la sua diffusa autorevolezza di intellettuale e artista. Per parte sua Wolfgang Goethe si riferiva alla facilità spontanea, sorgiva, innata con cui la musica, quasi preesistente essenza divina, parla attraverso Mozart, sottolineando l’equilibrio raggiunto nei suoi lavori tra natura e scienza: ma se di lui si deve soprattutto apprezzare la ‘grazia’, non è il primo Ottocento il tempo più adatto. Niemetschek aveva scritto il suo informato racconto rivolgendosi «alle anime delicate e sensibili», chiedendosi se mai possa esistere un «amante della più affascinante delle arti che, consacrandosi al puro e dolce godimento delle opere mozartiane, non abbia mai pensato con l’emozione più viva all’uomo cui siamo debitori di questa gioia celeste»; ma soltanto una generazione dopo la sua morte, il romanticismo esprime altre pulsioni, altri pesi sonori, altri tormenti: la grâce non lo entusiasma. Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, scrittore e musicista, in un saggio dedicato alla musica strumentale di Beethoven apparso nel 1810, così individua e descrive la distanza tra i due giganti: «La musica di Beethoven muove la leva del brivido, della paura, del terrore, del dolore, e suscita proprio quella infinita nostalgia che è l’essenza del romanticismo… Mozart ci conduce nella profondità del regno dello spirito. La paura ci avvolge, ma senza martirio: essa è più che altro intuizione dell’infinito».

Beethoven, che «all’amore coniugale» aveva dedicato Fidelio, la sua unica opera di teatro musicale, non amava l’‘immoralità’ del Don Giovanni, mentre la modernissima ambiguità strutturale – il gioco costante tra illusione, disincanto, consapevole menzogna, comprensione – del Così fan tutte collocava l’ultimo titolo nato dalla collaborazione tra Mozart e Da Ponte in un lungo cono d’ombra esecutiva, punendolo per la scientifica ironia con cui sorride dei principi fondanti l’amore matrimoniale, la promessa fedeltà tra gli amanti, la famiglia. Scrivendo in occasione del secondo centenario della nascita, Massimo Mila storicizzava con chiarezza: «Varie immagini di Mozart si sono succedute nel tempo. Ai contemporanei egli apparve come un inquietante romantico. Se ne ammirò l’efficacia fino ad allora inaudita, nel dipingere e muovere gli affetti; molte sue audacie lasciarono dubbiosi, quando non indignarono i pedanti. Fu giudicato un inquieto novatore, e non sfuggì all’accusa di aver sacrificato la voce, nell’opera, all’orchestra. Ma il romanticismo vero era alle porte; già fremeva ribelle nei drammi giovanili di Schiller e, per la musica, nell’opera di Beethoven, appassionata e tempestosa. Man mano che questa si veniva affermando, fu tolta a Mozart ogni traccia di romanticismo novatore, ed egli divenne simbolo di reazione, segno di raccolta agli aderenti dell’ancien régime musicale, urtati dall’inaudita asprezza del verbo beethoveniano, ai melomani appassionati e nostalgici di un’età in cui l’arte era essenzialmente classica euritmia e ordinata decenza» (Mila [1955] 2006, p. 170). «Dimmi come vedi Mozart e ti dirò chi sei», concludeva lo studioso con quella capacità, tutta sua, di creare battute fulminee, efficacissime sintesi rivelatrici, declinando al musicale la riflessione dello storico e critico della letteratura Harold Bloom: «Quello che sei è l’unica cosa che puoi leggere».

Due secoli di ricezione mozartiana

Mozart apollineo che «dopo aver totalmente sottomesso ogni impurità e offuscamento evoca la perfetta bellezza» (Otto Jahn), o Mozart dissonante? Il genio bambino inscritto nella dimensione galante e rococò del tardo Settecento, amabile e lietamente inventivo, o il compositore troppo ricco di idee, «estremamente innaturale, se nella sua musica c’è dapprima allegria, poi all’improvviso tristezza e subito dopo di nuovo allegria» (così già nel 1782 il compositore e saggista Johann Friedrich Reichardt), incapace dunque di esprimere nei suoi lavori strumentali un carattere unitario, una costante e prevedibile drammaturgia emotiva?

In La fortuna di Mozart, lo storico della musica Gernot Gruber documenta con amplissima scelta di fonti due secoli di ricezione mozartiana e fotografa le contrastanti pulsioni del nostro tempo, privilegiando il punto di vista dell’interprete, colui che trasforma e traduce la nota scritta da segno grafico in fenomeno acustico, denso dei suoi significati formali, emotivi, intellettuali. Se da un lato è cresciuta l’attenzione filologica, il considerare «sacrosanto ogni minimo segno di una partitura mozartiana», dall’altro non si può sottovalutare l’«interesse legittimo di ogni interprete a portare alla ribalta il suo messaggio artistico. Persino quando si pone in termini inconsueti, esso non è né un illecito commento all’opera, né un’interpretazione funzionale o una mediazione. Esso diventa viceversa ‘arte su arte’» (Gruber 1987, p. 230). Osservazione che vale per le opere strumentali e, ancor più, per i lavori di teatro musicale che, a partire dagli anni Trenta del Novecento, si fronteggiano ormai con le scelte, le decisioni, l’autonomia dello sguardo dei registi d’opera.

Lo studio della fortuna esecutiva e critica – che cosa scelgono i direttori artistici, ascolta il pubblico, approva o boccia la critica, promuove l’industria discografica, in quale modo suonano gli interpreti – genera il complesso insieme della fruizione, cioè del formarsi, diffondersi e dello stratificarsi del giudizio diffuso, del gusto, di ciò che piace o non piace.

«La fruizione della musica – sia quella del singolo ascoltatore, sia quella del critico, del giornalista, del compositore o di un pubblico generalizzabile in via ipotetica – non avviene in ingenua immediatezza, come simula l’ideologia dei prodotti dell’industria culturale confezionati come merci. Essa è invece determinata da condizioni preliminari in parte difficili da dimostrare per vie di fatto. Sembra una banalità dire che tra ascoltatore e oggetto estetico non esiste un rapporto puro e incondizionato; tuttavia in casi estremi questa constatazione rende palese che il ripudio o l’entusiasmo per un brano di musica ha a che vedere più con il pregiudizio dell’ascoltatore che con il processo o l’oggetto dell’ascolto… Nei cosiddetti giudizi estetici si insinuano in continuazione pregiudizi, sorti precedentemente e separatamente dall’oggetto, poi trasferiti inconsciamente nel processo di valutazione della percezione musicale. Ciò significa che la ricezione è di principio condizionata dalla disposizione emozionale, dalla socializzazione e dalle scale di valori dei diversi gruppi sociali» (Zenck 1989, p. 99).

Vicende biografiche, traiettorie culturali condizionano la relazione tra chi ascolta e l’oggetto sonoro che si sta ascoltando, e fanno dell’ascolto, per ognuno di noi e in modi diversi, un atto, una condizione, un’aspettativa, una memoria, un vissuto, una verità, non ‘ingenui’, non ‘immediati’. Aggiunge Helmut Rösing (1989, p. 123): «Qualunque sia il livello di informazione che viene afferrato dall’ascoltatore, e in che modo esso venga compreso, dipende sempre da abitudini di ascolto e convenzioni linguistiche, che sono vincolanti all’interno di una cultura e di un’epoca».

Diversità di interpretazioni

Il ‘livello di informazione’ riguarda ovviamente anche gli interpreti: il trentenne direttore inglese Daniel Harding ha dichiarato, inaugurando la stagione 2005-06 del Teatro alla Scala con Idomeneo, re di Creta, che è sua abitudine «aprire una partitura per me nuova con sguardo vergine, cercando di coglierne lo spirito senza passare attraverso la storia delle tante interpretazioni che ha avuto». Ma, alla verifica esecutiva, l’attacco secco, corto, immediato, bruciante del suono, l’accurato evitare ogni effetto di vibrato, il ricorso, per attutire il suono degli strumenti ad arco, alle sordine di legno, rivela quanto la sua attitudine interpretativa sia, più o meno consciamente, del tutto informata riguardo alle tecniche e alle poetiche oggi dominanti nell’interpretazione del repertorio tardobarocco e preclassico. Modalità che si sono sedimentate attraverso studi, incisioni, proposte d’ascolto di tanti ensembles e solisti. Un Mozart, il suo, più attento all’incalzare del dramma che alla distensione del canto: «L’espansione delle linee vocali non deve bloccare lo sviluppo dell’azione». Una frase che mai ascolteremo pronunciare da Riccardo Muti, così teso a restituire la calda rotondità di un suono ‘italiano’, le ampie volute del canto: un Mozart nordico, innamorato delle nuove potenzialità sinfoniche conosciute durante il soggiorno a Mannheim, contrapposto a un Mozart ‘napoletano’, se – ancora per riportare una celebre opinione di Muti – «è lui il massimo compositore italiano del Settecento».

Nel Flauto magico eseguito nel 2005 Claudio Abbado tende a un misurato equilibrio tra tensione e distensione, tra volume e rarefazione del suono e proietta sulla partitura uno sguardo affettuosamente illuminista, contenendo la solennità dei momenti rituali; la Mahler Chamber Orchestra non suona su strumenti originali, a differenza degli English Baroque Soloists diretti da John Eliot Gardiner nel 1995, ma in ogni caso la lettura del maestro italiano si può definire una «historically informed performance», consapevole cioè di un percorso stilistico e delle opzioni che suggerisce. Limiti ignorati da Anne Sophie Mutter nella sua recente proposta dei cinque Concerti per violino: la solista segue il proprio estro, consegnando un’interpretazione dove il ghiribizzo del suono, la liberissima volubilità diventa il criterio vincente, nell’ampio spazio dato all’enfasi, alle più immediate ed estroverse risorse retoriche del suo talento, tra le quali non di rado spicca un volume sonoro decisamente forzato. Gli ascolti incrociati confermano l’intuizione di Mila e richiedono al giudizio critico la capacità di sfuggire alla tipologia dell’‘ascoltatore risentito’ così ben descritta da Theodor Adorno: sempre pronto, cioè, a trincerarsi dietro il primato di un’esecuzione già ascoltata, apprezzata, sedimentata, che lo rassicura e altrettanto tetragono a cogliere le intenzioni di altre letture. Poco davvero in comune hanno il raptus ritmico, le repentine accelerazioni, il ricorso a un ampio ventaglio di sonorità di Leonard Bernstein, trascinante pianista nel Quartetto con pianoforte K 478 inciso nel 1965, e la costante, anche monotona, ricerca di un equilibrio tra le diverse pulsioni di quest’opera somma e complessa nell’interpretazione del Quartetto Fauré, che ritiene di non osare oltre un limite stilistico, un argine espressivo che pure amerebbe sfidare. Se gli esecutori restituiscono queste differenze, è perché esse convivono nelle partiture: «Mozart contiene tutta la pienezza della vita, dal dolore profondo alla gioia pura. Esprime i conflitti più duri, spesso senza offrire una soluzione», ha detto Nikolaus Harnoncourt. La stessa struttura formale di un brano del periodo classico si presta a diventare un contenitore capace di accogliere, nell’alternanza dei movimenti, tutti gli ‘affetti’, però ordinandoli in una prevedibile successione. Spesso Mozart, con formidabile intuizione, ne scompagina la rigida sequenzialità, li confonde, smarrendoci e creando una musica giudicata allora certamente moderna, fluida e densa, riconoscibile e spiazzante, prevista e inattesa: ogni musicista che affronta questo universo creativo, ogni storico della musica, ogni appassionato, ne illuminerà una parte, ne svelerà una possibilità, una direzione, escludendone altre.

Il Quartetto delle Dissonanze

Per comprendere quanto possa essere difforme la molteplicità dei punti di vista, è utile confrontare alcune opinioni critiche e alcune interpretazioni di uno dei passaggi mozartiani giudicati, già allora, più sconcertanti e ritenuti oggi rivelatori della sua autonomia creativa. È l’Adagio introduttivo del Quartetto per archi in do maggiore K 465, il Quartetto delle Dissonanze. Soltanto ventidue battute, che però «hanno fatto scorrere più inchiostro dei più sconvolgenti quartetti di Mozart» (Wyzewa-Saint Foix vol. 4, 1939, p. 255). Sottoposte a critiche e ‘correzioni’, hanno alimentato polemiche asperrime tra sostenitori dell’audacia mozartiana e critici convinti si trattasse soltanto di un errore di stampa rimasto in attesa di essere emendato.

In questa scelta di opinioni recenti si distinguono uno scrittore (Giorgio Manganelli), un musicologo (Giovanni Carli-Ballola), uno storico della cultura musicale (Maynard Solomon), un violista e didatta (Hatto Beyerle), un compositore (Dieter Schnebel). Cinque punti di partenza e di vista, altrettanti differenti linguaggi: «L’angoscia si affranca – per un attimo, per un’ora, per un secolo?… L’esempio perfetto è uno dei quartetti più importanti dei sei che Mozart dedicò a Haydn, il quartetto ‘delle Dissonanze’, opera esangue, senza ferite, che è forse uno dei risultati più straordinari da conseguire. Non mi può trasmettere sofferenza, mi trasmette misteriosa fascinazione, quella misteriosa ilarità, uno dei temi fondamentali di tutta l’opera di Mozart» (Manganelli nel 1985). «Tralasciando finalmente gli elementi armonici per quelli tematici, non ci sembra che sia stato posto nella debita evidenza il fatto che la ‘caotica’ introduzione, come la materia prima del fiat lux, generi sommessamente nel proprio seno l’inciso motivico da cui prende il volo il successivo Allegro… un monotematismo elaborativo da cui si sviluppano i più svariati aspetti morfologici ed espressivi» (Carli-Ballola nel 1990).

«Le battute iniziali immediatamente ci immergono nel centro di un terrore simbiotico... Qui Mozart ha simulato l’autentico processo della creazione, mostrandoci i lineamenti del caos al momento della sua conversione in forma… Senza sapere con esattezza dove ci troviamo, sappiamo di essere in un universo alieno… La realtà è stata de-familiarizzata, il misterioso ha soppiantato il consueto. In questa introduzione, Mozart ha simulato la transizione dal buio alla luce, dal mondo sotterraneo alla superficie, dall’id all’ego. Perché, al di là della nostra cornice metaforica, questa musica in definitiva riguarda ciò che è occulto e ciò che si rivela. E adesso il tema dell’Allegro emerge mentre spicca il volo, liberato» (Solomon nel 1995).

«Nell’Introduzione del K 465 Mozart allarga la distanza tra le prime due stazioni del discorso – exordium e narratio – facendo ricorso alla risorsa dell’interrogatio: il suo discorrere rimane sospeso, non procede, non c’è risposta alla domanda da cui sorge il Quartetto ed è questa assenza di certezze a creare attesa e mistero. Poi tutto si compie, senza l’asprezza di una improvvisa abruptio, ma con la dolcezza che scioglie l’ansia in una cadenzina: è la soluzione che preferisco» (Beyerle nel 2003).

«Mozart inizia il suo quintultimo quartetto per archi con un’introduzione lenta che, nell’anno della sua creazione, il 1785, suscitò irritazione e furore. Il violoncello, per lungo tempo, ripete ostinatamente la stessa nota e poi scivola giù di un semitono – l’intervallo considerato a lungo il più piccolo e insidioso della storia musicale europea. Su questo suono, uno dopo l’altro attaccano gli altri strumenti, anche loro scendendo per semitoni e spalancando uno spazio acustico lontano dagli uomini, funestato da angosce e incubi. Un violino cerca poi di sfuggire all’orrore con un balzo. Tuttavia continua, scendendo ancora più in giù, quell’incedere, quella sequenza immobile che grava pesantemente sull’anima. Poi, prevale un inquieto movimento: dapprima, in modo straziante, le linee strumentali salgono e scendono per semitoni, poi le relazioni iniziano a chiarirsi e infine si giunge a un do maggiore eccitato in modo perfino civettuolo; ora, il precedente, doloroso processo compiuto per trovarlo, non è nemmeno un lontano ricordo» (Schnebel nel 2006). In questi cinque racconti, disposizioni critiche attente ai parametri uditivo-analitici si alternano ad altre sensibili all’area sensoriale-immaginativa, o all’organizzazione retorica del discorrere della musica. Ventidue battute sono un esempio troppo ridotto? Ma Stephen Hawking ricorda che per comprendere l’Universo la fisica teorica ha dovuto spostare la ricerca dallo straordinariamente grande allo straordinariamente piccolo, senza più poterli separare. Anche dal punto di vista esecutivo, questo microcosmo mozartiano si presta a letture del tutto differenti, perfino inconciliabili.

Nell’incisione del 1927, la più antica di cui disponiamo, il francese Quartetto Capet (che fa durare quelle ventidue battute 1’43’’) sceglie il percorso che non dalle tenebre, ma da una penombra, da una luce bassa e diffusa porta alla luce; addolcisce e avvicina gli estremi della dinamica, accentua la risorsa del legato per ribadire la continuità del racconto e il primo violino, la cui voce si era sorgivamente generata alla battuta 2 e lievemente aveva eseguito la frase ascendente di battute 3 e 4, con la stessa levità distende piano il gruppetto che precede la sua ultima nota, un si enfatizzato come sensibile del successivo do maggiore; tiene appena la corona e scivola poi spontaneo, come attratto, verso il tema dell’Allegro. L’impatto della dissonanza di fatto scompare, non viene fatto percepire.

Nell’incisione del Quartetto Italiano (anno 1966, durata 2’11’’) l’entrata di secondo violino e viola a battuta 6 è un capolavoro di fedeltà alla nota scritta: il secondo rispetta il piano – come è prescritto anche per il mi bemolle di battuta 2, la sua prima nota – mentre la viola adesso non suona piano il suo sol bemolle, a differenza di come aveva interpretato il la bemolle di battuta 1: così, viene ribadita e accentuata la ‘dissonanza’ con il sol naturale del primo, che entra nel secondo quarto di battuta. Il Quartetto Italiano rende omaggio all’equilibrio classico di Mozart, nessun aspetto dinamico o timbrico è esasperato, ma in questo bassorilievo ogni voce è scolpita con morbidezza e spessore, e tutti sembrano ascoltarsi: non un’entrata è disuguale, non un suono rimanda a un esito interpretativo non omogeneo. Evidente, sensibile – e si riscontra infatti nella durata, nettamente la più estesa – è il respiro concesso alla musica: nella tradizione italiana, e vivaldiana, del Largo da concerto, circola aria in queste battute, mai compresse, mai accelerate, mai enfatizzate nei ritardi, nelle sospensioni. Le circonda, in particolare nel passo del violoncello, una bruma, una lagunare foschia. Un capolavoro d’insieme, non preoccupato di marcare una possibile tragicità di questa musica, ma capace, con calda oggettività, di coglierne lo sgomento.

A battuta 2, il piano del primo violino del Quartetto Amadeus (1966, durata 1’43’’) suona più piano rispetto agli altri strumenti, così che quando, nel segno della legatura, inizia e prosegue il crescendo, l’effetto di progressiva conquista del primo piano sonoro risulta non solo evidente, ma naturale, inarrestabile. Passaggio inverso, sempre per il primo violino, dal forte al piano nell’ultima battuta: rimane identica la meraviglia del dosaggio dell’intensità del suono e il gruppetto di quattro semibiscrome che precedono il si conclusivo è reso senza alcuna fretta e senza alcun indugio. Si immagina il terribile – ma per noi inavvertibile – sforzo dell’interprete per raggiungere questa facilità di emissione e di controllo. I quasi 30 secondi di minor durata rispetto al Quartetto Italiano sono in gran parte ‘guadagnati’ tra battuta 9 e battuta 16: mentre l’Italiano mantiene qui la condotta di prima e di dopo, l’Amadeus incalza e accentua il peso del suono. L’intreccio delle voci viene interpretato come elemento narrativo pensato da Mozart per accelerare il percorso, prima che ritorni il più calmo passo dell’avvio.

Il Quartetto Mosaïques (1991, durata 1’40’’) sceglie di intonare il la a 438; una frequenza ottocentesca, né moderna (442), né filologica (415). L’impasto timbrico è omogeneo, brunita e colma di calore la tinta del violoncello di Christophe Coin. Limpido e distinto il breve gioco polifonico. La sintesi tra oggettività dello sguardo e partecipazione emotiva crea una fotografia sonora di bella evidenza, priva di enfasi, dove tutti i dettagli sono riconoscibili. Il timore di eccedere tende a bloccare l’espandersi misterioso del suono, non ne lascia sfogare e persistere la risonanza, accelera nel passaggio finale e nella transizione dalla corona all’attacco dell’Allegro. Ognuna di queste quattro interpretazioni, come ognuna delle analisi riportate, è figlia della complessiva cultura musicale dei rispettivi autori. Quale la più vera, la più viva, la più fedele? Le verità possibili alla musica sono molte, sfuggenti e conviventi, e – naturalmente a un livello di alta qualità analitica ed esecutiva – ciascuna appare dotata di una propria capacità persuasiva.

Una sintesi di culture

Mozart italiano ed europeo, capace, attraverso i viaggi che lo avevano portato, in particolare nell’infanzia e adolescenza di una vita così breve e bruciante, ad assimilare stili e abitudini diversi e contemporanei. Londra e Parigi, l’Olanda e l’Italia, la Germania e Milano, Venezia e le sue maschere, Bologna – sede della prestigiosa e ortodossa Accademia Filarmonica – e Napoli, capitale del teatro musicale. Questi influssi, a cui si aggiungeranno quelli viennesi, dove avviene l’incontro, così fertile, con la musica di Johann Sebastian Bach, giudicato allora compositore troppo ‘serio’, troppo ‘organizzato’ per soddisfare le aspettative dello stile galante, sedimenteranno in lui in una sintesi consapevole, omogenea e multiforme, capace di corrispondere alle richieste di un mercato della musica tumultuoso e in espansione, come consumo sia privato sia pubblico, e di elaborare una propria autonomia espressiva, evidente sia nelle opere – dove la commedia e la tragedia, la vastità dei conflitti e pulsioni umani convivono – sia in numerosi lavori cameristici e sinfonici, capaci di forzare il limite delle consuete convenzioni d’ascolto: «La musica di Mozart è un continuo tentativo di aggirare le convenzioni», dirà a metà Novecento Theodor Adorno, con quella apodittica e dogmatica sicurezza che gli appartiene, geniale e parziale. La brillante invenzione e il dialogo melodico non penalizzano l’approfondimento; la libertà armonica, anche scioccante, convive con il ricorso al contrappunto, la musica orizzontale con la verticale, la lezione di Bach con la galanteria, l’ordine e il quadro formale con la variabilità consentita dall’introspezione, anche la più inquieta e irrisolta. La sua musica è severa e cordiale, austera e allegra, mobilissimo lo spettro dei timbri e delle sonorità. Il gusto nel citare fonti popolari e ritmi di danza convive con l’astrazione improvvisa che interrompe quel riferimento. Ma si può parlare, per Mozart, di ‘poetica della musica’, cioè di personale elaborazione del ‘flusso’ corrente della musica europea di allora? «Risulterebbe piuttosto curioso parlare della poetica di Bach, Haydn o Mozart, dal momento che le loro opere, pur nella loro multivalenza, tendono a incorporare obiettivi valori storici ed estetici che al tempo della loro realizzazione esistevano autonomamente e indipendentemente dalle singole opere; valori che, nella loro relativa permanenza, non venivano facilmente modificati dalla storia e dagli eventi. Poetica, seppure in termini molto generali, ha sempre implicato una visione evolutiva del fare musicale e dei criteri che lo guidano». Si può parlare della poetica di tanti singoli artisti del Novecento – da Webern a Messiaen, da Stravinsky a Bartok – dice Luciano Berio (2006; p. 100) – ma come distinguere l’individualità della creazione mozartiana all’interno di una koiné linguistica? L’attenzione allora si sposta sul rapporto, nella sua musica, tra convenzione e invenzione, sulla capacità di assimilare e restituire, distinguendosi. Sin da bambino, grazie alla ‘terapia d’urto’ decisa dal padre (viaggi, conoscenze, studio assiduo, molti concerti pubblici), Mozart è stato un musicista informato ed è ricorrente, nelle sue riflessioni, l’insistere sulla necessità e sull’utilità, per un uomo di talento, di viaggiare, avendo così la possibilità di conoscere, frequentare, misurarsi, crescere.

L’epistolario

Assieme alle opere, la lettura più formativa per conoscere lo sviluppo e le particolarità della personalità mozartiana è il suo epistolario: dalle prime righe, dai primi post-scritti in calce alle missive del padre inviate alla moglie e alla figlia rimaste a Salisburgo, alle lettere della maturità, che possiamo far datare al suo primo incontro con la morte, quella della madre, il 3 luglio 1778 a Parigi: Wolfgang è solo con lei e deve riferire (lo farà con disperato pudore) la tragedia al padre. Poi il viaggio a Monaco e la creazione dell’Idomeneo, quando la sua personalità teatrale, nei frequenti dissapori con la statica concezione drammaturgica del librettista Giovan Battista Varesco, con le capricciosità dei cantanti, dimostra una già raggiunta consapevolezza e autonomia. Dopo quel successo, tante lettere raccontano la decisione di non tornare a casa e di andare a guadagnarsi la vita da ‘libero professionista’ della musica a Vienna, licenziandosi dalla corte dell’arcivescovo di Salisburgo, che gli pagava lo stipendio, come faceva – da quarant’anni! – con il padre. E poi ancora la determinazione di sposarsi, contro la volontà di Leopold, che invierà la propria benedizione alla coppia solo a nozze avvenute. E il racconto dei primi successi viennesi, dell’intrecciarsi delle relazioni sociali, l’elenco dettagliato dei sottoscrittori delle sue Accademie, i giudizi sui colleghi compositori, i cantanti, i musicisti, gli attori di teatro, i nobili, la corte, gli amici massoni: un filo che si dipana fino all’ultima lettera a noi pervenuta, quella del 14 ottobre 1791, inviata alla moglie che stava passando le acque a Baden, non lontano da Vienna, assieme a Franz Xaver Wolfgang, il figlio nato il 26 luglio. Qui, Mozart racconta di essere passato al collegio per prendere l’altro figlio, Karl Thomas, che aveva sei anni, e poi la suocera e di averli portati ad assistere a una replica del Flauto magico, alla quale erano presenti anche Salieri e la cantante Caterina Cavalieri, e poi lui li ha riaccompagnati, e loro si sono molto complimentati…

Purtroppo, il lettore italiano non può godere di questa messe straordinaria di notizie e commenti: l’edizione critica integrale dell’epistolario, avviata dall’editore tedesco Bärenreiter già nel 1962, ripresa con iniziative degne della stessa affidabilità in Francia e Gran Bretagna, non ha ancora trovato una traduzione italiana, tante volte annunciata, sempre rinviata. Forse, un primo volume apparirà alla fine di questo anno celebrativo. Un’assenza pesante, malissimo compensata da pubblicazioni sempre troppo parziali, prive di un serio apparato critico, spesso indulgenti con alcuni aspetti riconducibili – in particolare per quanto riguarda l’erotismo anale e la pornolalia – all’infanzia del compositore. Ma è nelle lettere che possiamo apprezzarlo anche come scrittore (mai interessato al paesaggio, sempre alle persone, e alla musica) e comprendere il livello della consapevolezza di sé, la qualità, in particolare a partire dal 1781, anno dell’insediamento a Vienna, delle sue frequentazioni intellettuali come delle sue letture: l’immagine del ‘divino fanciullo’, del genio inconsapevole affonda in un attimo. In Mozart rivoluzionario e massone, edito nel 2005, Lidia Bramani ricostruisce con efficace scrupolo ed esattezza questo percorso socioculturale. In attesa dell’epistolario, si segnala la pubblicazione integrale dei testi delle composizioni vocali che, curata, in due volumi, da Marco Murara e Bruno Bianco, comprende le opere, le cantate profane e sacre, le arie e scene da concerto, i Lieder, i canoni, le rielaborazioni da altri autori: l’insieme delle fonti letterarie che hanno nutrito la sua fantasia creativa.

Musica e parole

L’anniversario del 2006 cade in un momento di riflessione autocritica sulle possibilità della critica, della musicologia, di comprendere la vastità, la complessità, la specificità del linguaggio della musica. Come è difficile, limitante, forzatamente parziale, parlare di musica, usare un altro linguaggio per descrivere un linguaggio perfettamente definito, che conosce, organizza e sviluppa proprie grammatica, sintassi, logica, estetica, i propri stili. Ma disponiamo di altro linguaggio? E possiamo pensare di arrivare ad approssimazioni analitiche sufficientemente chiare, esplicative, soddisfacenti? «Forse è più facile porre domande sul Padreterno, ce la caveremmo meglio, magari dicendo delle castronerie orrende! Nel caso di una realtà impalpabile come la musica, quando vogliamo costringerci a un rapporto con essa, le parole sembrano voler svanire. La musica di Mozart è affabile e anche effabile, esprime cioè la fede che il reale possa esprimersi: sembra voler comunicare questa possibilità», ha scritto Andrea Zanzotto.

Quando si parla di musica, e di questa musica dove, spesso in simultanea presenza, convivono opposizioni, conflitti, abbandoni, riconciliazioni, le parole servono a poco, cercano di avvicinarsi al fuoco della questione ma non ci riescono, come se ogni sforzo di precisione, di esattezza scientifica, semantica, lessicale, debba scontrarsi – soccombendo – con la misteriosa verità di un fenomeno fisico, il suono, che diventa un’entità immateriale, che muore mentre nasce, che trascorre e svanisce, restando però conficcato nel nostro sentire e ricordare: «Si è obbligati a credere che la musica esprima qualcosa, e si è condannati a non sapere mai cosa», scriveva con lieta amarezza il critico austriaco Edward Hanslick (1825-1904).

Come per colmare questa distanza, in particolare tra gli studiosi di area anglosassone, e in numerosi esecutori e didatti, si guarda con rinnovato interesse al rapporto tra le forme della retorica e quelle dell’organizzazione musicale. Nello schema sintattico e narrativo della forma-sonata, articolata e fluida, organica e dinamica, sembrano rivivere le regole di persuasione della retorica classica, l’organizzazione del discorso in momenti susseguenti e complementari, secondo la suddivisione stabilita da Cicerone e Quintiliano, i cui testi retorici erano noti: exordium, narratio, partitio (o divisio), confirmatio, reprehensio (o confutatio), conclusio. Un metodo che procede e contiene insieme, in una prospettiva multiforme però unitaria che ritroviamo nell’organizzazione della conoscenza del pensiero dialettico e hegeliano. Ma Hegel aveva timore della musica, della sua imprevedibilità, formale ed emotiva.

La relazione creativa tra retorica classica e articolazione del pensiero musicale è giudicata essenziale da John Irving, che riprende la teoria dei tropi: «Per Quintiliano (Institutio Oratoria) il tropo più importante era la metafora, nella quale ‘un oggetto… è in verità sostituito dalla cosa che desideriamo descrivere’. Applicata ai movimenti con variazioni, ognuna delle variazioni del tema può essere osservata come una metafora di quel tema (un nuovo termine che lo ‘sostituisce’, esercitando una sorta di ‘commento’), mantenendo strettamente la sua fraseologia originale e, con occasionale eccezione, la sua struttura armonica… Per i compositori, come per gli oratori, i luoghi topici (topics) erano ‘fonti’ dalle quali attingere materiale d’uso; per gli ascoltatori, costituivano un punto di riferimento, una sorta di griglia attraverso la quale la musica si disponeva in modelli riconoscibili. I topics potevano essere considerati come un magazzino di utili modelli di musica, da applicare in determinate situazioni. Per i compositori dell’opera barocca, la cui guida principale era la dottrina dell’Affetto, una conoscenza pratica dei topics era essenziale per la rappresentazione di particolari azioni ed emozioni attraverso una musica adeguata (pastorale, festiva, militare, e così via). Simili caratteristiche ‘fonti di ispirazione’ erano ben note al giovane Mozart che, come riportato da Daines Barrington nel 1769, poteva improvvisare un’ ‘Aria di furore’ a piacere, utilizzando senza dubbio un particolare codice o un gruppo di codici associati, come il tremolo, le triadi minori, lo spostamento di registri, e così via» (Irving 1998, pp. 61-72). L’analisi retorica si sovrappone così allo sguardo analitico e strutturale condotto usando termini e parametri – tema, esposizione, ripresa, sviluppo – sconosciuti ai musicisti del tempo di Mozart e frutto di approcci critici tutti novecenteschi.

La ‘funzione sociale’

Nel trittico di più recenti discipline d’indagine applicate alla musica, accanto alla teoria della ricezione e all’uso dei paradigmi retorici, largo sviluppo, nel secondo Novecento, ha avuto la sociologia della musica, inaugurata di fatto da Theodor Adorno nel suo saggio del 1962, più attento però a episodi e dinamiche dell’Otto e Novecento.

A Norbert Elias dobbiamo una radiografia credibile della condizione professionale, della ‘funzione sociale’ di un musicista del tempo di Mozart: «La posizione del musicista in tale società era in sostanza quella di un artigiano a servizio o di un impiegato.

Non era granché diversa da quella di un intagliatore, di un pittore, un cuoco o un gioielliere che, secondo gli ordini di nobili donne e di signori, dovevano confezionare oggetti di gusto, eleganti o, a seconda dei casi, sorprendenti per la loro elevazione e per il loro intrattenimento, per migliorare cioè la qualità della loro vita. Mozart sapeva senza dubbio che la sua arte, per come la concepiva, si sarebbe inaridita se avesse dovuto produrre musica unicamente per il piacere di persone sgradite, anzi odiate, e a loro comando, indipendentemente dalla propria opinione, dalla propria sintonia con quanto gli veniva ordinato. Malgrado la giovane età, percepiva chiaramente che le sue energie di compositore sarebbero state sprecate se si fossero dovute limitare ai compiti imposti nella ristrettezza della corte di Salisburgo... Per parte sua l’arcivescovo sapeva senza dubbio che il giovane Mozart aveva un insolito talento e che l’avere tra i suoi servitori un uomo simile avrebbe accresciuto la fama della sua corte» (Elias 1991, p. 123). Proprio riflettendo sulla ‘condizione sociale’ di Mozart, Pierre Boulez nel 2005, in occasione dei suoi 80 anni, si è chiesto quale sia la ‘funzione sociale’ del compositore contemporaneo di musica d’arte, colta, complessa, di tradizione classica: come mai definirla, oggi? Quali le sue aspettative, quali i riscontri, quale in sostanza la sua necessità? Alla domanda non è seguita una risposta convinta, ma una fertile riflessione: «Proprio l’esistenza di Mozart ci dimostra quanto sia variabile il parametro del successo: la sua vita è il più grande esempio della transitorietà del successo: lo ha ottenuto, lo ha perduto. I giovani compositori di oggi dovrebbero riflettere su questa vicenda, per imparare a seguire e rispettare soltanto le proprie inclinazioni, senza inseguire il successo».

La psicanalista Simona Argentieri condivide l’intuizione di Pierre Boulez e sostiene che «fra le tante malattie, fatiche e disgrazie che ha avuto, come la morte di quattro figli neonati, almeno questa gli è stata risparmiata: il tormento della creazione. In lui c’era la felice coincidenza fra l’io e ‘l’ideale dell’io’. È una conquista che ammiro in modo supremo, significa poter non vivere la qualità espiatoria, punitiva della creazione, che tanti invece considerano un ingrediente necessario all’arte». Nel mito dell’artista romantico, creazione equivale a dolore: un’equazione che mai ritroviamo nelle riflessioni mozartiane. La complessità e l’immediatezza, il significato profondo e la maschera che lo nasconde agli sguardi più superficiali: di questi differenti e simultanei livelli di ricezione Mozart era del tutto conscio se, come notò Franz Joseph Haydn, «aveva del gusto e inoltre la più grande scienza della composizione». Un raro connubio.

Saul Bellow – nella conversazione tenuta a Firenze nel dicembre 1991, a due secoli dalla morte di Mozart – nutriva radicali dubbi circa la nostra capacità di comprendere tale flusso di scienza e invenzione: «C’è una dimensione della musica che nega la comprensione finale, che elude e storna le prassi cognitive che siamo abituati a seguire e venerare. È un po’ come se fossimo convinti di cavalcare la cresta di un’onda di conoscenza che ha già superato la natura, ormai votati alla convinzione che il mistero non esiste – esiste solamente il non ancora noto. Ma credo di essermi spiegato. I fondamenti ci sfuggono, come sempre. Tuttavia l’amor proprio impone che si finga di possedere questa convinzione» (Bellow 1993, pp. 13-14). Se «i fondamenti ci sfuggono», capita allora di avventurarsi nella letteratura. Esaurito tutto l’immaginifico possibile sulla vicenda della morte – alla quale per primo nella micro-tragedia Mozart e Salieri Puskin (1830) diede dignità letteraria –, la recente editoria internazionale si è dedicata alle vite parallele della sorella Nannerl, del figlio musicista Franz Xaver (ribattezzato, già in vita, Wolfgang, come il padre), mentre non sono mancate disinvolte traiettorie che, complice Il flauto magico e le sue ritualità, tendono a ricondurre le radici di Mozart nell’Egitto immaginario caro alla massoneria. Ma alla fiction del 250° anniversario della nascita è venuto meno il contributo dell’industria cinematografica, un nuovo Amadeus di Milos Forman, film amato, criticato, detestato, con almeno un indubbio merito: aver proposto il nome, la figura, una qualche reminiscenza di Wolfgang Amadé Mozart – così lui si firmava – a un pubblico esteso, in larga parte giovanile; proprio quello che oggi appare più difficile raggiungere, coinvolgere, far innamorare della sua musica. «La musica è un’arte sociale, ha bisogno di luoghi pubblici, di emozioni vissute dal vivo, durante i concerti, nel momento in cui l’interprete fa nascere il suono di fronte ad una platea. La musica di Mozart regala gioia, un profondo senso di benessere che è bello condividere. Non chiede isolamento, ma partecipazione», ha detto Claudio Abbado. In questa direzione, amplissimo è il cammino che si può ancora percorrere.

La vita di Mozart 

Il ‘miracolo di Salisburgo’

Wolfgang Amadeus Mozart nacque a Salisburgo il 27 gennaio 1756. Suo padre, Johann Georg Leopold, musicista e autore di un trattato di tecnica violinistica (Versuch einer gründlichen Violinschule, 1756), era compositore di corte e insegnante di musica al servizio del principe vescovo Sigismund Christoph conte von Schrattenbach. Leopold cominciò subito ad avviare i due figli, Marianna, detta Nannerl, e Wolfgang allo studio del clavicembalo e nel 1759, quando Marianna aveva otto anni, prese per lei un quaderno di carta da musica sul quale si diede a scrivere e trascrivere pezzi facili, soprattutto nella forma allora in voga del Minuetto. Questo quaderno, che è giunto fino a noi, è un documento di considerevole importanza per la conoscenza della prima educazione musicale ricevuta dal piccolo Wolfgang: quando infatti il fanciullo cominciò anch’egli a esercitarsi sul clavicembalo, il padre gli faceva studiare, sulle orme della sorella, i pezzi già notati per lei sul quaderno, dandosi la cura di scrivere, sotto a ciascuno di essi, la data in cui Wolfgang l’aveva per la prima volta eseguito. Sappiamo quindi che Mozart cominciò a eseguire i pezzi del quaderno all’età di quattro anni, ma ben presto, non contento di suonare la musica degli altri, si mise a scriverne egli stesso. I suoi primi saggi di composizione vennero accuratamente trascritti dal padre: nel gennaio 1762 compose il suo primo Minuetto e un Allegro in si bemolle che è un vero primo tempo di sonata in miniatura.

Nel 1762 ebbero inizio i viaggi: il bambino era dotato di un eccezionale talento e il padre non si lasciò sfuggire l’occasione di far conoscere e ammirare il ‘miracolo di Salisburgo’. In una di queste occasioni Wolfgang fu presentato all’arcivescovo di Passau e suonò a Vienna alla presenza delle maestà imperiali. Verso la metà del 1763 Leopold ottenne il permesso di assentarsi un po’ più a lungo dal suo posto di vice Kapellmeister presso la corte del principe vescovo di Salisburgo. Tutta la famiglia intraprese così un lungo viaggio, che durò più di tre anni e toccò quelli che erano i principali centri musicali dell’Europa occidentale: Monaco, Augusta, Stoccarda, Mannheim, Magonza, Francoforte, Bruxelles e Parigi (dove soggiornarono il primo inverno), poi Londra (dove rimasero per 15 mesi), quindi di ritorno attraverso L’Aia, Amsterdam, Parigi, Lione, la Svizzera, arrivando a Salisburgo nel novembre 1766. Mozart suonò nella maggior parte di queste città, da solo o con la sorella, ora presso una corte, ora in pubblico, ora in una chiesa. Le lettere che Leopold scrisse ad amici di Salisburgo raccontano l’universale ammirazione riscossa dai prodigi di suo figlio. Questo successo era prodotto sia dall’abilità del fanciullo sia dal sapiente marketing (per usare un termine moderno) di Leopold. Basti citare il manifesto preparato dallo stesso Leopold nel dare l’annuncio di un concerto a Francoforte (30 agosto 1763): «...Prenderanno parte al concerto la fanciulla che è nel suo dodicesimo anno e il bambino che non ne ha ancora sette. Tutti e due suoneranno concerti sul clavicembalo e sul pianoforte; […] inoltre il bambino eseguirà un concerto sul violino, accompagnerà le sinfonie al pianoforte, si coprirà con un panno la tastiera del pianoforte e al di sopra di esso il bambino saprà suonare perfettamente né più né meno come s’egli avesse i tasti dinnanzi agli occhi e saprà riconoscere a distanza, senza il minimo errore, tutti i suoni che si vorranno produrre, soli o accordi, su qualunque strumento si voglia. Infine egli improvviserà liberamente (per qualsiasi durata di tempo e in tutte le tonalità che gli verranno proposte, anche le più difficili) non solo sul pianoforte, ma anche sull’organo, mostrando come egli sia in grado di comprendere il modo in cui si suona l’organo che è affatto differente dal modo di suonare il pianoforte».

A Parigi Mozart incontrò molti musicisti tedeschi e lì furono pubblicate le sue prime composizioni (sonate per clavicembalo e violino, dedicate a una principessa reale; KV 6-9). A Londra conobbe, tra gli altri, Johann Christian Bach, il figlio più giovane di Johann Sebastian e una delle figure di primo piano della vita musicale londinese: sotto la sua influenza Mozart compose le sue prime sinfonie (KV 16, KV 19 e KV 19a). Un’altra sinfonia seguì durante il soggiorno a L’Aia, nel viaggio di ritorno (KV 22). Dopo poco più di nove mesi trascorsi a Salisburgo, i Mozart partirono per Vienna nel settembre 1767, dove restarono per quindici mesi, escluso un intervallo di dieci settimane trascorse a Brno e Olomuc durante un’epidemia di vaiolo. Wolfgang compose un Singspiel tedesco in un atto, Bastien und Bastienne, che fu eseguito privatamente. Maggiori speranze furono riposte nella prospettiva di vedere rappresentata nel teatro di corte un’opera buffa italiana, La finta semplice: tali aspettative andarono però deluse, con grande indignazione di Leopold. Una grande messa solenne (probabilmente KV 139) fu invece eseguita alla presenza della corte imperiale in occasione della consacrazione della chiesa dell’Orfanotrofio. La finta semplice venne rappresentata l’anno seguente, 1769, nel palazzo dell’arcivescovo a Salisburgo. In ottobre Mozart fu nominato Konzertmeister onorario presso la corte salisburghese.

I viaggi in Italia

Nonostante l’intenso lavoro di studio, di composizione e l’attività concertistica causassero al giovane Wolfgang esaurimenti e frequenti malattie, Leopold decise di intraprendere ugualmente un viaggio in Italia. La padronanza dello stile operistico italiano era un requisito indispensabile per una felice carriera di compositore internazionale e il dominio politico austriaco sull’Italia settentrionale assicurava porte aperte ai Mozart in quella zona. Questa volta la madre e la sorella di Wolfgang rimasero a casa: la corrispondenza familiare fornisce quindi un dettagliato resoconto degli eventi. Il primo viaggio in Italia cominciò il 13 dicembre 1769 e durò quindici mesi, portando padre e figlio in tutti i principali centri musicali della penisola. Il primo concerto in terra italiana ebbe luogo a Rovereto, la sera di Natale del 1769. Le città visitate da Mozart furono Verona, Mantova, Milano, Parma, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e l’accoglienza che vi ebbe fu sempre trionfale. Dopo essere stato sottoposto a una serie di difficili prove all’Accademia Filarmonica a Verona e aver ottenuto una commissione per un’opera a Milano, Wolfgang si fermò a Bologna, dove prese lezioni di contrappunto da padre Giovanni Battista Martini. In seguito sostò a Roma, dove si racconta che, dopo aver ascoltato nella Cappella Sistina il Miserere di Gregorio Allegri (1582-1652), la cui partitura non poteva né essere copiata né data in lettura, pena la scomunica, ne trascrisse a memoria tutte le note. Il viaggio proseguì poi per Napoli, dove padre e figlio soggiornarono per sei settimane; in quel periodo Wolfgang ebbe l’opportunità di ascoltare l’Armida abbandonata di Niccolò Jommelli, un esponente della scuola napoletana. Al ritorno il compositore passò nuovamente per Roma, dove papa Clemente XIV lo insignì della Croce dello Speron d’oro (il grado più alto dell’ordine equestre pontificio, che prima di lui solo Orlando di Lasso aveva ricevuto), e per Bologna, dove superò le prove per l’ammissione alla locale Accademia Filarmonica; infine, giunse a Milano e lì portò a termine la sua nuova opera, Mitridate, re del Ponto, che fu rappresentata con grande successo al Teatro Regio Ducale il 26 dicembre. Lasciata l’Italia nel 1771, Mozart vi ritornò nello stesso anno per comporre e farvi eseguire l’Ascanio in Alba, una ‘serenata teatrale’ in due atti su testo dell’abate Giuseppe Parini, scritta per celebrare le nozze dell’arciduca Ferdinando con Maria Beatrice di Modena. Leopold notò con orgoglio che l’opera «aveva oscurato completamente» l’altro lavoro scritto per l’occasione, un’opera (Ruggiero) di Johann Adolph Hasse, che allora era considerato il maggior compositore di opere serie.

Il terzo e ultimo viaggio italiano durò dall’ottobre 1772 fino al marzo 1773. Il 26 dicembre 1772 fu rappresentata la nuova opera Lucio Silla, che, dopo un difficile inizio (la prima cominciò con tre ore di ritardo e ne durò sei), ebbe un successo ancora maggiore del Mitridate, ottenendo 26 repliche. In questi anni Mozart fu particolarmente prolifico: scrisse otto sinfonie, quattro divertimenti, varie opere sacre e una serenata allegorica, Il sogno di Scipione, nato probabilmente come omaggio al principe vescovo di Salisburgo, conte Schrattenbach, che lo aveva sempre protetto e che morì alla fine del 1771. Il lavoro non poté essere rappresentato fino alla primavera del 1772, quando fu eseguito per celebrare l’elezione del successore all’arcivescovado, il conte Hieronymus Colloredo.

Da compositore di corte a libero artista

Dal marzo 1773 all’estate del 1777 Mozart non si mosse da Salisburgo, salvo qualche breve soggiorno a Vienna, dove divenne discepolo di Franz Joseph Haydn e si interessò vivamente al contrappunto, scrivendo alcuni ‘dotti’ quartetti terminanti con fughe a più soggetti. Il 13 gennaio 1775 fu rappresentata a Monaco una nuova opera, La finta giardiniera, che suscitò molto entusiasmo; nel 1776 a Salisburgo fu messo in scena Il re pastore. Tuttavia, l’atmosfera gretta della città e le continue vessazioni a cui lo sottoponeva l’arcivescovo Colloredo spinsero Mozart a dimettersi dalla carica, mal retribuita, di Konzertmeister. Nell’agosto 1777 lasciò Salisburgo, accompagnato solo dalla madre, alla volta di Monaco; fu poi ad Augusta e infine a Mannheim, dove riprese ad ascoltare e studiare i sinfonisti di quella scuola. Per vivere impartiva lezioni e componeva su ordinazione, soprattutto sonate per pianoforte, alcune con accompagnamento di violino. A Mannheim conobbe il soprano Aloysia Weber, figlia di un copista di musica, e se ne innamorò. Prospettò al padre un progetto di viaggio in Italia con i Weber; tale proposta, ritenuta del tutto irresponsabile, fu respinta da Leopold con una replica adirata: «Via, a Parigi! e che tu possa presto trovare il tuo posto tra i grandi uomini: aut Caesar aut nihil». Il piano prevedeva che Wolfgang dovesse andare da solo nella capitale francese, ma poiché il padre non aveva grande fiducia nelle capacità di amministrarsi del figlio, decise che dovesse essere ancora accompagnato dalla madre. Raggiunsero Parigi verso la fine di marzo del 1778 e Mozart trovò ben presto da lavorare. Il suo risultato più importante è la sinfonia in Re maggiore nota come ‘Parigina’ (KV 297), composta per i Concerts spirituels. Il giorno del debutto della sinfonia, il 18 giugno, sua madre era già seriamente malata e il 3 luglio morì. Mozart scrisse una lettera a Leopold parlando di una grave malattia, e nel contempo ne spedì un’altra a un amico di Salisburgo, chiedendogli di preparare il padre alla triste notizia. Wolfgang andò quindi ad abitare con Friedrich Melchior, barone von Grimm, un amico tedesco. Poco tempo dopo Grimm scrisse a Leopold manifestando il suo pessimismo sulle prospettive di Wolfgang a Parigi. Leopold negoziò pertanto con l’arcivescovo la riassunzione del figlio alla corte di Salisburgo, con il ruolo di organista. Richiamato a casa, Wolfgang, sia pure riluttante, obbedì. Le tre sinfonie che Mozart scrisse nel 1779-80 mostrano la sua padronanza dei vari stili musicali: in particolare risentono della ‘moda parigina’ la nr. 32 in sol maggiore (KV 318), che presenta anche i crescendo tipici dell’orchestra di Mannheim, e la nr. 34 in do maggiore (KV 338). Sempre a questo periodo appartengono la sinfonia concertante per violino e viola in mi bemolle maggiore (KV 364), il concerto per due pianoforti (KV 365) e la sonata per due pianoforti (KV 448), nonché varie opere sacre, tra cui la più famosa delle messe di Mozart, la Krönungs-Messe (KV 317). Ma era soprattutto la musica per il teatro ad attirare il suo interesse. Tra il 1779 e il 1780 compose buona parte di un Singspiel, conosciuto come Zaide (KV 344), nonostante non ci fossero concrete prospettive per una rappresentazione. Una buona occasione gli venne da parte dell’elettore di Baviera, con l’incarico di scrivere un’opera da rappresentarsi a Monaco durante le feste del carnevale 1781. Questa fu l’Idomeneo re di Creta, su libretto dell’abate Varesco, che risente fortemente dell’influenza di Christoph Willibald Gluck, di Niccolò Piccinni e di altri compositori dell’epoca. Rappresentata per la prima volta il 29 gennaio 1781, appena due giorni dopo il venticinquesimo compleanno di Mozart, l’opera fu accolta con grande favore. Wolfgang era ancora con suo padre a Monaco quando, il 12 marzo, fu convocato dall’arcivescovo Colloredo nella sua residenza di Vienna, dove si stava celebrando l’ascesa al trono di Giuseppe II. Fresco di trionfi a Monaco, dove si era intrattenuto liberamente con i membri della nobiltà, Mozart si trovò ora posto alla tavola della servitù nella residenza viennese di Colloredo. Per di più, l’arcivescovo gli negò il permesso di suonare ai concerti, tra cui uno alla presenza dell’imperatore, nel quale Mozart avrebbe potuto guadagnare la metà dello stipendio di un anno in una sola serata. Mozart si sentì offeso e umiliato e al termine di un acceso colloquio con l’arcivescovo chiese il licenziamento, che gli fu però concesso solo il 9 giugno 1781.

Gli anni viennesi

Il decennio 1781-91 fu quello dei capolavori. Nel 1782 sposò Constanze Weber, sorella di Aloysia. Durante il periodo del fidanzamento aveva scritto il Singspiel Die Entführung aus dem Serail (Il ratto del serraglio), che si può considerare come primo esempio di dramma lirico tedesco, distante sia dall’opera italiana sia dalla concezione drammatica di Gluck. L’aneddoto secondo il quale l’imperatore avrebbe commentato «troppe note, mio caro Mozart» probabilmente non è del tutto reale, ma è sintomatico: l’opera presenta una tessitura più fitta rispetto alle precedenti e una migliore elaborazione e arie più lunghe. Le lettere di Mozart al padre permettono di cogliere il suo approccio alla composizione teatrale, spiegando molti degli espedienti usati per far aderire la musica al significato dell’opera. Inoltre Mozart modificò considerevolmente il testo originale per rafforzare l’effetto drammatico e creare migliori opportunità per la sua musica. Caratteristiche di rilievo sono le colorazioni ‘turchesche’ (cioè esotiche per l’epoca), i passi (come il finale del secondo atto) sulla falsariga dell’opera buffa italiana, quelle che Mozart definiva come concessioni al gusto viennese per la musica comica, come il duetto Vivat Bacchus, e infine le arie straordinariamente espressive dell’eroina. Il ratto del serraglio ebbe un immediato e duraturo successo; ben presto entrò nel repertorio di compagnie teatrali itineranti e di provincia – come aveva fatto, sia pure in misura minore, La finta giardiniera – e contribuì a diffondere la fama di Mozart in tutte le nazioni germanofone. Nella seconda parte dell’anno, Mozart lavorò su una serie di tre concerti per pianoforte (KV 413, KV 414 e KV 415) e iniziò una serie di sei quartetti per archi (cfr. KV 387). Cominciò inoltre a comporre una grande messa in do minore (KV 427), che aveva fatto voto di scrivere in occasione del suo matrimonio ma che fu completata solo nelle prime due sezioni, ‘Kyrie’ e ‘Gloria’. Tra gli influssi che incisero su questa musica, oltre alla tradizione ecclesiastica austriaca, si avverte quello della musica barocca (Bach, Händel e altri) della quale Mozart era venuto a conoscenza nella casa di uno dei suoi benefattori, il barone Gottfried van Swieten, appassionato della musica antica e collezionista di partiture. Gli anni viennesi furono anche di intensa attività concertistica: Mozart in una lettera scrisse al padre che «Vienna era la terra del pianoforte» e infatti raccolse le sue maggiori affermazioni come pianista-compositore. Nell’intervallo di tempo di poco più di cinque settimane tenne 22 concerti, soprattutto nelle case Esterházy e Galitzin, ma anche cinque volte a casa propria. Nel febbraio 1784 Mozart iniziò a tenere un catalogo delle sue composizioni, cosa che suggerisce una nuova consapevolezza della posterità. Nei concerti normalmente suonava al pianoforte sia brani già scritti sia improvvisati al momento. Alcuni esempi di queste improvvisazioni sono probabilmente offerti dalle fantasie, come per es. quella in do minore (KV 475) del 1785. Mozart diresse inoltre l’esecuzione delle sue sinfonie, riutilizzando quelle scritte a Salisburgo nonché due di nuova composizione, la ‘Haffner’ (KV 385) e la ‘Linzer’ (KV 425). Nel 1782-83 Mozart compose tre concerti per pianoforte (KV 413, KV 414 e KV 415), che pubblicò nel 1785 rendendo opzionali le parti per fiati (affinché i concerti fossero adatti a un uso domestico) e che descrisse come «il giusto mezzo tra il troppo facile e il troppo difficile». Sei altri concerti seguirono nel 1784, tre nel 1785, tre nel 1786, uno nel 1788 e uno nel 1791. A questo periodo risalgono opere di particolare rilievo anche nell’ambito della musica da camera. La produzione del 1784 comprende una sonata per pianoforte in do minore (KV 457) e una sonata per violino e pianoforte composta appositamente per una virtuosa italiana, Regina Strinasacchi (KV 454). Mozart scrisse inoltre, in uno stile affine a quello dei concerti, un quintetto per pianoforte e strumenti a fiato (KV 452), che egli stesso considerava tra le sue composizioni migliori. La serie di sei quartetti per archi iniziata nel 1782 fu terminata al principio del 1785 (cfr. KV 465) e pubblicata nel corso di quell’anno con dedica a Haydn. Nel 1785 Haydn disse a Leopold, che era a Vienna in visita a Wolfgang: «Vostro figlio è il più grande compositore che io conosca di persona o di nome; egli ha buon gusto e, cosa ancora più importante, una profondissima conoscenza dell’arte di comporre».

Da Figaro a Don Giovanni

Tuttavia Mozart non cessava di pensare al teatro. Nel 1783 scrisse al padre: «Ho esaminato più di cento libretti e neppure uno ne ho trovato di cui potere essere soddisfatto». Nel 1786 compose l’opera Der Schauspieldirektor (L’impresario teatrale), rappresentata a Schönbrunn; ma qualche mese dopo aveva già pronte Le nozze di Figaro, una delle sue opere più importanti e significative. L’italiano Lorenzo da Ponte, poeta ufficiale del Teatro di Vienna, che aveva elaborato in forma di libretto per musica la nota commedia di Beaumarchais, lo incoraggiò ad affrontare la non facile prova e di questo suo merito si gloriò apertamente nelle sue Memorie: «La mia sola perseveranza e fermezza furono quelle in gran parte a cui deve l’Europa e il mondo tutte le squisite vocali composizioni di questo ammirabile genio». Da Ponte, pur eliminando le implicazioni politiche dell’originale francese per renderlo accettabile alla censura austriaca, ne conservò le linee principali e il carattere fondamentale. L’opera presenta la figura del nobiluomo che desidera prevaricare i suoi sudditi riaffermando antichi privilegi, ma la comicità del libretto e della musica mettono in secondo piano le tensioni sociali, rendendo latente il conflitto di classe. La rappresentazione delle Nozze di Figaro, prima a Vienna e poi a Praga, costituì un vero trionfo per Mozart, che tuttavia non riuscì a trarne sufficienti vantaggi economici. Anzi ne furono acuiti l’animosità e lo spirito d’intrigo degli invidiosi che cercavano in tutti i modi di danneggiarlo. Ma il direttore del Teatro di Praga, che ne aveva vagliato i meriti, gli diede l’incarico di scrivere un’opera per la stagione seguente: il Don Giovanni che l’abate Lorenzo da Ponte trasse, in parte, dal Don Giovanni ossia Il Convitato di pietra di Giovanni Bertati, rappresentato in Italia nel 1787, e in parte rifacendosi a versioni popolari della nota commedia. È un Don Giovanni italiano, imbevuto di elementi ambientali e contemporanei, dove il buffo s’innesta sul drammatico, il cavalleresco sul fantastico. Ma la commedia acquista la sua reale vitalità soltanto attraverso la musica di Mozart, che coglie rapidamente quello che di drammatico è nella vicenda e lo scolpisce con vigore di stile e profondità d’accenti. L’opera, rappresentata a Praga nell’ottobre 1787, ebbe grande successo.

Tornato a Vienna, Mozart fu nominato Kammermusikus dell’imperatore, al posto di Willibald von Gluck, morto il 15 novembre di quell’anno. Don Giovanni fu rappresentato nella capitale austriaca il 7 maggio 1788, ma vi ebbe un’accoglienza tiepida. L’amministrazione del Teatro imperiale aveva acconsentito di malavoglia a mettere l’opera in scena e nell’ambiente ostile erano stati rimestati vecchi rancori. Durante l’estate Mozart visse un periodo di depressione, come testimoniano le lettere; nonostante ciò, scrisse le sue tre ultime sinfonie, in mi bemolle maggiore (KV 543), in sol minore (KV 550) e in do maggiore ‘Jupiter’ (KV 551): esse, unitamente alla sinfonia ‘Prager’ del 1787 (KV 504), rappresentano il vertice assoluto della musica sinfonica. Nel 1789 morì Leopold; Constanze, da cui Wolfgang aveva avuto già un figlio, era di salute malferma e, complessivamente, lo stato delle finanze della famiglia era precario.

Gli ultimi viaggi

Un po’ nella speranza di trovare vantaggi economici, un po’ perché l’amore per i viaggi era stato sempre vivo in lui, Mozart decise di seguire il principe Karl Lichnowsky in un giro attraverso la Germania, a Dresda, Lipsia e Berlino. Il compositore fu ricevuto presso la corte prussiana e probabilmente fu invitato a scrivere alcune sonate per pianoforte per la principessa e alcuni quartetti d’archi per il re Federico Guglielmo II, ‘dilettante’ di violoncello. In effetti, Mozart compose tre quartetti (KV 575, KV 589 e KV 590), nei quali la parte del violoncello è particolarmente sviluppata, e una sonata per pianoforte (KV 576). L’estate vide la composizione del quintetto per clarinetto (KV 581), nel quale il vero stile cameristico si concilia dolcemente con le qualità del solista. Quindi Mozart si concentrò nella composizione della sua successiva opera teatrale, la terza su libretto di Da Ponte: Così fan tutte debuttò il 26 gennaio 1790. Le rappresentazioni si interruppero dopo la quinta replica, quando il teatro fu chiuso a causa della morte dell’imperatore Giuseppe II. Il nuovo imperatore Leopoldo II non doveva mostrare, per la musica, l’interesse del suo predecessore; tuttavia la sua incoronazione a Francoforte diede occasione a Mozart d’intraprendere un nuovo giro di concerti che, mal programmato e poco seguito, fu fallimentare dal punto di vista finanziario. Il 1791 si preannunciò come un anno migliore: Mozart terminò la composizione del suo ultimo concerto per pianoforte (KV 595), scrisse numerose danze per la Redoutensaal e compose due nuovi quintetti per archi, uno in re maggiore (KV 593) e uno in mi bemolle maggiore (KV 614). In aprile ottenne il posto di assistente senza stipendio dell’anziano Kapellmeister della cattedrale di Santo Stefano, Leopold Hofmann, con l’aspettativa di essere nominato suo successore (ma Hofmann sarebbe vissuto sino al 1793). Un vecchio amico di Mozart, Emanuel Schikaneder, che due anni prima aveva allestito una compagnia per la messa in scena di Singspiels in un teatro di periferia, incaricò Mozart di musicare un suo libretto, intitolato Die Zauberflöte (Il flauto magico), derivato da una raccolta di fiabe di Christoph Martin Wieland, ma che si rifaceva anche ad altre fonti letterarie e probabilmente al pensiero massonico. Il compositore vi lavorò nel corso della primavera e fino all’inizio dell’estate; poi ricevette un’altra commissione, anonima, per la composizione di un Requiem, sotto la condizione che essa dovesse restare segreta. Inoltre, fu invitato, probabilmente in luglio, a scrivere un’opera che doveva essere rappresentata in settembre a Praga, in occasione delle celebrazioni per l’incoronazione di Leopoldo II. Durante la maggior parte dell’estate e dell’autunno Constanze rimase a Baden per fare delle cure termali; in luglio diede alla luce il loro sesto figlio, uno dei due che sopravvissero (Karl Thomas, 1784-1858, e Franz Xaver Wolfgang, 1791-1844). Le lettere di Mozart a lei indirizzate mostrano che da principio lavorò al Flauto magico, poi si dedicò a comporre in tutta fretta l’opera per Praga, La clemenza di Tito, che completò in soli 18 giorni, anche se probabilmente i recitativi secchi furono scritti dal suo allievo Franz Xaver Süssmayr. L’opera, basata su un vecchio libretto di Pietro Metastasio ripreso e modificato da Caterino Mazzolà, poeta di corte a Dresda, alla prima rappresentazione fu accolta tiepidamente, ma ben presto conquistò il pubblico di Praga e nei decenni successivi divenne una delle composizioni maggiormente ammirate di Mozart. Verso la metà di settembre Mozart era di ritorno a Vienna: il suo concerto per clarinetto (KV 622) venne terminato il 29 settembre e il giorno successivo si tenne la prima rappresentazione di Die Zauberflöte, che divenne rapidamente la più amata delle opere teatrali di Mozart. Mozart stava già male quando era a Praga, ma a giudicare dalle lettere inviate a Constanze in ottobre egli era di buon umore e, per qualche ragione, più ottimista sul proprio futuro. Compose per la sua loggia una cantata massonica (KV 623), che diresse personalmente nell’esecuzione del 18 novembre. In questo periodo, inoltre, lavorò assiduamente al Requiem (KV 626). Alla fine di novembre le sue condizioni di salute si aggravarono e fu costretto a restare a letto: il 5 dicembre 1791, cinque minuti prima dell’una di mattina, morì. Fu seppellito in una fossa comune, una pratica consueta nella Vienna di allora; il funerale venne seguito da un piccolo gruppo di amici. ‘Febbre miliare acuta’ fu la causa di morte secondo i primi accertamenti; in seguito si parlò anche di ‘febbre reumatico-infiammatoria’. Sono state avanzate molte altre ipotesi diagnostiche, alcune plausibili, altre molto fantasiose. Non c’è nessuna prova per sostenere la storia secondo la quale Mozart fu avvelenato da Antonio Salieri (un collega e un amico, piuttosto che un accanito rivale) o da qualcun altro. Tuttavia questa diceria, priva di fondamento, ha ispirato diversi artisti nel corso dei secoli, a partire da Alexandr Puskin. Questi nel brevissimo dramma in versi del 1830 Mozart e Salieri (precedentemente intitolato Invidia) immaginò Salieri roso dalla gelosia, tanto da commissionare a Mozart il Requiem, con l’intento di rubarglielo dopo averlo avvelenato, e di spacciarlo per suo. Per la trovata, l’autore russo si ispirò probabilmente al fatto che la composizione fu commissionata dal conte Fritz Von Walsegg, che infatti voleva passarlo per proprio durante le esequie di sua moglie. Constanze volle che il Requiem venisse completato, visto che il committente aveva promesso un lauto compenso, e ne affidò l’incarico dapprima a Joseph Eybler, che però si dimostrò riluttante nel terminare l’opera, e quindi a Franz Xaver Süssmayr, che assolse il compito basandosi probabilmente su appunti e istruzioni dello stesso Mozart. Al dramma di Puskin si ispirano sia l’opera Mozart e Salieri di Nikolaij Rimskij-Korsakov (1898) sia l’adattamento teatrale che ne fece Peter Shaffer nel 1978 (Amadeus), portato sul grande schermo da Milos Forman nel 1984.

La produzione di Mozart fu di una quantità veramente prodigiosa, specialmente se si confronta con la sua breve vita: il catalogo delle sue opere, compilato da Ludwig von Köchel nel 1862, elenca 626 composizioni (che si indicano con il numero del catalogo preceduto dalla iniziale K). Tutte le forme di ogni genere interessarono la sua inesauribile facoltà inventiva, dalla musica vocale sacra e profana alla musica teatrale, dalla musica sinfonica a quella da camera. Scrisse 21 opere, 49 sinfonie, 25 concerti per pianoforte e orchestra, 5 concerti per violino e orchestra, 23 quartetti per archi, 17 sonate per pianoforte, 35 sonate per violino e pianoforte, e inoltre messe, cantate, litanie, vespri, composizioni liturgiche minori, sonate da chiesa, arie con orchestra, Lieder, canoni, trii, quartetti per vari strumenti, quintetti, marce e danze per orchestra, divertimenti, serenate, cassazioni, concerti per diversi strumenti e orchestra.

riferimenti bibliografici

S. Bellow, Mozart, trad. it. Milano, Mondadori, 1993; L. Berio, Un ricordo al futuro, Torino, Einaudi, 2006; N. Elias, Mozart, sociologia di un genio, a cura di M. Schröter, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1991; G. Gruber, La fortuna di Mozart, trad. it. Torino, Einaudi, 1987; J. Irving, Mozart. The Haydn Quartett, Cambridge, Cambridge University Press, 1998; M. Mila, La fortuna e il significato di Mozart, in «Città di Milano», 72, dicembre 1955, ora in Mozart. Saggi 1941-1987, Torino, Einaudi 2006; H. Rösing, Gli effetti della musica sul fruitore, in L’esperienza musicale. Teoria e storia della ricezione, a cura di Gianmario Borio e Michela Garda, Torino, EDT, 1989; T. de Wyzewa - G. de Saint Foix, W.A. Mozart, Sa vie musicale et son œuvre, 5 voll., Parigi, Desclée De Brouwer, 1912-46; M. Zenck, Abbozzo di una sociologia della ricezione musicale, in L’esperienza musicale, cit.

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