NAPOLI

Enciclopedia Italiana (1934)

NAPOLI (A. T., 27-28-29)

Goffredo COPPOLA
Carmelo COLAMONICO
Fausto NICOLINI
Vincenzo EPIFANIO
Riccardo FILANGIERI di CANDIDA
Guido PANNAIN
*
Maria ORTIZ

È il capoluogo della Campania e la città più importante del Mezzogiorno d'Italia, di cui fu per molti secoli capitale e di cui riassume anche oggi le aspirazioni e molte delle più spiccate caratteristiche fisiche e antropiche. È una delle maggiori città del regno d'Italia, per sviluppo demografico, per tradizioni storiche, per importanza economica.

Sommario. - Posizione (p. 227); Clima (p. 227); Sviluppo topografico (p. 228); Sviluppo demografico (p. 230); Attività economica (p. 231); Porto (p. 231); Aeroporto (p. 233); Comunicazioni terrestri (p. 233); Recenti opere pubbliche (p. 233). - Storia (p. 233)). - Arti figurative (p. 242). Vita musicale (p. 250). - Teatro di prosa (p. 251). - Letteratura dialettale e folklore (p. 252). - Istituti di cultura, biblioteche e musei (p. 254). - La provincia di Napoli (p. 255).

Posizione. - Posta in una delle più belle plaghe della terra e celebrata in ogni tempo per la varietà dei panorami, per la mitezza del clima e per l'incanto del mare e del cielo, è uno dei maggiori centri turistici d'Italia, intensamente frequentata da connazionali e da stranieri specialmente durante la primavera. Situata nel tratto mediano del Mediterraneo, proprio a metà della costa tirrena della penisola, vicina all'Africa settentrionale e di fronte allo stretto di Gibilterra, ha sempre avuto, nella sua storia due volte e mezza millenaria, notevole importanza marinara.

Le coordinate geografiche della Specola reale di Capodimonte sono 40° 51′46″ di lat. N. e 14° 15′ 15′′ di long. E. Dal 1925-26, con l'annessione di tutti i sobborghi che attualmente fanno parte del comune di Napoli e col distacco d'una piccola area assegnata a Casalnuovo, la superficie del territorio comunale, che fino al 1925 era stata di 60,55 kmq., è salita a 117,34 kmq.

Clima. - I dati dell'osservatorio di Capodimonte, il cui barometro è collocato a 149 m. sul mare, assegnano a Napoli, per il sessantennio 1866-1925, una temperatura media di 15°,83; la media delle temperature massime diurne è di 19°,27 e quella delle minime diurne (è di 2°,91; la massima assoluta, nel lungo periodo di tempo preso in considerazione, è stata di 37°,3 (il 23 agosto 1881) e la minima assoluta di − 4,6 (il 14 febbraio 1905); il mese più caldo è l'agosto, con 24°,13, il più freddo è il gennaio, con 8°,45; l'escursione annua è, pertanto, inferiore a 16° (propriamente 15°,68), i valori medî delle stagioni estreme si distaccano pochissimo dai valori medî dei mesi estremi; la media, infatti, delle temperature invernali è di 9°,8 e quella delle estive è di 23°,06. La media normale annua dell'umidità relativa dell'aria è del 68% e oscilla fra 73 nel dicembre e 62 nel luglio e nell'agosto. La nebulosità è di 4,3 (in decimi di cielo coperto); il numero medio dei giorni sereni è nell'anno di 163, quello dei giorni nuvolosi di 107 e quello dei giorni coperti di 95; il massimo numero dei giorni sereni (24) cade in agosto e il minimo in febbraio (9), il massimo di giorni nuvolosi (11) in marzo e il minimo (5) in agosto, il massimo di giorni coperti (13) in dicembre e il minimo (1) in luglio. La quantità media annua della pioggia caduta è di 883 mm.; il mese più piovoso è l'ottobre (134 mm.), il meno piovoso è il luglio (19 mm.); peraltro, la piovosità dell'ottobre si differenzia di poco da quella dei mesi di novembre e dicembre, l'anno con pioggia più copiosa fu il 1915 (1404 mm.); quello con maggiore siccità il 1880 (415 mm.); il numero dei giorni piovosi è in media di 115. La media annua dei giorni con temporali è di 17 (col massimo nell'ottobre), quella dei giorni con grandine è di 8; le giornate nevose sono così rare da costituire per i Napoletani, più che altro, un divertimento; rare pure le brinate. Nei mesi invernali predominano i venti da N. e da NE., nei mesi primaverili ed estivi quelli da SO. e da S.; questi ultimi segnano anche le massime velocità (72 km. orarî). La pressione atmosferica è registrata in 748,56 mm. di media; essa presenta tre massimi e tre minimi: il massimo principale si verifica in gennaio, il minimo principale in aprile. Nel complesso il clima di Napoli è eccezionalmente mite e costante.

Sviluppo topografico. - L'area occupata dalla città antica era contenuta nello spazio circoscritto oggi dalle vie Foria, Costantinopoli, San Sebastiano, Santa Chiara, Umberto I, Pietro Colletta, Castelcapuano. In questa parte il fondamentale tracciato delle antiche vie è conservato nell'odierna rete stradale, in cui le arterie si tagliano ad angolo retto, così come s'incrociavano i tre decumani (corrispondenti oggi alle vie Forcella, Tribunali e Anticaglia) intersecati da cardines, tra i quali molto importante quello degli Alessandrini (Via Mezzocannone), assai cresciuti ai tempi di Nerone.

Nei primi secoli del Medioevo la città rimase nei confini delle antiche mura turrite, rifatte sotto l'impero di Valentiniano III (450-455), e secondo altri da Belisario al tempo della guerra gotica (535). Il primo grande ampliamento della città ebbe luogo all'inizio del sec. X. Ruggiero il Normanno, quando venne a prenderne possesso nel 1140, avendone fatte misurare le mura, le trovò di 2363 passi napoletani, pari a metri 4466.

Aveva la città dei tempi ducali (sec. VI-XII) due cattedrali, quattro basiliche principali, sette diaconie, nmnerose chiese, cappelle, oratorî. Ben 29 erano i monasteri dentro le mura di cui 18 di donne, e altri quattro erano fuori mura. Celebri tra essi furono quelli dei Ss. Severino e Sossio, dei Ss. Teodoro e Sebastiano, di S. Gregorio, dei Ss. Pietro e Marcellino, di S. Maria di Donnaregina. Dei suoi due porti, il più antico era quello detto de Arcina dal vicino Arsenale, e stava nel luogo che ha conservato il nome di Molo piccolo, presso S. Pietro martire. Il Mandracchio ne è un avanzo. L'altro, detto Vulpulum, era più ad O. e si addentrava nella costa dove ora è la Piazza Municipio. Sulle colline del suburbio erano i vasti cimiteri cristiani, noti coi nomi di Catacombe di San Gennaro, di S. Eufebio, di S. Gaudioso. Poco lungi dalla punta di Monte Echia, sull'isolotto del Salvatore (antica Megaris) dimorarono eremiti basiliani fin dal sec. VI, ridotti a vita claustrale nel sec. IX. Ivi sorse un forte, di cui si ha notizia al principio del sec. XII; accresciuto dai Normanni, divenne Castel dell'Ovo. Ancora più a occidente era la spiaggia (plaia) di S. Leonardo, divenuta nel linguaggio del volgo Chiaia.

Divenuta capitale del Regno con la conquista angioina (1266), Napoli ebbe nuovo incremento demografico, e quindi urbanistico. Fuori l'antica porta Petruccia (sotto alla chiesa di Santa Maria la Nova) si formò rapidamente un nuovo borgo, che divenne la parte più nobile della città. Ne fu centro Castel Nuovo, eretto da Carlo I (1279-1284); Carlo II vi edificò intorno i palazzi dei principi di Taranto, dei duchi di Durazzo e la Corte del Vicario, trasformata da Giovanna I nella chiesa dell'Incoronata. L'antico porto Vulpulum, portato più in fuori, divenne il porto Pisano e fu protetto dal grande Molo angioino. Nella regione detta Suppalatium, tra il castello e il molo, fu eretto il nuovo arsenale. Questo borgo durante gli assedî che subì il castello nelle lotte tra Angioini, Durazzeschi e Aragonesi (1382-1442) fu totalmente devastato.

Nuovo grande incremento ebbe la città con la venuta di Alfonso d'Aragona e durante il regno dei suoi successori (1442-1501). Due nuovi ampliamenti ebbe in tal periodo la cinta delle mura di Napoli. Il primo per opera di Alfonso duca di Calabria, il quale, attuando soltanto una parte del suo vastissimo programma edilizio, ricostruì, avanzandolo, tutto il lato orientale delle mura, dal Carmine a porta S. Gennaro (1484). Alte e bellissime mura (che in gran parte esistono ancora accosto a via Rossaroll) rivestite di piperio a filari, con ventidue torri cilindriche protessero il lato maggiormente esposto all'urto del nemico, e inclusero tutto Castel Capuano, che prima era per metà fuori delle mura. L'altro ampliamento fu opera di Federico d'Aragona e lo diresse l'architetto Antonio Marchesi da Settignano (1499-1501). Partendo da Porta Reale (Piazza del Gesù), le nuove mura raggiungevano la linea dell'attuale Via Roma (Via Toledo) e la seguivano fin quasi al punto donde ora si diparte la Via di S. Brigida; di lì piegavano per raggiungere la cittadella di Castel Nuovo (che stava davanti alla porta del castello).

Uno dei maggiori sviluppi urbanistici di Napoli fu quello attuato dal viceré don Pietro di Toledo, il quale, seguendo la politica dei Re Cattolici, per porre fine al disordine politico provocato dall'insofferenza di giogo delle grandi famiglie feudali, cercò di attirarle nella capitale, per staccarle dai feudi e averle sott'occhio. Sorsero così numerosi i palazzi signorili, a cui si aggiunsero quelli di molti Spagnoli. E la città andò rapidamente dilatandosi, anche questa volta verso occidente.

Tutta l'area compresa tra le mura medievali e aragonesi e il declivio del colle di Sant'Elmo, fino all'altezza dell'attuale Corso Vittorio Emanuele, si riempì di palazzi. Ebbe allora origine la bella Via Toledo, la quale tolse il primato all'antico decumano massimo (Via Tribunali), che l'aveva tenuto per venti secoli, e fu a sua volta per tre secoli la maggiore via della città e una delle più celebrate d'Europa.

Nelle nuove mura (1537-1550) i baluardi poligonali sostituirono le antiche torri. Con tali mura la cinta di Napoli raggiunse allora la sua massima espansione, ma la città continuò ad allargarsi fuori di esse, con nuovi borghi che si formarono lungo le vie fuori delle porte, durante i secoli XVII e XVIII.

Tornata con Carlo di Borbone (1734) capitale d'un regno autonomo Napoli ebbe nuovo sviluppo e andò ancora una volta rapidamente trasformandosi e assumendo quei caratteri urbanistici ed edilizî, che ha poi conservato fino ai nostri giorni. Appena giunto, il sovrano restaurò Castel Nuovo, poco dopo eresse le regge di Capodimonte e di Portici, il massimo teatro S. Carlo, il grandioso Albergo dei poveri, presso il quale si formò poi la grande Via di Foria, fuori le mura settentrionali; a suo figlio Ferdinando si deve il primo pezzo della Villa.

Intanto si andavano ricoprendo di palazzi tutte le pendici delle colline di Sant'Elmo, di Capodimonte e di Capodichino; di nuovi palazzi magnatizî si abbelliva monte Echia, detto allora Pizzofalcone.

Molte altre opere si dovettero al Murat (1808-1815); tali la bella via nuova di Capodimonte, che dal palazzo del Museo Borbonico conduceva a quella reggia , poco lungi da quella l'Osservatorio astronomico; presso l'Albergo dei poveri, l'Orto botanico; la via di Posillipo. Ferdinando I, restaurata la monarchia, eresse ex-voto la monumentale basilica di S. Francesco di Paola, creandovi innanzi il Foro ferdinandeo, oggi Piazza Plebiscito (1816).

Ai tempi di Ferdinando II si deve la costruzione del Corso Maria Teresa, magnifica via panoramica protetta da speciali rescritti disciplinanti le costruzioni; essa diede origine a nuovi quartieri.

Tutto questo incremento urbanistico non fu regolato da alcun piano, sì da creare informi e densi agglomeramenti di case. Due nuove strade, Via del Duomo e Corso Garibaldi, aperte tra la fine del periodo borbonico e i primi anni dell'unità italiana, tagliando la città antica da N. a S. cominciarono a dare aria alle vie già troppo strette. Ma fu soltanto dopo la disastrosa epidemia colerica del 1884 che fu deciso lo sventramento della parte bassa della città antica. Abbattuti interi quartieri di miseri abituri, fu creato l'ampio rettifilo Umberto I, fra le due piazze Garibaldi e della Borsa, e da quest'ultima le due diramazioni delle vie A. Depretis e G. Sanfelice, la quale ultima dovrà tra breve raggiungere la Via Toledo.

Nello stesso tempo s'iniziava, con la possibilità di utilizzare mezzi facili e rapidi di comunicazione, quell'ampliamento dell'area abitata che, con ritmo accelerato, continua tuttora: sorgeva cioè nelle vicinanze della stazione ferroviaria il rione Vasto; si copriva la collina del Vomero di fitte e ridenti abitazioni e si allacciava il nuovo quartiere al resto della città sottostante con due funicolari (a cui recentemente se ne è aggiunta una terza) oltre che con varie linee tramviarie; si popolava la parte occidentale della città del rione Regina Elena e delle numerose abitazioni che degradano da Via Tasso sino alla Riviera di Chiaia. Nell'ultimo quindicennio tale sviluppo si è ancora accentuato; e così mentre, intensificate, con la costruzione della metropolitana le comunicazioni con Fuorigrotta, la città si allargava con nuovi rioni nella sua parte occidentale, altri quartieri sorgevano sia verso N. (Arenella, Materdei) sia verso E. (rione Luzzatti), e nello stesso tempo si venivano, e si vengono tuttora, creando con opportuni adattamenti di suolo, le condizioni favorevoli alla formazione di nuovi nuclei di costruzioni e di nuovi quartieri: più importante fra tutti, per bellezze panoramiche, quello che sorgerà sul dorso della collina di Posillipo, fra Mergellina e Villanova, per i cui bisogni già è costruita una ripida funicolare che sale a Via Manzoni. A quest'ampliamento dell'abitato, richiesto dai bisogni della popolazione in aumento, il governo fascista viene accompagnando lo sviluppo di un grandioso programma di svecchiamento e di ricostruzione di zone centrali della città, al fine di rendervi meno difficile il traffico e soprattutto di sfollare la popolazione povera dai cosiddetti "bassi", miseri tugurî senz'aria e senza luce, in cui essa vive, purtroppo anche oggi, con perniciosa promiscuità, in numero abbastanza considerevole: di questo programma è in avanzata attuazione il risanamento del rione Carità, dove vengono sorgendo superbi edifizî pubblici e privati.

Sviluppo demografico. - Del progressivo sviluppo demografico, che di quello topografico è, naturalmente, principalissimo fattore, non si hanno notizie sicure sino a gran parte del Medioevo, per un periodo peraltro in cui le variazioni devono essere state relativamente poco notevoli e il numero degli abitanti non molto alto. I 30-35 mila abitanti che vengono a Napoli attribuiti per l'età che precedette la strage sillana e che tornarono a costituire la popolazione della città un secolo dopo, al principio cioè dell'era volgare, si ritrovano, forse con qualche lieve aumento, negli anni di più spiccata floridezza del ducato autonomo (763-1139), e probabilmente essi non furono mai più di 40 mila sino a tutto il sec. XIII. Un accentuato progresso distingue l'epoca di re Roberto e la prima parte del regno di Giovanna I, in cui fu notevole l'emigrazione dalle provincie verso la capitale, onde la popolazione deve aver raggiunto quasi certamente la cifra di 60 mila abitanti; a esso, però, tenne dietro circa un secolo di guerre, di carestie e di epidemie, le quali determinarono forti oscillazioni nel numero degli abitanti. Lo sviluppo demografico prese nuovo impulso nel periodo aragonese, distinto, nel complesso, da prosperità economica e sociale; di esso è riprova l'ampliamento già detto dell'area abitata: sul principio dell'età moderna, la popolazione di Napoli doveva, pertanto, sorpassare, sebbene di poco, i 110 mila abitanti. E tale su per giù doveva risultare all'inizio del vicereame di Pietro di Toledo, perché l'incremento dei primi decennî del sec. XVI fu annullato dalle conseguenze dell'assedio del Lautrec e della peste del 1527-28. Lo sviluppo dato da questo viceré a tutta la vita napoletana, il richiamo, che per opera sua il capoluogo esercitò sui baroni delle provincie, i quali vi trasferirono la loro normale residenza, l'impulso impresso a varie attività economiche, furono tutte cause di un rapido eccezionale aumento della popolazione di Napoli, che nel 1547, quando fu compiuta una numerazione i cui dati sono particolarmente attendibili, risultò di circa 210 mila abitanti. Nel 1600 il numero degli abitanti era di circa 230 mila. Seguì un periodo di regolare incremento, che si protrasse fino al 1656, anno in cui Napoli fu terribilmente colpita da una gravissima pestilenza, che ne ridusse la popolazione da 360 a circa 160 mila ab. La numerazione eseguita nel 1688 assegnò a Napoli (coi borghi annessi) circa 185 mila ab.; quella del 1742, circa 300 mila ab.; il Notiziario di corte del 1766 le attribuì 337 mila anime, quello del 1797, 438 mila; escludendo i casali, Napoli doveva contare, alla fine del Settecento, circa 370 mila abitanti. A questo continuo progresso tenne dietro, nel periodo napoleonico, specie dopo la proclamazione del blocco continentale, una sensibile contrazione demografica, che portò nel 1815 la popolazione di Napoli città a 323 mila ab. (circa 385 mila coi casali). Col ritorno dei Borboni la popolazione riprese, sebbene con ritmo più lento, ad aumentare: fu calcolata in 350 mila nel 1828, in 400 mila nel 1843 e in 418 mila nel 1857 (due notevoli contrazioni si ebbero in conseguenza delle epidemie coleriche del 1836-37 e del 1854-55). Il primo censimento della popolazione del regno d'Italia (1861) assegna a Napoli 447.065 ab.; dopo un lieve aumento nel primo decennio (448.335 nel 1871), il progresso diventa notevole fino al 1901 (563.540), e appare fortissimo, addirittura anormale, dai risultati dei censimenti sia del 1911 (678.031) sia del 1921 (772.045); la poca attendibilità dei dati di questi due censimenti è confermata dai risultati del censimento del 21 aprile 1931, il quale assegna al comune di Napoli, ingrandito nel 1925-26 di alcuni sobborghi (San Giovanni a Teduccio, Barra, Ponticelli, Secondigliano, ecc.), la popolazione complessiva di 839.390 abitanti (mentre sulla stessa area nel 1921 figuravano censiti 861.155 ab.); un calcolo al 1° gennaio 1934 dà 866.068 ab.

Il movimento della popolazione è stato nel 1933 di 22.081 nati vivi e di 13.892 morti, con un'eccedenza di 8189 nati-vivi; il numero degl'immigrati è risultato di 18.370 e quello degli emigrati 13.324, con una eccedenza di 5406 immigrati; il numero dei matrimonî è stato di 4863.

Attività economica. - Una parte notevole del territorio comunale (32,17 kmq.) è costituita da suolo coperto da costruzioni o da vie, piazze, giardini pubblici, ecc.; il resto è fittamente coltivato specialmente a seminativi (ortaggi) e a colture legnose (vigneti, frutteti e vivai industriali). Alle colture attendono oggi in massimo numero i contadini dei sobborghi annessi, e soprattutto quelli di Pianura, Chiaiano, Ponticelli e Barra.

La massima parte della popolazione del comune di Napoli attende a occupazioni industriali e commerciali. Napoli ha avuto negli ultimi 40 anni un notevole sviluppo industriale, favorito dalla ricca produzione agricola del suo dentroterra, dalla presenza di un grande porto che avvicina alla fabbrica le materie prime che vengono dall'estero e agevola l'esportazione dei prodotti manufatti, e dal grande mercato di consumo che tutto il distretto di Napoli costituisce, sia per la numerosa popolazione della città medesima, sia per quella, pure fittissima, dell'area circostante (la provincia di Napoli è al primo posto nel regno per numero di abitanti e viene subito dopo quella di Milano per densità di popolazione). Questa attività industriale risente, naturalmente, le conseguenze della crisi mondiale ed è perciò dal 1930 in fase di depressione, non mancano però sintomi preannunziatori di una non lontana ripresa. Nell'industria siderurgica, occupano posto assai importante nel regno le acciaierie e gli alti forni che l'Ilva ha in Bagnoli. Nell'industria meccanica, Napoli è molto ben nota per la costruzione di materiale ferroviario, di motori a vapore, di macchine per industrie alimentari, per le costruzitmi navali e aeronautiche e per il silurificio. Nei riguardi delle industrie elettriche, la Società meridionale di elettricità, il maggiore organismo del genere nel Mezzogiorno d'Italia, che ha la sua sede in Napoli, oltre ad avere nella popolosa città il campo principale di consumo, ha pure nel suo territorio la grande centrale termica di riserva. Nelle industrie tessili, speciale importanza ha il cotonificio: la Società delle manifatture cotoniere meridionali svolge in Napoli la massima parte della sua attività (filature, tessiture, tintorie e calzifici). Nella città è pure rappresentata, ed era qualche anno fa in notevole efficienza, l'industria delle fibre tessili artificiali. Particolare interesse presenta il guantificio, che ha una lunga tradizione e che fornisce prodotti noti e ricercati anche all'estero in questa speciale attivita Napoli figura al primo posto in Italia. Delle industrie alimentari vanno ricordate soprattutto la macinazione del frumento, il pastificio e la fabbricazione delle conserve alimentari; quest'ultima mette la zona di San Giovanni a Teduccio (Cirio) fra le più importanti del mondo: i prodotti delle conserve (pomodoro, marmellate, frutta allo sciroppo, ecc.) sono largamente diffusi in tutto il regno ed esportati all'estero. Fra le industrie chimiche eccellono gli stabilimenti per concimi che la Società Montecatini ha in Bagnoli. Sono infine da tener presenti: l'oleificio, la concia delle pelli, le distillerie, le fabbriche di calce e cementi, l'industria vetraria, quella del legno, quella della carta, le industrie del vestiario e dell'arredamento, la poligrafica, la lavorazione dei tabacchi, le fabbriche di saponi e di candele, quelle di birra e di ghiaccio. In complesso, si può dire che fra le industrie di Napoli quelle che meglio resistono alle difficoltà della crisi economica e che mostrano quindi di trovare, più delle altre, nel distretto le condizioni favorevoli al loro sviluppo, sono le industrie destinate al rifornimento del mercato locale e quelle che lavorano i prodotti speciali dell'agricoltura della regione. Il censimento industriale del 1927 assegnò in totale al comune di Napoli 12.100 esercizî con 100.396 addetti; quelle con maggior numero di addetti furono le industrie dei trasporti e delle comunicazioni (19.589), le industrie meccaniche (14.554), quelle del vestiario (12.799) e le industrie alimentari e affini (10.010). Il censimento commerciale, pure del 1927, attribuì al comune di Napoli 20.269 esercizî con 52.369 addetti.

Porto. - Causa di una parte dell'attività industriale, e riflesso e indice di tutta la vita economica della città, è il suo porto, formato dal vecchio porto e, a oriente di esso, dal porto nuovo, per la cui moderna attrezzatura si è svolto dal 1924 a oggi un complesso imponente di lavori, alcuni dei quali, peraltro, sono tuttora in via di compimento. Le deficienze che fino a 10 anni fa il porto presentava riguardavano soprattutto la scarsezza di banchine per operazioni adatte al traffico delle merci e al movimento dei passeggeri, e l'apertura dello specchio d'acqua interno alla traversia di libeccio, il che rendeva difficoltose le operazioni d'ingresso nel porto e molto precarie le condizioni di attracco alle banchine interne a causa della risacca. Le principali opere costruite al fine di porre riparo ai suddetti inconvenienti sono: 1. una nuova diga di protezione della bocca del porto, costituita da una scogliera d'imbasamento, da un'infrastruttura formata di massi monolitici ognuno del peso di 400 tonn. e da una soprastruttura di muratura ordinaria; 2. il prolungamento della diga foranea ai Granili e uno sviluppo di 3000 m. di banchine sul litorale dei Granili stessi, dove si apre il nuovo porto commerciale; 3. sistemazione razionale e definitiva dell'antica spiaggia della Marinella occupata dai pescatori; 4. nuovi magazzini e nuovi capannoni per il deposito delle merci e moderni impianti per le operazioni di carico e scarico, soprattutto per quel che riguarda il traffico del carbone. Recentemente sono state decise la costruzione di una nuova stazione marittima e quella di un grande bacino di carenaggio; anche per queste opere i lavori sono già celermente avviati. Il bisogno della grande stazione marittima deriva dalla speciale importanza che ha il porto di Napoli pei il movimento dei passeggeri. Durante il trentennio dell'intensa emigrazione transoceanica, esso è stato attivissimo scalo di viaggiatori, perché accentrava l'imponente flusso emigratorio di tutto il Mezzogiorno d'Italia; per molti anni sulla cifra di un milione di viaggiatori, circa 400 mila (di cui la massima parte emigranti) partecipavano al movimento estero, e gli altri 600 mila rappresentavano il numero dei passeggeri sbarcati o imbarcati da o per i porti del golfo di Napoli e del regno. Pur essendosi oggi ridotto a cifre insignificanti il numero degli emigranti, rimane sempre molto alto il numero complessivo dei passeggeri imbarcati e sbarcati, che è stato nel 1933 di 1 milione e 170 mila (e, meno che nel 1928, ha costantemente superato il milione annuo dopo il 1923), sicché, sotto questo aspetto, il porto di Napoli figura al secondo posto fra tutti i porti italiani (dopo quello di Trieste). Che se poi si consideri il solo movimento dei viaggiatori sbarcati o imbarcati da o per i porti esteri (78.916 nel 1933 senza contare i turisti), si rileva che Napoli assorbe il terzo del complessivo movimento dei porti italiani, precedendo anche oggi tutti gli altri: tale importanza come scalo di passeggeri è una conseguenza della sua posizione nella parte mediana della penisola e della sua relativa vicinanza a Roma. Il numero, però, di gran lunga più considerevole di viaggiatori sbarcati e imbarcati nel porto di Napoli è dato dalla navigazione nel golfo stesso, e che riguarda sia i porti continentali sia quelli delle isole di Capri, Ischia, ecc.; tale movimento presentava nel 1933 la cifra complessiva di ben 890 mila passeggeri; anche in questa navigazione costiera e di cabotaggio Napoli figura, insieme con Venezia e con Trieste, ai primi posti nel regno.

Assai notevole inoltre è l'importanza del porto di Napoli quanto a movimenti di navi e di merci. Per numero di navi, Napoli è il secondo porto d'Italia (dopo Trieste): da varî anni il numero dei bastimenti arrivati e partiti si aggira sulla media di 20 mila (19.450 nel 1933), con circa 21 milioni di tonn. di stazza netta (21.802.000 nel 1933): la bandiera italiana vi è rappresentata nella media di oltre i due terzi. Per quantità di merce sbarcata e imbarcata, il porto di Napoli, che è il primo dell'Italia peninsulare e insulare, ha tenuto negli ultimi anni il 4° posto fra tutti i porti del regno, ed è passato nel 1933 al 3° posto, scavalcando quello di Trieste. Il movimento complessivo si aggira sui 2 milioni di tonn. annue: nel 1933 esso è stato di 1.939.000 tonn., di cui 1594 mila si riferivano alle merci sbarcate e 345 mila alle imbarcate. Confrontando il movimento nazionale con quello estero, si rileva che, mentre è relativamente debole l'eccedenza delle merci imbarcate per porti esteri (193 mila tonn.) su quelle imbarcate per porti nazionali e per le colonie (153 mila tonn.), è invece fortissima l'eccedenza delle merci sbarcate in provenienza da porti esteri (1.279.000 tonn.) su quelle sbarcate in provenienza da porti nazionali e colonie (315 mila tonnellate). Anche nel movimento delle merci, la bandiera italiana entra con una percentuale superiore alla bandiera estera; questa differenza, tenue per le navi arrivate, è invece assai rilevante per le navi partite: la merce imbarcata su navi estere costituisce normalmente circa la metà di quella imbarcata su navi italiane. Fra le merci sbarcate figurano principalmente: il carbon fossile, il grano e altri cereali, la nafta, la benzina, il legname; le principali merci imbarcate sono le conserve alimentari, le frutta, le patate, i materiali da costruzione.

Aeroporto. - L'idroscalo di Napoli è formato dallo specchio d'acqua più meridionale della zona portuaria, e propriamente dal vecchio porto militare, nel tratto compreso fra il molo Angioino e il molo S. Vincenzo. Di qui partono gl'idrovolanti delle linee per Roma-Genova, per Palermo e per Siracusa-Tripoli, le prime due con servizî giornalieri e la terza con servizio per alcuni mesi trisettimanale e per altri giornaliero; le linee sono gestite dalla Società Anonima Navigazione Aerea. Il movimento dei passeggeri su queste linee è stato nel 1933 in complesso di 4530 arrivi (di cui 2360 solo dal Lido di Roma) e di 4133 partenze (di cui 2206 per il Lido di Roma). Napoli è pure toccata dal servizio settimanale francese d'idrovolanti, che allaccia Marsiglia con i porti dell'Asia meridionale, e che fa capo a Saigon nell'Indocina.

Comunicazioni terrestri. - A Napoli fanno capo le linee di una fitta rete stradale (rotabile e ferroviaria) che discende dal Preappennino e dall'Appennino verso la città, seguendo generalmente le valli che sboccano nella pianura campana. Fra queste vie di comunicazione, particolare interesse presentano le ferrovie, di cui le principali, divergendo da Napoli a raggiera, si succedono nel seguente ordine: la direttissima per Pozzuoli-Formia-Roma; la Napoli-Caserta-Cassino, anch'essa diretta a Roma; la Napoli-Caserta-Benevento, diretta a Campobasso da un lato e a Foggia dall'altro; la Napoli-Cancello-Benevento; la Napoli-Cancello-Avellino-valle dell'Ofanto; la Napoli-Salerno-Battipaglia, diretta a Sicignano (e quindi a Potenza o a Lagonegro) da un lato e alla Calabria tirrenica dall'altro lato.

Recenti opere pubbliche. - Come in tutte le altre grandi città d'Italia, anche in Napoli sono state compiute nell'ultimo decennio opere pubbliche d'importanza notevole: alla loro esecuzione attende l'Alto Commissariato, creato nel 1925 dal governo fascista esclusivamente per la provincia di Napoli. Rientrano nel vasto programma di lavori attuati o in corso di esecuzione, oltre alle suddette opere portuarie, la sistemazione della zona litoranea da Piazza Municipio alla Via Partenope e alla spiaggia di Mergellina; la costruzione della galleria della Vittoria, che ha accelerato le comunicazioni fra le zone estreme della città; i restauri di Castel Nuovo; il tracciato di numerose vie nelle zone periferiche al fine di facilitare le costruzioni edilizie e di dar vita ad arterie di eccezionale interesse turistico; la sistemazione dell'ampia zona di capo Posillipo con la creazione di un parco di suggestiva bellezza per il magnifico panorama che da esso si domina; la costruzione di un grande ospedale nella parte di NO., alla cappella dei Cangiani, in un'area destinata a congiungersi col centro nel prossimo sviluppo edilizio urbano. Ma importanza massima ha oggi assunto il complesso di opere che porteranno gradualmente alla demolizione e alla ricostruzione dei varî quartieri centrali: il ritmo di questi lavori appare fortemente accelerato; dal loro ampio sviluppo dipende gran parte dell'avvenire medesimo della città di Napoli.

Bibl.: G. Tarcagnota, Del sito e delle lodi della città di Napoli, Napoli 1566; P. A. Lettieri, Discorso, ecc., circa l'antica pianta et ampliatione della città di Napoli, ecc., in Giustiniani, Diz. geogr., VI, Napoli 1803, pp. 382-411; N. Carletti, Topografia universale della città di Napoli, Napoli 1776; B. Capasso, Pianta della città di Napoli nel sec. XI, Napoli 1895; id., Sulla circoscrizione civile ed ecclesiastica e sulla popolazione della città di Napoli dalla fine del sec. XIII fino al 1809, Napoli 1883; V. Alberti, Sul clima di Napoli, Napoli 1901; C. Colamonico, La pioggia nella Campania, Firenze 1915; G. Pardi, Napoli attraverso i secoli, Milano 1924; F. Milone, Il porto di Napoli, Città di Castello 1927; S. Aurino, Contributo allo studio della climatologia napolitana, Napoli 1929; Alto Commiss. per la città e provincia di Napoli, Le opere del regime dal settembre 1925 al giugno 1930, Napoli 1930; Consiglio dell'Economia di Napoli, Relazione sull'attività economica della provincia di Napoli, pubblicata fino al 1930; V. Epifanio, Campania, 2ª ed. Torino 1931; Touring Club Italiano, Napoli e dintorni, 2ª ed., Milano 1931; Comune di Napoli, Annuario statistico, volumi 3, Napoli 1931-33.

Storia.

Periodo greco-romano. - Nel sito ove oggi sorge Napoli, preesistevano, fin dal sec. VII a. C., una Partenope, una Palepoli e una Napoli cumane, alle quali, o all'ultima di esse, venne sostituita, nel sec. V, una Napoli euboica? O, invece, nel secolo VII coesistevano soltanto una Partenope e una Napoli, detta poi Palepoli, quando ebbe vita, accanto a essa, una città nuova? Oppure siffatta ipotesi è da convertire nell'altra che preesistesse soltanto una Partenope, chiamata indi Palepoli a causa della costruzione dell'anzidetta citta nuova? Ovvero, senza alcuna città preesistente, Napoli fu fondata ex novo, nel secolo VI, dai Greci di Cuma? O infine Palepoli e Napoli volevano designare due urbes attigue e formanti una sola civitas, o magari un quartiere più antico e uno meno antico d'un antico nucleo cittadino? Checché sia di queste dotte ma finora non provate e non provabili congetture, sta in fatto che, secondo un racconto dell'annalistica romana, pervenutoci attraverso Livio e Dionigi d'Alicarnasso, i Romani, desiderosi, durante la loro conquista della Campania, di sottrarre all'influenza sannitica e sottomettere alla propria Palepoli o Napoli o Palepoli-Napoli che fosse, ricorsero dapprima alle vie diplomatiche (328 a. C.); poi, data l'opposizione d'una parte del senato palepolitano o napoletano, mandarono contro la città (327) un esercito comandato dal console Q. Publilio Filone, il quale, intesosi segretamente con Carilao e Ninfio, principes di quella, la trasse all'alleanza con Roma (326): donde il foedus neapolitanum, in virtù del quale Napoli (di Palepoli, nelle fonti, non si parla più), divenuta socia fedelissima di Roma e, come tale, obbligata a fornirle navi e marinai, poté, oltre che autonoma, serbarsi anche, per riti, usi, costumanze e lingua ufficiale, città greca. Non toccata, per le sue potenti fortificazioni, dalle guerre di Pirro e di Annibale, ma, da città alleata, degradata a municipio in virtù della Lex Iulia (90 a. C.), essa, per aver parteggiato troppo apertamente per Mario, incorse nelle ire dei sillani, che quasi la distrussero (82 a. C.). Neanche Cesare l'ebbe nelle sue grazie. Per contrario, prediletta da parecchi plutocrati romani, che vi costruirono loro ville di delizie (p. es. quella di Vedio Pollione a Posillipo, e l'altra di Lucullo nell'isoletta Megaride), essa fu molto cara ad Augusto e a sua moglie Livia; a Claudio, al quale pare dovesse tuttavia l'altra sua degradazione da municipio a colonia; a Nerone, che vi colse larga messe di trionfi canori; a Tito e Adriano, che non disdegnarono il titolo onorifico di demarchi napoletani; a Marco Aurelio, che vi soggiornò e studiò quand'era semplice cesare; e per ultimo a Caracalla, che le confermò il nome di Colonia Aurelia Augusta Antoniniana Felix Neapolis.

Era abitata, pare, da 30.000 anime nell'epoca greca, quando ebbe anche una notevole immigrazione di Ateniesi: diminuita dalle stragi sillane, risalì negli ultimi secoli dell'impero. Dei confini da cui era circoscritta e dei tre decumani in cui era ripartita, s'è detto (vedi sopra: Sviluppo topografico). Qui, oltre il pagus formatosi intorno al porto, dove pare si venerasse la tomba della leggendaria sirena Partenope, va ricordato che da un'immigrazione di Alessandrini prese nome la regione nilense, donde le forme "Nilo" e, per corruzione, "Nido", ancor vive nella toponomastica cittadina. Verso la metà del suo corso, ossia press'a poco ove s'apre la piazza San Gaetano, il decumano maggiore s'allargava a formare l'agorà o foro e lì intorno, o poco discosto, sorgevano la basilica (ora San Lorenzo), la curia, l'"Aerarium" e i principali templi: di Cerere. (San Gregorio Armeno), dei Dioscuri (San Paolo Maggiore), di Apollo (Santa Restituta), di Giove (cappella del Pontano); più il "Caesareum" o "Augusteum", destinato al culto della famiglia Giulia (San Gennaro all'Olmo). Tra i moltissimi luoghi di pubblico divertimento, oltre ai due teatri (v. sotto: Teatro di prosa), erano l'ippodromo (forse fra San Giovanni a Mare e l'Egiziaca a Forcella), e lo Stadio (forse fra la piazza Nicola Amore e Sant'Agostino alla Zecca), reso celebre dalle quinquennali "Italidi" (cominciate nel 2 d. C.). Allo stadio erano annesse sale di conferenze, anzi vere e proprie scuole, abbondanti, del resto, anche in altre parti della città, che Marziale e Columella elogiarono come docta, e che, sede della tomba di Virgilio, vide nascere - figlio appunto d'un maestro di rettorica e grammatica napoletano - Stazio.

Ai tempi dell'autonomia, essa ebbe due arconti o demarchi (se pure non erano magistrature diverse), che serbarono l'antico nome anche quando, nell'epoca imperiale, furono nulla più che duumviri preposti al censo e all'affitto delle rendite municipali; così come agoranomi continuarono a chiamarsi gli edili, e bulè la curia. Intimamente greche, anzi forse di tipo attico le fratrie, già associazioni d'indole religiosa, poi di mutua assistenza, non prive, forse, di efficacia politica: il che spiegherebbe perché i vecchi eruditi ne facessero derivare i futuri seggi o sedili medievali. "Fretrion" era detto il luogo di riunione di ciascuna fratria; "fratori" coloro che la componevano; "fretarco" chi la presiedeva; "chalcologi", "frontisti" e "dioiceti" i suoi collaboratori per la parte amministrativa. Luogo di delizia, e perciò da Orazio detta otiosa, la Napoli romana viveva soprattutto dei forestieri. E per edificare le ricche ville dei Romani, disseminate lungo le coste, vi abbondavano gli architetti, uniti in fortissima corporazione, i marmorari, i fabbri, ecc. Egualmente associati erano i "lanisti", o istruttori di gladiatori, i saponarî e gli unguentarî.

Circa la nuova religione, leggende antichissime parlano d'una venuta di S. Pietro a Napoli e di S. Aspreno che l'Apostolo avrebbe consacrato primo vescovo napoletano; raccontano il martirio napoletano-puteolano di Gennaro (v.), divenuto poi principale protettore della città; attribuiscono ai tempi di Costantino la prima fondazione delle più vetuste chiese cittadine. Ma S. Pietro non venne mai a Napoli; la nascita dell'episcopato napoletano è cinta dal mistero; e, sebbene le catacombe a S. Gennaro extra moenia (monumenti preziosi dell'arte paleocristiana) attestino anch'esse l'esistenza di forti nuclei di nuovi credenti fin dai primi secoli dell'impero, l'edilizia cristiana napoletana ebbe le sue tenuissime origini soltanto circa la metà del quarto secolo.

Napoli sotto Bisanzio. - Soggetta già a Odoacre, che vi relegò, nel castro lucullano, Romolo Augustolo; passata poi sotto il dominio dei Goti; espugnata da Belisario nel 536 e rioccupata da Totila nel 542; Napoli, dopo la battaglia del Vesuvio (553), ridiventò definitivamente dominio bizantino, con un maestro dei militi o duca per la parte militare, e un giudice dipendente dal prefetto d'Italia, ma presto soppiantato dal vescovo, per gli affari civili. Nella popolazione, ridotta allora a poco più di 20.000 anime e ripartita in scuole (collegi di arti e mestieri), preponderavano i nobili o priori o seniori, costituenti l'"ordine", e i proprietarî e curiali, formanti la "curia". Restata fuori del ducato longobardo di Benevento, la città, per non esserne assorbita, dové farsi guerriera, industre e laboriosa. Crebbe così, già verso la metà del secolo VII, a 40.000 anime, mantenendo una relativa civiltà e cultura, alimentate da un geloso sentimento d'indipendenza. Vittoriosa di varî assedî longobardi (nel 581, 592, 599), un Giovanni Consino approfittò della ribellione ravennate del 616 per costituire a Napoli un governo autonomo, presto rovesciato dall'esarca Eleuterio, che ristabilì il dominio di Bisanzio, consolidato poi quando, nel 638, via via esclusi da ogni ingerenza civile i vescovi, pur rafforzati nel loro potere religioso dalla diffusione crescente del culto di S. Gennaro, la somma dei poteri civili e militari fu accentrata in un duca, sottoposto al patrizio o stratego di Sicilia. Sennonché nel 661 Costante II, col mettere i duchi di Napoli alla dipendenza diretta dell'imperatore e col dar loro pieni poteri sulla Campania, porgeva modo, senza pensarvi, al minuscolo stato d'avviarsi verso l'autonomia, sostanzialmente raggiunta nel secolo successivo attraverso queste circostanze: l'avere il duca Stefano I (755-800), in principio ancora ligio a Bisanzio, riconosciuto nel 763 l'autorità del papa; l'essere egli stato eletto anche vescovo; l'aver egli vinto una guerra mossagli da Arechi II di Benevento; l'esser fallito, con la morte di Arechi stesso (788), il disegno di riunire tutt'intera l'Italia meridionale in un unico tema bizantino.

Napoli ducato autonomo ed elettivo. - Comprendente al principio del sec. IX le città di Napoli, Cuma, Pozzuoli e Sorrento (poi indipendente), nonché la Liburia, ossia il fertilissimo territorio fra il Clanio (ora Regi Lagni), il lago di Patria e le città di Cancello e di Nola, il ducato napoletano, oltre che contro il secolare nemico longobardo, dové difendersi altresì, in questo e nei periodi successivi, da insidie di pontefici romani, re franchi, imperatori bizantini e tedeschi, corsari saraceni e, in ultimo, avventurieri normanni. Donde un continuo succedersi di guerre, durante le quali l'accorta politica estera dei duchi e la ferma e solidale volontà della cittadinanza riuscirono a fare di Napoli, fino alla conquista normanna, una rocca inespugnabile d'indipendenza.

Sovrani assoluti quasi nel significato moderno della parola; circondati da funzionarî e magistrati scelti da loro stessi nella nobiltà e da una milizia che, in caso di guerra, era accresciuta da leve volontarie; assecondati da una borghesia di curiali (uniti in corporazione), di piccoli proprietarî e d'industri mercanti, dediti al traffico di preziose stoffe orientali, nonché di schiavi longobardi e musulmani; ora osteggiati, ora coadiuvati da un clero ricco e talvolta relativamente colto (ricordare i due dotti vescovi Atanasio e Stefano; l'arciprete Leone, recatosi a Costantinopoli a copiare manoscritti greci e latini; il prete Ausilio, partecipe, col grammatico Vulgario, alle dispute per l'elezione di papa Formoso; il diacono Giovanni, autore della Cronaca dei vescovi napoletani, ecc.), non avversati dalla plebe, composta di artigiani, di coloni del suburbio, di defisi, ossia di povera gente che si poneva sotto la protezione di qualche potente o istituzione ecclesiastica, di veri e proprî servi; i duchi di Napoli furono primamente elettivi, finché con Sergio, già conte di Cuma, il ducato divenne ereditario.

Avvenimenti cospicui di questo periodo furono la prima apparizione nel golfo di corsari saraceni, che devastarono le isole di Ponza e d'Ischia (812); una grande battaglia fra Napoletani e Beneventani (816); cinque fieri assedî posti a Napoli dai Longobardi di Benevento (822, 831, 832, 835 e 836), che, nel secondo, portarono nella loro città, trofeo di vittoria, il corpo di S. Gennaro; l'intervento d'una flotta saracenica, invocata dai Napoletani, che costrinse i Beneventani a una pace, di cui conosciamo solo in parte i capitolati (836); l'intervento franco (840); le ripercussioni dell'essersi il ducato di Benevento tripartito nei più deboli stati di Benevento, Capua e Salerno; l'accresciuto pericolo dei Musulmani. I quali sconfitti una prima volta alla punta della Licosa dalle navi napoletane, gaetane, amalfitane e sorrentine, e una seconda, nelle acque di Sorrento, dalla flotta napoletano-sorrentina, tornarono alla carica una terza volta (846), occupando Ostia, devastando su per il Tevere Roma, finché furono sconfitti nel golfo di Gaeta dal secondogenito del duca napoletano Sergio, Cesario console. Ancora una quarta volta (849) si spinsero a Ostia; ma ancora una volta Cesario riportò su loro quella magnifica vittoria navale che Raffaello poi effigierà nelle Stanze del Vaticano.

Il ducato ereditario. - A Sergio I successe il figlio Gregorio III (864-70), al cui fratello Atanasio, vescovo di Napoli e parteggiante per i Franchi, si dové se l'imperatore Lodovico II, venuto nell'Italia meridionale contro i Saraceni, risparmiò la città. Favorevole, per contrario, ai Saraceni e perciò alleato con i Longobardi, allora loro amici, fu il figlio e successore di Gregorio, Sergio II (870-77), che poi un suo fratello Atanasio II (vescovo di Napoli), sobillato da papa Giovanni VIII, accecò e mandò prigione a Roma. Sennonché, divenuto duca (877-98), lo stesso Atanasio II, pauroso d'una restaurazione bizantina, finì col chiamare bande saracene presso Napoli e col farsi scomunicare; salvo poi, fattisi essi Saraceni amici troppo fastidiosi, a cacciarli, con l'aiuto del rappacificato Giovanni VIII e dei Longobardi, fin sulle rive del Liri e del Garigliano, donde il successore suo, Gregorio IV (898-915), alleatosi con capuani, amalfitani e bizantini, riuscì a snidarli. Duchi successivi, sotto i quali s'inizia già il moto di decadenza, furono Giovanni II (915-19); Marino I (919-28); Giovanni III (928-68), che, alleatosi prima coi Longobardi di Capua, indi con quelli di Salerno, si sottomise poi al patrizio bizantino Mariano Argiro, venuto ad assediare Napoli (955), e poi ancora sostenne un assalto dai saraceni, e finalmente tentò d'accordarsi con Ottone I; Marino Il (968-77), che ebbe da Bisanzio titolo di "imperiale antipato e patrizio" e sostenne un assedio mosso a Napoli dal conte Corrado e da Pandolfo Capodiferro principe di Salerno; Sergio III (977-999), costretto ad aprire le porte di Napoli a Ottone II (981); Giovanni IV (999-1003 o '04), costretto, a sua volta, ad aprirle ad Ademario, messo di Ottone III, da cui venne mandato prigione in Germania, salvo nel 1002 o 1003 a tornare in patria e alla dignità ducale.

Figlio e successore di Giovanni IV, Sergio IV (1003 o '04-34) aiutò Pandolfo di Teano, creatura dell'imperatore Enrico II, a usurpare Capua ai danni del principe legittimo Pandolfo IV, e lo accolse ospite quando quest'ultimo, aiutato dal normanno Rainulfo Drengot, riconquistò il principato (1026). Da ciò, invocata forse da malcontenti napoletani, spedizione punitiva di Pandolfo IV contro Sergio, momentanea occupazione longobarda di Napoli (1027-29 o '30), esilio di Sergio a Gaeta; ma altresì, poi, accordi di Sergio col Drengot, il quale, sposata una sorella di quello, lo aiutò a riconquistare il ducato, non senza, tuttavia, che i Napoletani, prima di risottomettersi al restaurato duca, gli facessero, in un importante pactum (1029 o '30), garantire ai sudditi proprietà, libertà personale, libero commercio e rispetto per gli stranieri, e promettere di non introdurre nuove consuetudini o fare guerra, pace, neutralità e tregua "senza il consiglio di moltissimi nobili napoletani". Premio di Rainulfo fu Aversa, allora misera borgata, ma resa dai Normanni città fortissima e, anziché antemurale di Napoli, pericolo, per questa, gravissimo, specie dopo che Rainulfo e i figli di Tancredi d'Altavilla passarono (1033 c.) dalla parte di Guaimario di Salerno, signore di Capua, Amalfi, Sorrento (1039) e Gaeta (1040). I duchi napoletani Giovanni V (1034?-1053?) e, più ancora, suo figlio Sergio V (1053?-1090?) procurarono di destreggiarsi nelle aggrovigliate vicende che portarono alla formazione del ducato normanno di Puglia, all'occupazione parimente normanna del principato di Capua e alla grande lega contro Roberto il Guiscardo, del quale Sergio V fu alleato. Ma, quando Salerno divenne anche essa preda dei Normanni (1077), Napoli fu da costoro cinta di fierissimo assedio (1077-78), eroicamente sostenuto. Antinormanna altresì fu la politica dei duchi successivi fino a Sergio VII (1123?-1137), forse sottomessosi a Ruggiero II di Sicilia allorché questi (1131), in virtù d'una bolla d'Anacleto II antipapa, impose a Napoli la resa; ma certamente nel 1132, alleato di Rainulfo d'Alife e vincitore di Ruggiero a Scafati. Nel 1134 vittoria navale dei Napoletani contro una flotta normanna, ma sottomissione o risottomissione di Sergio, che, pure a patti onerosi, serba ancora la città. Nel 1136-7, nuova ribellione di Sergio e altri due assedî di Napoli, nel secondo dei quali, interrotto dal sopraggiungere dell'imperatore Lotario, i Napoletani conquidono l'ammirazione degli stessi nemici. Partito Lotario, Ruggiero torna alle armi e conduce con sé Sergio in Basilicata, mentre i Napoletani si ordinano frettolosamente in una sorta di repubblica e s'apprestano all'ultima difesa. Ma, caduto papa Innocenzo II nelle mani di Ruggiero, una deputazione napoletana consegna in Benevento al re vittorioso le chiavi della città, divenuta quind'innanzi parte della monarchia normanna.

Napoli normanna. - Pur privandola dell'indipendenza politica e nominando duca di Napoli suo figlio Anfuso e, morto costui (1144), l'altro figlio Guglielmo, Ruggiero concesse alla città autonomia amministrativa e mantenne i privilegi locali, compreso il pactum di Sergio IV. Unico funzionario emanante direttamente dal potere centrale fu il "compalazzo" (sorta di governatore): napoletani, invece, e scelti nella nobiltà, i principali cooperatori di lui, detti dapprima "boni homines", "iudices" e "sapientes", poi, divenuti elettivi e annuali, "consules". Da ciò l'accentuarsi d'un preesistente dissidio fra i "nobiliores" o "milites" e le classi inferiori, specie quella, sempre più agguerrita, dei curiali, che finirono col rivoltarsi anche contro il re Guglielmo il Malo durante la lotta che ebbe a sostenere contro Adriano IV e Barbarossa. Ma furono vinte dai nobili, tanto che, dopo la pace di Benevento (1156), Guglielmo poté entrare tranquillamente a Napoli, dove fondò il Castel Capuano e, ampliando una rocca preesistente, diede origine al futuro Castel dell'Ovo. Scarsi rapporti Napoli ebbe con Guglielmo II il Buono, morto il quale (1189), i Napoletani, avversissimi ai Tedeschi, si dichiararono contro Costanza, moglie di Enrico VI di Hohenstaufen, e a favore di Tancredi di Lecce, che li premiò concedendo loro, in amplissimo privilegio, esenzione dalla metà del servigio dovuto dai cavalieri al re per i loro feudi, dipendenza diretta della città dalla corona, diritto di battere moneta d'argento, esenzione dall'obbligo di manutenere le mura. Sennonché nel 1191 Napoli, che, in mezzo secolo di relativa tranquillità, aveva visto rifiorire traffici e navigazione e salire a circa 40.000 gli abitanti, tra cui 500 famiglie ebraiche, una colonia pisana e forti nuclei di Amalfitani, Scalesi e Ravellesi, fu assediata da Enrico VI, che, vinto, la riassediava e occupava nel 1194, vendicandosi dell'accanita resistenza col demolire parte delle mura.

Periodo svevo. - Rifattasi totalmente autonoma durante l'anarchia che seguì nel Mezzogiorno d'Italia alla morte d'Enrico VI (1197); caduta nel 1207 sotto il duro governo militare dei conti di Fondi e di Celano; parteggiante dal 1210 per Ottone IV contro Federico II; Napoli era costretta nel 1220 ad aprire le porte a quest'ultimo. Ingrandimento del Castel Capuano e altri lavori; incremento del traffico marittimo, specie con la Provenza; ripristino formale degli ordinamenti dei tempi normanni e quindi del "compalazzo", a cui fu aggregata una curia di cinque giudici e otto notai; fondazione, nel 1224, del celeberrimo Studio: tali i benefici dovuti al grande imperatore. Ma, d'altra parte, col revocare il privilegio di Tancredi, con l'instaurare un ferreo regime tributario e, segnatamente, col disperdere il patrimonio delle antiche costumanze, Federico si rese i Napoletani perennemente ostili. Onde, dopo averlo osteggiato col cuore, essi si ribellarono apertamente, lui morto (1250), al successore Corrado IV, ponendosi sotto la protezione di papa Innocenzo IV, al quale Napoli dové, per pochi anni, liberi ordinamenti comunali con un podestà e un consiglio, che, in casi gravi, s'allargava a comune. Sennonché, assalita due volte da Manfredi, vicario del fratello nel Regno, fame ed epidemie la forzarono nel 1253, dopo quattro mesi di resistenza eroica, a rendersi a Corrado, venuto di persona ad assediarla con forze ingentissime, e che si vendicò col diroccare parte delle ricostruite mura, col mandare in esilio molti cittadini, col trasferire lo Studio a Salerno, e con l'istituire, sembra, una nuova gabella, che, per la sua esosità, fu detta del "mal governo". Morto Corrado (1254), la città tornò sotto la tutela d'Innocenzo, che, restauratovi il regime comunale e ritrasferitovi da Salerno lo Studio, vi si recò di persona e vi morì poco di poi: tanto che a Napoli venne tenuto il conclave da cui fu eletto Alessandro V. Ma, all'appressarsi delle truppe di Manfredi, il nuovo papa abbandonò al suo destino la città, la quale, per essere impossibile qualunque difesa, mandate al nuovo re le sue chiavi (1256), s'acconciò al dominio di lui: salvo, dopo la battaglia di Benevento (1266), a fare accoglienze gioiosissime al vincitore Carlo d'Angiò, e salvo ancora, dopo che il fiscalismo angioino divenne più grave di quello svevo, a idealizzare il tanto avversato figliuol di Federico nel bonus rex Manfredus.

Periodo degli Angioini del primo ramo. - Esorbita dalla storia della città per rientrare in quella del Regno la compiuta successione degli avvenimenti politici accaduti in Napoli da Carlo I d'Angiò (1265-85) a Giovanna I (1343-81). Giova ricordare soltanto la decapitazione di Corradino di Svevia in Piazza del Mercato (1268); la reazione del popolo napoletano ai cosiddetti "capitoli della piana di San Martino" (1283), dai quali Napoli finì con l'essere dichiarata esente; un tentativo di "vespro", represso nel sangue, che s'ebbe a Napoli nel 1284; i fieri rivolgimenti popolari del 1346-7, occasionati dall'uccisione di Andrea d'Ungheria; il contegno fermo e aggressivo della popolazione durante l'occupazione ungherese del 1348; i tumulti che costrinsero l'antipapa Clemente VII, ririfugiatosi nel Castel dell'Ovo, a fuggire ad Avignone (1378); i saccheggi popolari che accompagnarono nel 1381 l'assedio e l'occupazione di Napoli e la detronizzazione di Giovanna I per opera di Carlo d'Angiò-Durazzo. Per contrario, va dato forte rilievo alla circostanza che già dal 1266, di fatto, con l'essere divenuta residenza abituale del sovrano, e dal 1282, dopo che gli Angioini perdettero la Sicilia, anche di diritto, Napoli fu elevata a capitale del Regno, trasformandosi via via, da cittadina quasi orientaleggiante e dai costumi patriarcali, in una occidentalizzata metropoli moderna.

A giudicarne dalla murazione, restata quasi inalterata, la sua superficie non ebbe incrementi notevoli. Ma, per intanto, le vie furono parzialmente lastricate; nell'interno delle mura lo spazio di molti e ampî giardini cominciò ad essere occupato da nuove strade e nuovi edifici; molte fabbriche nuove s'aggiunsero alle antiche anche di là dal pomerio. Ai due castelli, Capuano e dell'Ovo, abitati alternativamente da Carlo I, se ne aggiunse, dal 1279 al 1281, un terzo, detto Nuovo, intorno al quale, divenuto sede di Carlo II e reggia splendidissima di Roberto e Giovanna, si svolse quind'innanzi la vita politica, giudiziaria, commerciale e mondana della città, mentre un quarto castello sorgeva, durante il regno di Roberto, in cima alla collina, col nome di Sant'Erasmo e, per corruzione, Sant'Elmo. Divenuti insufficienti alla più che raddoppiata marina mercantile e alle moltiplimte galee da guerra i due antichi porti (Arcina e Vulpulum) e l'arsenale, si costruì nel 1302 il nuovo Porto di mezzo, a cui tennero dietro, nel 1305 e intorno al 1343, altri due arsenali, e, dal 1342 al 1347, il Molo grande e il Molo piccolo. Moltiplicate altresì le logge di mercanti stranieri, non più ormai soltanto pisani, ma altresì genovesi, catalani, marsigliesi e, segnatamente, fiorentini e veneziani: donde una larga immigrazione che, congiunta con quella di molte famiglie nobili francesi e, dopo il 1282, di moltissimi fuorusciti siciliani, fu tra le cause per cui la popolazione, ridiscesa durante l'epoca sveva a 35.000 anime, risalì intorno al 1280 a 40.000 e, intorno al 1340 a 60.000. Intensificate, infine, la vita industriale e, più ancora, specie ai tempi di Roberto, quella culturale, come si scorge, da un lato, dall'attività dello Studio, divenuto uno dei più celebrati di Europa; e, d'altro canto, dal continuo accorrere a Napoli, per cagion di lavoro o altri motivi, dei maggiori artisti e letterati d'Italia.

Sennonché, di pari passo con la nuova civiltà, crebbero siffattamente lusso, amore per i piaceri e facilità di costumi, che il Petrarca definiva Napoli sentina di vizî pari a Menfi, a Babilonia e alla Mecca; con la "colletta" ordinaria, portata per Napoli a 692 once annue, collette straordinarie, donativi, diritti di dogana e gabelle d'ogni sorta, appaltate a ingordi pubblicani, divenne insostenibile la pressione tributaria, gravante quasi tutta, per le esenzioni o semiesenzioni di nobili, ecclesiastici, provenzali, lettori e studenti dello Studio, sulla borghesia. Cominciò inoltre a sorgere (prima origine dei futuri "lazzari") un miserabilissimo proletariato ozioso o semiozioso, che, reso dalla fame sempre pronto alle agitazioni e al saccheggio, era messo a profitto ora dai sovrani ora dai nobili nei loro conflitti; e, mentre nelle provincie desiderio inappagato di autonomia e continue reciproche ostilità conducevano i baroni a creare uno stato perenne di anarchia e di brigantaggio, nella capitale la borghesia, esecrata dalla cosiddetta nobiltà di seggio, veniva politicamente soffocata da questa, che riuscì a impadronirsi, di fatto, dell'amministrazione cittadina. Senza dubbio, oltre ai cinque seggi nobili, raggruppanti ciascuno non troppe famiglie e allora parecchio restii ad aggregarne altre - e cioè Nido e Capuana, ch'erano i più antichi, e poi ancora Montagna (nel quale era stato fuso l'altro seggio di Forcella), Porto e Portanova -, c'era già nell'epoca angioina il "seggio del Popolo", ossia del popolo grasso o borghesia, con esclusione degli artigiani (riuniti talora in rudimentali corporazioni di arti e mestieri) e dell'altro popolo minuto. Ma è facile scorgere che, allorché i rappresentanti o "eletti" dei varî seggi si riunivano nel convento di San Lorenzo (donde il nome complessivo di "Tribunale di San Lorenzo") per provvedere a questioni annonarie, alla ripartizione dei tributi e a quant'altro concernesse l'amministrazione cittadina, nulla potesse l'unico "eletto del popolo" contro i "cinque e sei", ossia contro i "sei" eletti dei seggi nobili (Montagna ne mandava due), che, agli effetti del voto, erano "cinque" (i due voti di Montagna contavano per uno).

Periodo degli angioini del ramo di Durazzo. - Giunta appena la notizia dell'uccisione di Carlo III di Durazzo (che aveva lasciato ben presto Napoli per prendere possesso del trono d'Ungheria) e assunta la reggenza, per il piccolo Ladislao, dalla madre, Margherita (1386), nobiltà e popolo napoletani, dimentichi momentaneamente delle antiche contese, si strinsero in una lega per il "buono stato" della città, affidando a otto loro deputati (sei nobili e due popolani) il controllo sull'opera degli ufficiali regi. Invisi pertanto alla reggente e non graditi nemmeno a una parte della popolazione, codesti "Otto del buono stato" finirono con l'accordarsi coi baroni di parte angioina e riconoscere re il pretendente Luigi II d'Angiò, che nel 1391 occupava la capitale, mentre Margherita e Ladislao si rifugiavano a Gaeta. Ma Luigi lasciava Napoli nel 1399, durante una fiera peste, che riduceva la popolazione a 40.000 anime, e la città rivedeva fra le sue mura Margherita e Ladislao, il quale, pur fra le sue tante vendette, elargiva (4 febbraio 1401) un privilegio, per cui agli eletti napoletani era devoluta piena giurisdizione sull'annona. Quasi sempre lontano da Napoli, ove, peraltro, morì nel 1414, quel re guerriero non vi ebbe la popolarità di cui godé la sorella Giovanna II, che il popolo tumultuante liberò nel 1416 dalla semiprigionia in cui la teneva il marito Giacomo della Marca; sebbene poco di poi, all'avanzarsi di Attendolo Sforza su Napoli, una nuova deputazione del "buono stato" (cinque nobili e cinque popolani) costringesse la regina, riluttante, ad accettare le condizioni imposte dal condottiero. Sennonché nella lotta scoppiata nel 1423 tra Giovanna e il suo già designato e ora revocato successore Alfonso d'Aragona, il popolo napoletano si schierò risolutamente accanto alla prima. E, morta costei (1435), dopo aver veduto, negli ultimi e più tranquilli anni di regno, risalire la popolazione napoletana a 60.000 anime, la città, che s'elesse allora una nuova rappresentanza di venti fra nobili e popolani per collaborare col nuovo governo e serbare l'ordine pubblico, fu fedelissima così a Isabella di Lorena, venuta a prendere possesso del Regno in nome del marito Renato d'Angiò, come, dal 1438, allo stesso Renato. Peraltro, dopo parecchi assedî, nell'ultimo e più fiero dei quali (1441-2) furono distrutti quasi del tutto il Borgo delle Corregge intorno a Castel Nuovo e il Borgo di Sant'Antonio presso Castelcapuano, Alfonso d'Aragona, attraverso un acquedotto, penetrava nella città, orribilmente saccheggiata dai Catalani, mentre Renato s'imbarcava per la Provenza (12 giugno 1442). E un parlamento tenuto l'anno dopo nel convento di San Lorenzo, dopo che il conquistatore, reduce dell'Abruzzo, ebbe fatto nella città l'ingresso trionfale rappresentato poi nell'arco di Castel Nuovo, riconobbe erede al trono il futuro Ferrante I, dando, per tal modo, suggello legale allo stabilirsi della nuova dinastia.

Periodo aragonese. - Collaboratrice fedele di questa, avversante la politica ormai anacronistica dei baroni; meta d'una larga immigrazione così di provinciali regnicoli e mercanti italiani e stranieri, come di gentiluomini, guerrieri, funzionarî, letterati e poeti catalani e aragonesi, nonché di esuli bizantini e, dopo la loro espulsione della penisola iberica, di ebrei e marrani; raddoppiata quasi di popolazione, giunta, alla fine del sec. XV, a circa centomila anime; arricchita dall'intensificarsi di traffici e, più ancora, da una fiorente industria della lana e da una fiorentissima industria della seta, che pare desse da vivere a quasi metà degli abitanti; alleviata, più che fosse possibile, dai preesistenti oneri fiscali e dichiarata perennemente immune da taluni dei nuovi (per es. dal focatico); sede, dal 1443, d'un supremo consesso giudiziario (il Sacro Real Consiglio), divenuto rapidamente una delle più reputate corti sovrane d'Europa; riempita di capolavori d'arte per opera dei più famosi pittori, scultori e architetti; dimora elettiva o luogo di nascita dei maggiori umanisti del tempo e centro insigne di cultura; ingentilita nei costumi, affinata nella mentalità, resa più colta dal diffondersi degli studî: non mai, a dir vero, la città di Napoli fu tanto "corona" quanto nel sessantennio 1442-1501.

Malgrado l'ininterrotto soggiorno a Napoli, divenuta per tal modo, di fatto, capitale dei molteplici suoi regni, Alfonso I restò troppo straniero e fu affiancato da troppi frati spagnoli e alti funzionarî catalani perché riuscisse eccessivamente gradito ai Napoletani, i quali ricordarono, di lui, forse più l'abolizione del seggio del popolo, con la quale l'amministrazione cittadina divenne, anche di diritto, monopolio dei seggi nobili, che non le somme immense profuse tanto per ricostruire ab imis Castel Nuovo quanto per ampliare il Molo, migliorare l'Arsenale, restaurare gli acquedotti, lastricare o rilastricare le strade, bonificare le paludi dei sobborghi, facilitare il passaggio attraverso l'antico traforo di Posillipo (la cosiddetta "grotta di Pozzuoli"). Popolarissimo, invece, fu a Napoli il suo grande bastardo Ferrante il Vecchio: tanto più in quanto, del tutto "italianato", malgrado la nascita straniera, e avverso, non meno dei Napoletani, ai Catalani, che avevano tentato di precludergli il trono, oltre che continuare e condurre quasi sempre a termine i lavori edilizî cominciati dal padre, intraprese nel 1481, con razionalità congiunta col più fine senso d'arte, il primo allargamento cospicuo della città, mediante una nuova murazione. E anche il cupo Alfonso II fu caro ai Napoletani, che celebrarono feste trionfali al suo avvento al trono, ben consapevoli dei suoi disegni grandiosi, concernenti problemi di edilizia cittadina, affrontati in parte soltanto ai giorni nostri. L'invasione di Carlo VIII, sebbene passata su Napoli come un rapido uragano, oltre che tracce negative (devastazioni e spoliazioni senza fine), ne lasciò anche una positiva con la restaurazione dell'elettato del popolo, di cui divenne seggio, da allora in poi, Sant'Agostino alla Zecca. E dopo che i Francesi furono cacciati da Napoli a furor di popolo, dopo che il prode Ferrandino fu colto dalla morte nel fior degli anni (1496), dopo che egli stesso ebbe dalle riaccese guerre civili un momento di respiro, il buon re Federico, riprendendo i disegni del fratello, procedé, sotto la guida di Antonio di Giorgio da Settignano, a un secondo allargamento cittadino. Ma, quasi appena terminato siffatto lavoro, l'ultimo Aragonese lasciava per sempre il Regno, e il D'Aubigny, a capo delle truppe francesi, occupava la città. Della quale, evacuata dai Francesi due anni dopo, prendeva a sua volta possesso Consalvo de Córdoba (14 maggio 1503), venendo, con quell'atto, a degradarla per oltre due secoli, da capitale d'una monarchia autonoma a capoluogo d'una provincia spagnola.

Periodo del viceregno. - Immigrazione delle maggiori famiglie baronali coi loro adepti e clienti; immigrazione di molte famiglie di magistrati, funzionarî e ufficiali spagnoli; immigrazione di soldati della medesima nazionalità; immigrazione di studenti di tutto il Regno; immigrazione d'un innumerevole proletariato, a cui miseria, incursioni barbaresche, avanie e soverchierie di briganti e sopraffazioni locali rendevano impossibile la vita nelle provincie e facecevano sembrare Napoli, esente da talune imposte e fornita di particolari privilegi, quasi un Eldorado: tali, insieme con la tendenza della popolazione a una grande prolificità, le cause precipue, che, mentre facevano salire la popolazione napoletana nella misura detta sopra (v. Sviluppo demografico), ponevano fin d'allora quello che oggi usa chiamare il problema edilizio-demografico di Napoli. Durante il suo lungo viceregno (1532-1553), don Pietro di Toledo procurò di risolverlo come meglio si poteva; e anche poi il primo duca d'Alcalá (1559-71), il secondo conte di Lemos (1610-16), il secondo duca d'Alba (1622-1629), il duca di Medina Las Torres (1637-44), il duca di Medinaceli (1696-1702) e altri viceré non mancarono di consacrare le loro cure all'apertura di nuove strade, alla costruzione di nuovi edifici pubblici e ad ampliamenti e abbellimenti. Ma, nonostante tutto ciò, la popolazione, e segnatamente quella minuta, cresceva troppo perché non si originassero l'eccessivo addensamento delle abitazioni, e il conseguente imbruttimento della città, e l'aspetto repugnante di formicai umani che serbano tuttora taluni quartieri popolari. Ché se, per un mezzo secolo, il problema parve risolto dalla terribile peste del 1656, che uccise o disperse una buona metà dei Napoletani, esso non tardò a ripresentarsi più assillante mercé il nuovo incremento della popolazione, risalita già, a mezzo il Settecento, a oltre 350.000 anime, per raggiungere, un secolo dopo, il mezzo milione, e quasi il milione ai giorni nostri.

Coeva a una così profonda trasformazione demografico-edilizia fu quella, parimente profonda, della vita cittadina.

Alla sua testa era sempre la nobiltà indigena, ma quanto mutata da quella dell'epoca aragonese! Certamente, nell'accogliere via via nei suoi seggi gran parte delle famiglie baronali immigrate nella città, essa aveva pur concorso a spegnere in queste gli antichi spiriti ribelli e a suscitare, in cambio, un geloso sentimento di lealismo. Sennonché la tanto più arretrata e quasi ancora barbarica nobiltà feudale non poteva a sua volta non esercitare influsso sulla tanto più colta e civile nobiltà cittadina. Donde, pur temperati da un'innata bonarietà, i principali tratti fisionomici d'essa nobiltà segnatamente dal 1550 al 1650: permalosa rissosità; fortissimo sentimento di casta; altezzoso dispregio verso industrie, traffici e arti non solo manuali, ma altresì liberali; indolente oziosità; crassa ignoranza.

Quanto al clero, anche in esso lo sterminato aumento numerico andò, nella gran maggioranza dei casi, a tutto detrimento della qualità: donde rozzezza, ignoranza, fanatismo, superstizione e, più che altrove, accanimento tenace nel far valere, contro lo stato, privilegi e immunità ecclesiastiche.

Circa poi il "popolo" - ripartito in ventinove "ottine" (dette forse così da otto notabili che originariamente erano preposti a ciascuna) - l'aumento numerico non riuscì dannoso alla qualità, forse anche migliorata quanto a floridezza economica e a relativa cultura, nel popolo grasso o, come si cominciò a chiamarlo, "ceto medio" o "ceto civile" comprendente notai, medici, speziali, industriali, mercanti e, tra altre categorie che si omettono, le due, preeminenti, dei pubblicani e dei forensi. In esigua minoranza indigeni e nella gran maggioranza forestieri, i pubblicani erano quanto mai odiati da nobiltà e plebe, da cui venivano chiamati "giudei", non perché tali, ma perché, more Hebraeorum, ai quali s'erano sostituiti dopo l'espulsione di costoro ordinata dal Toledo, riuscirono, mercé l'appalto delle gabelle, le esportazioni di granaglie e di altri generi, il commercio bancario e magari l'usura, ad accentrare nelle loro mani quasi tutti i valori mobiliari, coi quali usavano comprare da baroni impoveriti, e quasi sempre loro debitori, terre e feudi, ascendendo, per tal modo, essi stessi alla nobiltà. Alla quale, del resto, tenevano fiso l'occhio anche i più fortunati tra i forensi, giacché, divenuto frequente il passaggio dall'avvocheria alla magistratura togata e alle cariche politiche, era molto più agevole da quest'acquisita nobiltà di toga raggiungere la più ambita nobiltà feudale o generosa. Dove invece lo sterminato aumento numerico apportò danni immensi alla qualita fu nella turba eterogenea, e in gran parte peso morto, chiamata complessivamente plebe. Privilegiati in essa erano i "cortigiani" o "creati", ossia l'immenso servitorame di cui si circondavano i nobili e i più ricchi del ceto medio; e, pure alquanto meno, i piccoli artigiani, i piccoli mercanti e, insomma, tutti coloro i quali, adattandosi a un'occupazione fissa, si ponevano più o meno al coperto dal bisogno. Ma il grosso era formato da gente senza né arte né parte, da "lazzari" come si cominciò a dire nel Seicento, che vivevano giorno per giorno, di mance, elemosine, retribuzioni di piccoli e sporadici servigi, e pertanto facilmente commovibili dall'ozio e dalla fame a tumulti, saccheggi, ammazzamenti.

Era inevitabile che, in un ambiente così profondamente trasformato, languisse rapidamente la così intensa attività culturale e politica del periodo aragonese. Naturalmente, la pingue eredità del recente passato consentì ancora, nei primi decennî del viceregno, una vita spirituale non troppo povera: onde, al tempo stesso che il moto di cultura non ebbe una fermata improvvisa, nobiltà e popolo seppero pure due volte - nel 1509 e nel 1547 - dimenticare odî reciproci, stringersi in unione e insorgere compatti per respingere dalla patria comune l'Inquisizione di Spagna. Ma la guisa medesima in cui terminò l'insurrezione del 1547 - si voleva rimosso il Toledo, che restò invece viceré fino alla morte; in cambio dell'inquisizione di Spagna, s'ebbe, oltre alla preesistente Inquisizione diocesana, anche quella delegata di Roma; e dall'insurrezione tolse pretesto il viceré per sopprimere tutte le accademie e comprimere ogni idea novatrice - è il segno più chiaro dell'avvento di quella che per Napoli fu effettivamente la sua età di ferro.

Età ferrea, che può anche sembrare circonfusa di bagliori aurei in confronto alla contemporanea barbarie intellettuale di altre città dell'Italia spagnola, quando si pensi che napoletano, p. es., fu G. B. della Porta; napoletano G. B. Marino; napoletani coloro che, nella prima metà del Seicento, diedero vita a Napoli a una rigogliosa letteratura dialettale; napoletani di nascita o di elezione gli altri che assicurarono alla pittura napoletana del Seicento un primato italiano. Ma precisamente codesto primeggiare nelle varie forme del barocchismo, cioè di un'arte vuota di serio contenuto spirituale, è altro segno del basso livello a cui era discesa in Napoli ogni fruttuosa attività interiore: basso livello confermato dal nessuno o scarsissimo interesse degli stessi Napoletani colti per le manifestazioni più alte delle scienze morali e politiche e dalla nessuna risonanza che ebbero nella città le voci precorritrici dei regnicoli Bernardino Telesio, Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Antonio Serra. Sola e limitata eccezione, forse, le farraginose "allegazioni", "consulte", "decisioni" e più ampie opere forensi dei molti avvocati e magistrati anticurialisti, i quali serbarono vivo, contro attacchi curialistici d'ogni sorta, il concetto dell'autonomia, dell'assolutezza, della sovranità e, con tutto ciò, dell'indipendenza dello stato.

Quasi nulla, per conseguenza, la collaborazione cittadina alla vita politica del paese: collaborazione ridotta quasi al parteggiare per l'uno o l'altro dei duellanti nelle interminabili questioni giurisdizionali tra Stato e Chiesa; e al continuo contendere tra nobiltà e ceto medio circa il reggimento municipale, ossia circa la posizione reciproca nel Tribunale di San Lorenzo. Le attribuzioni del quale, allargate via via, ebbero altresì qualche colore politico, specie da che, prima di fatto, poi, aboliti nel 1642 i parlamenti, anche di diritto, toccò all'"eccellentissima città di Napoli" votare i donativi chiesti dalla corona a tutto il Regno e ripartirne l'ammontare fra i contribuenti.

Il conflitto, cominciato fin da quando Carlo VIII aveva restaurato l'elettato del popolo, dando facoltà all'eletto non solo di ripartecipare al Tribunale di San Lorenzo, ma anche di trattare in Sant'Agostino alla Zecca affari del ceto insieme con dieci o dodici "consultori" e i "capitani di strada" delle ottine; continuato allorché codesti capitani, da elettivi, vennero resi da Federico d'Aragona (1498) di nomina regia e da Ferdinando il Cattolico (1507) nuovamente elettivi; inasprito a causa della pubblicazione, da parte del viceré De Lannoy (1522), di ventitré Capitoli di reggimento popolare, coi quali, tra l'altro, il popolo, con la conferma, in linea di massima, del diritto di eleggersi i suoi capi (eletto, consultori e capitani), ottenne anche quello d'inviare, in casi speciali, un suo proprio rappresentante presso la corte cesarea; divampò più furioso dopo che, dal 1547 in poi, i viceré, violando la consuetudine per cui, di tra i sei designati per elezione, veniva tratto a sorte il futuro eletto del popolo, presero a sceglierlo essi stessi fra quei sei, facendone, per tal modo, un docile strumento della loro politica assolutistica e antibaronale. Uno scoppio semicruento s'ebbe già nell'ultimo anno di governo del secondo duca d'Ossuna (1616-20), il quale, tutto intento a risanare un forte deficit dell'amministrazione municipale e, in pari tempo, a liberare da ogni inceppo costituzionale l'autorità dei viceré, disarmò i sedili nobili, ai quali erano consentite alcune armi, militarizzò la plebaglia, la aizzò contro quelli e, ch'è più, nominò prima proeletto, poi eletto e magistrato togato il suo ispiratore Giulio Genoino, nimicissimo della nobiltà e chiedente, tra molti altri vantaggi per le classi inferiori, parità di voto tra nobiltà e popolo nel Tribunale di San Lorenzo e assegnazione al secondo della metà degli uffici della città e del Regno. Da che, dall'una parte e dall'altra, atti più o meno illegali; invii o minacce o tentativi d'invii di ambasciatori al re cattolico; giornate paurose di trambusti, torbidi e "serra serra"; e, per ultimo, rimozione e partenza dell'Ossuna, e fuga, prigionia e definitiva condanna del Genoino al carcere, da cui non fu liberato se non dodici anni dopo. Ma, se quella volta la vittoria arrise alla nobiltà, ben altrimenti andarono le cose allorché il continuo inasprimento delle gabelle avveratosi dal governo del conte di Monterey (1631-7) a quello del duca d'Arcos (1646-8) porse occasione allo scoppio (7 luglio 1647) della rivoluzione detta impropriamente di Masaniello, e che si dovrebbe dire del Genoino, il quale, per qualche tempo almeno e nella misura consentita dalle circostanze, fu ispiratore e nascosto dirigente di quell'incomposto moto di plebe. Sennonché, mirante originariamente, come già nel 1620, alla piena eguaglianza tra nobiltà e popolo e all'abolizione delle gabelle posteriori ai tempi di Carlo V (cose già concesse il 13 luglio), l'insurrezione sfuggiva ben presto al controllo del vecchio agitatore; e, di eccesso in eccesso, di follia in follia, sfociava nella proclamazione della "repubblica napoletana" sotto la protezione della Francia, con a capo Enrico di Lorena duca di Guisa (22 ottobre 1647). Repubblica circoscritta soltanto a taluni quartieri cittadini e, non fosse che per questo, nata mezzo morta, e morta poi ingloriosamente, come ingloriosamente era vissuta, il 5 aprile 1648, allorché, invocate dalla parte migliore dei rioni popolari, le truppe spagnole li rioccuparono senza colpo ferire.

Con le cruente repressioni del nuovo viceré Oñate (1648-53), alle quali seguì la peste sterminatrice del 1656, parve che la città di Napoli toccasse il fondo dell'abiezione, dell'infelicità e della miseria. Eppure proprio in quelle repressioni e nella congruente politica dei successivi viceré, e segnatamente dell'ottimo marchese del Carpio (1683-7) e del Medinaceli (1696-1702), è da rinvenire l'origine di quello che, già nel Settecento, l'abate Ferdinando Galiani chiamava il "risorgimento" napoletano. Giacché l'Oñate, e più ancora i suoi successori, appunto per tener tranquillo un popolaccio che s'era mostrato così pericoloso, oltre che alleviare gabelle, mirarono a deprimere e imborghesire più che fosse possibile proprio quella nobiltà, contro cui s'era scatenata principalmente l'insurrezione e che, aiutando con tutte le sue forze il potere vicereale a reprimerla, aveva mietuto larghissima messe di odî popolari. Era inevitabile, pertanto, un elevamento del ceto medio, il quale divenne tanto più atto alle funzioni di classe dirigente, che, per tal modo, gli venivano implicitamente assegnate, in quanto, scossa l'antica inerzia mentale, riuscì in pochi decennî a compiere in sé medesimo un totale rinnovamento spirituale, soprattutto mercé l'adesione, vesuvianamente entusiastica, al cartesianismo, che, contaminato, a dir vero, con altre correnti filosofiche avverse allo scolasticismo, un manipolo di studiosi aveva cominciato a diffondere, intorno al 1650, tanto nell'università, quanto in risorte accademie private, librerie e salotti letterarî. Con siffatto pensiero filosofico, la parte più colta del medio ceto ebbe come una nuova fede religiosa, la quale valse ai suoi "settatori" la guerra delle forze reazionarie del paese. Il clero tuonò per anni contro quegli "ateisti", ai quali il Sant'Uffizio non mancò d'imbastire un processone (1688-93), che, per il nascosto intervento dell'autorità politica, non solo finì quasi nel nulla, ma diede luogo alla più fiera e lunga delle battaglie giurisdizionali combattute a Napoli: tanto lunga che si poté dir conchiusa soltanto col concordato del 1741. E i più malcontenti tra i nobili, dal canto loro, più che scendere in campo aperto contro il ceto civile, presero ad accarezzare, fin dal tempo dell'insurrezione del 1647-8, l'idea, progressistica in apparenza, reazionaria nel fondo, d'un re autonomo, ossia debole e dirigibile a loro talento: re che, scoppiata poi la guerra di successione spagnola, non riuscì difficile trovare nel pretendente Carlo d'Austria, a pro del quale quei nobili ordirono, nel 1701, la congiura e conseguente rivoluzione dette di Macchia (v.). Vero è che le contingenze generali della guerra consentirono nel 1707 a un esercito austriaco di penetrare a Napoli senza spargimento di sangue, e di farne, per ventisette anni, non già la capitale d'un regno autonomo, ma, una volta ancora, il capoluogo d'una provincia, se non più spagnola, austriaca o, meglio, ispano-austriaca. E vero è altresì che i nobili autonomisti di sei anni addietro, divenuti ora austriacanti, riuscirono ad attuare parte del loro programma reazionario anche nella città di Napoli, ove, p. es., la diminuita autorità dei viceré rese possibili, nel 1723, tumulti popolari contro quell'Istoria civile del regno di Napoli del Giannone, che, mercé la sua risonanza immensa, rese noti a tutta Europa pensieri, aspirazioni e travagli del medio ceto napoletano. Sennonché il moto di cultura cominciato negli ultimi decennî del Seicento, pur ristagnando forse quanto a profondità - la miracolosa attività scientifica del Vico passò per allora quasi inosservata - s'allargò moltissimo in estensione: onde più vivi e più consapevoli divennero nel medio ceto i connessi desiderî di riforme politiche. E l'entrata di Carlo di Borbone a Napoli (10 maggio 1734) e la rielevazione di questa (15 maggio) a capitale d'una monarchia, autonoma, bensì, ma in senso toto caelo opposto a quello vagheggiato dagli autonomisti-austriacanti, cominciarono a convertire siffatti desiderî in realtà.

Primo periodo borbonico. - Arricchita da Carlo di Borbone, e poi dal figlio Ferdinando IV, del teatro San Carlo, della villa di Capodimonte, dell'Albergo dei Poveri, del Foro Carolino (oggi Piazza Dante), dei Granili e di altri edifici monumentali; abbellita nel 1781 del "real passeggio", ossia del primo e maggior pezzo della futura Villa; gremita di popolazione nei sobborghi, i quali, distrutte cinta muraria e molte porte, perderono del tutto il loro carattere suburbano; la Napoli del primo periodo borbonico s'accostò ancora più, quanto a fisionomia esterna, alla Napoli dei giorni nostri. E con qual ritmo accelerato progredisse la vita cittadina, alla quale una corte regia, molte ambasciate straniere e tante altre cose perdute e ora riacquistate, conferivano, già per sé stesse, un tono più alto, si può scorgere, tra l'altro, confrontando le relazioni di viaggiatori stranieri del principio e della fine del Settecento.

Circa le due caste privilegiate, la nobiltà perdé parecchie delle sue caratteristiche negative cinque-secentesche, nel senso che gli austriacanti, ossia i reazionarî rimpiangenti quel semiritorno al prepotere dei baroni avveratosi durante il viceregno austriaco, si ridussero a una minoranza sempre più sparuta e trascurabile; gli odiatori d'ogni forma di cultura e d'operosità civile, sebbene restati in parecchi, si disinteressarono quasi del tutto della vita pubblica, paghi di brillare nelle cariche di corte o magari quali insuperati guidatori di cavalli; e gli elementi migliori, datisi agli studî e spesso agli alti uffici diplomatici, civili e militari, s'accostarono, per concordanza d'idee e comunanza di lavoro, alla parte più colta del medio ceto, con la quale finirono col formare tutt'uno. E il clero, ridotto di numero (nel concordato del 1741 veniva stabilita al dieci per mille la proporzione consentita tra la popolazione ecclesiastica e quella civile); spogliato, con l'adottato principio dell'incameramento della maggior parte dei suoi immensi beni; privato, inoltre, di quasi tutte le sue immunità; dové considerarsi parte dello stato e soggetto alle sue leggi, non senza che i suoi componenti più colti (monsignor Celestino Galiani, Antonio Genovese, l'abate Ferdinando Galiani, il vescovo Serao, l'arcivescovo Capecelatro, ecc.) si battessero più volte per lo stato contro le inframmettenze chiesastiche e si facessero talora addirittura propagatori o sviluppatori delle nuove idee illuministiche e progressistiche.

Non più osteggiato, anzi coadiuvato da una minoranza eletta delle due antiche caste privilegiate; rinforzato quantitativamente e migliorato qualitativamente dall'affinarsi della sua cultura, non più prevalentemente forense, bensì filosofico-politico-economica; il medio ceto comprese perfettamente che, per vacare degnamente all'ufficio di classe dirigente, a cui, anche esplicitamente, veniva ora chiamato, doveva disfarsi di quanto ancora permaneva in esso di grettamente ed egoisticamente municipalistico. E, per quanto fosse difficile che Napoli, da città privilegiata, incurante delle provincie e prosperante a danno di queste, si convertisse in una vera e propria capitale d'uno stato moderno, collaborante con le provincie al bene comune della nazione, non si può dire che siffatto programma non fosse tentato e parzialmente attuato. Certo è che, da meta delle ambizioni del grasso borghese napoletano, il Tribunale di San Lorenzo, decaduto quasi a mero consiglio comunale e disertato dai migliori, divenne oggetto, specie dopo la carestia e connessa epidemia del 1764, di critiche quanto mai aspre per i suoi antiquatissimi sistemi annonarî. Certo è ancora che "amor di patria", "pubblica felicità" e altre frasi del genere, così frequenti negli scritti dei pubblicisti napoletani del tempo, perderono qualsiasi significato campanilistico per assumere quello, più largo, consono ai tempi nuovi. Certo è infine che ciò che da quei pubblicisti si chiedeva alla corona non erano più privilegi per la città di Napoli, bensì riforme (amministrative, finanziarie, culturali, agricole, ecc.) comuni a tutto il Regno. E, poiché da questo a un più ampio allargamento dell'idea di patria il passo era assai breve, si spiega perfettamente perché l'unificazione d'Italia, quale preciso, per quanto ancora utopistico programma politico, sorgesse primamente, alla fine del secolo, per l'appunto tra i profughi napoletani.

Le riforme invocate furono in gran parte concesse; e, per ricordare qui soltanto talune di quelle concernenti la pubblica educazione e la cultura, delle quali beneficiò maggiormente la città di Napoli, l'università fu due volte riformata (1736 e 1777) e, con l'aiuto finanziario del ricco fiorentino napoletanizzato Bartolomeo Intieri, ebbe nel 1754, prima in tutta Europa, una cattedra d'economia politica, affidata al Genovese, che, primo altresì in Italia o, quanto meno, a Napoli, sostituì, nell'insegnamento, la lingua italiana a quella latina; per divulgare e illustrare i trovamenti di Ercolano, iniziati nel regno di Carlo, venne istituita nel 1755 la regia Accademia Ercolanense e, poi ancora, la regia Officina dei papiri; nel Palazzo degli studî, ove già dai tempi di Carlo di Borbone era stato radunato il primo nucleo della Biblioteca Borbonica, poi Nazionale, furono riuniti i bronzi ercolanensi e le collezioni farnesiane, nucleo a lor volta del futuro Museo Nazionale. E poiché, d'altra parte, l'accordo tra monarchia e classe dirigente fino al 1790 fu perfetto, appare del tutto naturale il senso di ottimismo che, segnatamente fra il 1770 e il 1790, ispirava la vita napoletana, e del quale resta documento cospicuo la Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri (v.). Ottimismo non ottenebrato, ma tuttavia eccessivo, in quanto non faceva dare il giusto rilievo al grosso guaio del "lazzarismo", cioè alla plebe cittadina, che non differiva troppo, per infingardaggine, rozzezza, ignoranza e minacciosa turbolenza, dalla plebaglia che aveva fatto la rivoluzione di Masaniello. Due sole persone forse a Napoli riuscivano a tenere a freno quei lazzari: Ferdinando IV, che, lieto di scendere al loro livello, ne divenne l'idolo, tanto da esser designato col nomignolo, pienamente meritato, di "re lazzarone"; e un santissimo e quanto mai benemerito domenicano, il padre Gregorio Maria Rocco. Ma il padre Rocco moriva nel 1782, e pochi anni dopo, l'accordo e quasi idillio tra monarchia e classe dirigente si mutava in guerra a morte. E di che cosa fossero capaci quei lazzari, non più contenuti dal buon frate, anzi scatenati dal loro idolatrato Ferdinando, i patrioti del 1799 non tardarono a fare tristissima esperienza.

Repubblica del 1799, prima restaurazione borbonica, decennio francese, seconda restaurazione borbonica. - Come s'è detto, lo scoppio della rivoluzione francese, determinò tra la monarchia borbonica e i patrioti una guerra a morte, non terminata, pur con tregue e compromessi di maggiore o minor durata, se non nel 1860 col tracollo definitivo della prima. Tra gli avvenimenti che generarono quel nuovo stato d'animo o primamente conseguirono da esso, vanno ricordati l'arrivo della squadra navale del Latouche-Tréville e le sue richieste prepotenti; la pavida e vergognosa acquiescenza della corte; il fraternizzare dei patrioti con ufficiali e marinai francesi; l'accresciuto entusiasmo per le forme repubblicane della Francia rivoluzionaria; la conversione delle logge massoniche in clubs giacobinici; la raddoppiata paura della corte e il conseguente reazionarismo della sua politica esterna e interna; le prime congiure, le prime Giunte di stato, le prime carcerazioni in massa, i primi processi, le prime esecuzioni capitali, il primo irrompere, segnatamente in Lombardia, di esiliati e profughi napoletani; la momentanea tregua determinata dalla pace di Parigi (1796) e la poco posteriore scarcerazione, parimente in massa, dei patrioti ancora detenuti; l'effervescenza popolare suscitata dalla corte medesima nel suo riprendere a viso scoperto, dopo Abukir, una politica antifrancese; i tumulti plebei seguentisi senza posa a causa della sconfitta dell'esercito napoletano a Civita Castellana e dell'avanzata delle truppe dello Championnet; la fuga della corte e la generale anarchia, aumentata dal contendere tra il vicario lasciato dal re e il decrepito Tribunale di S. Lorenzo, aspirante, come se si fosse in pieno Medioevo, al reggimento della cosa pubblica; i tre giorni d'impensata accanitissima resistenza opposta dai lazzari, nelle vie stesse della città, all'esercito francese; i segreti accordi dei patrioti con questo e la loro occupazione di Castel Sant'Elmo; la proclamazione della repubblica napoletana (24 gennaio 1799); l'istituzione del primo governo provvisorio e, contemporaneamente, abolito il Tribunale di S. Lorenzo, della prima municipalità provvisoria, con alla testa un comitato centrale, da cui dipendevano cinque comitati minori; il secondo governo provvisorio (15 aprile 1799) e, in luogo della municipalità provvisoria, il cosiddetto "Dicastero centrale" con sei "municipalità" dipendenti, una per ciascuno dei sei "cantoni" in cui era stata divisa la città; la vita febbrile di questa, costretta a lottare, per la sua esistenza, non solo contro insorgenze di provincie lontane e vicine, ma contro la plebe della capitale, contro congiure di borbonici e avide spoliazioni di militari e commissarî francesi; il coraggio eroico con cui, pur consci della prossima fine d'una repubblica ridotta ormai quasi alla sola città di Napoli, i patrioti combatterono fino all'ultimo respiro per il loro patrimonio ideale; la difesa disperata opposta al Ponte della Maddalena contro le orde del Ruffo; l'entrata di queste nella città (13 giugno 1799), la loro unione coi lazzari e le orribili giornate sanfedistiche che ne furono la conseguenza; la breve restaurazione e poi, di nuovo, l'abolizione del Tribunale di S. Lorenzo, sostituito da un "Senato"; la lacerata capitolazione dei castelli, le rinnovate carcerazioni in massa e l'alacre lavoro di più feroce e sanguinaria Giunta di stato le centodiciannove esecuzioni capitali di patrioti, cominciate fin dal 1° giugno 1799 a Procida, e dal 29 giugno all'11 settembre 1800 continuate a Napoli; la dispersione, negli ergastoli e negli esilî, di quant'altro di buono offrisse la città per ingegno, sapere e capacità; la grave crisi economica; l'indulto generale sancito nella pace di Firenze del 1801, il vuotamento delle carceri e il parziale ritorno di esiliati e profughi politici; le nuove follie della corte, la nuova spedizione francese contro il Regno e la nuova fuga del re; lo scendere in piazza di migliaia di borghesi armati per tenere a freno la plebaglia, memore delle sue geste del 1799 e smaniosa di ripeterle; l'ingresso di Giuseppe Bonaparte (16 febbraio 1806) e l'inizio del cosiddetto "Decennio francese", lungo il quale Napoli, alla guisa stessa dell'intero Regno, fu quasi totalmente rinnovata. Rinnovata estrinsecamente mercé importanti lavori edilizio-stradali, tra cui più agevoli comunicazioni con Capodimonte e Posillipo; rinnovata nella sua stessa funzione di capitale, in quanto divenne sede dei maggiori fra i tanti nuovi istituti politici, amministrativi, finanziarî, militari e giudiziarî; rinnovata, se non nella sua cultura - restata, anzi, quella, ormai antiquata e quindi poco ferace, dei razionalisti e illuministi settecenteschi - per lo meno, e per opera segnatamente dell'antilluminista e vichiano Cuoco, nei suoi istituti di cultura e di educazione, o riformati radicalmente (p. es. università), ovvero creati ex novo (Società reale, Istituto d'incoraggiamento, Accademia Pontaniana, Orto botanico, regi collegi ed educandati femminili, ecc.); rinnovata nella sua amministrazione interna, affidata a un decurionato di trenta membri, tra i quali veniva scelto il "Corpo di città", composto da un presidente (detto poi sindaco) e sei "eletti" (ordinamento che, con le modifiche apportatevi nel 1816 da Ferdinando I, il quale ripartì anche la citta nelle dodici attuali sezioni, restò in vigore finché nel 1861, alla guisa medesima delle altre città dell'Italia unificata, Napoli ebbe anch'essa un sindaco, assessori e consiglieri comunali); rinnovata nel suo giornalismo, ancora ristretto e ufficioso bensì (bisettimanale Monitore napoletano e trisettimanale Corriere di Napoli, fusi poi, nel 1811, nel quotidiano Monitore delle Due Sicilie, ribattezzato nel 1815 Giornale delle Due Sicilie, e continuato lungo tutta la seconda restaurazione borbonica), ma che ebbe pure alla testa un Vincenzo Cuoco; rinnovata nella sua classe dirigente, composta non soltanto dei superstiti patrioti del Novantanove, ma da quanti altri, da qualunque partito provenissero, amassero sinceramente la patria e bramassero servirla; rinnovata nel colore politico di codesta classe dirigente, la quale, liberatasi, dopo le dure lezioni dell'esperienza, dagl'ingenui ideologismi repubblicano-giacobinici, s'acconciò alla nuova monarchia assoluta, senza nemmeno assillarla troppo, pur proponendosi di ottenerne o strapparne in un avvenire più o meno prossimo, la concessione di più libere istituzioni; rinnovata nel costume, orientato nei migliori o verso un geloso sentimento dell'onor militare (sentimento cementato dalla larga e gloriosa partecipazione di generali, ufficiali e soldati napoletani alle guerre napoleoniche), oppure verso un'indefessa operosità civile.

Si spiega, pertanto, il senso d'angoscia e di sgomento da cui furono presi gli uomini più cospicui del Decennio allorché, tra l'esultare del lazzarismo e preceduto da truppe austriache, il restaurato Ferdinando risalì sul trono avito (maggio-giugno 1815). Si spiega, malgrado l'innegabile progresso civile che il cosiddetto "Quinquennio" (1815-20) segna di fronte al Decennio, la loro tenace diffidenza verso il Borbone, che, volente o nolente, li aveva pure, salvo rare eccezioni, serbati ai loro posti. E - qualora si tengano presenti, da un lato, lo scettico utilitarismo, spregiatore d'ideali e d'entusiasmi, che, a causa della loro antiquata forma mentis, s'era venuto sviluppando in quegli uomini non più giovani, e, d'altro canto, la loro adesione al carbonarismo, restato, segnatamente a Napoli, quasi mero simbolismo e, nella sua frigida teologia massonica, incapace di dare sfondo religioso alle idee politiche - si spiega altresì come quei murattiani, ai quali non difettava di certo l'esperienza, dessero vita o si schierassero accanto all'anacronistica rivoluzione carbonara del 1820. Rivoluzione di vecchi, com'è stato detto, e che, dopo nove mesi di errori e di colpe così di chi la fece, come di chi, dopo averla subita, giurando di servirla, la tradì, sfociò nell'ingresso e nella non breve permanenza d'un corpo austriaco a Napoli; in una nuova serie di condanne a morte, agli ergastoli e agli esilî; nella destituzione dei migliori tra i funzionarî, magistrati e alti militari murattiani; in molteplici ma non riusciti tentativi di distruggere proprio quelle conquiste del Decennio che la rivoluzione aveva mirato a difendere e consolidare. Solo risultato positivo, forse, la Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825 di Pietro Colletta, suscitatrice, negli uomini del tempo, degli stessi fremiti che, nei loro nonni di cento anni addietro, l'Istoria civile del Giannone.

Con l'avvento di Ferdinando II al trono (1830); con le sue ampie amnistie; col ritorno dei prigionieri ed esiliati politici; col richiamo di molti murattiani alle cariche pubbliche e, più tardi, persino al ministero; con la restaurazione delle buone tradizioni amministrative, militari e giudiziarie del periodo napoleonico; coi molti progressi che si compirono in ogni ramo dell'attività civile (fin dal 1838-9 Napoli ebbe una stazione ferroviaria; quasi contemporaneamente, alla vecchia illuminazione a olio, adottata negli ultimi decennî del Settecento, venne sostituita quella a gas; nel 1845 la città fu scelta come sede del settimo congresso degli scienziati italiani, che rese tanti servigi alla causa unitaria, ecc.); sembrarono tanto più tornati i bei tempi del Decennio o del ventennio precedente la rivoluzione francese, in quanto, già incline, per indole degli abitanti, a una rumorosa e quasi bambinesca festosità, la città partecipò largamente a quella rinnovata gioia di vivere, che, ove più ove meno, caratterizzò dal 1830 al 1848 la vita europea. Ma che, in realtà, non fossero tornati, e che all'apparente accordo o compromesso tra monarchia e classe dirigente dovesse prima o poi sottentrare, come sottentrò, un nuovo stato di guerra, poteva essere prevedibile dall'orientamento e conseguente atteggiamento della stessa classe dirigente, formata non più dai troppo vecchi, troppo scettici e quasi tutti borbonizzati e perciò discreditati e spesso calunniati murattiani, bensì dalla giovane generazione, diversa tanto da quella che s'avviava al tramonto quanto il romanticismo differisce dall'illuminismo volteriano. Giacché romantica, pur nei talora contrastanti atteggiamenti neo-guelfo (rappresentante cospicuo Carlo Troya) e idealistico (rappresentanti cospicui gli alquanto più giovani Bertrando Spaventa e Francesco De Sanctis), e, nell'un caso e nell'altro, rifacentesi all'allora riscoperto e celebrato Vico, fu la cultura che quei giovani assorbirono e a loro volta divulgarono, non tanto attraverso l'università, quanto attraverso libri stranieri, studî privati (per es. quello di Basilio Puoti e, più tardi, l'altro del De Sanctis), periodici letterarî (Progresso e Museo di scienze e lettere), piccole riviste divulgative e popolari (Poliorama e Omnibus pittoresco) e conversari in qualche libreria, in qualche gabinetto di lettura e segnatamente nei moltiplicati caffè, tra i quali quello "d'Italia", fondato fin dal tempo napoleonico dirimpetto la chiesa di San Ferdinando, e l'altro al Largo della Carità, tenuto allora da un Vito Pinto e divenuto poi il Caffè De Angelis. Da che, in quei giovani, il formarsi d'un vero culto religioso per la nazione, connesso con la fede nella Provvidenza divina o nella ragione storica; il credere seriamente a una missione affidata al popolo italiano; l'inebriarsi alla lettura del Primato giobertiano, nel quale ritrovavano idee a loro già familiari attraverso gli scritti del Cuoco e il De antiquissima Italorum sapientia del Vico; il riprendere, con ben altra consapevolezza e volontà di tradurlo in atto, il programma unitario, più volte vagheggiato dagli uomini migliori della generazione precedente (p. es. dal Cuoco); e, naturalmente, lo straniarsi sempre più dalla monarchia borbonica, nella quale vedevano il maggiore ostacolo alle loro aspirazioni.

Sbocco di queste fu, per quell'eletta minoranza di giovani entusiasti, la rivoluzione del 1848. E che gli errori commessi da loro nel farla fossero né pochi né lievi, si spiega col tener presente non tanto forse la loro immaturità politica, quanto l'ubbriacatura generale da cui fu presa tutt'intera la popolazione napoletana allorché il 29 gennaio 1848, Ferdinando II concesse la costituzione. Via Toledo e altre strade percorse e ripercorse da dimostrazioni, fattesi quasi quotidiane e sempre più accese; un pullulare di giornali e giornalucoli, redatti spesso da uomini ancora nuovi al non facile mestiere e, pertanto, spingenti, di là forse dalle loro medesime intenzioni, l'opinione pubblica sino al parossismo; un bisogno irrefrenabile di sovreccitarsi col discutere a perdifiato sulle imperfezioni dell'ottenuta costituzione e sulle modifiche più o meno profonde da apportarvi; un eccessivo diffidare, da una parte, verso quelli che potevano essere propositi machiavellici del re di spingere le cose al peggio, e un non meno eccessivo temere, dall'altra parte, che da quella folata d'esaltazione venisse travolta la monarchia: codesto, nelle sue principali caratteristiche, l'ambiente in cui ebbero luogo le prime elezioni, la prima convocazione del parlamento, le aggrovigliate e talora incoerenti dispute sulla cosiddetta "questione del giuramento", il sorgere delle barricate e - epilogo cruento che dissipò quell'ubbriacatura - i casi funesti del lugubre 15 maggio. E, prima contenuta ancora nell'orbita costituzionale, poi, soppressa di fatto la costituzione, attraverso le consuete vendette giudiziarie e le non meno consuete repressioni poliziesche, si svolse soprattutto nella città di Napoli l'opera della terza e ultima reazione borbonica, per la quale e attraverso la quale gli apparentemente vincitori, dopo il tardivo conato costituzionale di Francesco II, furono definitivamente travolti, e agli apparentemente vinti, tornati dagli ergastoli e dagli esilî, fu dato d'accompagnare acclamando Garibaldi dalla stazione ferroviaria al palazzo d'Angri (7 settembre 1860), partecipare al plebiscito che sancì anche ufficialmente la caduta del più che sette volte secolare Reame (21 ottobre 1860), andare incontro a Vittorio Emanuele venuto quasi a prender possesso della città (7 novembre 1860), e, dopo aver fatto parte del cosiddetto governo di luogotenenza o averlo servito, salutare in Alfonso Lamarmora il primo prefetto mandato a Napoli dalla nuova Italia (9 ottobre 1861).

Nella nuova Italia. - I Borboni lasciarono, certo, lunghi rimpianti in una particolare società, nella quale, tra ex-impiegati, ex-ufficiali, preti, servitorame e plebe, primeggiavano parecchie famiglie di quella che anche a Napoli fu detta l'"aristocrazia nera". Sennonché quei borbonici - divenuti sempre men numerosi e, con la guerra mondiale, scomparsi del tutto - poterono bene tener vivo il fioco lumicino del legittimismo, prima con non pericolose congiurette cittadine e qualche intesa col brigantaggio pseudopolitico delle provincie, poi col tentare malfondate e malriuscite apologie storiche della dinastia decaduta (Giacinto de Sivo, Pietro Calà-Ulloa, ecc.) e col sovvenzionare giornali che essi soli leggevano (La discussione, 1872-1906; L'Italia reale, 1880-83; Il vero guelfo, ribattezzato poi Nuovo guelfo, 1885-98, 1898-1914; Carlo III, 1903); non mai elevarsi a classe dirigente: ufficio che, fin dal 1860, venne assunto, senza ostacoli, dai rivoluzionarî del Quarantotto.

Dal punto di vista della cultura, l'opera compiuta o promossa direttamente o indirettamente, da quegli uomini non sarebbe potuta essere più fruttuosa. Caduta nel 1848-60 così in basso, che la luogotenenza dové, in una volta sola, congedare, per incapacità, ben trentadue professori, l'università, in virtù delle nuove nomine, salì di colpo a reputazione europea. All'opera svolta per circa un venticinquennio (1860-85) da Bertrando Spaventa e dai suoi più insigni cooperatori e discepoli non solo nelle aule scolastiche, ma anche nella neonata R. Accademia di scienze morali e politiche, aggiunta alla totalmente ricostituita Società reale, nonché nel Giornale napoletano di filosofia e lettere, che, pur con interruzioni e mutamenti di titolo e direzione, visse dal 1872 al 1885, Napoli dové se, nel generale irrompere del positivismo naturalistico, poté essere considerata l'ultima roccaforte dell'idealismo. In quel venticinquennio altresì Francesco de Sanctis, mentre pubblicava a Napoli quasi tutte le sue opere, vi teneva la sua "seconda scuola" (1871-76) e vi fondava, altra sua palestra, il Circolo Filologico (1876). E a mantenere altissimo, in quegli anni, il livello della cultura napoletana concorsero ancora il contributo originalissimo recato alle loro discipline da una numerosa accolta di giuristi, archeologi, matematici, fisici, astronomi, mineralogisti, naturalisti e medici di eccezionale valore; il fiorire d'una magnifica scuola pittorica; e il forte rilievo dato a cose culturali dall'Indipendenza italiana (fondata nel 1860), dall'Indipendente (1860), dal Pungolo (1860), dal Roma (1862), dalla Patria (1862), dall'Italia (1863), dalla Gazzetta di Napoli (1871) e da altri giornali politici, scritti spesso da letterati (Alessandro Dumas, De Sanctis, Vittorio Imbriani, ecc.), ai quali solo in un secondo momento si sostituirono giornalisti di vocazione, quali Rocco de Zerbi, fondatore del Piccolo (1868) e Martino Cafiero, fondatore del Corriere del Mattino (1876).

Sennonché agli stessi uomini del Quarantotto venne e vien data la taccia che, entrati a far parte del governo della nuova Italia, si disinteressassero, salvo appunto per la cultura, delle sorti della città in cui erano nati o erano stati educati e, in genere, di quel groviglio di problemi, assillanti fin dal 1860, ma che solamente più tardi, mercé gli studî di L. Franchetti, di S. Sonnino e segnatamente di G. Fortunato, vennero posti col nome di "questione meridionale" (v. mezzogiorno, questione del). Questione tormentosa soprattutto per Napoli, la più grande, popolosa e socialmente arretrata fra le ex-capitali degli antichi stati italiani; ospitante nella sua cinta, più che mai troppo stretta, insieme con pochi nobili avviantisi a una rapida decadenza economica, con pochi uomini di studî, con pochissimi rappresentanti d'un rachitico commercio e d'una più rachitica industria, una plebe sterminata e quasi altrettanto oziosa, lacera e famelica che quella dei tempi del viceregno; afflitta, perciò, molto più di altri centri urbani, dalle piaghe dell'analfabetismo, della delinquenza e della camorra, salita a grande e persino eccessiva notorietà (con annessi e connessi ricami di fantasia) per l'uso fattone da Liborio Romano come di arma di governo e per la guerra a oltranza mossale, per primo, da Silvio Spaventa; rovinata economicamente così dal non essere più sede d'una corte fastosa, come dall'esser divenuta, da unico emporio del Mezzogiorno d'Italia, parte del quale si volgeva ora verso Roma e verso l'Emilia, facile mercato dell'industria dell'Italia settentrionale; incapace di trasformarsi essa stessa, alla guisa, p. es., della già capitale Torino, in città industriale e commerciale; e la triste particolarizzazione potrebbe continuare. Da ciò, tra l'altro, un senso di malessere, esacerbato dal paragone con ciò che andavano diventando i maggiori centri dell'Italia settentrionale e centrale; e anche il primo sorgere d'un'antinomia, accentuata più tardi, ma priva sempre di qualsiasi sfondo politico, tra Nord e Sud.

Comunque, intorno al 1880, e più ancora dopo il colera del 1884 e l'altamente benefica visita del re Umberto I, la città che già negli anni immediatamente successivi al 1860 aveva avuta la nuova stazione ferroviaria (quadruplicata almeno ai giorni nostri) e qualche nuova importante arteria (pezzo superiore di Via del Duomo, primo prolungamento di Corso Garibaldi fino al mare, ecc.), cominciò a cambiare fisionomia. Con sussidio governativo di cento milioni fu costituita una Società del risanamento, che ai più orribili e malsani budelli dei quartieri Porto e Pendino sostituì un ampio rettifilo; si prolungarono e allargarono alcune strade (pezzo inferiore di Via del Duomo, secondo prolungamento di Corso Garibaldi fino a Piazza Carlo III) e se ne costruirono di nuove (per es. Via Caracciolo e, più tardi, la Via Nuova Santa Lucia); s'aprirono altri rioni tanto signorili (per es. il rione Amedeo), quanto popolari (per es. il Vasto); accanto alle ville di delizie del Vomero vecchio, sorse via via (1888 segg.) il Vomero nuovo, divenuto oggi, coi suoi circa centomila abitanti, quasi una città a parte; con l'acquedotto del Serino si convertì in realtà un antico sogno d'Alfonso II d'Aragona; tram a cavalli con qualcuno a vapore (tutti elettrificati nel 1899) e funicolari percorsero da un capo all'altro la città e sostituirono quegli asini deliziosamente rappresentati dal Palizzi nel congiungere la parte bassa con quella alta; col valido aiuto delle moltiplicate scuole elementari e, più ancora forse, della coscrizione obbligatoria, costringente i giovani popolani a vivere per certo tempo in centri più inciviliti, si riuscì parzialmente a condurli ad abiti meno primitivi di vita; e, insomma, in una ventina d'anni si percorse tanto cammino che già nel 1888 (l'anno stesso dei festeggiamenti per la visita di Guglielmo II di Hohenzollern) il Gladstone, venuto a Napoli, quasi non riconobbe più la città degli ultimi tempi borbonici.

Mancò, per contrario, un simultaneo progresso nella vita politica e culturale, l'una e l'altra, anzi, ristagnate e talora regredite nel quindicennio 1885-1900. Forse a Napoli più che altrove, la lotta politica, anziché, come presso gli uomini del Quarantotto, dal bisogno irrefrenabile di far trionfare un'idea fermamente creduta e fortemente sentita, fu materiata quasi esclusivamente da interessi particolaristici di persone, clientele e gruppi: tanto che non ci fu ministero a cui non riuscisse un giuoco propiziarsi (salvo, ben s'intende, degnissime eccezioni) gli uomini politici napoletani e, in genere, del Mezzogiorno, con semplici concessioni, com'ebbe a dire il Depretis, di qualche spaccio di sale e tabacchi. E, quanto agli studî filosofici, base d'ogni fattiva cultura, i successori universitarî degli Spaventa, dei De Sanctis e dei Fiorentino, burocratizzatisi e gingillantisi con un ozioso chiosare ed eruditizzare, cedettero del tutto le armi al positivismo, contenti, tutt'al più, d'adagiarsi in un incolore neocriticismo. Vero è altresi che quelli di storia regionale ricevettero grande impulso sia dalla fondazione della Società di storia patria (1875), sia dalla rivista Napoli nobilissima (1892-1906, e poi, nuovamente, 1920-22), sia dal principe Gaetano Filangieri, che, mentre donava al comune il museo che reca il suo nome, incoraggiò ampie pubblicazioni di documenti relativi alla storia dell'arte napoletana. D'altra parte, allora appunto, per opera segnatamente di S. Di Giacomo e di M. Serao, sorse a Napoli quella letteratura d'arte che v'era mancata nei primi ottant'anni del secolo vivacità e buon gusto mostrarono giornali e giornaletti letterarî e artistici (Fantasio, 1881-83; Cronaca sibarita, 1884; Fortunio, 1888-98, ecc.); progressi grandissimi ebbe il giornalismo politico, soprattutto mercé il Corriere di Napoli, in cui si fusero nel 1887 il Corriere del mattino e il Corriere di Roma, e ch'ebbe principali redattori E. Scarfoglio e la Serao, i quali, lasciatolo, fondarono nel 1892 il Mattino, da cui, per il distacco della Serao, si geminò poi il Giorno; senza dire che, tra gl'interpreti e critici italiani del materialismo storico, napoletani furono l'interprete più originale (Antonio Labriola) e il critico più acuto e maggiormente demolitore (Benedetto Croce).

Quanto all'ultimo trentaquattrennio, contrassegnato, dal punto di vista culturale, da una vigorosa ripresa di studî filosofici, Napoli fu la culla (1903) e poi la cittadella più battagliera del nuovo idealismo, per cui gli studî italiani, specie di filosofia e storia della filosofia, di critica letteraria e di storiografia politica occuparono e occupano nella cultura europea un posto di avanzata avanguardia. Dal punto di vista politico, la città - dopo aver dato alla guerra mondiale contributo larghissimo d'ingegno e di sangue e lo stesso generalissimo a cui l'Italia dové la vittoria - fu, alla vigilia della marcia su Roma, scelta a luogo di ritrovo della generale adunata delle camicie nere (24 ottobre 1922), e nel suo maggior teatro Benito Mussolini pronunziava un memorando discorso, in cui venivano preannunziate le direttive del governo nazionale, del quale, quattro giorni dopo, egli diveniva capo. Da allora si è intensificata in misura larghissima l'opera di risanamento edilizio e sociale; e, appunto per agevolarla, la città è divenuta (1925) sede d'un Alto Commissariato govemativo, tra i cui precipui compiti è la soluzione del problema edilizio-demografico, incombente, come s'è visto, fin dai tempi viceregnali. Quant'altro e ben più rapido cammino a siffatto proposito si sia compiuto in questi ultimissimi anni, veggono gli stranieri, i quali trovano una Napoli non solo abbellita nella parte panoramica (litoranea, sistemazione di Posillipo alto, ecc.) e ammodernata nei mezzi di comunicazione e di trasporto (metropolitana, autobus, ecc.), ma molto più incivilita nelle stesse classi popolari, le quali, liberate dalla camorra, già ferita a morte in un processo clamoroso e ora debellata del tutto, sono anche discese a medie molto più basse negl'indici dell'analfabetismo e della delinquenza. Che se, superata l'attuale crisi economica che impone un ritmo meno celere in opera così costosa, si concentreranno tutti gli sforzi nell'allargare e soprattutto rendere meno folti di popolazione certi quartieri della vecchia Napoli, il governo nazionale acquisterà un grande titolo alla riconoscenza di quanti amano questa, che il suo maggior figlio, Giambattista Vico, con orgoglio di civis neapolitanus, com'egli usava sottoscriversi, chiamava "grande, luminosa e gentil città".

Bibl.: Tra le molte opere d'indole generale: G. A. Summonte, Historia della città e regno di Napoli, Napoli 1602-43; N. Carletti, Topografia universale della città di Napoli, Napoli 1786; G. M. Galanti, Breve descrizione di Napoli, Napoli 1790; R. d'Ambra, Ampliazioni della città di Napoli dalla fondazione ai nostri tempi, in Napoli e luoghi celebri delle sue vicinanze, Napoli 1845; L. Parascandolo, Memorie storiche, critiche, diplomatiche della chiesa di Napoli, Napoli 1847; F. Ceva-Grimaldi, Della città di Napoli dal tempo della sua fondazione sino al presente, Napoli 1857; Archivio storico per le provincie napoletane (1875-segg., passim); Napoli nobilissima, s. 1ª e 2ª, passim; B. Croce, Storia del regno di Napoli, 2ª ed., Bari 1929; id., Storia e leggende napoletane, 2ª ed., ivi 1923; id., Uomini e cose della vecchia Italia,ivi 1927; id., Curiosità storiche, 2ª ed., Napoli 1922; id., Nuove curiosità storiche, ivi 1922. - Sul periodo greco-romano: B. Capasso e De Petra, Napol greco-rom., Napoli 1905; E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, Milano 1924 segg., passim. - Sui periodi bizantino e ducale: B. Capasso, Monumenta ad neapolitani ducatus historiam pertinentia, Napoli 1881-92; B. Capasso, Pianta della città di Napoli nel sec. XI, Napoli 1895; M. Schipa, Il Mezzogiorno d'Italia anteriormente alla monarchia, Bari 1923. - Per il periodo 1139-1860 la bibliografia della storia della città di Napoli conicide spesso con quella della storia generale del regno: onde basterà qualche aggiunta ai Consigli bibliografici forniti da B. Croce nella citata Storia del regno di Napoli. - Per la storia del Tribunale di San Lorenzo: B. Capasso, Catalogo ragionato dei libri, registri e scritture esistenti nella sezione antica o prima serie dell'Archivio municipale di Napoli, Napoli 1876-86; per il successivo "decurionato", A. Cutolo, Il decurionato di Napoli, 1807-61, Napoli 1932. - Per il periodo viceregnale, la Biblioteca nazionale, l'Archivio di stato e la Società di storia patria posseggono amplissimi diarî mss. relativi alla città, taluni dei quali (Guerra, Fuidoro, Bulifon, Confuorto) pubblicati nei Monumenta e nelle Cronache della mentovata Società. Sulla Napoli della seconda metà del Seicento, v. anche F. Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico, Bari 1932; id., Aspetti della vita italo-spagnuola nel Cinque-Seicento, Napoli 1934; su quella dei primi tempi del periodo borbonico, id., Monsignor Celestino Galiani, Napoli 1931. - Per il periodo 1798-1825 è fondamentale il Diario napoletano di Carlo de Nicola, pubblicato in tre volumi da G. De Blasiis, Napoli 1906. - Per il periodo 1860-1934, oltre alle opere indicate dal Croce, in La letteratura della nuova Italia, 3ª ed., Bari 1929, IV, appendice; cfr. dello stesso, la Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari 1928; Alto Commissariato per la città e provincia di Napoli, Le opere del regime, ecc., Napoli 1930.

Arti figurative.

Dalle catacombe al Duecento. - Quando apparvero le prime manifestazioni artistiche nelle catacombe di Napoli, la città era ancora greca per cultura e per lingua; l'arte era in pieno dominio dell'ellenismo, e fiorivano in pittura correnti alessandrine, di uno stile vivace e impressionistico, di cui Pompei ha conservato cospicui esempî del sec. I d. C.

I primi monumenti pittorici delle catacombe di S. Gennaro, quasi cancellati dal tempo, sono del sec. II: nella vòlta del vestibolo superiore sono due piccoli ed eleganti nudi di Adamo ed Eva, e tre giovani donne in atto di costruire una torre, simboleggianti le Virtù che edificano la Chiesa. È questa un'allegoria derivata dal Pastore di Erma (v.), che ci rivela non dubbî rapporti tra i cristiani di Napoli e la Chiesa orientale. Altri elementi simbolici, nelle pitture del sec. V o posteriori, quali le fiaccole ai lati dell'orante nei dipinti degli arcosolia, provano d'altra parte i rapporti degli stessi coi loro confratelli dell'Africa settentrionale, rapporti spiegati dalle migrazioni in Campania di quei fedeli durante l'invasione vandalica. Tra i fuggitivi era S. Gaudioso, che diede il nome a una delle catacombe napoletane.

Delle primitive basiliche la sola di cui può fondatamente ritenersi che risalga ai tempi della pace costantiniana (principio del sec. IV), è quella del Salvatore, detta poi di S. Restituta, aggregata nel secolo XIII al duomo angioino e quasi interamente trasformata nel Settecento. Poco lungi da questa, che aveva l'abside rivolta a nord, ne fu eretta un'altra sul finire del sec. V con l'abside ad oriente, dal vescovo Stefano, da lui detta Stefania. Le due cattedrali, con due cleri ma soggette a un solo vescovo, furono unite da un unico atrio con quadriportico, che fu nel periodo ducale luogo di assemblee. Seguirono le basiliche maggiori, quattro come a Roma: S. Giorgio Maggiore eretta dal vescovo Severo alla fine del sec. IV (basilica severiana), quella dei Ss. Apostoli fondata dal vescovo Sotero circa la metà del sec. V, quella di S. Maria Maggiore eretta dal vescovo Pomponio nella prima metà del sec. VI, e quella di S. Giovanni Maggiore fondata dal vescovo Vincenzo anche nel sec. VI.

La basilica severiana, completamente trasformata nel sec. XVII, non conserva dell'antica forma se non l'abside a nicchia, aperta come quella di S. Felice a Cimitile da tre archi, retti da colonne di granito orientale, sormontate da pulvini bizantini (i più antichi in Italia). Ugual tipo di abside forata con esterno peribolo ebbe la basilica di S. Giovanni Maggiore. S. Giovanni in fonte, il battistero di S. Restituta, fondato dal vescovo Sotero nella seconda metà del sec. V, è singolare per il raccordo della pianta quadrata con la cupola mediante pennacchi a cuffia.

Nei suoi musaici frammentarî, sulle pareti e nella cupola, vigorosi nell'espressione delle figure, pittorici e delicati nella decorazione, accanto alla tradizione ellenistica, appare una più recente influenza bizantina. Gli altri musaici napoletani, sia quelli dell'abside di S. Giorgio Maggiore (principio del sec. V) con rappresentazioni analoghe a quelle romane di S. Pudenziana e dei Ss. Cosma e Damiano, sia quelli della Stefania, furono distrutti.

Con la riconquista di Belisario (v. sopra: Storia), Napoli tornò centro di cultura greca (sec. VI); si rese poi indipendente col duca Sergio (840-864). Ma le opere d'arte di questo periodo che è quello della sua maggiore prosperità, sono quasi tutte perdute.

Non avanzano che pochi frammenti scultorî decorativi e alcune pitture nelle catacombe. Le transenne dell'oratorio di S. Aspreno, e il frammento di transenna di S. Giovanni Maggiore, opere del sec. IX, contengono delicati rilievi con animali fantastici e una festosa decorazione vegetale, come se ne trovano a Venezia e a Torcello, piena fioritura di arte bizantina. Il calendario napoletano rinvenuto in S. Giovanni Maggiore (ora nell'Arcivescovado), grande fregio marmoreo, è attribuito variamente al sec. IX, o ad età più tarda. È pure notizia nelle fonti di preziosi altari, di artistiche oreficerie, di magnifiche stoffe.

Solo esemplare architettonico del periodo romanico resta il campanile di S. Maria Maggiore, opera laterizia del sec. XI con frammenti marmorei antichi. Anche scarso è quel che avanza dei secoli XII e XIII: nulla della scuola cosmatesca né di quella arabo-sicula, che tracce sì importanti hanno lasciato nella Campania settentrionale e sulla costa salernitana. I secoli posteriori hanno travolto ogni cosa.

Al principio del sec. XIII appartengono i due cicli di sculture narrative della cappella di S. Maria del Principio in S. Restituta, lastroni di marmo suddivisi in formelle, con le storie di Giuseppe nell'uno, di Sansone e di S. Gennaro nell'altro; composizioni alquanto vivaci, già accusanti l'incipiente influenza siciliana. Le scarsissime pitture del Duecento in Napoli sono: il S. Domenico in S. Domenico Maggiore, il S. Domenico in S. Pietro martire, il Crocifisso del Carmine e il Crocifisso di S. Tommaso in S. Domenico; manifestazioni di svariate correnti e della scuola locale.

Il Trecento. - Creata con la conquista di Carlo d'Angiò capitale del regno, Napoli divenne fervida fucina di cultura e di opere d'arte. L'arte gotica che era giunta nella prima metà del sec. XIII, con l'ordine cisterciense, fin quasi alle porte del regno (abbazia di Fossanova), penetrò in Napoli soltanto con gli architetti francesi che avevano seguito re Carlo. Tre signori francesi nel 1270 fondavano la chiesa di S. Eligio al Mercato, a tre navi senza cappelle laterali e con abside pentagonale. Poco dopo Gauthier d'Asson e Thibaud de Séaumur erigevano l'abbazia di Real Valle presso Scafati. Pierre de Chaul era incaricato di costruire la sontuosa reggia di Castel Nuovo, e Pierre d'Angicourt di rifare o restaurare i castelli svevi di Puglia. Anche architetti francesi costruivano infine la bellissima abside poligonale con peribolo a cappelle di S. Lorenzo Maggiore.

Gli architetti locali, seguendo in massima l'arte nuova, la modificarono secondo le proprie cognizioni di statica e di tecnica: il verticalismo costruttivo e il virtuosismo decorativo andarono temperandosi con l'acclimarsi del gotico nell'ambiente tradizionale. Spuntò così tutta una fioritura di chiese gotiche napoletane accanto alle vecchie basiliche e agli oratorî delle diaconie. San Domenico (1289-1324) e il Duomo (1294-1299) ripetettero l'antica icnografia basilicale, su tre navi con transetto e cappelle laterali; le chiese francescane di S. Lorenzo (inizio fine XIII), S. Maria la Nova (inizio 1279) e S. Chiara (1310-1324) seguirono uno schema architettonico provenzale, a una sola ampia nave con cappelle laterali senza transetto e con abside quadrata. Lo stesso tipo ma senza cappelle laterali conservò la cappella palatina di Castel Nuovo (1307-1311). Più originale, S. Maria di Donnaregina, ebbe una sola nave dimezzata in altezza da un vasto coro, senza transetto e con piccola abside poligonale (1314-1320).

Tra gli architetti indigeni furono Francesco di Vico, che lavorò al castello di Belforte sul colle di Sant'Elmo e alla vicina certosa di S. Martino, e Gagliardo Primario, che eresse S. Chiara. Vi furono infine architetti senesi, quali Tino di Camaino, meglio noto come scultore, e Lando di Pietro: nel chiostro piccolo di S. Chiara le ogive sottese da arcate depresse rivelano l'opera senese, non meno che i portali con lunette cieche di S. Lorenzo e di S. Chiara stessa.

La scultura monumentale si rivela in Napoli fin dai primi del Trecento nella tomba di Filippo Minutolo nel Duomo (1301), dovuta a un seguace di Arnolfo di Cambio, e poco dopo nella massiccia e ricca tomba di Caterina d'Austria duchessa di Calabria in S. Lorenzo (1323), fiorente di musaici, di dorature, di scolpite decorazioni, opera anch'essa di derivazione pisana. Venne quindi a dare alla scultura tocchi di squisita delicatezza il ricordato Tino di Camaino, chiamato da re Roberto a erigere la tomba di sua madre Maria d'Ungheria in S. Maria di Donnaregina (1325). In quel monumento, e meglio ancora nelle tombe di Carlo di Calabria (1328) e di Maria di Valois sua seconda moglie (1331) nella chiesa di S. Chiara, egli fissò il modello della tomba monumentale, dominando con quello tutto il Trecento napoletano. Passato lui (1337), sopraggiunsero due fiorentini, Giovanni e Pacio Bertini, a elevare il magnifico mausoleo di Roberto d'Angiò in S. Chiara (1343-45), uno dei più grandiosi e solenni monumenti della scultura gotica.

Nella seconda metà del Trecento i modelli di Tino, riprodotti prima con adeguata comprensione dall'anonimo artefice della tomba di Maria di Durazzo in S. Chiara, poi senza sentimento e rozzamente da marmorai locali, degenerarono in un'arte povera ripetuta nelle tombe di Carlo di Durazzo e di Roberto d'Artois in S. Lorenzo.

Anche nella pittura il rinnovamento s'inizia a Napoli nei primi del Trecento con artisti toscani. Poco avanzò la tradizione duecentesca Montano d'Arezzo affrescando storie ora perdute in due cappelle in Castel Nuovo e nel palazzo di Filippo principe di Taranto (1305-13). Un passo decisivo è invece quello fatto da Pietro Cavallini, il vigoroso romano che, chiamato da Carlo II nel 1308, ha lasciato ampie composizioni sulle pareti del coro di S. Maria di Donnaregina.

Alla solennità romana fece seguito la grazia senese del pennello di Simone Martini, che dimorò a Napoli tre anni (1317-20): preziosa sua opera superstite è il S. Ludovico di Tolosa, rappresentato in atto di cedere la corona a suo fratello Roberto orante ai suoi piedi, già in S. Lorenzo, ora nella Pinacoteca.

Ultimo dei grandi venne Giotto, che in quattro anni (1328-32) compì a Napoli i maggiori cicli pittorici del tempo, uno - incerto per soggetto (apocalittico?) e ubicazione (l'oratorio delle monache?) - in S. Chiara, l'altro di storie del vecchio e del nuovo Testamento nella cappella palatina di Castel Nuovo. Anche a lui probabilmente si dovettero i nove ritratti di "uomini famosi" nella Gran Sala di Castel Nuovo di cui ci lasciò memoria il Ghiberti e ai quali dedicò altrettanti sonetti un anonimo fiorentino che li vide. Tutte queste opere andarono distrutte. Ma Giotto aveva avuto molti collaboratori, alcuni dei quali napoletani; essi continuarono l'arte sua accanto ai seguaci del Cavallini e del Martini. Tra costoro, oltre un Farina, di cui si sa soltanto che lavorò nella sacrestia del Duomo, è il noto napoletano Pietro de Orimina, che dipingeva nella cappella del parco di Castel Nuovo nel 1329. Dello stesso periodo è l'ultimo musaico che sia in Napoli, quello di S. Maria del Principio in S. Restituta, fatto da Lello fiorentino nel 1321.

Il regno di Giovanna I (1343-1381) per la pittura passa tutto sotto l'influenza di quei tre grandi, dei quali lo spirito, le forme, la tecnica andarono fondendosi in un'arte eclettica, nella quale la corrente prevalente fu la senese, come la più accessibile, la più consona all'indole mite del popolo. Alla prima generazione di questi seguaci appartengono le opere migliori: il grandioso affresco francescano nel coro dei monaci in S. Chiara, le interessanti pitture dell'Incoronata, e nel campo della miniatura la Bibbia del Seminario di Malines e il famoso e magnifico codice degli Statuti dell'Ordine del Nodo ora nella Bibliothèque Nationale di Parigi.

Ai tempi di Carlo III (1381-86) era pittore di corte Roberto d'Oderisio, di cui l'unica opera superstite, una pala d'altare in Eboli, attesta la povertà artistica

Il Quattrocento. - II Rinascimento in Napoli non si manifestò in modo definitivo che dopo la metà del secolo. Sì che l'architettura e la scultura monumentale fino a tutto il regno di Giovanna II (1414-35) sono in pieno dominio dell'arte gotica fiorita, con spiccata fisionomia catalaneggiante. Il pilastro composito o ottagonale, l'arco fortemente scemo, la finestra rettangolare quadripartita, sono le caratteristiche dell'architettura civile, di cui notevoli esempî sono il palazzetto dei Penna ai Banchi nuovi (1407) e l'ampio portale marmoreo del palazzo Bonifacio a Portanova. Nell'architettura sacra la struttura gotica, già temperata fin dall'inizio, prende proporzioni ancora più modeste, come nella seconda chiesa di S. Giovanni a Carbonara (1400) e nella cappella dei Pappacoda (1419).

La scultura seguì tutt'altra via. Durante la minore età di Ladislao (1386-99), mentre le forme di Tino di Camaino, impoverite, andavano uggiosamente ripetendosi, apparve improvvisamente l'arte della scuola dell'abbazia di Casamari, che o per nordiche influenze o per isolamento artistico ricorda, per violenza di pathos e per rozzezza di disegno e di tecnica, le remote sculture intorno al mille. Quest'arte, rappresentata in Napoli da Antonio Baboccio da Piperno e da qualche suo discepolo, tra cui Alessio da Vico, contrassegna nettamente il regno di Ladislao (1386-1414). A questa caratteristica produzione appartengono le tombe di Agnese e di Clemenzia d'Angiò in S. Chiara, la scomposta tomba di Antonio di Penna nelìa stessa chiesa (1412), il portale del Duomo (1407) e quello della citata cappella dei Pappacoda (1415). Se ne distaccano soltanto i monumenti dei cardinali Minutolo (1412) e Carbone (1405) nel Duomo, dovuti a un lombardo il primo, a un fiorentino il secondo.

Morto Ladislao, ostacolata dalla resistenza del gotico, s'inizia lentamente la transizione all'arte nuova. Artisti fiorentini poco dopo il 1414 diedero inizio al maestoso mausoleo di Ladislao in S. Giovanni a Carbonara, scolpendone le donatelliane cariatidi, artisti meno abili fecero le statue del morto re e della sorella Giovanna II per l'ordine trionfale del monumento; il terzo ordine, quello funebre, fu opera invece di Andrea di Nofri da Firenze; mentre il coronamento rivela nelle sue grevi e adorne masse il gotico lombardo, già fiorito sulle arche scaligere per opera dei maestri campionesi. Da questo momento e per tutto il Quattrocento artisti fiorentini e lombardi si contendono in Napoli il campo della scultura.

Prima opera del Rinascimento giungeva a Napoli la tomba del cardinale Rinaldo Brancaccio in S. Angelo a Nido, scolpita dal sommo Donatello, da Michelozzo e da Pagno di Lapo (1427). Ma la serena bellezza e la possente espressione di quei marmi non ebbero immediata continuazione, perché lo stesso Andrea da Firenze timidamente accennava nella tomba di Ruggiero Sanseverino in S. Monica (1433) una decorazione classica su forme tradizionali, e poco dopo artisti lombardi iniziavano, su allegoriche cariatidi maschili, il mausoleo di Sergianni Caracciolo in S. Giovanni a Carbonara, rimasto incompiuto (circa 1441).

La pittura eclettica trecentesca si prolungò, anch'essa con forme stanche, fino alla metà del secolo: ultimo rappresentante ne fu Perrinetto da Benevento, la cui arte ritardataria appare nelle istorie eremitane della citata cappella di Sergianni Caracciolo. E nella stessa cappella, artista isolato, il lombardo Leonardo da Besozzo esprimeva nelle storie della Vergine la sua arte calligrafica e delicata di alluminatore di codici.

L'arte del Rinascimento entrò trionfalmente in Napoli soltanto ai tempi d'Alfonso d'Aragona. E precisamente nella reggia di Castel Nuovo, radicalmente ricostruita per ragioni militari (1443-1453) - dove nella grande sala eretta dal maiorchino Guglielmo Sagrera e dai suoi congiunti e seguaci (1452-57) il gotico si esprimeva in uno dei suoi più begli organismi architettonici, e dove scultori catalani, primo Pere Johan, decoravano in pietra di Maiorca preziosamente intagliata l'interno della reggia (1450-1458) - una schiera di artisti italiani affermò l'arte nuova nel grandioso arco di trionfo (1453-1466).

Negli ultimi anni del regno di Alfonso e sotto quello di Ferrante I (1458-94), mentre l'arte catalana, trionfata in Castel Nuovo, diramava le sue ultime propaggini, per opera degli stessi artisti, il Sagrera, il Johan, il Forcimanya, a Capua, a Carinola e a Fondi, penetrava in Napoli l'architettura fiorentina; più pura nel palazzo di Diomede Carafa a S. Biagio dei Librai, con contaminazioni catalaneggianti nei palazzi dei Como al Pendino (oggi Museo Filangieri) e dei principi di Salerno Sanseverino a Porta Reale, costruito dal meridionale Novello da S. Lucano nel 1470 (oggi Gesù Nuovo).

Verso il 1480 Alfonso duca di Calabria, chiamò molti architetti, tra cui Giuliano da Maiano, fra Giocondo da Verona e Francesco di Giorgio Martini. Giuliano architettò la villa, ora distrutta, di Poggioreale e la magnifica Porta Capuana a guisa di un arco di trionfo; e forse anche a lui si deve il disegno dello squisito tempietto che Gioviano Pontano, l'umanista segretario di Ferrante, consacrò presso la Pietrasanta ai suoi cari estinti. Francesco di Giorgio, nell'assedio di cui strinse Castel Nuovo Ferrante II nel 1495 per ritorglierlo ai Francesi di Carlo VIII, sperimentava la prima mina a esplosivo in galleria sotto la cittadella del castello distruggendola, e dava l'idea a Federico d'Aragona di un recinto di bastioni che circondando il castello lo avrebbe reso inespugnabile (1499)

Disegnatore e delicato decoratore dell'arco trionfale di Castel Nuovo fu, con ogni probabilità, il dalmata Francesco Laurana, mentre Pietro di Martino da Milano ne fu il costruttore; Antonio di Chelino da Pisa e Andrea dell'Aquila vi portarono la nobiltà dell'arte donatelliana; Paolo Romano e Isaia da Pisa la loro conoscenza dei monumenti antichi; il lombardo Domenico Gagini il suo intaglio duro e minuzioso. Ad Andrea dell'Aquila si deve il bel portale della Cappella palatina; al Laurana ed al Gagini la singolare Porta del Trionfo, ove alle linee classiche si armonizzano elementi decorativi gotici catalani.

Altri lombardi, tra cui Iacopo della Pila e Tommaso Malvito, continuarono a operare fino alla fine del secolo e oltre; e altri fiorentini, Antonio Rossellino e Benedetto da Maiano, esprimevano la loro arte raffinata nelle cappelle dei Piccolomini d'Aragona e dei Mastrogiudice in S. Anna dei Lombardi. In questa stessa chiesa sono le otto statue in terracotta della Pietà, opera fonemente realistica di Guido Mazzoni, al quale si deve pure il bel busto in bronzo di Ferrante I, che è al Museo. Interessanti sono infine le porte di bronzo di Castel Nuovo, le sole che siano in Napoli, fuse da Guglielmo Lo Monaco, bombardiere parigino che passò tutta la vita alla corte aragonese: nei sei pannelli, in cui i due battenti sono scompartiti, sono riprodotti in ampie e vivaci composizioni gli episodî della guerra tra Ferrante e Giovanni d'Angiò (1460-62).

Intorno al 1440 la pittura cambiò bruscamente d'indirizzo: alle stanche e decadute ripetizioni degli schemi trecenteschi si sostituì la pittura fiamminga, insegnata da re Renato a un giovane pittore napoletano, Colantonio, intelligente assimilatore. La pittura fiamminga, improntata a uno schietto realismo, padrona di una tecnica sorprendente e dell'uso dei colori a olio, fino allora sconosciuti a Napoli, trovò nella città rapida divulgazione. Di Colantonio, ligio all'arte di Giovanni Van Eyck, sopravvivono il S. Girolamo nella Pinacoteca e il San Vincenzo in S. Pietro Martire. Un'altra corrente artistica, dovuta ai successori di Colantonio, si orientò maggiormente all'arte di Ruggero Van der Weyden, che aveva disegnato in una serîe di arazzi la Passione di Cristo per re Alfonso.

Accanto alla scuola fiamminga si fece strada quella catalana, derivata anch'essa dalla fiamminga; ne fu impartatore Jacomart Baço (1440-51), venuto al seguito del re, e delle cui opere a Napoli non rimane più nulla. Dopo di lui vi fu il cordovese Alfonso de Baena (1455); e negli ultimi decennî del secolo vi si nota invece l'influenza di Pablo Vergos e quella di Bartolomeo Bermejo, come in alcune tavole di quel tempo nella Pinacoteca.

Nell'ultimo decennio del Quattrocento l'arte fiamminga e quella catalana cedono il posto ad artisti d'ogni parte d'Italia, che si dànno convegno nella capitale aragonese; veneti come Calvano da Padova e Cristoforo Scacco, lombardi come Costanzo de Moissis e Guido di Cerilo, toscani come Pietro e Ippolito del Donzello, umbri come il Perugino e il Pinturicchio, romani come Antoniazzo Aquilio, siciliani come Riccardo Quartararo e Cola Siciliano.

Il Cinquecento. - Architetti napoletani continuarono nella prima metà del Cinquecento a riprodurre con elegante sobrietà gli schemi del Rinascimento: Giovanni Donadio da Mormanno costruì un bel palazzo a S. Biagio dei Librai per Bartolomeo de Capua conte d'Altavilla (1512-1513), e Gabriele d'Angelo eresse uno dei più bei palazzi della città per Ferdinando Orsini duca di Gravina (1513-49). E Ferrante Maglione o Manlio, pure napoletano, costruiva il vecchio Palazzo reale, dove ora è Piazza San Ferdinando, con torri negli angoli (inizî del 1550), demolito nel 1835.

A un toscano invece, Antonio Marchesi da Settignano, discepolo di Francesco di Giorgio, si debbono i colossali bastioni intorno a Castel Nuovo, iniziati nel 1499, continuati dai Francesi nel 1502, ripresi e terminati dagli Spagnoli, 1509-37, ora quasi distrutti. E ad un altro toscano, Romolo da Settignano, si deve la chiesa di S. Caterina a Formello (1519). Altro innovatore nell'architettura militare fu lo spagnolo Pier Luigi Escriva, creatore nel rifatto castello di Sant'Elmo di un nuovo tipo di fortezza, senza torrioni e con fiancheggiamento dagli angoli rientranti (1537-46)

Nella seconda metà del secolo l'arte scenografica di cui si avvalse la Controriforma trovò in Napoli applicazione da parte dei maestri della transizione al barocco, che non furono in genere napoletani. Mentre G. B. Cavagni riscaldava la classica sobrietà di ricercate eleganze in San Gregorio Armeno (1572-80) e nel palazzo del Monte di Pietà (1597-1605); mentre Domenico Fontana, lombardo, innalzava classicamente il monumentale Palazzo reale nuovo (1600-02), Giovanni Antonio Dosio, fiorentino, poneva mano alla Certosa di S. Martino (1580), futuro museo del barocco napoletano. Nel tempo stesso il gesuita aquilano Giuseppe Valerian erigeva sull'area del palazzo dei principi di Salerno la chiesa del Gesù Nuovo (1584-1600), grandiosa e sobria nell'architettura, ma festosa di marmi policromi; e il teatino p. F. Grimaldi, calabrese, innalzava la casa dei Teatini e la sontuosa chiesa di San Paolo Maggiore (1590-1603) dov'era stato l'antico tempio dei Dioscuri, e disegnava con slancio la cappella del tesoro nel Duomo (1608).

Nella scultura ebbe Napoli fin dai primi del secolo, e per la prima volta, una scuola propria. Giovanni Marigliano o Merliano da Nola (1488-1558) ne fu il caposcuola; suo emulo fu dapprima Girolamo Santaeroce (1502-1537), più raffinato di lui. Entrambi si erano ispirati alle ultime opere fiorentine di S. Anna dei Lombardi, e alla leggiadria di quell'arte avevano aggiunto solidità architettonica michelangiolesca e decorazione esuberante. Principali discepoli di Giovanni furono Giovan Domenico d'Auria e Annibale Caccavello, in compagnia dei quali il vecchio maestro dominò la scultura napoletana fin oltre la metà del secolo. L'opera più bella della scuola, per equilibrio architettonico e per eleganza di sculture, è la cappella dei Caracciolo di Vico in S. Giovanni a Carbonara (1516-57). In mezzo secolo questi scultori arricchirono le chiese di altari, di tombe, di pulpiti e le vie di fontane; poi, scomparsi essi, ritornarono i Toscani a occupare il campo: Michelangelo Naccarino e Pietro Bernini.

Nei primi due decennî del secolo continuò la ridda dei pittori d'ogni paese; tali il veneziano Giovanni Paolo degli Agostini, il fiorentino Giovanni Battista di Iacopo detto il Rosso, il milanese Cesare da Sesto e il veneto Antonio da Solario detto lo Zingaro, autore intorno al 1520 delle storie benedettine del chiostro di S. Severino, dove alla nativa arte veneta fuse elementi umbri da lui assimilati nelle sue peregrinazioni.

Viveva in questi stessi anni il salernitano Andrea Sabatini, il quale, formatosi sull'arte di Cesare da Sesto e su quella raffaellesea, fu artista grazioso ma di scarsa personalità. Ebbe pochi seguaci, tra i quali notevole Giovanni Filippo Criscuolo.

Nel 1544 giunse a Napoli l'aretino Giorgio Vasari, pittore e storico dell'arte, che occupò il campo e dettò legge. Tanto lui quanto gli altri pittori della seconda metà del secolo, il senese Marco del Pino e il napoletano Francesco Curia, rappresentano quell'uggioso manierismo, che tenne dietro alla scomparsa dei grandi.

Il Seicento. - Col Seicento sorge a Napoli una vera scuola di arte, segnatamente nella pittura, caratteristica e feconda, che arricchisce la città d'innumerevoli opere e si espande anche lungi. Al folto gruppo di architetti della fine del Cinquecento altri non meno attivi ne seguirono. Fra Giuseppe Nuvolo, dopo avere con classica sobrietà eretto la chiesa di S. Maria di Costantinopoli, disegnò tre originali rotonde, S. Maria della Sanità, S. Carlo all'Arena e S. Sebastiano; e compì nel 1631 con un'ardita ed elegante cuspide il campanile del Carmine, già iniziato da Gian Giacomo di Conforto. Il fiorentino Dionigi di Bartolomeo terminava la bella chiesa dei Gerolamini nel 1619. Giulio Cesare Fontana, figlio di Domenico, costruiva con metro grandioso il palazzo degli Studî, ora Museo Nazionale (1610-15). Pietro d'Apuzzo erigeva l'elegante chiesa di S. Marcellino (1626-45) Nella seconda metà del secolo lavorarono a Napoli Dionisio Lazzari e Francesco Picchiatti.

Ma su tutti dominò con la sua arte varia e leggiadra il bergamasco Cosimo Fanzago (1591-1678). Maestro di eleganza nella chiesa e nel chiostro di S. Martino (1623 in poi), e nella facciata della Sapienza (1638-41), classico costruttore di masse nel palazzo di Donna Anna Carafa a Posillipo (1642), costruttore ardito nelle raccolte e slanciate architetture di S. Maria Maggiore (1653) e di S. Teresa a Chiaia (1650), restò la figura di primo piano in Napoli fra tutti gli architetti del Seicento.

Valente anche nella scultura, dove ebbe ancora più scarsi competitori, ci lasciò tra l'altro la spigliata guglia di S. Gennaro, unica del genere. Lavorò nel tempo stesso come scultore Giuliano Finelli, notevole plastico nel prospetto della cappella di S. Gennaro al Duomo.

Mentre il manierismo cinquecentesco diveniva più insignificante attraverso le opere di G. Imparato, di Fabrizio Santafede, di Francesco Curia e d' Ippolito Borghese, si recava nel 1607 a soggiornare per qualche tempo a Napoli Michelangelo Merisi da Caravaggio (1573-1610), potente innovatore della pittura, che contrappose il sintetismo alle prolisse composizioni dei manieristi, il forte realismo alle loro figure stereotipe, raggiungendo un vigoroso plasticismo per mezzo di costretti fasci di luce tangenti le figure sopra fondi d'ombre. La geniale innovazione fece fortuna.

Battistello Caracciolo (1570-1637) fu il suo primo e forse più fedele interprete. Tuttavia in lui l'arte caravaggesca si raddolcì, i contrasti di luci e d'ombre si attenuarono, le figure si nobilitarono (si vedano La lavanda dei piedi e i suoi freschi in S. Martino). Più vicino al Caravaggio nel suo crudo realismo fu lo spagnolo Giuseppe Ribera (1588-1652), che trascorse quasi tutta la sua vita a Napoli. Nei dodici Profeti sugli archi della chiesa di S. Martino appare tutta la vigoria del suo spirito. Poi andò raddolcendosi sotto l'influsso di Guido Reni, come nella Deposizione, e più nella Comunione degli apostoli, sempre in S. Martino. Artemisia Gentileschi, romana, anch'essa trapiantata in Napoli, pure traendo dal caravaggismo, si compiacque di vivacità cromatiche, di eleganze decorative, di delicatezze di chiaroscuro, doti che da lei passarono in molti pittori napoletani.

I principali napoletani del tempo furono: Massimo Stanzioni (1585-1670), Andrea Vaccaro (1598-1670), Francesco Fracanzano (1612-1657), Mattia Preti (1613-99), Bernardo Cavallino (1622-54), Salvator Rosa (1615-73), Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro (1612-79). Lo Stanzioni e il Vaccaro temperarono in un'atmosfera di dolcezze cromatiche e chiaroscurali le durezze primordiali della scuola; il Fracanzano innestò sopra un caldo colorismo veneto (era oriundo di Verona) insegnamenti riberiani.

Ma le personalità più caratteristiche furono il Preti e il Cavallino. Il primo fu un possente creatore di grandi tele, con vaste composizioni, ov'è il senso scenico dei veneti, il vibrato luminismo caravaggesco, e un convulso dinamismo accentuato dall'ardimento degli scorci. L'altro, il Cavallino, fu un delicatissimo compositore di piccole tele, di figure gentili carezzate da melodiose luci argentine; del Caravaggio in lui non rimase che, ingentilita, la luce.

Accanto a costoro Salvator Rosa crea il paesaggio in cui si riflette il senso drammatico della scuola, e drammatiche battaglie deriva da quelle del suo predecessore Aniello Falcone; mentre il Belvedere e il Ruoppolo, con tutta una scuola, esprimono nelle nature morte uno schietto naturalismo tutto freschezza e colore.

Fuori del suo tempo è Luca Giordano (1634-1705), pittore fecondissimo, gaio e fantasioso, refrattario al dramma caravaggesco, attratto invece dall'arte delicata e temperata del parmigiano Giovanni Lanfranco (a Napoli dal 1631 al 1646), e durante le sue peregrinazioni per l'Italia, dalla composizione monumentale di Paolo Veronese e dal colore esuberante di Pietro da Cortona. Empì chiese e palazzi di tele e di freschi, preparando con accenti di gaiezza il gioviale Settecento napoletano. L'opera del Giordano fu portata a compimento da Francesco Solimena (1657-1743), anche lui forte compositore e decoratore. E l'arte sua dominò tutto il secolo.

Il Settecento. - È il tempo in cui l'arte a Napoli consegue una felice fusione stilistica fra architettura, pittura e scultura. La pittura, concepita come arte illustrativa dell'architettura, aderisce pienamente al concetto scenografico da cui quella è animata. E di questa armonica alleanza uno dei principali artefici fu precisamente il Solimena, architetto e pittore, che l'arte dei più tardi caravaggeschi, specie quella del Preti, temperò con l'arte limpida e gioviale del Giordano. Allo stesso modo la scultura, nei grandiosi portali, nelle fastose guglie, nei sacri monumenti, non fece se non sottolineare le note salienti dell'architettura.

Gli architetti della prima metà del secolo uscirono dalla scuola del Solimena; primi tra essi Ferdinando Sanfelice, autore di bei palazzi e chiese, specializzato in scaloni monumentali, e Domenico Antonio Vaccaro (1681-1753) che trasformò la francescana chiesa trecentesca di S. Chiara in una superba sala, trionfo di ori e di colore.

Con la venuta di re Carlo di Borbone (1734) la regalità rinata, il nuovo fervore degli studî, ġli scavi di Ercolano e di Pompei, richiamarono in vita le arti dell'antichità; fu così che il barocco volse rapidamente al neoclassicismo.

Re Carlo diede mano ad opere grandiose: al romano Antonio Cannavari commise il palazzo reale di Portici (inizî del 1736), al palermitano Giov. Ant. Medrano la reggia di Capodimonte (inizî del 1738) e il teatro S. Carlo (1737). Ma gli architetti maggiori furono il fiorentino Ferdinando Fuga (1699-1784) e il napoletano Luigi Vanvitelli (1700-1776); il primo, autore del gigantesco Albergo dei poveri (inizî del 1752), l'altro, d'una delle più belle e grandiose regge del mondo, a Caserta, miracolo d'armonia e d'equilibrio, e a Napoli del Foro Carolino (piazza Dante), della nuova chiesa dell'Annunziata, della rifatta chiesa di S. Marcellino, del palazzo Angri.

La scultura ebbe rappresentanti in Giuseppe Sammartino, F. Celebrano, F. Queirolo, P. Persico, A. Corradini, collaboratori tutti dei monumenti e delle statue della cappella dei De Sangro principi di S. Severo (1749-66). Alcuni di essi, come il Sammartino e il Celebrano, insieme con Lorenzo Vaccaro, con Matteo Bottiglieri e con altri, coltivarono anche l'arte delle statuette da presepe, in terracotta o in legno, vestite e abbigliate, con le quali si crearono composizioni di paese, ispirate a un forte realismo e tendenti a belli effetti pittorici.

Anche sotto re Carlo sorse nel parco di Capodimonte una fabbrica di porcellana (1739), emula di quelle di Sassonia e di Sèvres, ove la plastica raggiunse nei biscuits una grazia seducente. Passata in Spagna con Carlo (1759), risorta sotto il suo figlio Ferdinando IV (1771), finì nuovamente nei primi dell'Ottocento.

Dalla scuola del Solimena uscirono pure i principali rappresentanti della pittura settecentesca, gioviali, idillici, languidi, come il secolo, ma tuttora grandiosi compositori come il maestro e come il Giordano, che li avevano preceduti. Sebastiano Conca (1679-1764), Francesco de Mura (1696-1782), Giuseppe Bonito (1707-89), Giacinto Diano (1730-1803), Fedele Fischetti (1734-89), ebbero spiccate e talora forti personalità. A questi epigoni del barocco si contrappose l'idealismo estetico del boemo A. R. Mengs (1728-79), eruditissimo ma freddo creatore di bellezza, la cui arte doveva sboccare nel neoclassicismo dell'impero napoleonico.

L'Ottocento. - L'architettura del Settecento aveva già avuto nel Vanvitelli e nel Fuga una grandiosa ripresa di classica monumentalità; nei primi del nuovo secolo il neoclassicismo divenne più erudito ma meno sentito. Elegante rappresentante in Napoli ne fu Antonio Niccolini, autore della Villa Floridiana (1807) e della nuova facciata del Teatro S. Carlo (1816). Pietro Bianchi intanto iniziava sulle forme del Pantheon la monumentale basilica di S. Francesco di Paola (1817-46), tempio votivo del restaurato trono borbonico; al classico pronao fece ala un portico a emiciclo di ordine dorico, iniziato fino dai tempi del Murat.

La reazione romantica all'accademismo non ci ha lasciato nessun edificio di rilievo. L'opera più importante, sul finire del secolo, è la Galleria Umberto I (1890).

Nella scultura la pura bellezza della forma, sovranamente affermata dal Canova, per opera di lui e dei suoi continuatori tenne anche a Napoli gran parte dell'Ottocento; svariate manifestazioni individualistiche apparvero invece tra gli scultori della seconda metà del secolo. Tra questi, V. Gemito, squisito modellatore, autore del Carlo V sulla facciata della reggia; E. Franceschi, autore del Ruggero Normanno (ivi); F. Jerace, autore del monumentale frontone in bronzo della nuova università.

Anche nella pittura i primi decennî del secolo passarono in un accademismo dotto ma senz'anima; maestro in questo periodo fu Costanzo Angelini (1760-1853). ll romanticismo ebbe una prima affermazione nello studio naturalistico del paesaggio, dovuto a una scuola, detta di Posillipo, resa illustre da Giacinto Gigante (1805-76). Ma il maggiore innovatore fu Domenico Morelli (1826-1901). Ribelle a ogni pedanteria accademica, spostò la concezione artistica dal campo dell'osservazione a quello della visione, servendosi di una tecnica magistrale tutta pregna di luce. La sua arte subì una continua evoluzione, da Gli Iconoclasti, composizione ancora un po' accademica, al Tasso, opera di magistrale effetto coloristico e luministico, dal dramma di umana passione vibrante nelle Tentazioni di S. Antonio alla visione poetica di Gesù con gli angeli nel deserto. Altro innovatore fu Filippo Palizzi (1818-89), che si dedicò invece all'osservazione della natura, in specie degli animali, che seppe rendere con una vivacità e con una grazia ammirevoli. Caro discepolo del Morelli fu Bernardo Celentano (1835-63), autore del noto Consiglio dei Dieci, morto giovane. Seguirono ancora Gioacchino Toma (1838-91), dalle espressioni delicate e melanconiche, Saverio Altamura (1826-97), Achille Vertunni (1826-94) e molti altri, non privi di belle doti, seguaci di svariati indirizzi, tormentati dalla sete di ricerche sempre nuove.

Bibl.: B. de Falco, Descriz. dei luoghi antichi di Napoli, Napoli 1549; C. d'Engenio Caracciolo, Napoli sacra, Napoli 1624; G. C. Capaccio, Il forastiero, Napoli 1634; C. de Lellis, Suppl. alla Napoli sacra di C. d'Engenio, Napoli 1654; P. Sarnelli, Guida de' forastieri, ecc., della città di Napoli, Napoli 1688; D. A. Parrino, Napoli città nobilissima, ecc., Napoli 1700; A. P. Orlandi, l'Abecedario pittorico, ecc., Napoli 1733; B. de Dominici, Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani, Napoli 1742-43; [Abbé de Saint-Non], Voyage pittoresque, ecc., Parigi 1781-86; G. Sigismondo, Descriz. della città di Napoli, ecc., Napoli 1788-89; [R. Liberatore], Viaggio pittorico nel regno delle due Sicilie, Napoli [1829]; L. Catalani, Discorso sui monum. patrii, Napoli 1842; id., I palazzi di Napoli, Napoli 1845; id., Le chiese di Napoli, Napoli 1845-53; F. Napier, Notes on modern painting in Naples, Londra 1853; C. Celano, Notizie del bello, ecc., della città di Napoli, con aggiunz. di G. B. Chiarini, Napoli 1856-60; N.C. Sasso, Storia dei monum. di Napoli, Napoli 1856; C. T. Dalbono, Storia della pittura in Napoli ed in Sicilia, Napoli 1859; H. W. Schulz, Denkmäler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien, Dresda 1860; J. Burckhardt, Der Cicerone, Lipsia 1869; G. Scherillo, Le catacombe napoletane, in Atti R. Accad. archeol., IV (1868-9), pp. 285-391; G. A. Galante, Guida sacra della città di Napoli, Napoli 1872; V. Schultze, Die Katacomben von S. Gennaro dei poveri, Jena 1873; G. Vasari, Le vite, ecc., ed. Milanesi; N. F. Faraglia, Le mem. degli artisti napolet. pubbl. da B. de Dominici, in Arch. stor. nap., VII (1882), pp. 329-64; VIII (1883), pp. 83-110, 249-83; G. Frizzoni, Napoli nei suoi rapporti coll'arte del Rinascimento, in Arch. stor. it., s. 4ª, I (1878), pp. 496-523; II (1878), pp. 64-89; G. Filangieri di Satriano, Docum. per la storia delle arti, ecc., Napoli 1883-91; B. Croce, Sommario crit. della storia dell'arte nel Napoletano, in Napoli nobilissima, I-III (1892-4); Napoli nobilissima (rivista d'arte e di topogr. napolet.), I-XV (1892-1906), n. s., I-III (1920-22); G. A. Galante, Relazioni sulle catacombe di Napoli, in Rendic. Acc. archeol., 1900, 1903, 1906; P. Toesca, Storia dell'arte ital., I: Il Medioevo, Torino 1927; F. Nicolini, L'arte napolet. del Rinascimento e la lett. di P. Summonte a M. A. Michiel, Napoli 1925; E. Bertaux, l'art dans l'Italie méridionale, Parigi 1904; W. Rolfs, Neapel, Lipsia 1905; id., Geschichte der Malerei Neapels, Lipsia 1910; A. Venturi, Storia dell'arte ital., Milano 1901 segg., passim; A. Filangieri di Candida, La Galleria naz. di Napoli, in Gall. naz. ital., V; D. Morelli e E. Dalbono, La scuola napolet. di pittura nel sec. XIX, Bari 1915; A. de Rinaldis, Naples angevine, Parigi 1929; id., La pittura del Seicento nell'Italia meridionale, Firenze 1929; e per la bibliografia in genere: G. Ceci, Saggio di una bibliografia per la storia delle arti figurative nell'Italia merid., Bari 1911; e G. Ceci e A. Simioni, Bollett. bibliogr. della stor. del mezzogiorno, in Arch. stor. nap., n. s., I-II (1932).

Vita musicale.

La città di Napoli comincia ad acquistare particolare importanza musicale sin da quando, nel volgere del sec. XV, e precisamente sotto Ferdinando I d'Aragona, la Cappella reale diventa un centro al quale vengono attratti i maggiori musicisti del tempo. A questo periodo è legato il nome di Giovanni Tinctoris che venne a Napoli tra il 1471 e il 1475. Accanto a quella di Palazzo reale va ricordata la Cappella dell'Annunziata che fu un'organizzazione musicale a sé, e alla quale sono legate le sorti della musica a Napoli tra il sec. XVI e il XVII. Appunto all'Annunziata furono maestri Franchino Gaffurio, sulla fine del sec. XV, e nel secolo seguente Gian Domenico da Nola, il fiammingo Giovanni de Macque, Camillo Lambardi, Giovanni Maria Trabaci, Scipione Stella e altri insigni compositori e organisti.

L'adattamento della stampa ai caratteri musicali (1501) ebbe a Napoli efficacia quasi immediata. Il napoletano Pietro Sambonetto diventava nel 1514 editore musicale a Siena; così come il pavese Giovanni Antonio da Laneto pubblicava musica a Napoli nel 1514. D'altra parte, come nel 1533 a Roma compariva a stampa la prima raccolta di madrigali musicati (di cui tanti composti, nel Cinque e Seicento, da Napoletani), così nel 1537, proprio a Napoli, usciva la prima delle circa 250 stampe pervenute a noi di Canzoni villanesche alla napolitana (v. villanellla). E finalmente, come G. B. Basile, G. C. Cortese, G. B. del Tufo e lo pseudo-Sgruttendio, nelle loro rievocazioni di vita napoletana della seconda metà del Cinque e dei primissimi del Seicento, ci hanno tramandato nomi e talora notizie di cantori e musicisti popolari e di feraci compositori di villanelle (p. es. Gian Leonardo Primavera e Gian Leonardo dell'Arpa, di cui restano a stampa composizioni), così, a mostrare quanto sin dal primo Cinquecento la musica fosse coltivata nelle migliori famiglie dell'aristocrazia napoletana, sta un libro di Scipione Cerreto (1601), nel quale si tributano lodi, come a valenti suonatori di liuto o di chitarra o di cembalo o di viola d'arco, a Fabrizio Filomarino, Filippo Carafa, Ettore Gesualdo, Scipione Dentice e ad Antonio Grisone, a cui, quale amico e complice di quell'altro buongustaio di musica che fu l'ultimo principe di Salerno, don Pietro di Toledo fece fare morte così tragica. Inoltre, anche per l'invenzione di nuovi strumenti (parecchi dei quali elencati dal Basile nell'egloga dialettale La museca), il polifonismo faceva a Napoli, dalla fine del Cinquecento in poi, grandi progressi, tanto nel ramo profano, come mostrano le opere di Gian Domenico Iovine (o del Giovane) da Nola, di Scipione Stella, di Gian Domenico Montella, di Donato Antonio Spano, di Carlo Gesualdo principe di Venosa e di altri, quanto nel ramo sacro, come mostra la sua vasta produzione polifonica inedita custodita nella biblioteca dei Padri dell'oratorio, e dalla quale ora soltanto si comincia a vedere a quali altezze fosse giunta la musica a Napoli prima ancora che, alla fine del Seicento, venisse tra i Napoletani Alessandro Scarlatti e i già preesistenti conservatorî acquistassero compiuta fisionomia di scuole musicali.

Il più antico dei quattro conservatorî napoletani fu quello di S. Maria di Loreto, fondato, secondo un'antica tradizione, dallo spagnolo napoletanizzato Giovanni di Tapia, nel 1537. Ma il conservatorio, come gli altri tre che vennero dopo, non fu subito istituto di educazione musicale. I primi musicisti a esservi impegnati furono organisti: tra il 1586 e il 1587 Stefano di Napoli, Giovanni Cesare de Falco e Giovan Bernardino De Filippis. Il primo accenno a un maestro di cappella si trova in documenti del 1633: nel 1634 fu provveduto a un maestro di cornetta e di violino. Tra le figure più importanti, per la storia musicale napoletana del sec. XVII, è quella di Francesco Provenzale che nel 1663 fu chiamato a reggere il posto di primo maestro di cappella e che dopo dieci anni passò a insegnare nel conservatorio della Pietà dei Turchini, dove rimase fino al 1701. A sostituire il Provenzale in S. Maria di Loreto, fu chiamato Gaetano Veneziano, già allievo del conservatorio, figura di musicista assai notevole. Nel 1689, per deliberazione dei governatori dell'istituto, vi è assunto, come maestro di cappella, Alessandro Scarlatti che però ben presto si assentò per recarsi a Roma. Ritornato in Napoli, Alessandro Scarlatti si dedicò alla Cappella reale. Morto il Veneziano nel 1716, gli succede il suo allievo Gaetano Perugino, al quale viene aggregato il figlio Giovanni, in qualità di secondo maestro; ma nel 1720 è nominato un musicista di valore quale Francesco Mancini, che servirà il conservatorio fino al 1735. Importante, per la vita del conservatorio, fu il periodo in cui v'insegnò Francesco Durante, dal 1742 al 1756. Al Durante succedono Gennaro Manna, Antonio Sacchini, Fedele Fenaroli. Nel 1760 notiamo, fra gli allievi, Domenico Cimarosa e Niccolò Zingarelli. Nel 1797 il locale occupato dal conservatorio di S. Maria di Loreto muta radicalmente di funzione; da scuola viene adibito a caserma. I figli del conservatorio si trasferiscono in S. Onofrio a Capuana, che s'era ridotto a qualche allievo e a due soli maestri, G. Furno e S. Rispoli.

Il corpo insegnante di S. Maria di Loreto, in quell'anno, era costituito nel modo seguente: Fedele Fenaroli, primo maestro, Saverio Valente, secondo, Nicola Coccia, maestro di violino, Giuseppe Prota, maestro d'oboe, Giuseppe Ercolano, maestro di tromba, Carlo Loveri, maestro di violoncello.

Il secondo conservatorio napoletano, in ordine cronologico, fu quello detto dei Poveri di Gesù Cristo, la cui fondazione risale al 1598. Non si può indicare, con precisione, quando il conservatorio iniziasse la sua attività musicale; la più antica allusione a insegnanti di musica risale al 1633. Ma sappiamo anche, attraverso la relazione della visita del cardinale Boncompagni, che in quello stesso anno il conservatorio possedeva un archivio musicale di notevole importanza, nel quale si potevano notare opere come i Mottetti e le Messe di Cristoforo Morales, i Mottetti di Giovanni M. Sabino, i Madrigali a cinque di Pomponio Nenna, quelli a quattro di Luca Marenzio, i Madrigali del principe di Venosa. Dallo stesso documento risulta che, in quell'anno, il conservatorio possedeva tre violini di soprano, tre violini di tenore, due tromboni, tre cornetti, un cembalo, due violini, una ribechina per la musica. Nel 1675 troviamo, fra i maestri, il nome di Giovanni Salvatore, che prende il posto di Domenico Arcuccio e lo conserva fino al 1689. Al Salvatore succede, nel 1690, Gennaro Ursino o Orsino che già insegnava nel conservatorio fino dal 1686. All'Ursino succede, nel 1695, un altro musicista di notevole valore: Gaetano Greco, versatissimo nel violino, nel contrappunto e nella composizione. Nel 1728 al Greco succede Francesco Durante. Se Giambattista Pergolesi abbia o no studiato al conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo è una questione che la critica storica non ancora ha potuto mettere in chiaro. La tradizione, attraverso F. Florimo, dice di sì, ma la tradizione afferma molte cose non attendibili e del Pergolesi, nei documenti sinora studiati, non è neppure il nome. Tuttavia viene fatto di sospettare che al soave cantore dello Stabat voglia riferirsi il nome di quel "Iesi" che ricorre frequentemente nei registri del conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo e precisamente in quelli del 1727, 1729, 1730. Da quell'anno il conservatorio cominciò a declinare, e nel 1744 ne venne decretata la chiusura.

Il terzo conservatorio musicale di Napoli, quello di S. Onofrio a Capuana, cominciò ad assumere importanza verso la metà del sec. XVII. Soltanto tra il 1669 e il 1690 si trovano nomi importanti di maestri di cappella appartenenti al conservatorio, quelli cioè di Pietro Andrea Ziani e di Cristoforo Caresana, di Venezia, morto nel 1709. In questo conservatorio allignò, in particolar modo, la rappresentazione musicale, sacra e spirituale, in un primo momento, buffa in seguito. Da esso sarebbe uscito, secondo una ragionevole congettura, quel Michele Falco che fu uno dei primi autori di opere buffe napoletane, ma del quale tuttora non si conosce alcuna composizione musicale. Notevole fu l'importanza del conservatorio nella scuola musicale di Napoli, vi esplicarono la propria attività musicisti di grande valore. Ricorderemo Nicola Fago, che v'insegnò dal 1704 al 1708; Francesco Durante, nel biennio 1711-12 e poi di nuovo dal 1745 al 1755; Niccolò Porpora, dal 1715 al 1722 e poi ancora nel 1760, per un anno; Francesco Feo, dal 1723 al 1739; Leonardo Leo dal 1739 al 1744; Carlo Cotumacci, dal 1755 al 1785. Ma con la fine del secolo l'importanza dell'istituto va sempre più diminuendo. Gli ultimi maestri del conservatorio furono Giovanni Furno e Salvatore Rispoli.

Quarto e ultimo conservatorio fu quello di Santa Maria della Pietà dei Turchini, fondato nel 1583 e nel quale l'insegnamento della musica fu introdotto poco dopo il 1600. Il primo maestro di cui si fa menzione nei registri dell'archivio, attualmente posseduti dal conservatorio in San Pietro a Maiella, è Giovanni Maria Sabino, che v'insegnò dal 1622 al 1626. Gli successe Francesco Lombardi dal 1626 al 1630, ma le colonne della scuola furono Giovanni Salvatore e Francesco Provenzale. Altri notevoli maestri che v'insegnarono furono, oltre il nominato Gennaro Ursino, Nicola Fago e Leonardo Leo, che fu anche organista nella real cappella. Anche dal conservatorio della Pietà dei Turchini uscirono personalità spiccate, nella storia musicale napoletana, quali Nicola Sala e Niccolò Jommelli. Nel 1790, per nomina regia, fu delegato al conservatorio della Pietà Saverio Mattei, a cui si deve la prima fondazione di una biblioteca musicale, che costituirà, poi, il prezioso fondo della Biblioteca di S. Pietro a Maiella. Anche questo conservatorio, sulla fine del secolo, cominciò a declinare. Gli agitati giorni del 1799 non furono i più indicati per creare un ambiente propizio a una rinascita del morente istituto; né poteva influirvi in modo decisivo l'opera di Niccolò Piccinni che era stato nominato ispettore dei conservatorî musicali di Napoli. Nel decennio francese gli avanzi degli antichi conservatorî musicali napoletani vennero fusi in un solo istituto che ebbe sede nell'edificio già adibito a "Monastero delle donne" in S. Sebastiano e fu chiamato Real collegio di musica di San Sebastiano (1806).

La direzione tecnica del Collegio di musica di San Sebastiano venne affidata a tre musicisti di gran nome: Giovanni Paisiello, Fedele Fenaroli, Giacomo Tritto. È di questo periodo a breve apparizione di Nicola Manfroce (l'amico di Piero Maroncelli), morto giovanissimo, temperamento musicale pieno di promesse che si annunziò con due opere applaudite: Alzira ed Ecuba. Nel 1813 i poteri tecnici e amministrativi vennero riuniti in un direttore unico che fu Niccolò Zingarelli. Nel 1815 le cariche di amministratore e di direttore furono nuovamente separate e per la parte amministrativa venne nominato un consiglio, al quale si affidò la vigilanza dell'istituto. Provvedimento notevole fu l'istituzione, avvenuta nel 1817, di scuole di musica anche per gli allievi esterni, con lo scopo di allargare la cerchia dell'insegnamento musicale. Con la rivoluzione napoletana del 1820 parte dell'edificio in S. Sebastiano, appartenente al collegio, venne occupata dagli uffici del parlamento nazionale insediatosi nell'annessa chiesa. In seguito il locale in S. Sebastiano fu concesso ai gesuiti che lo richiesero per farne sede di un loro istituto, e il collegio di musica passò nel monastero di San Pietro a Maiella, già appartenente ai padri celestini. Al Tritto, che morì nel 1824, successero, per l'insegnamento del contrappunto, Pietro Raimondi e Francesco Ruggi. Il collegio di San Sebastiano vanta una schiera d'illustri allievi. Primo fra tutti Vincenzo Bellini; indi i fratelli Luigi e Federico Ricci, fortunati autori di Crispino e la Comare, e Lauro Rossi che in seguito divenne direttore.

Nel 1834, apertasi la successione del Raimondi per l'insegnamento del contrappunto e della composizione, venne invitato Gaetano Donizetti, il quale accettò l'incarico, con la promessa che sarebbe divenuto direttore. Ma dopo la morte di N. Zingarelli, avvenuta nel 1837, al Donizetti fu preferito, perché meridionale, Saverio Mercadante, nominato direttore di S. Pietro a Maiella con decreto del 18 giugno 1840.

L'amministrazione del conservatorio subì, nel sec. XIX, diverse riforme che condussero a una sempre maggiore ingerenza dello stato. Morto il Mercadante, nel 1870, venne nominato direttore Lauro Rossi che, dopo alterne e agitate vicende, rinunziò al suo ufficio nel 1878. Dopo circa un decennio d'interregno, durante il quale le sorti del conservatorio furono tenute da un consiglio di reggenza di cui tornò a far parte lo stesso Lauro Rossi, venne nominato direttore Pietro Platania, che vi rimase dal 1887 al 1902. Gli successe Giuseppe Martucci (1902-1909) al quale seguirono Guido Alberto Fano (1912-1915) e Francesco Cilea.

La vita musicale di Napoli si svolse in maniera notevole nel campo dell'opera teatrale. L'opera in musica venne introdotta a Napoli dal viceré Oñate intorno al 1651. Le rappresentazioni si svolgevano ordinariamente nel teatro San Bartolomeo. Una delle prime opere rappresentate, non la prima, fu il Nerone ovvero l'incoronazione di Poppea del Monteverdi. Frequenti erano anche le rappresentazioni sacre nelle chiese, nei collegi, in case private, persino nelle vie e anche, naturalmente, nei conservatorî di musica, come p. es. nel 1672 a S. Maria di Loreto, La Fenice d'Avila Teresa di Gesù, composta da don Giuseppe Castaldo e nel 1679, anche del Castaldo, la Vita di Santa Rosa.

Nel 1671 appare, per la prima volta, tra le cantanti della compagnia dei Febi armonici del Teatro San Bartolomeo la famosa Giulia o Ciulla de Caro, di cui fu gran voce tra i contemporanei, specialmente per la sua vita scandalosa. Il musicista napoletano del sec. XVII che più si distinse a scrivere melodrammi fu FIancesco Provenzale, la cui Stellidaura vendicata, su parole del Perrucci, venne rappresentata, appunto in quel tempo, al San Bartolommeo. Nel 1679 venne eseguita per la prima volta, a Napoli, un'opera su testo spagnolo, El robo de Proserpina y sentencia de Jupiter, con musica di Filippo Coppola.

Nel 1681 il teatro venne distrutto da un incendio, ma fu subito riedificato; nel 1698 vi fu rappresentata l'opera Penelope la casta di Alessandro Scarlatti su poesia di Matteo Noris. In seguito, per iniziativa del viceré Medinaceli, il teatro venne rinnovato e vi riprese una più intensa e importante attività artistica. Nel primo quarto del sec. XVIII, per le scene del San Bartolomeo, passarono le opere dei più reputati maestri di scuola napoletana. Vi figurano nomi come quelli di Alessandro Scarlatti, Domenico Sarro, Francesco Mancini, Leonardo Leo, Niccolò Porpora, Leonardo Vinci. Nel 1713 e nel 1718 vi si davano l'Agrippina e il Rinaldo di Händel. Il sassone G. Adolfo Hasse vi esordì nel 1723. Nel 1724 vi si rappresentò la Didone abbandonata, scritta dal Metastasio espressamente per la Romanina (Marianna Bulgarelli) e musicata da Domenico Sarro. Contemporaneamente si svolgevano cicli periodici di rappresentazioni musicali anche al teatro dei Fiorentini che, dal 1714 in poi, divenne la sede dell'opera buffa. Altri due teatri sorsero, intanto, in questo periodo: il Teatro della Pace e del vico della Lava e il Teatro Nuovo "a Montecalvario sopra Toledo".

Ma oramai il Teatro San Bartolomeo non contentava più. Fin dal 1736 venne a Carlo di Borbone l'idea di costruire un grande teatro, alla quale fu data immediata esecuzione. Il piano fu presentato dall'ingegnere Giovanni Antonio Medrano; il contratto per la costruzione venne concluso con l'appaltatore Angelo Carasale. Il nuovo teatro venne chiamato San Carlo; per l'inaugurazione fu scelto l'Achille in Sciro del Metastasio, musicato da Domenico Sarro. Per le scene si fece venire da Torino il più celebre scenografo del tempo, Pietro Righini. L'apertura di quello che doveva essere, per molto tempo, il più grande teatro del mondo avvenne il 4 novembre 1737. Seconda opera a esservi rappresentata fu l'Olimpiade anche del Metastasio, con musica di Leonardo Leo; terza l'Artaserse del Vinci. Nel 1747 la gestione del teatro venne affidata per la prima volta a un'impresa privata e precisamente a notar Diego Tufarelli. Nel 1753 ne prese l'appalto Gaetano Grossatesta che iniziò la sua impresa con l'Eroe cinese di Baldassarre Galuppi. Nel 1761 giunse a Napoli Giovanni Cristiano Bach che vi fece rappresentare le sue opere Catone e Alessandro.

Nel 1779 veniva aperto un nuovo teatro costruito, poco distante dal Castel Nuovo, a spese dell'amministrazione della cassa militare del fondo della separazione dei lucri e per ciò chiamato Teatro del Fondo e solo in seguito Mercadante. Fu inaugurato con l'Infedeltà fedele di Domenico Cimarosa.

Nel sec. XIX il Teatro San Carlo, in prima linea, e poi il Fondo e il Nuovo dirennero il centro della vita musicale cittadina, il cui interesse era concentrato nell'opera in musica. Soltanto nella seconda metà del secolo si sviluppò una vera cultura sinfonica, culminante poi nell'attività di Giuseppe Martucci e della Società del Quartetto.

Bibl.: F. Florimo, La scuola musicale di Napoli e i suoi Conservatorî, voll. 4, Napoli 1880-84; S. di Giacomo, I quattro antichi Conservatorî musicali di Napoli, Palermo 1924; B. Croce, Teatri di Napoli, 3ª ed., Bari 1926; G. Pannain, Saggio sulla musica a Napoli nel sec. XIX, in Riv. mus. italiana, 1928 seg.

Teatro di prosa.

Un teatro scoperto e uno coperto (Odeo), sorgenti alle spalle dell'odierna chiesa di San Paolo Maggiore; un attore, Canuzio, così rinomato da indurre Bruto a recarsi apposta a Napoli per invitarlo a Roma; la rappresentazione d'una commedia greca di Claudio e talune geste istrioniche di Nerone: questi i ricordi teatrali di Napoli durante l'epoca romana. Dalla quale s'è costretti a fare un gran salto fino al periodo angioino (1266-1442), per il quale, del resto, oltre a quelle, generiche, di bagattellieri e saltimbanchi, non restano altre notizie che di Adan de la Halle, il quale, venuto a Napoli col suo protettore Roberto d'Artois, pose in scena alla corte di Carlo I (autunno 1283) Le jeu de Robin et Marion; di certi drammi liturgici recitati nel duomo nell'epifania del 1337; d'una giostra, con congiunta rappresentazione dialogata, del 1423; e dello sceneggiamento d'un dialogo di Luciano, dato alla corte del bon roi René il 31 dicembre 1441. Soltanto al tempo dei re di casa d'Aragona (1442-1501) la tarda storia del teatro napoletano assume andamento più continuo, mercé sempre più frequenti farse allegorico-politiche, recitate per lo più a corte, ludi cristiani o sacre rappresentazioni; farse giocose e semidialettali, continuate per tutto il secolo successivo, durante il quale loro argomento preferito fu la satira di uomini e cose di Cava dei Tirreni (le cosiddette farse cavaiole; principale autore Vincenzo Braca, sec. XVI-XVII); e "gliuommeri", premessi talora a poemi romanzeschi recitati nelle piazze da cantastorie, antenati di quei "Rinaldi", che, sul Molo, vacarono a siffatto ufficio fin quasi al 1860. A queste forme, via via sparite o modificate, s'aggiunsero nella prima metà del Cinque e continuarono fino a mezzo il Seicento, egloghe monologate o dialogate (La Cecaria di Antonio Epicuro, 1525; I due pellegrini del Tansillo, 1527, ecc.), e commedie o d'imitazione classica ovvero ispirate così alla novellistica come alla vita reale del tempo: commedie, che, dapprima importate da altre parti d'Italia (p. es. Gl'ingannati degl'Intronati di Siena, dati a Napoli nel 1545), indi composte da scrittori indigeni, trovarono dal 1588 il loro principale autore in G. B. della Porta (v.), seguito da una turba di sempre più meccanizzati imitatori (uno degli ultimi, e tanto mediocre quanto applaudito, il capuano Francesco d'Isa).

Salvo rare eccezioni, fino al 1560 circa, siffatta produzione venne data da meri filodrammatici, e i teatri, ove costoro s'esibivano, erano quelli annessi o alla reggia o ai palagi magnatizî di qualche gran signore (per es. di Ferrante Sanseverino principe di Salerno, quanto mai appassionato di cose teatrali). Col diffondersi della commedia dell'arte (v.), che a Napoli ebbe subito immensa voga e larghissimo sviluppo, anche Napoli divenne un vivaio di eccellenti attori di professione (Fabrizio de Fornaris, che già nel 1571 recitava a Parigi; più tardi Silvio Fiorillo, insuperato Capitan Matamoros e Pulcinella; più tardi ancora, Tiberio Fiorillo, divenuto a Parigi il celebre Scaramuzza, ecc.), i quali impersonarono con tanta valentia nuove maschere da essi inventate (Meo Squacquara, Maramao, Ciccio Sgarra, Smaraolo cornuto, Giangurgolo e, tra molte altre che si omettono, segnatamente Coviello e Pulcinella) da dar luogo al detto che requisiti dell'ottima rappresentazione comica fossero "lazzi napoletani e soggetti lombardi". E, sebbene per qualche tempo essi dovessero contentarsi di baracconi di legno o di palcoscenici all'aria aperta, specie al Largo del Castello (Piazza Municipio), sede favorita fino a un secolo fa di giocolieri, istrioni e "guarattelle" (bagattelle o fantoccini), non tardarono, fin dagli ultimi anni del Cinquecento, a mostrare la loro bravura in veri e proprî teatri di fabbrica: il primo, che, disfatto nel 1618 per dar luogo alla chiesa di San Giorgio dei Genovesi, fu sostituito in quell'anno, poco discosto, dal teatro di San Giovanni dei Fiorentini o, abbreviativamente, dei Fiorentini, tuttora esistente; un secondo, sorgente in una delle vie della Duchesca, e diroccato nel 1624; un terzo, costruito nel 1620 dall'ospedale degl'Incurabili nella strada di San Bartolomeo, da cui tolse il nome, e che, divenuto poi teatro dell'opera in musica, durò fin quando, nel 1737, non fu elevato il San Carlo. Nei quali teatri - oltreché commedie dell'arte, già molto decadute nella seconda metà del Seicento, durante la quale trovarono proprio a Napoli un teorico in Andrea Perrucci e un copioso raccoglitore di scenarî in Annibale Sersale conte di Casamarciano; oltreché favole silvane, pastorali, boscherecce, venatorie e marittime, molto in moda dopo i successi dell'Aminta e del Pastor fido; oltreché qualche tragedia (per es. La reina di Scozia del napoletano Carlo Ruggieri, primo in Italia e fra i primi in Europa a trattare il tema di Maria Stuarda); si diedero altresì, nella prima metà del Seicento, opere drammatiche spagnole (segnatamente di Lope de Vega), eccellentemente recitate da comici iberici, e, nella seconda metà, col nome di "opere regie", innumeri e frigidissime imitazioni o riduzioni di quel teatro, per lo più mal raffazzonate da impiastricciatori indigeni, tra cui, prolificissimo, il pur tanto benemerito descrittore di Napoli Carlo Celano (1617-93). E a modelli spagnoli s'attinse altresì tanto negli "apparati sacri" celebrati nelle piazze e nelle chiese, e ai quali, come negli autos sacramentales, si aggiunsero drammi dialogati; quanto nei drammi sacri, recitati in case religiose (specie presso i filippini), collegi (specie gesuitici) e anche in pubblici teatri, e nei quali, come nelle comedias de santos, c'era un continuo miscuglio di materializzata devozione e di buffoneria, culminante in Il vero lume tra le ombre ossia la nascita del Verbo umanato (ovvero Cantata dei pastori), composto da Andrea Perrucci nel 1699 e che si recita ancora tutti gli anni, in teatri popolari, durante le feste natalizie.

Una reazione contro le "opere regie" e un ritorno alla commedia d'imitazione classica e realistica s'ebbero, fin dagli ultimi anni del Seicento, per opera soprattutto di Nicola Amenta e dell'abate Andrea Belvedere, ai quali si ricongiungono, nei primi decennî del secolo successivo, tre autori di tragedie: Gianvincenzo Gravina (v.), Saverio Panzuti e Annibale Marchese. Quasi al tempo stesso (1701), strettamente imparentata con l'opera buffa in musica, sorgeva la commedia regolare in dialetto, coltivata, nella prima metà del Settecento, tra altri, da Ignazio Marotta, Gennaro Federico e segnatamente Pietro Trinchera, i quali, nel trarre i loro intrighi dalla commedia cinquecentesca, da quella spagnola e dal teatro molieriano, seppero rivestirli di caratteri, costumanze e linguaggio napoletani e precorrere in qualche guisa il Goldoni. E nei primi decennî del Settecento altresì sorsero altri tre teatri: quello, di breve vita, detto della Lava (dal vicolo ove fu elevato) o della Pace (dal prossimo ospedale omonimo); l'altro, minuscolo e istrionico, aperto nel 1720 e chiamato dalla Cantina o di San Giacomo (dall'attigua chiesa di San Giacomo degli Spagnoli); il terzo, costruito nel 1724 da Domenico Antonio Vaccaro e a cui si diede il nome, che serba tuttora, di Nuovo.

Con la riconquista ispano-borbonica del regno (1734) e la fondazione del San Carlo (1737), l'opera in musica, per tutto il resto del Settecento, prese il sopravvento sul teatro drammatico, il quale tuttavia non visse del tutto ingloriosamente. Nel teatrino della reggia si diedero per anni, da un'eccellente compagnia diretta da Domenico Barone marchese di Liveri, le commedie di quest'ultimo: scipite, noiosissime e duranti ben sette ore; eppure ascoltate religiosamente, tanta era la perfezione con cui venivano concertate e rappresentate. Al Nuovo e ai Fiorentini si susseguirono, nella seconda metà del secolo, commedie del Cerlone, del Goldoni e del Chiari, traduzioni di tragedie e drammi francesi (Voltaire, Diderot, Crébillon, ecc.), che una compagnia francese diede, nel 1773, nella lingua originale; imitazioni indigene (dovute al Gualzetti, al Napoli-Signorelli, al Salfi e al Pagano) di siffatto repertorio e, in particolar modo di "tragedie domestiche" o "drammi lagrimosi", che il G. de Gamerra (v.), il quale ne compose tanti, venne nel 1787 a dirigere personalmente; e altresì tragedie alfieriane. Un nuovo teatrino istrionico di legno, sorto nel 1743 poco discosto dalla "Cantina", chiamato San Carlino per contrapposizione scherzosa al vicino e immenso San Carlo e demolito nel 1749 perché troppo scandaloso, risorse in fabbrica nel 1770, divenendo, finché nel 1884 non fu diroccato per l'ampliamento di Piazza Municipio, la roccaforte della commedia dialettale e di attori valentissimi, quasi sempre anche autori, quali, per accennare qui almeno ai principali, i varî Cammarano (v.), i varî Petito (v.), Orazio Schiano (morto nel 1842), Pasquale Altavilla (morto nel 1872 dopo aver composto e recitato quasi un centinaio di commedie ispirate ai "casi del giorno"), Carlo Guarino (1825-76), Raffaele di Napoli (morto nel 1878), Pasquale de Angelis (morto nel 1880), Girolamo Gaudiosi, Gennaro Pantalena e, ultimo e più famoso, Eduardo Scarpetta (v.). E due altri teatri ancora, oggi esistenti, venivano aperti poco prima del 1800: nel 1779, il ricordato teatro del Fondo (Mercadante); e nel 1790, dal nome di Ferdinando IV, il San Ferdinando.

Né i due nuovi teatri sorti nella prima metà del sec. XIX, la Fenice (1806) e la Partenope (1828), né un teatro di filodrammatici che dal 1818 funzionò per qualche anno, con buoni attori, nell'ex-convento dei Ss. Severino e Sossio, poterono far seria concorrenza al vecchio Fiorentini, che, malgrado qualche parentesi musicale, restò sempre il miglior teatro di prosa, non senza avere dal 1840 eirca al 1875, sotto la direzione di Alberto Adami, un periodo di particolare fulgore. In quel trentacinquennio vi recitarono via via, e talora per lunghi periodi, gli attori più celebrati: il Maieroni, il Bozzo, il Taddei, il Salvini, la Sadowki, la Cazzola, Virginia Marini, la Ristori; e v'esordì, nelle parti di servetta nelle commedie goldoniane, Eleonora Duse. Dal 1860 cominciò a darvi le sue commedie, fino ai celebratissimi Mariti (1869), il giovane Achille Torelli, il cui padre, Vincenzo, già negli ultimi tempi del periodo borbonico, vacava all'ufficio di critico teatrale nell'Omnibus. E tra i frequentatori c'era un gruppo d'intelligenti, che divenne tanto più facilmente una delle più temute giurie teatrali d'Italia, in quanto taluni di essi (il duca di Maddaloni, il duca di Ventignano, il duca di Vastogirardi, il duca d'Andria) divennero prima o poi più o meno fortunati autori teatrali. Conseguenza di questa rinnovata passione per l'arte drammatica fu, tra il 1860 e il 1880, l'apertura di nuovi teatri, quasi tutti di prosa o promiscui: nel 1864, il primo "Bellini", che, distrutto da un incendio (1869), fu sostituito da un secondo (1877); nel 1870, ben tre teatri: il Filarmonico a Piazza Municipio, convertito ben presto in magazzino; il Rossini; il Volpicelli in piazza Cavour, ribattezzato nel 1871 Mercadante e convertito oggi, col medesimo nome, in cinematografo; nel 1871, il Politeama, a cui soltanto più tardi fu aggiunto il nome Giacosa; nel 1874, il graziosissimo Sannazaro, che, diroccato il San Carlino, ospitò a lungo lo Scarpetta; più ancora quattro teatrini di vita brevissima: il Goldoni, all'entrata del chiostro di San Tommaso d'Aquino; il Teatro del Giardino d'Inverno; quello della Darsena; e il popolare Sebeto, ove quali "drammi sacri" si dessero durante la quaresima può arguirsi dalla Passione e morte di Gesù Cristo con Pulcinella buffo napoletano, che vi si rappresentava il venerdì santo.

Bibl.: Florimo, introduz. al vol. IV della Scuola musicale di Napoli, Napoli 1881; Napoli nobilissima, passim (v. nel vol. XV della serie 1ª, l'indice per materie, s. v. Teatri); A. Scalera, Il teatro de' Fiorentini dal 1800 al 1860, Napoli 1909; S. di Giacomo, Storia del teatro di San Carlino, 3ª ediz., Palermo s. a.; B. Croce, Teatri di Napoli, 3ª ediz., Bari 1926; id., Letteratura della nuova Italia, 3ª ediz., IV, Bari 1929, pp. 311-14.

Letteratura dialettale e folklore.

Parole, frasi e costrutti del dialetto napoletano s'incontrano nel latino o pseudolatino di cronache, carte pagensi e talora diplomi delle epoche ducali e normanno-sveva; alla quale ultima, se non più i Diurnali del cosiddetto Matteo Spinelli da Giovinazzo, dimostrati ormai falsificazione di tempi molto più bassi, posson bene appartenere talune filastrocche fanciullesche, a ogni modo assai antiche (p. es. "Iesce, iesce, sole"). Tra le non molte scritture dialettali del Trecento meritano menzione: a) le quattro parti (1ª, 1326 circa; 2ª e 3ª, fra il 1348 e il 1362; 4ª, dopo il 1382), con cui, a due riprese, venne messa poi insieme la cosiddetta Cronica di Partenope; b) una lettera scherzosa di G. Boccaccio a Franceschino de' Bardi (14 dicembre 1339); c) due derivazioni, l'una in prosa, l'altra in verso, dal poemetto latino di Pietro d'Eboli sui bagni di Pozzuoli (1210 circa). E, quanto al Quattrocento, anziché indugiarsi, come i vecchi trattatisti dell'argomento, su talune cronachette (p. es. dei notai Ruggiero Pappanzogna e Dionigi di Sarno), sugli atti della cancelleria di Ferrante I d'Aragona e dei suoi immediati successori, e sull'Esopo di Francesco del Tuppo - nei quali scritti, più che il vero dialetto, s'incontra un volgare più o meno infarcito di dialettismi - va fatto battere l'accento sulle narrazioni storiche o pseudostoriche di Loise de Rosa (v.); su talune delle farse di Pietro Antonio Caracciolo, di Giosuè Capasso e di anonimi (v. sopra: Teatro di prosa); e altresì sui cosiddetti "gliuommeri" (cioè gomitoli, ossia frottole), di cui qualcuno dovuto a I. Sannazaro.

Cronisti più o meno dialettali furono nella prima metà del Cinquecento il Notargiacomo, Giuliano Passero, Geronimo de Spenis e altri: nel qual tempo, col poeta e musicista Velardiniello (Bernardino) - autore di alcune ottave sulle donne, di una Farza de li massari e segnatamente della celebre "storia": Cient'anne arreta, quann'era viva vava (1540 circa) - s'ha, per dir così, il capostipite d'una lunga schiera di poeti popolari e cantastorie, tra i quali, a cavaliere fra il Cinque e il Seicento, Giovanni della Carriola, autore, tra l'altro, d'un'orrorosa Storia di Marzia Basile. In quel tempo altresì (1538 circa) cominciarono a diffondersi per tutta Europa, accompagnate dalla musica, le famose "villanelle napoletane", continuate lungo il Seicento e trasformate via via nelle odierne canzoni di Piedigrotta (v. sopra: Vita musicale; e appresso: Folklore). Quasi contemporaneamente, Pietro Aretino, col "signor Parabolano" della Cortigiana (1534), introduceva nella commedia letterata il tipo del Napoletano, il quale, più nettamente determinato come caricatura e parlante il dialetto natio, riappare nell'Amor costante (1536) e nell'Ortensio (1560) di Alessandro Piccolomini, e poi ancora, fissato ormai come tipo e ripetente sé stesso, tanto in commedie di altre parti d'Italia, quanto, e ancora più a lungo, nel teatro indigeno. Senza dire che dalla fine del Cinquecento il dialetto napoletano venne portato su tutti i palcoscenici d'Europa da coloro, tra i comici dell'arte, che impersonavano maschere napoletane, e, sopra tutte, quella fortunatissima di Pulcinella.

Sennonché, per un complesso di ragioni estetiche, culturali e storiche (p. es. il bisogno di rappresentare costumi e modi di sentire che non si sarebbero potuti esprimere se non in dialetto, e anche la smania di novità che assillava gli scrittori barocchi), la vera letteratura dialettale d'arte o riflessa non si sviluppò pienamente a Napoli, come del resto nelle altre parti d'Italia, se non durante l'età barocca. Età non solo di Giulio Cesare Cortese, di Giambattista Basile e del più giovane poeta che si nascose sotto lo pseudonimo di "Felippo Sgruttendio de Scafato", ma altresì di parecchi non spregevoli minori. Tali, fra altri e per tacere del tutto dei parecchi scrittori teatrali, Domenico Basile, autore d'una traduzione del Pastor fido; Bartolomeo Zito, attore e compilatore d'un lungo commento alla Vaiasseide del Cortese; Giambattista Valentino, "scrivano" della Vicaria e autore di quattro poemetti; Andrea Perrucci (1635-1704), autore, tra l'altro, del poemetto L'Agnano zeffonnato (1678); il poligrafo e dal 1711 vescovo di Bisceglie Pompeo Sarnelli, autore, a sua volta, di cinque novelle intitolate La Posillecheata (1684); Gabriele Fasano (1645-89), ricordato nel Bacco in Toscana di F. Redi e che dopo aver lavorato per anni a una Gierosalemme libberata votata a llengua nostra (1689) preparava (ma non pubblicò) un Bacco a Posilleco; il gesuita Nicola Stigliola (1642-1708), che, con lo pseudonimo di Giancola Sitillo, diè a sua volta una traduzione in ottave dell'Eneide, e via enumerando.

Quest'abbondante produzione, che, peraltro, già dagli ultimi decennî del Seicento, tendeva sempre più verso o l'accademizzamento o la sciatta faciloneria, continuò, con ritmo alquanto minore, nel secolo successivo. Nel quale, prescindendo una volta ancora dalle opere di numerosi scrittori teatrali (commediografi e librettisti), ebbero maggiore fama la graziosa Ciucceide (1726), poema in ottava rima dell'avvocato, poi magistrato, Nicola Lombardi; più centinaia di sonetti satirici e un parziale travestimento dell'Iliade, lavorati dall'accademico ma celebratissimo Nicola Capasso (1671-1745); e segnatamente un felice rifacimento letterario, che un ignoto compì, negli ultimi decennî del secolo, d'una filastrocca popolare intitolata 'O guarracino. Negli ultimi anni del Settecento altresì, l'abate Ferdinando Galiani, facendo compiere un gran passo a studî, di cui precedentemente s'era avuto appena qualche debole tentativo, pubblicava (1779) una grammatica e, insieme, una storia letteraria del dialetto napoletano, seguite (1789) da un vocabolario storico-folkloristico; e, al tempo stesso, incitava il libraio Giuseppe Maria Porcelli a farsi editore d'una collezione degli scrittori del dialetto, mediocre e incompiuta quanto si voglia, ma sola che finora si possegga.

Durante il periodo del Risorgimento - rivolti gli animi alle lotte morali e politiche e a pensieri filosofici e religiosi, che mantenevano la fantasia e la parola nella cerchia nazionale e unitaria - anche a Napoli, come nelle altre regioni d'Italia, la letteratura dialettale, come cosa troppo regionale o municipale, o venne trascurata o assunse carattere meramente occasionale e buffonesco: onde, dei tanti versi e prose dialettali composti a Napoli in quel tempo, a malapena vien ricordata oggi qualche fortunata canzonetta (p. es., "Te voglio bbene assaie, E tu non pienze a mme", dell'occhialaio Raffaele Sacco). Tuttavia, composta l'Italia a unità, anche a Napoli risorse, rigoglioso e procedente di pari passo col rinnovato ardore per le ricerche di storia regionale, l'interesse per le cose dialettali. Certamente siffatto interesse ebbe dapprima carattere quasi meramente filologico ed erudito: donde la compilazione di nuovi, più ricchi e meglio informati vocabolarî (quelli di Raffaele d'Ambra, di Emmanuele Rocco e di Raffaele Andreoli), nonché d'un dizionario biobibliografico degli scrittori dialettali (quello di Pietro Martorana); le raccolte di canti popolari, proverbî, fiabe e altri documenti di demopsicologia, dovute a F. Casetti e a V. Imbriani, al solo Imbriani, a Luigi Molinaro del Chiaro, a Vincenzo della Sala, a Gaetano Amalfi e ad altri; la fondazione d'una rivista di demopsicologia e dialettologia (il Giambattista Basile); e un seguirsi di ricerche storiche ed esegetiche sugli scrittori del dialetto da parte di studiosi delle più diverse tendenze (Imbriani, Bartolomeo Capasso, Roberto Guiscardi, Amalfi, ecc. e, in tempi più vicini a noi, F. Torraca, B. Croce, F. Nicolini, G. M. Monti e G. Doria).

Ma, circa il 1880, fra gli autori delle canzoni di Piedigrotta, compariva, con l'allora ventenne Salvatore di Giacomo, un vero poeta; e, per opera di lui - seguito da epigoni, talora non privi di valore (Ferdinando Russo, Libero Bovio, Ernesto Murolo, Rocco Galdieri, Ugo Ricci, ecc.) - la letteratura dialettale d'arte pervenne a Napoli, nel trentacinquennio 1880-1915, a grande altezza. Vero è altresì che, attraverso la guerra e il dopoguerra - per cui, mentre l'Italia è rientrata nel turbine della vita internazionale, s'è reso sempre più precipite il moto di decadenza degli antichi centri regionali, cominciato fin dall'unificazione della penisola, - quella letteratura, anche a Napoli, più che decadere, è sparita quasi del tutto.

Bibl.: V. le annotazioni di F. Nicolini alla sua ediz. del Dialetto napoletano di F. Galiani, Napoli 1922. Tra i lavori posteriori: F. Nicolini, La lettera di G. Boccaccio a Franceschino de' Bardi, Firenze 1925; B. Croce, La letteratura dialettale riflessa, in Uomini e cose della vecchia Italia, s. 1ª, Bari 1927, pp. 222-234; A. Tilgher, La poesia dial. nap., 1880-1930, Roma 1930; G. Doria, La canzone del "Guarracino", Napoli 1933; B. Croce, Commento storico a un carme satirico di Giacomo Leopardi, Bari 1934.

Folklore. - Prima e precipua fonte del folklore napoletano è la letteratura dialettale: fin dalla lettera del Boccaccio a Franceschino de' Bardi (1339), con la sua descrizione d'un battesimo. Forse al tempo delle varie manipolazioni della Cronica di Partenope, non s'era formata ancora la leggenda, messa in scritto in Francia tra la fine del Quattro e i principî del Cinquecento, per cui in un rudere presso la Gaiola si ravvisò la "scuola" ove Virgilio avrebbe insegnato la science de négromance. Ma all'epoca ducale risale il ciclo di leggende, narrate come storia certa dalla Cronica stessa, intorno a Virgilio maestro e ascoltatissimo uffficiale "del duca" Marcello e a fogne, pozzi pubblici e fontane di cui il poeta-mago avrebbe arricchito la città, ecc. (v. virgilio). Costumi popolari del tempo aragonese rievoca, intorno al 1540, la "storia" di Velardiniello: le donne, che nei vicoli danzano "la chiaranzana con la spontapede"; i giuochi fanciulleschi detti "scarrica varrile", "scariglia", "stendi mia cortina", "a mano a mano", "secùtame chisso", "parapiglia", "preta nzino", "covalera"; la festa di San Giovanni, nella quale le donne andavano tutte insieme alla marina "A lavarse le gambe senza panni, Cantando per le vie la romancina"; la Pasqua celebrata col recarsi in barca a Posillipo e Mergellina, ecc. Più tardi, il Basile, il Cortese, lo Sgruttendio e i loro imitatori, continuatori e peggioratori sei-settecenteschi raccolsero fiabe popolari, proverbî, antiche villanelle e altri canti popolari, descrizioni di danze e di giuochi, leggende intorno a monumenti, ricordi di cantastorie e cantori di strada, nonché della vita delle taverne (di fama internazionale quella detta del Cerriglio); finanche curiosità della strada: p. es. del "dottor Chiaiese", degno antenato secentesco del settecentesco don Onofrio Galeota, "poeta e filosofo all'impronta", e dell'ottocentesco monsignor Perrelli.

Altra fonte capitale, i viaggiatori stranieri, dal sec. XVII al XIX. La cupidigia ammirativa, con cui la povera gente contemplava le numerose ed enormi piramidi di porci, oche e tacchini, preparate per il Natale, fece credere nel 1781 all'abate Claudio de Saint-Non che la plebe napoletana riponesse la suprema felicità nel mangiare. Ma il Goethe ben vide (1787) che, per i Napoletani, quell'abbondanza era, più che altro, una gioia dell'occhio: onde l'esporre in vendita il cibo quasi con senso artistico; il separare il pesce, secondo le qualità, in varie fogge di cestelli; il badare all'euritmia nel far pendere dall'alto grappoli d'uva conservata e poponi; il rendere più appariscenti quarti di bue e vitelli mercé copiose dorature alternantisi col grasso; e, durante le feste natalizie, il tendere attraverso la Via Toledo fili da cui, a guisa di festoni, pendevano grossi rosarî di salsicce ravvolte in carta dorata e unite con nastri rossi e alle quali s'alternavano tacchini, ciascuno con una bandierina ugualmente rossa. Nel Settecento Napoli cominciò ad avere illustrazioni grafiche del costume popolare, continuate nell'Ottocento mediante le vignette litografiche degli editori Gatti e Dura, il volume Napoli in miniatura, ovvero il popolo di Napoli e i suoi costumi, opera di patri autori, pubblicata per cura di Mariano Lombardi (1847) e segnatamente gli Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti (1853-1866, voll. 2) a iniziativa dello svizzero napoletanizzato Francesco de Bourcard, con cento disegni acquarellati dell'Altamura, del Mattei, del Martorana, del Ghezzi, di N. Palizzi, del Duclère e soprattutto di F. Palizzi. Ecco, p. es., venuti a Napoli dalla natia Basilicata, con un'arpa, un violino, un clarinetto, e un triangolo, quattro di quei "viggianesi", ai quali si sostituirono poi, accompagnanti con chitarre e mandolini "Funiculì, funiculà", "Marechiaro", "'O sole mio", e altre canzoni in voga, quei "posteggiatori" indigeni tra cui fece le prime armi E. Caruso. Ecco lo Scrivano pubblico: qualcuno se ne vedeva ancora prima della guerra mondiale, sotto i portici del teatro San Carlo e della Galleria Principe di Napoli, e segnatamente nei vicoli adiacenti al palazzo Gravina, sede della posta centrale. Ecco il Quattro maggio, giornata tradizionale degli sgomberi; la Capèra, che pettinava in strada le donne; il Banditore di vino ("pazziariello"), che oggi ancora, benché molto di rado, seguito da suonatori di ottavino, di tamburo e di grancassa, incede maestoso nel suo preteso costume di maresciallo napoleonico, col bastone di comando nella destra e, nella sinistra, un grosso fiasco di vino, del quale, negl'intervalli della musica, vanta qualità e buon prezzo. Anche il Pizzaiuolo ambulante s'è fatto più raro, sebbene la sua merce, che, ai tempi di Velardiniello, aveva dimensioni di "rota di carro", sia divenuta oggi, in proporzioni minuscole, cibo anche di altre parti d'Italia. Il Mellonaro, oggi ancora, nel colmo della caldura estiva, soprintende, fino a tarda ora della notte, a una rosseggiante esposizione di diversamente affettati cocomeri. Ma i Pezzenti di San Gennaro, cioè i vecchi ricoverati tuttodì nell'ospizio di San Gennaro extra moenia, non si vedono quasi più, al comando d'un loro "generale" vestito alla militare (feluca, giamberga gallonata, sciarpa ad armacollo e una grossa lancia), seguire le esequie e fatti poi segno a scariche di lazzi, sibili, bucce d'arancia o di fico.

È un mondo, questo rappresentato nel libro del De Bourcard, scomparso quasi del tutto, alla stessa guisa del cosiddetto "colore locale" della Napoli d'un tempo. Persino le feste popolari, a base di "apparati" multicolori con frange auree, lampioncini, sparatorie di bombe-carta, gare pirotecniche e bandistiche, banchi di "fichi d'India", "franfellicchi", "antrite", "nocelle americane", "maruzze", "spassatiempi", ecc. sono decadute. E decaduto è altresì il famoso baccanale di Piedigrotta, al quale partecipava, prima del 1860, tutto il popolo napoletano e che aveva tra le sue principali attrattive la "parata" con relativo intervento della corte in gran gala. E anche l'altra e forse maggiore attrattiva che, fra il 1880 e il 1910, musicisti di valore (Costa, Tosti, Denza, ecc.) e un gran poeta (Salvatore di Giacomo) riuscirono a conferire a quella festa mercé "canzoni" di fama internazionale, è oggi molto attenuata.

Istituti di cultura, biblioteche e musei.

R. Università degli studî. - Fondata nel 1224 da Federico II, col nome di Studio generale, ebbe, dopo varie vicende, assetto e sede propria e decorosa nell'attuale palazzo del Museo Nazionale, che ancora conserva il nome di Palazzo degli studî. Nel 1701 venne riportata nel convento di San Domenico, che l'aveva ospitata dal 1515 al 1616, e poi di nuovo, nel 1736, nel Palazzo degli studî, finché nel 1777 venne definitivamente allogata nell'ex-convento del Gesù vecchio. In questo edificio, che oggi si dice della "vecchia università", risiedono ancora la biblioteca universitaria e alcuni istituti (museo di mineralogia, museo di zoologia). Esso è collegato col nuovo edificio, terminato nel 1906, e che ha la facciata principale e l'ingresso sul Corso Umberto I, o Rettifilo. È università di 1° grado, e vanta illustri tradizioni (v. sopra: Storia).

All'università sono annessi: la R. Scuola politecnica d'ingegneria e di architettura, fondata nel 1811; l'Orto botanico, fondato con decreto di Giuseppe Bonaparte nel 1807, e impiantato con dieci anni di lavoro dal botanico napoletano Michele Tenore; l'Istituto di fisica terrestre, fondato da Luigi Palmieri, e a cui è annesso l'Osservatorio meteorologico; l'lstituto di geografia generale; l'Istituto di fisica; l'Istituto di chimica farmaceutica: il Museo di geologia e di paleontologia; il Policlinico con le sue molteplici cliniche, i cui padiglioni anteriori si trovano sul suolo del demolito Convento della Croce di Lucca, di cui sussiste tuttora la chiesa; l'Istituto superiore di medicina veterinaria fondato nel 1795.

Stazione zoologica. - Venne fondata con mezzi proprî dal naturalista A. Dohrn di Stettino (1872-74); ingrandita nel 1888, fu nel 1923 eretta in ente morale. Agevola lo studio del mondo sottomarino ai naturalisti di tutte le nazioni, e ha laboratorî per ricerche di zoologia, botanica e fisiologia marina. Contiene l'acquario, una mostra di preparati, una biblioteca specializzata.

R. Osservatorio astronomico. - Fondato dall'astronomo Giuseppe Piazzi nel 1819. Vi è annesso un Osservatorio magnetico e meteorologico.

R. Osservatorio Vesuviano. - Fondato nel 1841 da Ferdinando II di Borbone. Possiede una biblioteca vulcanologica. Vi sono annessi l'Ufficio centrale internazionale di vulcanologia. Vi risiede il R. Comitato tecnico dell'osservatorio.

Vulkaninstitut Immanuel Friedländer. - Fondato come istituto privato nel 1914, ora costituito come fondazione svizzera, con sede legale a Sciaffusa fino al 1925; poi a Zurigo.

Istituti d'insegnamenti varî. - R. Istituto superiore di scienze economiche e commerciali; R. Istituto superiore navale, quattro sezioni; R. Istituto superiore orientale: deve la sua esistenza a Matteo Ripa, che nel 1727 fondò il "Collegio dei Cinesi" o "della Sacra Famiglia di Gesù Cristo", più tardi divenuto il "R. Collegio Asiatico di Napoli"; Istituto superiore femminile pareggiato di magistero Suor Orsola Benincasa; R. Conservatorio di musica San Pietro a Maiella (v. sopra) che ha una buona biblioteca musicale; R. Accademia di belle arti e liceo artistico, fondata da Carlo di Borbone nel 1754: possiede una piccola biblioteca specializzata e una galleria d'arte moderna, interessante per i dipinti della scuola di Posillipo; vi è annessa la Scuola superiore di architettura, la quale costituisce una sezione della R. Scuola d'ingegneria; R. Istituto d'arte industriale, fondato nel 1880, aperto nel 1882. Ha una facciata in ceramica policroma eseguita sotto la direzione di Domenico Morelli, Filippo Palizzi e dell'arch. Guglielmo Raimondi; vi sono annessi un Museo dei modelli, un Museo delle ceramiche e una biblioteca; il Collegio militare della Nunziatella, nell'antico Noviziato dei Gesuiti ha gloriose tradizioni; R. Scuola normale di metodo per l'istruzione dei sordomuti, annessa al R. Istituto per sordomuti; R. Istituto dei ciechi "Principe di Napoli" a Caravaggio.

Biblioteche. - La R. Biblioteca nazionale "Vittorio Emanuele III" (Palazzo Reale), fondata da Carlo di Borbone, col fondo Farnesiano di Parma da lui ereditato, fu prima allogata nell'attuale palazzo del Museo Nazionale, e vi si arricchì di nuovi e cospicui fondi, tra cui quello gesuitico, quello della biblioteca di San Giovanni a Carbonara, della certosa di San Martino, del convento dei Ss. Severino e Sossio, dei conventi francescani di Abruzzo, di biblioteche private cittadine. Venne aperta al pubblico nel 1804, col nome di Reale biblioteca di Napoli; più tardi s'intitolò Biblioteca Borbonica; dal 1860 al 1925 si chiamò R. Biblioteca nazionale; poi col nome attuale. Tra gl'incrementi più importanti vanno ricordati gli acquisti della collezione Delfico d'incunaboli; quello delle pergamene copte già del Museo Borgiano di Velletri; quello della Collezione Bodoniana; e - ultimo nel tempo - il ricupero, fatto dopo la vittoria delle armi italiane nel 1918, di 97 codici già donati a Carlo VI dalle biblioteche monastiche napoletane, per arricchirne la Palatina di Vienna. Sono annessi alla biblioteca: l'Officina dei papiri ercolanesi, provenienti dalla Villa dei Pisoni di Ercolano; la Biblioteca e archivio musicale Lucchesi-Palli; la R. Biblioteca di San Giacomo; la R. Biblioteca di San Martino (da non confondere con la Biblioteca monastica della Certosa di San Martino, i cui fondi furono immessi in altro tempo nella massa dei suoi libri); la R. Biblioteca Brancacciana, messa insieme dai cardinali Fr. Maria e Stefano Brancaccio e circa la fine del'600 trasferita, per legato, da Roma a Napoli dove nel 1699 venne aperta al pubblico; la Biblioteca provinciale; la Biblioteca Palatina di Maria Carolina d'Austria.

R. Biblioteca Universitaria. - Fondata da Ferdinando I di Borbone nal 1816, aperta al pubblico nel 1827. I suoi fondi iniziali furono: i libri destinati a costituire la Biblioteca di Monteoliveto, i duplicati della Biblioteca Borbonica, e, dopo il 1860, la parte scientifica della biblioteca privata dei re di Napoli. Si accrebbe rapidamente per cospicui doni ricevuti, e ha continuo e attivo incremento così per gli acquisti che viene facendo, come per il gettito della legge sulla stampa che le assegna un esemplare di quanto si pubblica a Napoli e provincia.

Biblioteca dei Gerolamini, nel convento omonimo, monumento nazionale. Venne costituita alla fine del '500 dai Padri dell'Oratorio detti Gerolamini: nel 1725, su apprezzo di G. B. Vico, acquistò la più celebre delle biblioteche napoletane del '600, quella di Giuseppe Valletta, e fu l'incremento maggiore della collezione; nel 1859 acquistò la libreria di Carlo Troya; ebbe dipoi, per legato, quella di A. De Gennaro-Ferrigni. Alla biblioteca è annesso l'Archivio Oratoriano, dal 1586.

Altre biblioteche notevoli sono: la Biblioteca comunale Cuomo, che oggi è annessa a quella importantissima della Società napoletana di storia patria; la Biblioteca Palatina (Palazzo Reale), ricca di stampe, disegni e carte geografiche. Quanto a volumi risulta composta di quanto rimase della biblioteca privata dei Borboni, dopo lo smembramento, e di altro materiale vario.

Archivî. - Il Grande Archivio o R. Archivio di stato, nell'ex-convento dei benedettini di San Severino, ove fu trasferito nel 1840, possiede pergamene dei monasteri soppressi, dal periodo ducale in poi; un solo registro di Federico II; centinaia di registri e fascicoli e migliaia di pergamene dei periodi angioino e aragonese, gli atti della segreteria dei viceré, quelli della segreteria di stato del periodo borbonico, più atti dei tribunali e di amministrazioni statali così dell'ex-regno come, dal 1860 in poi, della provincia di Napoli. Ha due sezioni distaccate: una a Napoli stessa (Pizzofalcone) contenente l'archivio di guerra e marina, l'altra a Caserta (antico archivio provinciale di Terra di lavoro).

Altri archivî: Archivio notarile, nel convento di San Paolo Maggiore: conserva i protocolli dei notai della provincia a datare dal '400; l'Archivio municipale, o Archivio storico della città di Napoli, contiene documenti e atti dal 1387 al 1860; l'Archivio del Tesoro di San Gennaro data dal 1630 e contiene circa 10 mila documenti; l'Archivio del R. Stabilimento dell'Annunziata ha circa 8 mila volumi; l'Archivio della curia arcivescovile, importante soprattutto per gli atti della "Santa visita" e quelli dell'Inquisizione diocesana; molti archivî parrocchiali (importante soprattutto quello della parrocchia del Duomo); parecchi archivî privati storicamente preziosi (Pignatelli di Terranova, Maresca di Serracapriola, ecc.); alcuni archivî di confraternite (p. es. quello dei Bianchi della Giustizia, coi registri dei condannati a morte dalla metà del '500 in poi). Notevole infine l'Archivio del Banco di Napoli, che possiede oltre 100 milioni di polizze, più le carte patrimoniali.

Accademie, società scientifiche e circoli di cultura. - La Società reale, fondata nell'epoca murattiana e ricostituita con decreto luogotenenziale del 30 aprile 1861, si suddivide in tre classi: 1. R. Accademia delle scienze fisiche e matematiche, 2. R. Accademia delle scienze morali e politiche; 3. R. Accademia di archeologia, lettere e belle arti. Per la sua origine si ricollega all'illustre e benemerita Reale Accademia ercolanese, fondata nel 1755 da Carlo di Borbone. L'Accademia Pontaniana è la più antica di Napoli, e una delle più antiche d'Italia. Si ricollega alla celebre Accademia Alfonsina, istituita nel 1443 da Alfonso I d'Aragona, nella sua biblioteca di Castel Nuovo, con a capo Antonio Beccadelli, detto il Panormita. Alla morte del quale nel 1471 ne assunse la direzione il Pontano che la tenne fino alla morte, nel 1503; venne allora da Pietro Summonte raccolta nella sua casa. Nel 1525 il Sannazaro ne assunse la direzione, e la ospitò nella propria casa, e in ogni modo la sostenne fino al 1530, anno della sua morte. La tenne fino al 1543 Scipione Capece, né poi fu più convocata. Nel 1808 alcuni eruditi napoletani, tra i quali Vincenzo Cuoco, la restaurarono col nome di Società Pontaniana. Nel 1825, essendosi fusa von la Società sebezia di scienze e arti, prese il nome attuale. Ha anch'essa nobili tradizioni; pubblica annualmente un volume di Atti, oltre ad Annuari, Rendiconti, ecc. La R. Accademia delle scienze medico-chirurgiche fu fondata da Angelo Boccanegra e approvata dal governo nel 1818; ha per oggetto principale l'osservazione clinica, ma abbraccia anche gli altri rami della scienza medica. La Società dei naturalisti, già Circolo degli aspiranti naturalisti, ebbe il suo primo statuto approvato il 1814. L'Unione zoologica italiana, fondata nel 1900, cura parecchie pubblicazioni tra cui il Monitore zoologico italiano; la Società africana d'Italia possiede una biblioteca e pubblica l'Africa italiana. Da ricordare anche: Associazione per la protezione dei monumenti e del paesaggio napoletano; Reale istituto d'incoraggiamento alle scienze naturali, economiche e tecnologiche (5 classi), fondato nel 1806, riordinato nel 1864; Società napoletana di storia patria, fondata nel 1875 da insigni cultori della storia regionale, possiede una biblioteca completa dell'Italia meridionale, e pubblica l'Archivio storico per le provincie napoletane, i Monumenti storici, i Documenti per la storia, le arti e le industrie delle provincie napoletane, le Cronache napoletane; Società degli Illusi; Institut français de Naples, fondato nel 1918, alla dipendenza dell'università di Grenoble, impartisce anche l'insegnamento superiore della letteratura francese e promuove concerti, conferenze, ecc. dirette a far conoscere la vita intellettuale francese.

Musei. - Il Museo Nazionale fu creato da Carlo di Borbone (1738) con le vistose collezioni ereditate da sua madre Elisabetta Farnese, alle quali furono aggiunte le preziose cose d'arte scavate a Pompei e ad Ercolano, che ne hanno fatto uno dei più celebrati musei del mondo. Fu allogato dapprima nel Palazzo di Capodimonte, divenuto poi reggia; più tardi nel Palazzo degli Studî a S. Teresa. Possiede anzitutto una vasta e importantissima raccolta di statue antiche provenienti, oltre che dalla collezione farnesiana, dagli scavi della Campania e da acquisti; vi è ancora la collezione dei grandi bronzi, provenienti dagli scavi di Ercolano, unica al mondo; quindi una raccolta di terrecotte etrusche, campano-etrusche, greco-italiche e pompeiane, una collezione egizia, una raccolta preistorica e una epigrafica, un'altra di ritratti marmorei e una di scultura decorativa. Notevolissima poi una raccolta, anch'essa unica del genere, di pitture murali e di musaici rinvenuti a Pompei e in altri luoghi della Campania. La Pinacoteca è costituita in gran parte dalla magnifica raccolta farnesiana, alla quale si aggiunse una collezione fatta dai Borboni nel palazzo detto di Francavilla. Nel grande salone sono i sette arazzi fiamminghi (sec. XVI) con episodî della battaglia di Pavia. Vi sono ancora la collezione dei piccoli bronzi e quella delle terrecotte figurate. Il Museo possiede infine raccolte di maioliche, vetri, metalli preziosi, gemme, monete, medaglie, armi, vasi arcaici, italici e campani, la collezione cumana, ecc.

Il Museo di Capodimonte. Nella reggia eretta dall'architetto G. A. Medrano (1738-59) e terminata soltanto negli anni 1834-39, che già ai tempi di Carlo di Borbone era stata destinata al Museo Borbonico, furono nel sec. XIX riunite una raccolta di pitture napoletane e romane dell'Ottocento, un'altra di armi, e una terza di porcellane della fabbrica fondata dallo stesso re nel bosco intorno a quella reggia nel 1739.

Nella certosa eretta da Carlo d'Angiò duca di Calabria (1325), rifatta in elegante stile barocco dal Dosio, dal Di Conforto e dal Fanzago (1580-1623), è stato, dopo l'espulsione dei monaci, istituito un museo di artl e di curiosità napoletane (il Museo di S. Martino). Oltre alla chiesa, con dipinti fra i più belli della scuola napoletana del Seicento, vi sono marmi, quadri, vedute e stampe di Napoli, costumi, maioliche, un ricco presepe, ritratti di principi, d'illustri Napoletani, e alcune collezioni private.

Nella villa costruita da A. Niccolini (1807) e donata da Ferdinando I alla duchessa di Floridia, sua moglie morganatica (1817) è stata testé allogata la collezione (il Museo della Flo idiana) donata alla città di Napoli dal duca di Martina, ricca di ceramiche, di porcellane di Cina, di Sassonia, di Sèvres e di Capodimonte, di bronzi, di smalti, di vetri, di avorî, di mobili antichi e di oggetti vari.

Nel palazzo costruito da architetti fiorentini per Angelo Como (1464-1490) ebbe sede nel 1887 la collezione donata alla città di Napoli dal principe di Satriano, Gaetano Filangieri (il Museo Filangieri). Ivi sono raccolte di porcellane di Capodimonte, di Sèvres, di Sassonia, di maioliche d'Abruzzo, di armi, di quadri, di oggetti varî e una piccola biblioteca.

V. tavv. XXV-XLIV.

La provincia di Napoli.

Delle quattro provincie della Campania quella di Napoli è, se non la più estesa, certo la più importante sotto ogni aspetto. Essa è, e più era prima del 1927, la provincia del Golfo a cui tende e da cui si dirama la vita economica di buona parte dell'Italia meridionale. Prima comprendeva, oltre alla parte nord-occidentale della Penisola Sorrentina, la Regione Vesuviana e i Campi Flegrei - rilievi che chiudono, come in una magnifica cornice, il Golfo di Napoli - insieme coi due piani del Sarno e del Sebeto, che digradano anch'essi nell'interno del Golfo. Soppressa, col r. decr. del 2 gennaio 1927, la provincia di Caserta, il confine di quella di Napoli, che andava poc'oltre la linea in cui le ultime ondulazioni dei Campi Flegrei si confondono a N. con la pianura, fu portato al Garigliano e al di là dei monti che chiudono da settentrione il bassopiano del Volturno e del Clanio (Regi Lagni), comprendendo così tutta la Terra di Lavoro; e per di più il territorio si estese nei piani di E. e NE. sino ai fianchi del rilievo interno. In tal modo la provincia non solo abbraccia il territorio della più antica Campania, ma ai margini di questo raggiunge quote prima non toccate: raggiunge cioè e supera i 1000 m. ora non solo sui M. Lattari, col S. Angelo a Tre Pizzi (m. 1443) e sul Vesuvio (1186), ma anche sul cono vulcanico di Roccamonfina col M. S. Croce (1005) e, verso il confine settentrionale, col M. Maggiore (1037). E presso il confine di essa sono ora i valichi e i solchi naturali per i quali è in più facile e diretta comunicazione coi centri della regione interna.

La superficie agraria e forestale, che è circa il 94% del territorio provinciale, è così distribuita in cifre tonde: il 5% in montagna, il 37% in collina e il 58% in pianura; la quale quindi prevale nelle colture e nei prodotti. Pur non considerando gl'incolti produttivi (2,98%), si rileva (catasto agrario aggiornato al 1930) che i seminativi semplici e arborati rappresentano il 56,97% di quella superficie; i prati, i prati-pascoli e i pascoli permanenti il 9,81%; e sono in prevalenza nel territorio aggiunto nel 1927; mentre i boschi e i castagneti (12,47%), i vigneti (8,01%), tra cui celebri quelli della collina di Posillipo e della zona vesuviana, gli uliveti (4,71%), i frutteti (3,01%), gli orti irrigui (0,98%), gli agrumeti (0,59%) e i nocelleti (0,47%), colture che in gran parte presuppongono una popolazione più densa, sono prevalentemente nel vecchio territorio, più vicino al Golfo. Sono pertanto prodotti peculiari della provincia, coi latticinî, il grano e il granturco, il vino, l'olio, la canapa, il lino, le castagne, gli agrumi, le frutta, gli ortaggi, i legumi; a cui si accompagnano alcune industrie tipiche, come quelle delle conserve e delle paste alimentari.

Quando la provincia di Napoli si estendeva per poco più di 900 kmq., con circa un milione e mezzo di abitanti, aveva una densità di 1617, e ciò le dava il primo posto tra le provincie italiane. Ora essa, nella superficie più larga di kmq. 3123,40, ha una popolazione presente di 2.084.960 ab. e quindi una densità di 668; densità che cresce con l'avvicinarsi al Golfo di Napoli. Questa popolazione è divisa in 137 comuni; ma è molto inegualmente distribuita. Accanto a Napoli, che, coi centri a essa strettamente legati sul Golfo, comprende più di metà della popolazione della provincia, si hanno ben 114 comuni che contano da meno di 1000 a 15.000 ab. E nella pianura, e particolarmente in quella più vicina a Napoli, si addensa la massima parte della popolazione con 72 comuni: molti sono anche in collina (54), ma 11 soltanto in montagna. Le migliorate condizioni igieniche, con la bonifica integrale là dove prima dominava la malaria, hanno reso più sensibile il fenomeno della prevalenza agricola e demografica della pianura sulla collina e sulla montagna. Il censimento del 1931 dà come addetti all'agricoltura (con la caccia) 214.724 ab. della provincia, cioè il 13,6% della popolazione, mentre il 14% appare addetto alle varie industrie, per le quali questa provincia supera le altre non solo della regione, ma di tutto il Mezzogiorno. E più che altrove, nello stesso Mezzogiorno, ora, come nel passato, appare qui diffusa l'istruzione tra le classi lavoratrici. L'ultimo censimento assegna infatti a questa provincia il 27% di analfabeti, con notevole progresso sulla percentuale del 1921 (31%).