NARRATORI ITALIANI E SCRITTURA DELL'ESTREMO

XXI Secolo (2009)

Narratori italiani e scrittura dell’estremo

Daniele Giglioli

Letteratura e realtà: un rapporto in crisi

Che cos’è la scrittura dell’estremo? Non uno stile, non un genere, non una poetica, non una scuola o un gruppo letterario. Piuttosto un’aria di famiglia, un repertorio di atteggiamenti – più che di idee o di soluzioni espressive – che accomuna una serie di scrittori emersi in Italia tra l’ultimo decennio del Novecento e il primo del 21° secolo. Elenchiamone alcuni nel solo ordine possibile: Eraldo Affinati, Niccolò Ammaniti, Silvia Ballestra, Alessandro Bertante, Gianni Biondillo, Massimo Carlotto, Mauro Covacich, Giancarlo De Cataldo, Diego De Silva, Valerio Evangelisti, Antonio Franchini, Giuseppe Genna, Helena Janeczek, Antonio Moresco, Aldo Nove, Tommaso Ottonieri, Tommaso Pincio, Laura Pugno, Isabella Santacroce, Roberto Saviano, Tiziano Scarpa, Antonio Scurati, Walter Siti, Emanuele Trevi, Simona Vinci, Wu Ming e così via. Una serie evidentemente eteroclita, diversissimi come sono tra loro per estrazione culturale, riferimenti ideologici, universi stilistici. Ma la scrittura, ha detto una volta Roland Barthes, non va confusa con la lingua né con lo stile. Se la lingua è l’orizzonte comune e intrascendibile di una collettività umana, e lo stile è l’espressione per così dire biologica di un’individualità irrelata, prodotto di un impulso e non di un’intenzione, la scrittura è piuttosto il risultato di una presa di posizione, è il luogo di un impegno e di una libertà, è «la scelta di un comportamento umano, l’affermazione di un Bene determinato» (R. Barthes, Le degré zéro de l’écriture, 1953; trad. it. 1982, p. 12). Lingua e stile, scrive Barthes, sono «due forze cieche; la scrittura è un atto di solidarietà storica» che lega la parola dello scrittore «alla vasta Storia degli altri» (p. 12).

Quanto dire che una scrittura può essere definita solo dall’esterno di sé stessa, solo dal suo rapporto con ciò che la eccede: un mondo comune rispetto al quale prendere posizione, assumere un contegno, disciplinare una mimica. Chiunque può entrarci e nessuno la esaurisce. Una lingua si parla, uno stile si manifesta, una scrittura si adotta o si abbandona – ma finché ci si sta dentro la si scrive ma anche se ne è scritti, circoscritti, identificati come da un patto che si è scelto di sottoscrivere. Barthes faceva l’esempio della scrittura classica, di quella naturalistica, o di quella sua contemporanea che battezzava di «grado zero». Partendo da questa premessa formuliamo dunque l’ipotesi che l’ultimo ventennio di narrativa italiana ci abbia posto in presenza di un fenomeno cui assegneremo il nome generico di scrittura dell’estremo.

L’estremo non è un repertorio tematico, per es. la violenza, il sangue, l’abiezione, attraverso cui può manifestarsi ma in cui non si risolve. Né un’opzione preferenziale per soluzioni stilistiche di oltranza espressiva (anche se non tutte le forme e i generi ne sono stati ugualmente investiti, come vedremo). E non è nemmeno un archivio di enunciati ideologici, che lo nominano ma non lo circoscrivono, e ne sono determinati più di quanto lo determinino. È piuttosto un movimento, una tensione verso qualcosa che eccede costitutivamente i limiti della rappresentazione. Non perché sia un’alterità incommensurabile (come il selvaggio del racconto d’avventura, il mostro della letteratura fantastica, l’alieno della fantascienza), ma perché è sottoposto all’ingiunzione contraddittoria di essere insieme presente e inafferrabile. Non è fuori, è dentro. Non è altrove, è qui, onnipresente eppure impossibile da dire. Proprio perché assolutamente reale, non si presta a entrare nel gioco differenziale che presiede all’ordinato scambio dei segni. Ma proprio perché non ha segni che lo indichino, genera senza sosta non silenzio ma discorso, immaginazione, scrittura. Più che come un aggettivo che designa una qualità, va inteso come un performativo, come il nome di un’operazione, come la traccia scritta di un’azione.

Da cosa nasce questa tensione? Da un disagio, da una sofferenza, da una crisi – non cominciata oggi, d’altra parte – dei rapporti tra la letteratura e la realtà. Molti ostacoli si frappongono a questo matrimonio: il lutto mai seriamente elaborato dell’autoreferenzialità modernista e avanguardistica, secondo cui l’opera è un messaggio che indica in primo luogo sé stesso; l’indebolimento delle barriere tra realtà e finzione che sta dietro a molte delle poetiche postmoderne, con il suo corredo di pastiches, citazioni, ibridazioni, intertestualità forsennate, dissoluzione del soggetto, perdita di profondità; e più in generale quella mescolanza di scetticismo e di nichilismo epistemologico che è il minimo comune denominatore del senso comune nella società dello spettacolo, dei simulacri e della totale requisizione dell’immagine del mondo a opera dei mass media. Mai, come in quella che A. Scurati (n.1969) ha chiamato efficacemente l’età della compiuta inesperienza (La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione, 2006), la realtà si dissolve tra le dita di chiunque voglia raccontarla, stretta com’è tra la Scilla del prospettivismo (a ciascuno la sua realtà) e la Cariddi del cliché, del luogo comune e della ripetizione.

Certo la crisi dell’esperienza non è una novità di fine millennio, se è vero che la paternità del concetto si deve a Walter Benjamin. Il Novecento l’ha chiamata in molti modi: disincanto, meccanizzazione, povertà di spirito, inautenticità, malafede, falsa coscienza, reificazione, alienazione, simulacro, spettacolo, irrealtà. Ma ciò che per le generazioni novecentesche era stato possibilità, rischio, timore, è diventato per quelle operanti oggi norma, habitus, altra natura, condizione trascendentale di ogni attività pratica e simbolica. È il nostro ambiente, è la lingua da cui siamo parlati prima ancora di essere in grado di parlarne.

Di qui l’esigenza manifestata da molti autori di individuare un supplemento, un surplus, una fessura che permetta di squarciare quel velo di Maia della rappresentazione in cui modernismo e postmodernismo, sia pure con modalità diverse, avevano accettato tragicamente o euforicamente di rinchiudersi. Se il mondo vero è diventato favola, se la realtà coincide sempre più con la sua rappresentazione, allora è necessario trovare un punto di fuga che la trascenda pur restandole perfettamente complanare. Quel punto di mira, quel fondamentale centro di collimazione, facendo tesoro di una distinzione di Jacques Lacan, potremmo chiamarlo il reale.

A differenza della realtà, scrive infatti Lacan (v. in particolare Le séminaire de Jacques Lacan. Livre 7. L’éthique de la psychanalyse, 1959-1960, 1986; trad. it. 2008), il reale è ciò che resiste cocciutamente a ogni tentativo di simbolizzazione, è un buco nell’ordine simbolico, è la «cosa» inevitabilmente perduta, muta, ottusa, liscia, impredicabile, è l’incontro che non si può non mancare, è il luogo in cui il linguaggio, quel linguaggio che struttura la realtà per come possiamo conoscerla, finisce, viene meno, perde i suoi poteri. Il reale ha la natura dell’evento, non del senso, o meglio dell’evento senza senso, e dunque traumatico, in quanto non può essere elaborato, simbolizzato, reso nominabile. Un trauma, questo è il punto, che non necessariamente dev’essere accaduto davvero. «Nella cultura popolare come nel mondo accademico», ha scritto il critico d’arte statunitense Hal Foster, «il concetto di ‘trauma’ scorre liberamente come un significante generico nell’organizzazione della soggettività e della storia stessa. Oggi, alcuni tra gli scrittori e i registi più provocatori concepiscono l’esperienza secondo questa modalità paradossale, ossia come esperienza non vissuta, almeno non puntualmente, perché arriva troppo presto o troppo tardi per essere registrata consapevolmente, e dunque può essere solo ripetuta compulsivamente o rimessa insieme dopo che il fatto è accaduto» (Design & crime, 2002; trad. it. 2003, p. 124).

Ora, è precisamente questo che distingue una simile modalità di trauma dallo shock che presiedeva a molte delle poetiche moderniste da Baudelaire a Beckett. La modernità letteraria si è nutrita di un trauma effettivo – industrializzazione, inurbamento, secolarizzazione, modernizzazione tecnologica, guerre mondiali, armi di distruzione di massa. Il nostro è un trauma fantasmatico, mai avvenuto, un trauma dell’assenza di trauma. La condizione normale di chi vive in una società opulenta, dove la violenza, la miseria, la guerra sono state respinte ai margini del ‘nostro’ mondo, è proprio quella della sindrome della vittima da shock post-traumatico senza che si sia verificato alcun trauma, ma soltanto la sua continua convocazione immaginaria nel linguaggio prima ancora che nei contenuti dei mezzi di comunicazione di massa. La televisione è stata il nostro Vietnam. Il suo bombardamento è un bombardamento di immagini che non generano esperienza ma la rendono impossibile. La scrittura dell’estremo è il tentativo di rimotivare a posteriori un trauma che non è mai accaduto.

Qui si giustifica la sua predilezione per la violenza, per il sangue, per la morte; per il complotto, per il segreto, per la paranoia; per quella modalità di indistinzione tra soggetto e oggetto che Julia Kristeva ha chiamato abiezione (Pouvoirs de l’horreur. Essai sur l’abjection, 1980, trad. it. 1981; cfr. anche C. Talon-Hugon, Goût et dégoût. L’art peut-il tout montrer?, 2003); per quella ricerca, spesso, non più del brutto o del grottesco ma del disgusto, ovvero di quella tonalità affettiva che secondo Kant non può in alcun modo diventare oggetto di contemplazione estetica disinteressata, in quanto non permette di essere percepita come finzione e di essere appresa solo per le sue qualità aspettuali. Il morto, il folle, il cannibale (che dà il titolo a una fortunata antologia di giovani narratori, Gioventù cannibale, uscita nel 1996), il disgustoso, l’abietto, divenuti oggetti di rappresentazione, rispondono a un’istanza di realismo in quanto tentano di generare la stessa reazione che scaturirebbe dalla cosa rappresentata. Se la generazione di scrittori che è fiorita negli anni Ottanta deve molto al nuovo cinema tedesco (Wim Wenders, Edgar Reitz), al minimalismo americano dei Raymond Carver e dei David Leavitt, al recupero di certi scrittori ‘laterali’ della tradizione italiana come Giovanni Comisso, Silvio D’Arzo, Antonio Delfini, gli ispiratori di molta letteratura italiana degli anni Novanta e degli inizi del 21° sec. sono stati autori come il James Ellroy di American tabloid (1995; trad. it. 1996) e il Bret Easton Ellis di American psycho (1991; trad. it. 1991). Censendo fenomeni analoghi nel campo dell’arte contemporanea (body art, posthuman, sperimentazioni cyborg), Mario Perniola ha parlato di un ‘realismo psicotico’ (L’arte e la sua ombra, 2000). Il segno aspira allo statuto della cosa, la rappresentazione è combattuta con le sue stesse armi, il ‘dentro’ delle cose viene estratto come si eviscera un cadavere per essere esposto alla luce autoptica del ‘fuori’. La crudeltà è garanzia di autenticità, l’eccesso include la norma, la verità non è sotto la pelle ma è la pelle nel momento in cui viene strappata.

Tuttavia, non è così facile sottrarsi alla presa degli stereotipi – bestia nera delle poetiche moderne che il postmodernismo ha tentato di addomesticare con i suoi incorniciamenti parergonali, ironici, metadiscorsivi. Proprio perché indicibile, il reale è fuori dalla lingua, e tutto ciò di cui dispongono questi scrittori è al contrario la sterminata distesa di immagini, forme, topoi, cliché, che costituisce l’ossatura morfologica da cui è preformata – e pregiudicata – la rappresentazione della realtà in cui viviamo. Quella attuale è forse la prima generazione di scrittori che si affaccia sulla scena della lingua in un contesto definitivamente italofono, senza più la necessità di quelle tanto faticose quanto creative negoziazioni con il dialetto che da Giovanni Verga a Beppe Fenoglio hanno sempre dovuto intraprendere gli autori italiani. Con il paradosso, però, che l’italiano è divenuto finalmente una lingua standard, parlata e scritta dalla maggioranza degli italiani, nel momento in cui l’immaginario nazionale si è fatto sempre più globalizzato e sempre meno specificamente italiano, subalterno com’è a quello che l’antropologo Arjun Appadurai ha chiamato un mediascape internazionale, a dominante visiva e fortemente egemonizzato dalla pop culture americana. A rigore, un immaginario italiano non esiste più. Né ha senso più di tanto il perseguimento di una psicologia individuale raffinata e idiosincratica, manifestata da quella che Proust chiamava «la grande architettura inconscia dello stile», opzione principe della grande narrativa del Novecento. Il profondo e la superficie coincidono asintoticamente, i moti passionali sono sempre più standardizzati, l’identità è un intreccio tipico, la finzione sociale attraversa il costituirsi di qualunque singolarità.

A partire da questo scenario, la scrittura che chiamiamo dell’estremo (e che non coincide, ribadiamolo, con l’intero arco della letteratura italiana contemporanea) ha battuto due sentieri diversi, per molti tratti opposti, anche se talvolta, come vedremo, destinati a intersecarsi. Da una parte quell’accettazione piena e frontale della finzionalità dell’esperienza che presiede alla scelta, compiuta da molti autori, di recuperare apertamente le modalità della letteratura cosiddetta di genere. Dall’altra, quella galassia di scritture confusamente designate dalla categoria negativa di non fiction, che include e spesso mescola forme come il memoir, l’autofinzione, il reportage, la saggistica a dominante narrativa.

L’estremo e la letteratura di genere

Cominciamo dal genere. La sua fortuna si deve non solo al fatto che da sempre, come insegnavano i formalisti russi, quando le strade principali sono sbarrate le poetiche vanno alla ricerca di un terreno di minor resistenza. Né è sufficiente dire che il genere, con la sua sintassi narrativa fortemente normativa e prevedibile, rappresenta agli occhi degli editori e del pubblico una garanzia di maggior leggibilità (e vendibilità). Determinante è soprattutto il fatto che in determinati generi (il giallo, il noir, il thriller, l’horror, la fantascienza, la fantapolitica, il romanzo storico) l’estremo è un ingrediente obbligato, l’eccezionalità è di casa, il quotidiano è inservibile. Alimento primo della narrazione di genere è costitutivamente ‘ciò che autore e lettore non hanno visto, fatto e vissuto’: i giallisti non sono detective, gli autori di Science fiction (SF) non hanno visitato altri pianeti, nel Medioevo o nel Risorgimento gli scrittori di romanzi storici non c’erano, e nemmeno i loro lettori. Che poi molti sottopongano i loro testi a un sovrainvestimento allegorico che aspira a conferire un significato generale, latamente politico (alla Dick, alla Gibson, alla Ballard), alle loro finzioni, è un fatto che non va ignorato ma nemmeno sopravvalutato. Non è mai l’allegoria l’esca principale della fabulazione narrativa. Non è questo in primo luogo che i lettori le chiedono.

Provengono dal giallo o dal noir (una distinzione più tonale che tematica) autori come Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli, Giancarlo De Cataldo, Girolamo De Michele, Giuseppe Genna. Sono invece di chiara provenienza hard boiled i romanzi di Niccolò Ammaniti (n.1966), che vi ha sacrificato un genuino e rarissimo talento comico, evidente in un libro d’esordio come Branchie (1994). Dalla fantascienza classica, di cui è un maestro riconosciuto, prendono avvio i cicli narrativi di Valerio Evangelisti (n. 1952). Il romanzo storico ha conosciuto negli ultimi anni esiti importanti grazie al lavoro di autori come il collettivo Wu Ming (ex Luther Blissett) o A. Scurati. Ma romanzi storici hanno scritto anche Camilleri, Evangelisti, Lucarelli e Genna, mentre Scurati ha ottenuto finora il suo maggior successo con un libro come Il sopravvissuto (2005), dove un fatto di cronaca nera diventa lo spunto per una sofferta interrogazione autobiografica. Gli stessi autori attraversano più generi e, per così dire, anche i loro testi.

Non si tratta della fin troppo menzionata ibridazione o mescolanza (un po’ di fantascienza e un po’ di satira sociale, tre quarti di romanzo storico e un quarto di noir; semplificazioni utili in sede giornalistica, ma di poco momento). È in atto piuttosto un tentativo, sempre più consapevole e spesso esplicitamente teorizzato, di forzare il genere a essere ‘in quanto tale’, e non caso per caso a seconda delle riuscite individuali, qualcosa di diverso da sé stesso, costringendolo a testimoniare, più che a rappresentare, uno spettro di possibilità più ampie di quelle che presiedono alla sua genesi. Nei suoi esiti più riusciti, la scrittura di questi autori mette capo a una vera e propria ‘perversione’ del genere, che non passa più attraverso il sovvertimento delle sue regole formali e del suo statuto epistemologico (come, per es., hanno fatto con il giallo autori novecenteschi quali Carlo Emilio Gadda, Leonardo Sciascia, Friedrich Dürrenmatt e Alain Robbe-Grillet). Le norme sono rispettate, il lettore ha ciò che si aspetta, le sue capacità mnemoniche e previsionali non vengono sollecitate all’eccesso. Ma l’approdo non è né il trionfo della ratio del giallo classico, né il disorientamento labirintico promosso dal suo riuso modernista (intrecci che non si chiudono, detective più filosofi che sbirri, voyeurs accecati dalla loro stessa capacità di visione). La partita si gioca su un altro piano.

Scrittori come Genna, Lucarelli, De Cataldo, De Michele aspirano, per es., attraverso i loro noir, a scrivere una controstoria dell’Italia contemporanea. Una storia criminale, va da sé, ma ciò che più conta segreta, occultata, depistata: le cose non sono come sembrano, da qualche parte c’è qualcuno che tira le fila, un grande vecchio, una centrale nascosta. Più che ai romanzi di Thomas Pynchon e Don DeLillo, dove la facoltà di iniziativa del singolo viene resa imponderabile dal suo dissolversi nell’entropia di una complessità sociale che non permette alcuna sintesi, è alle affabulazioni paranoiche di Philip Dick che un’opzione narrativa come questa si rifà. La centrale occulta esiste sul serio. Esiste da qualche parte qualcuno che sa, può, agisce e decide: solo, non siamo noi. Ecco perché non contiamo nulla, non sappiamo nulla, non possiamo nulla. L’onniscienza del narratore e l’onnipotenza del personaggio sono il pendant dell’impotenza del lettore. Un lettore cui peraltro non viene offerto più, come nel romanzo popolare tradizionale alla Sue o alla Dumas, la possibilità di consolarsi identificandosi in qualche superomistico vendicatore più o meno mascherato. La realtà è conoscibile nella misura in cui la si mostra inoperabile, inagibile, estraniata. Al posto della realtà, campeggia davanti allo sguardo del soggetto un reale intangibile, irrappresentabile, alla lettera impossibile, al cui fantasma si può dare forma solo facendo ricorso al registro dell’immaginario più sfrenato e irresponsabile, alla finzionalità più inverificabile, fino a postulare un universo alternativo esente da ogni controllo intersoggettivo e governato solo dalle regole della sua coerenza interna – il complotto in cui tutto torna, la stanza dei bottoni dove tutto si sa e tutto si decide, e dove il narratore onnisciente, già proscritto da quasi tutte le poetiche novecentesche e ora invece reintegrato nella pienezza delle sue prerogative, penetra facilmente come e quando vuole.

Scelte linguistiche e narrative

Da questo centro, insieme vuoto e troppo pieno, si diparte un fascio di soluzioni linguistiche, stilistiche e narrative che ci permettono, al di là delle differenze tra gli autori, di delineare la grammatica comune che presiede a questo versante della scrittura dell’estremo. In primo luogo, come abbiamo visto, la narrazione onnisciente, i cui privilegi si estendono generosamente anche ai testi in cui domina invece il regime della prima persona, dove al protagonista – quasi mai al testimone – viene data ampia facoltà di commento, interpolazione, manipolazione della durata temporale attraverso il ricorso frequente a flashback, anticipazioni, sommari e passaggi di raccordo. Che si esprima in terza o in prima persona, chi parla è uno che la sa lunga. La focalizzazione ristretta, dove c’è, non costituisce mai una costrizione vincolante, ma piuttosto un surplus di autorevolezza, una garanzia di presenza sul luogo della scena. E anche il discorso dei personaggi ‘importanti’ è spesso portatore di un sapere esibito, che si comunica al lettore attraverso la rivelazione, lo svelamento di un segreto, cui si ha accesso più per condivisione iniziatica che per iniziativa investigativa (questa serve solo in genere a mostrarsi degni di essere ammessi a partecipare al mistero). «Presto ci saranno cambiamenti. Li sfrutti. Lei sarà la variante impazzita. Non dia giustificazioni a nessuno, se ne freghi di tutto e di tutti. Ci saranno cambiamenti, poi tutto tornerà come prima. Peggio di prima. La porca umanità non cambia mai» (G. De Cataldo, Romanzo criminale, 2002, p. 592). Una rivelazione cui spesso si aggiunge il corollario della generalizzazione, della massima, della sentenza condensata per lo più in una formula icastica: «Lei ritiene che tutto sia bianco o nero. Non è così. In ogni momento l’orizzonte con cui abbiamo a che fare muta. È come vivere sul nostro pianeta: a lei sembra che la terra sia stabile, i sismologi si accorgono invece che i continenti si allontanano e si avvicinano. Noi siamo sismologi» (G. Genna, Nel nome di Ishmael, 2001, p. 422). «Aveva qualcosa di terrificante nello sguardo: l’innocenza. […] Quella che ti può portare a essere e fare qualsiasi cosa, a commettere il crimine più efferato come se fosse l’azione più insulsa del mondo» (Luther Blissett, ora Wu Ming, Q, 1999, p. 234).

Ma l’aspirazione della frase alla perentorietà della formula non si limita ai momenti in cui è in ballo una rivelazione, e si trasmette per contagio all’intera sostanza linguistica del testo, che si tratti di una battuta di dialogo, della constatazione di un evento o della messa in scena di una reazione affettiva. Di qui il prevalere di un periodare breve, sincopato, intervallato da frequenti a capo che ne isolano la dizione, a dominante paratattica, in cui la giustapposizione prevale sul coordinamento dei membri. «Poi decide che ha altro da fare, invece di star dietro ai soliloqui d’un vecchio prete. // Saluta. Scavalca il ramo fradicio d’acqua. // (– Attenzione a non inciampare – dice il parroco guardando il ramo). // Tempo da funghi. // E dire che qualcuno ci va in giro in moto, con questo fango» (G. De Michele, La visione del cieco, 2008, p. 71). «Mi sono svegliato perché mi scappava la pipì. Mio padre era tornato. Ho sentito la sua voce in cucina. // C’era gente. Discutevano, si interrompevano, si insultavano. Papà era molto arrabbiato. // Quella sera eravamo andati a dormire subito dopo cena» (N. Ammaniti, Io non ho paura, 2001, ed. 2003, p. 86).

Analoga motivazione ha il frequente impiego dell’anafora (C. Lucarelli, Almost blue, 1997, p. 44: «Quell’istinto cocciuto e un po’ animalesco, aveva detto Vittorio. // Quell’istinto»), dell’epanortosi (G. Genna, Nel nome di Ishmael, 2001, p. 189: «Era pazzesco. Assolutamente pazzesco»), dell’epanalessi (M. Galiazzo, Cose che io non so, in Gioventù cannibale, 1996, p. 121: «Anche noi due ci sposeremo, José, tu e io, ci sposeremo appena sarai qua»), dell’enumerazione (N. Vallorani, Snuff movie, nella raccolta Tutti i denti del mostro sono perfetti, 1997, p. 160: «Un catalogo di orrori assortiti, predicatori di menzogne, politici stupratori, signore rifatte, omologhi erotici e synthafreak a quintali»). Mentre rarissime sono le figure di discorso o di pensiero come la correctio, la litote, il paradosso e l’ironia, le quali tendono di per sé stesse a generare una ‘detumescenza’ della frase, sottraendole assolutezza e, nello stesso tempo, indicandone il necessario compimento sullo sfondo di un diverso piano semantico, presente o alluso che sia. A realtà irrelata corrisponde periodo irrelato. A reale assoluto, frase assoluta.

Quella della scrittura dell’estremo, nella sua variante di genere, è necessariamente una geometria piana, bidimensionale. L’ambiguità è bandita, la nuance proscritta, come nella sintassi così nel lessico, che se compie ampie escursioni nei socioletti specialistici (legale, politico, anatomopatologico), è singolarmente ristretto e ripetitivo per quanto riguarda la sua copertura della zona per così dire centrale dell’esperienza quotidiana (dati sensoriali, indicazioni topografiche, eventi atmosferici, caratteristiche fisiche dei personaggi). A questo rimedia sul piano quantitativo un uso abbastanza sbrigliato della comparazione analogica – più la similitudine che la metafora, troppo attinente al regime del non immediatamente predicabile – che non mette però mai capo a una ramificazione estesa e coerente. Le immagini emergono e si risommergono di volta in volta secondo necessità, si succedono ma non si sommano, non scavalcano quasi mai la misura della frase, non riaffiorano se non in casi di esibito e macroscopico investimento allegorico (l’agnello come vittima che ossessiona uno dei protagonisti di Romanzo criminale di De Cataldo), non si agglutinano in campi semantici privilegiati, ricorrenti, riconoscibili, riconducibili a quelli che la psicocritica chiamerebbe un mito personale. Sono strumenti, attrezzi, espedienti funzionali. Li si adopera e poi li si mette via, senza effetti di eco, senza simmetrie, senza rispondenze paradigmatiche esplicite o coperte. Ogni frase deve cavarsela da sola. Importante è che il lettore non si perda, non si distragga dalla storia, non distolga il suo sguardo dal reale per concentrarsi sulla forma del messaggio.

Stesso discorso per quanto riguarda l’idioletto dei personaggi, anch’esso fortemente tipizzato. Le alternative non sono molte. O si ricorre a un italiano standard, decisamente monologico, incrementato dai segni distintivi del discorso di genere, come le esclamazioni, il turpiloquio, le interrogative retoriche, della serie: sai qual è il tuo problema? O si procede a una stilizzazione che tende più al grottesco – in regime, direbbe Erich Auerbach, di separazione degli stili – che al realistico: inserti dialettali, gergo, slang, solecismi, anacoluti. «Così… Non lo so, tipo che le cose mi arrivano da tutte le parti, hai presente quando te le tirano fuori e tu fai da bersaglio: che dovresti uscire di casa con quelle magliette col cerchio e il pallino e su scritto ‘target’, che tanto… cioè, non puoi controllarle tutte, una sì, forse due, ma quando ti piovono addosso non ce la fai» (G. De Michele, La visione del cieco, 2008, p. 226). Una soluzione, quest’ultima, che difficilmente è in grado di supportare un lungo segmento di discorso, restando quindi per lo più una macchia di colore locale, una curiosità etnografica, una semplice menzione, in fondo analoga al prelievo spesso letterale e non rielaborato che narratore e personaggi operano dal lessico dei linguaggi specialistici (si vedano, per es., i lunghi inserti del discorso degli ‘esperti’, il medico, lo psichiatra, il poliziotto, il giudice, l’ispettore scolastico, che intercalano il racconto del Sopravvissuto di A. Scurati). A meno che non si decida di impostare l’intera tessitura testuale sulla stilizzazione dell’oralità degradata, come spesso accade però, più che negli scrittori di genere, in autori quali Silvia Ballestra (n.1969) in La guerra degli Antò (1992), o Aldo Nove (pseudonimo di Antonello Satta Centanin, n. 1967) in Woobinda e altre storie senza lieto fine (1996), con il suo riuscito tentativo di trarre effetti di comicità demenziale dalla parlata (e dalla vita) degli abitanti della ‘città infinita’ del Nordest, costellata di villette e capannoni e ingentilita soltanto dal profilo sgargiante degli ipermercati: «Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure & Vegetal. // Mia madre diceva che quel bagnoschiuma idrata la pelle ma io uso Vidal e voglio che in casa tutti usino Vidal. // Perché ricordo che fin da piccolo la pubblicità del bagnoschiuma Vidal mi piaceva molto. // Stavo a letto e guardavo correre quel cavallo. // Quel cavallo era la libertà. // Volevo che tutti fossero liberi. // Volevo che tutti comprassero Vidal» (p. 11).

Nessuna mescolanza degli stili, nessuna rappresentazione seria della vita quotidiana (cfr. E. Auerbach, Mimesis: dargestellte Wirklichkeit in der abend;ländischen Literatur, 1946; trad. it. 1956); il basso è basso e deve essere trattato, nominato e rappresentato come tale. E nel basso si deve anzi classificare la maggior parte dell’esperienza quotidiana: scenari urbani, odori, atmosfere e, soprattutto, quell’enciclopedia del macrocosmo che è il corpo umano. Prolifera qui il particolare sordido, la deformità, il grigiore, lo squallore: difetti, tic, pelli sebose, ventri prominenti, denti gialli, dita macchiate di nicotina, traspirazioni, miasmi, occhi cisposi, aliti pesanti (soprattutto per quanto riguarda il corpo maschile). È come se senza un rincaro di squallore, la realtà quotidiana non risultasse credibile, con un sorprendente effetto di richiamo ai procedimenti descrittivi del naturalismo di Émile Zola. La fisiologia è una maledizione adamica, la creaturalità una continua e segreta tensione al teriomorfo e all’informe.

Che trionfa, ovviamente, nella rappresentazione della morte, del cadavere, del corpo offeso, aperto, martoriato, oscenamente esposto allo sguardo. Non la sofferenza è in scena ma l’immobilità, l’orizzontalità, la decomposizione. A questo, più che al pathos o alla commozione, tende l’estremo. Allora si sente che lo scrittore si rimbocca le maniche: la temperatura emotiva si alza, lo stile s’impenna, la descrizione si trasforma in performance. È quella la cosa reale, il punto di non ritorno, la fine della menzogna organizzata, il grado zero della possibilità, l’entropia ultima, il raffreddamento della necessità di connettere, collegare, interpretare. Caduta del velo, smascheramento dell’inganno, soluzione dell’indovinello: sempre la stessa, da ripetere all’infinito. Anche se resta in vita, non è mai il vivo che prevale sul morto, ma piuttosto, al contrario, è il morto che si impadronisce del vivo, lo condiziona, lo soggioga per il fatto di aver avuto accesso allo statuto di cosa, al carisma dell’insensibile, al sex appeal dell’inorganico.

Un sex appeal di cui i personaggi possono avere un’anticipazione attraverso il godimento di un altro oggetto privilegiato, oltre al cadavere: la merce, la merce dotata di un nome, di un marchio, di un’icona. Come accade spesso nei romanzi di B.E. Ellis, molti autori italiani si compiacciono di menzionare gli oggetti di consumo, evocandoli però, invece che attraverso la descrizione, con il ricorso alla potenza magica del nome. In Isabella Santacroce (n. 1967), per es., l’elencazione dei prodotti di fashion produce a volte un effetto stranamente ipnotico, come un mantra o uno scongiuro che mette direttamente il lettore in presenza della cosa, producendo un cortocircuito tra significante e referente che fa a meno della mediazione del significato. I marchi, d’altronde, sono nomi propri e non descrizioni definite. Non si possono espandere, parafrasare, sostituire: si citano e basta, si possiedono o meno, ci sono e nulla di più. Gli oggetti decadono, i marchi restano, e alludono con la loro fascinazione al paradiso sbarrato – almeno finché l’umano resta tale – della serialità.

Alla stessa serialità aspirano anche i personaggi, quella serialità che gli viene tanto spesso – e vanamente – rimproverata. Perché mai? È il loro punto di forza, la loro ragione di fascino, il principale richiamo affettivo che esercitano sui lettori. Non a caso è tornata in voga la pratica di concepire i propri romanzi come parti di un ciclo formato da una serie di tessere autonome ma fortemente interrelate. Si tratta per lo più, per rifarsi alla nota distinzione di Edward M. Forster (Aspects of the novel, 1927; trad. it. 1991), di personaggi piatti, non a tutto tondo, destinati a non cambiare nel tempo, da riconoscere ma in cui non identificarsi. A questo contribuisce anche la scelta (non il difetto, ancora una volta) di non attribuire loro un’eccessiva complessità: il labirinto è fuori, non dentro, e non c’è tempo da perdere. A caratterizzare il personaggio bastano i tic, le ossessioni, le idiosincrasie, che hanno per il lettore la medesima funzione che il libretto ha per l’ascoltatore dell’opera lirica: un promemoria, una mappa, un belvedere da cui ci si affaccia per ammirare il paesaggio.

Tuttavia, un discorso analogo, a ben guardare, potrebbe essere fatto anche per gli intrecci. Che sono spesso assai complessi, stratificati, gremiti di subplots, condotti su piani temporali sfalsati fino al limite delle due o più storie parallele, ma sostanzialmente conclusi, finiti, aristotelici, dotati cioè di un inizio, di un mezzo e di una fine. Raramente un filo resta sospeso, irrelato, senza nodo. Non ci sono zone di buio, scotomi cognitivi, interrogativi senza risposta. Enigmatico, quando lo è, è semmai il quadro d’assieme, che si genera dall’attrito tra un intreccio compiuto e la sensazione di abbandono e di insensatezza in cui viene lasciata la realtà quotidiana. Il reale è una testa di Medusa: pietrifica chi lo guarda, non concede recuperi a buon mercato, sensi provvisori, morali del come se. L’estremo è un Virgilio infido e traditore che, senza esitazioni, ti pianta in asso all’Inferno.

Unico punto di riferimento possibile, lo abbiamo già detto, i cliché, i luoghi comuni, i saperi condivisi. E più in generale quell’effetto complessivo di ripetizione, di citazione, di rimando, che una narrativa di questo tipo produce sul lettore. Non a caso: se l’investimento sul mondo sensibile e intellegibile è così ridotto da dover essere continuamente implementato dalla tensione verso ciò che ne è fuori, verso il suo limite, la sua negazione, la sua confutazione, per rappresentarlo lo scrittore dovrà necessariamente far ricorso a una serie di imprestiti intertestuali di ogni genere. Di fronte al laconismo e alla ripetitività descrittiva, espressiva e cognitiva di certe scene, sequenze, a volte interi romanzi, si ha come la sensazione che il testo che stiamo leggendo sia esso stesso a sua volta un manichino da rivestire, uno schema da riempire, una serie di punti da congiungere, uno spazio da annerire perché emerga finalmente una figura visibile.

Contaminazioni

Per quanto attiene alla rappresentazione del mondo sensibile (alla sua visibilità, alla sua radianza, al suo possibile splendore), la letteratura di genere è ovviamente tributaria del cinema. Non importa che una scena sia ‘scritta bene’; importa che evochi una serie di scene analoghe già viste in molti film, o in uno solo ma di culto, dove vengono allestite con ben altra larghezza di mezzi, a cominciare dal privilegio di poter mobilitare direttamente le immagini e i suoni. Nulla di più lontano dall’aspirazione modernista all’autonomia e alla chiusura testuale, nonché dall’ambizione di competere, attraverso i propri mezzi specifici, con gli effetti prodotti da altre arti e altri media. Ogni pagina è aperta su un corridoio di episodi analoghi, e vale nella misura in cui sa spingere il lettore a percorrerlo. La scrittura di genere è costitutivamente eteronoma, collaborativa, transmediale. Basti pensare, per es., all’uso invalso di menzionare brani musicali, che oltre a produrre il già citato effetto di realtà svolgono anche la funzione di vera e propria ‘colonna sonora’, segnalatore di atmosfera, generatore di mood. Ma anche il fumetto, il videoclip, la fotografia o il documentario vanno bene, purché famosi, ‘mitici’, già coperti di gloria.

Analogo indebitamento, sul versante intellettuale, conoscitivo, questa letteratura ha contratto, più che con la sociologia e la psicologia in senso stretto, con la patina di sapere sociopsicologico diffuso, generalizzato e generalizzante, conversativo, che informa il senso comune medio-colto. Dietro alle riflessioni di personaggi e narratori si intravede spesso uno sfondo condiviso, una rete di universali sociologici, un ‘come si sa’ da cui il discorso non sembra avere grande ambizione di scartare. La tensione verso l’estremo trova qui il suo contrappeso, la sua garanzia di effabilità. Ad azioni esasperate, riflessioni medie, terreno d’incontro con un pubblico che non è fatto né di analfabeti né di esteti, ma di quello strato di piccola borghesia (ormai planetaria) che alla lettura chiede il più classico dei connubi tra sorpresa e conferma, tra istruzione e intrattenimento. Il divario con le sue possibilità di sapere non deve essere troppo alto, e va comunque colmato con l’ausilio di una continua attività di ragguaglio, di informazione, di documentazione.

Il che potrebbe sembrare un ulteriore punto di contatto – oltre al ritorno alla narrazione onnisciente, al passato remoto e agli intrecci ‘ben fatti’ – con quella narrativa realistica ottocentesca che ha rappresentato per la borghesia europea l’equivalente dei rituali di iniziazione nelle società arcaiche: iniziazione all’esperienza, antropizzazione dell’ecumene, trasformazione della Terra in mondo umano, con funzioni di mathesis, di insegnamento, prima ancora che di mimesis. Ma l’analogia è valida solo fino a un certo punto. Più che di un apprendistato alla realtà, si tratta semmai di un’iniziazione all’immaginario. Con il realismo ottocentesco il borghese, ha scritto Giacomo Debenedetti (Verga e il naturalismo, 1976, ed. 1991, p. 370), faceva «l’inventario del suo nuovo possedimento, il mondo», compiva «le tour du proprietaire» di una società che aveva conquistato sul campo, contro gli aristocratici prima, contro il proletariato poi, e che si trattava ora di conoscere e di governare: il giornalismo letterario o la vita di provincia letti in Honoré de Balzac, le cinture operaie o gli scioperi dei minatori in Émile Zola. Il sapere trasmesso dalla letteratura di genere, per accurato che sia, allude invece a una realtà sfuggente, ingovernabile, egemonizzata non dagli individui o dalla loro associazione ma da una imperscrutabile (ir)razionalità sistemica. Che genera angoscia, e deve essere per questo esorcizzata attraverso il ricorso alla paranoia cospirativa, ultimo rifugio dell’azione responsabile, dell’iniziativa individuale, della natura umana pensata come prassi e non come materiale di risulta, quantità trascurabile, scoria inessenziale.

Non a caso perciò, in questo contraddittorio impulso all’appropriazione dell’inappropriabile, i diversi affluenti della letteratura di genere tendono a confluire tutti nell’alveo del romanzo storico. Vanno cercati lì i suoi risultati migliori, o comunque più maturi e ambiziosi. I romanzi del collettivo Wu Ming, che hanno aperto la strada (Q, 54, Manituana, rispettivamente 1999, 2002, 2007, cui si affiancano quelli scritti dai solisti, come il bellissimo Stella del mattino, 2008, di Wu Ming 4); o quelli di A. Scurati (Il rumore sordo della battaglia, 2002; Una storia romantica, 2007), di Pino Cacucci (n. 1955; In ogni caso nessun rimorso, 1994), di Giuseppe Genna (n. 1969; Hitler, 2008), di Massimo Carlotto (n. 1956; Cristiani di Allah, 2008), di Carlo Lucarelli (n. 1960; L’ottava vibrazione, 2008), dello stesso Evangelisti, che ha sempre disposto i suoi vasti cicli fantascientifici sul fondale di una ricostruzione storiografica estremamente accurata (l’inquisizione medievale, la guerra civile americana, la rivoluzione messicana). Ad accomunarli, l’idea di raccontare la storia come avrebbe potuto – e in certi casi dovuto – essere. Una storia più vera del vero, più universale – perché appresa, Aristotele insegna, nella modalità del mythos, della narrazione coerente, del caso paradigmatico – di quanto la storiografia, con la sua dedizione alla singolarità del fenomeno, sia in grado di narrare. Una storia che attraverso le procedure di verosimiglianza lentamente sedimentate nella vicenda plurisecolare della forma-romanzo – razionalità degli intrecci, connessione delle parti, concordanza degli episodi – sottopone il possibile al montaggio del necessario.

Ma anche una storia, non c’è dubbio, la cui situazione enunciativa è quella di campirsi sullo sfondo dell’impossibile storico, di ciò che non si può sapere, della presa che si può solo mancare, del viaggio che non sarà mai possibile fare. Massima documentazione uguale massima irrealtà. Un paradosso che la tradizione del genere romanzesco, da Don Quijote de la Mancha in poi, conosce fin troppo bene, attraverso cui risarcirsi delle angustie di una realtà, individuale e collettiva, e storica nel senso più pieno del termine, che è andata come è andata. Non come volevamo. Non come nessuno – se non il grande vecchio, che però nei romanzi storici ha minor diritto di cittadinanza – poteva volere. Reintrodurre surrettiziamente, grazie al balsamo della finzione, la volontà umana nel processo storico è l’aspirazione reattiva che soggiace al romanzo storico contemporaneo. Là dove noi non eravamo, è contenuta in effigie l’impossibile possibilità di essere diversi da quello che siamo.

L’estremo e le scritture non fiction

I romanzi storici, diceva Alessandro Manzoni, sono «componimenti misti di storia e invenzione». Ma sarebbe difficile trovare una formula più efficace per definire l’altra branca della letteratura dell’estremo: la vasta galassia della non fiction, nebulosa dai confini incerti e cangianti, com’è inevitabile per un concetto che si definisce attraverso ciò che nega, la letteratura d’invenzione, la finzionalità esibita e socialmente sanzionata del romanzo nelle sue varie incarnazioni. Più difficile, inoltre, rispetto alla produzione di genere, individuare un repertorio di fatti stilistici comuni che la identifichino: per la varietà delle scritture che include (reportage, autobiografia, autofinzione, saggistica narrativa); e per il maggior coefficiente di autorialità che comporta. Il testo di non fiction è un testo in cui per contratto non si può mai prescindere dall’imago, se non dalla figura reale, di chi scrive. Il lettore stipula con lo scrittore un patto che lo impegna a considerare il testo come emesso da una voce reale, e non da un narratore che, anche nel caso in cui sia invisibile e onnisciente, è comunque parte del mondo d’invenzione. Lo stesso patto ingiunge all’autore di fornire ampie garanzie circa la referenzialità, più ancora che della materia di cui parla, della sua relazione con essa. La regola aurea della non fiction recita: io so, io ho visto, io ricordo, io penso, io c’ero; anche in quella perversa e inestricabile commistione di reale e fittizio che è l’autofinzione. Le percezioni sono mie, così come mie sono le idee, ma anche gli eventi, le ragioni, i torti, le vittorie, le sconfitte, e perfino le invenzioni, le menzogne e tutte le falsificazioni.

Ma che valore ha un motto come «Io c’ero» nel mondo della compiuta inesperienza, lì dove a rigore l’unica soluzione onesta sarebbe dire al contrario «io non c’ero, e comunque non importava molto che ci fossi»? Il valore di una scommessa che si può solo perdere, di una promessa che non si può mantenere. Un supplemento di impossibile, di esterno, di estremo, che tenta di supplire alle carenze del possibile, e che è l’altro nome di quel reale costantemente sotteso, alluso – e fallito – che la letteratura di genere tenta di cogliere attraverso la violenza, l’abiezione, il disgusto, la paranoia e il terrore. È intorno a questo centro traumatico che ruotano la maggior parte delle opere che classifichiamo come non fiction: un nodo borromeo tra autentico e inautentico, tra esserci e non essere, nel tentativo di trascinare alla ribalta un mondo e un Io che costitutivamente si sottraggono, pietrificati dalla Medusa dell’oggettività o vittime di quella ‘furia del dileguare’ che, diceva Hegel (Die Phänomenologie des Geistes, 1807), è il retaggio e la maledizione della soggettività irrelata, astratta, priva di qualsiasi tipo di riscontro e senza possibilità di mediazione.

Di questo parlano i racconti-saggio di Antonio Franchini (n. 1958; Quando vi ucciderete maestro?, 1996; Acqua sudore ghiaccio, 1998; Gladiatori, 2005), imperniati sul parallelo tra letteratura e arti marziali o altre discipline del coraggio, a tutto scapito della prima, che per quanto si sforzi non può riuscire a introdurre nella pagina, per usare le parole dello scrittore ed etnologo Michel Leiris (1901-1990), nemmeno «l’ombra del corno di un toro», ed è condannata a restare un esercizio senza conseguenze, senza sanzioni, senza rischi che non siano quelli del fallimento letterario (centrale, in questo senso, un libro come L’abusivo, 2001, dedicato alla figura di Giancarlo Siani, che Franchini aveva conosciuto da giovane, un giornalista ucciso dalla camorra, e cioè qualcuno che ha pagato con la vita quello che ha scritto, che si è fatto carico del peso delle sue parole, che ha guardato in faccia il reale e per questo, a differenza di Franchini, non è potuto tornare indietro a raccontarlo).

Ma di questo parla anche Gomorra (2006) di Roberto Saviano (n. 1979), il quale a tutt’oggi vive sotto scorta per le minacce ricevute dalla camorra rappresentata nel suo libro. La forza di Gomorra non consiste tanto nella perspicacia delle analisi sul ‘Sistema’ economico e sociale oltre che militare della camorra napoletana, capace di gestire come una grande holding il rapporto tra territorio locale ed economia globale – dal gigantesco volume di merci cinesi che transitano per il porto di Napoli al grande business dei rifiuti – producendo insieme PIL e degrado, ricchezza e soprusi, plusvalore e disperazione: i dati erano noti, e la reazione affettiva che suscitano già ampiamente codificata. Né significa molto, ancora una volta, il fatto che Saviano abbia ‘mescolato i generi’ e i toni – la lucidità dell’inchiesta sociologica, il calore della testimonianza personale, lo stile duro di un certo noir. Anche senza citare la tradizione già quarantennale del new journalism alla Tom Wolfe o alla Truman Capote, la mescolanza dei generi è ormai un genere a sua volta. Tuttavia, Saviano non si limita soltanto a questo: molto spesso il suo ‘Io’ ci disturba, ci ricatta, si commuove al posto nostro; ma più spesso ancora ci fa preoccupare per lui. Dopotutto non è andato a visitare una mostra, a fare una crociera, a vedere un’acciaieria dismessa, una fiera o uno qualunque dei luoghi in cui si consuma la nostra inesperienza quotidiana. È andato là dove ‘noi’ non avremmo mai avuto il coraggio di andare. E in tal modo ha messo a rischio la propria vita. La sua esperienza è stata autenticata da ciò che ne costituisce insieme il limite e la sanzione, e cioè la morte.

Sta qui la ragione prima del successo di Gomorra. Saviano ha toccato una corda profonda del nostro vivere associato. Ciò di cui il suo libro parla non è solo e forse non è nemmeno in primo luogo la realtà terribile della camorra, quanto piuttosto il nostro bisogno di esserci e la nostra paura di non esserci; e non solo là dove le cose accadono davvero (lì dove si sceglie, si decide, si rischia e si soffre, nel mondo della ‘vera’ vita sequestrato e restituitoci come spettacolo dall’industria culturale), ma nella nostra vita di ogni giorno, tanto più astratta, informe e inafferrabile quanto più ci si spaccia per concreta. Se riusciamo ad appassionarci al suo ‘Io c’ero’, è perché fa da contraltare al nostro ‘Io non c’ero’. Se il suo libro ci emoziona, è in primo luogo perché dà voce al nostro desiderio di essere sempre frustrato.

Per farlo, Saviano ha dovuto insediarsi nell’unica macchina mitologica ancora in grado di ottemperare a questo compito, e cioè quell’immaginario della vittima che è allo stato attuale dei fatti il più potente generatore di soggettività della coscienza postmoderna: da quando i grandi racconti dell’emancipazione individuale e collettiva sono entrati in crisi, singoli e gruppi, ceti e nazioni, pretendiamo tutti non di avere ma di essere qualcosa in quanto vittime di qualcuno. Solo nella forma cava della condizione di vittima troviamo oggi un’immagine verosimile, anche se rovesciata, della pienezza di essere a cui aspiriamo. Pur cadendo spesso nel vitalismo, Saviano non si propone come eroe, non addita la sua esistenza inimitabile, non dice «io ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginarvi» come il replicante di Blade runner. Se chiede di essere ascoltato è perché, come Don Abbondio, le ha viste lui quelle facce, le ha sentite lui quelle parole. Attraverso la sua paura, e la sua ragione di aver paura, Saviano ci dice chi siamo, e ci conduce più vicino del più nero dei noir a quel groviglio di fragilità e impotenza con cui non sono solo gli abitanti di Scampia o di Secondigliano a dover fare i conti. Un groviglio, per di più, quanto mai concreto, radicato non nell’improbabile altrove della mente deviata di un serial killer, nei complotti delle spie o nelle apocalissi dei terroristi, ma nel cuore stesso del modo di produzione che ci fornisce il cibo che mangiamo e gli abiti che indossiamo.

Se Saviano racconta della terra in cui è nato, Babsi Jones (n. 1968), autrice dell’altro grande esperimento di non fiction di questi anni (il «quasiromanzo» Sappiano le mie parole di sangue, 2007, cui è toccato un immeritato insuccesso tanto quanto Gomorra è stato amato da critica e pubblico, sceneggiato in un film vincitore al Festival di Cannes, nonché tradotto in tutto il mondo), è andata a cercarsi il suo supplemento di esperienza in una guerra non sua, il grande massacro della ex Iugoslavia. Eppure, alla domanda: «ma che guerra combatti, tu», l’autrice non può che rispondere: «la mia». «Che cosa scrivo, finzione o realtà, fiction o fact? Io non lo so. Io non so i nomi dei responsabili, e non li so perché non sono un’intellettuale. Che cosa scrivo? Lettera interminabile da un luogo sganciato da paralleli e meridiani, malore intimo, intimo e prolisso, logorrea tossicologica? Oppure: immaginario, sciocco esercizio di una storica di se stessa che cerca guai senza sapere e cercandoli li trova, ricomponendo eventi risaputi, testimoniati da mille e una agenzia di stampa? Io scrivo fatti, dunque?» (p. 89).

Né l’uno né l’altro, è l’unica risposta possibile, ovvero l’impossibilità di accedere a entrambi, e anche di fonderli, così come si sommano ma non si mescolano il sangue mestruale dell’autrice e il sangue di una vittima dell’eccidio di Mitrovica: «Sono distesa su questo pavimento freddo, avverto la massa di un corpo morto fuori dai muri, in strada. Hanno ucciso qualcuno anche stanotte. Ho udito i colpi. // Non fa rumore, il sangue che cola e scola tra le mie gambe. // Non ho uno straccio per tamponare il mio né il suo» (p. 134). Tra il corpo vivo e il corpo morto si erge un muro che non si può attraversare. Il fatto è avvenuto altrove, là fuori, non qui. Una perdita mestruale in situazioni scomode non è neppure un simbolo ma un surrogato, e l’autrice lo sa.

Che le parole sappiano di sangue (un’immagine presa a prestito da Amleto, santo patrono di tutti gli smarriti in un mondo fuori sesto) non è nemmeno una sinestesia, è un adynaton, una di quelle formule in cui si fondono il carnevalesco dei mondi alla rovescia e la tremenda serietà dei giuramenti: i fiumi risaliranno la corrente e così via. Giuramenti che è possibile mantenere solo per interposto sacrificio, identificazioni impossibili in tragedie vissute per procura, da altri. È questa consapevolezza che separa il «quasiromanzo» di Babsi Jones da una scrittura autobiografica non meno ambiziosa, Lezioni di tenebra (1997) di Helena Janeczek (n. 1964), incentrata sul rapporto tra la scrittrice e sua madre, ebrea polacca sopravvissuta allo sterminio, anello di congiunzione visibile tra l’estremo del male radicale e i tanti manques-à-être che affliggono la vita quotidiana dell’autrice: insicurezza, allarme, ansia, instabilità, incapacità di radicarsi, bulimia, e soprattutto un senso costante di minaccia quando nessuna vera minaccia è all’orizzonte. Non si può sbagliare, perché chi sbaglia muore, recita il monito di verità che pende minaccioso sopra il capo della figlia. Mentre nella realtà sbagliamo continuamente – sul lavoro, in famiglia, nei rapporti con gli altri e con noi stessi – e non succede nulla di irreparabile. In questo scarto tra due assenze si avventura l’interrogazione che non trova risposta se non nel suo porsi continuo, senza fine, come scongiuro apotropaico, per continuare ad allontanare il lupo: «Mi rendo conto che quel guardare mezzo opaco, mezzo allucinato, avesse molto del letterario, però è stato utile per tenere a bada la paura, sospenderla, fissarla in qualche punto, quindi va bene lo stesso» (p. 148).

L’inevitabilità dell’errore e lo scandalo delle sue (mancate) conseguenze sono la cellula generatrice di due tra i più maturi e consapevoli esperimenti di autofinzione degli ultimi anni, i cui autori sono anche, e forse non è un caso, critici di vaglia. Da una parte, i romanzi di Emanuele Trevi (n. 1964; I cani del nulla: una storia vera, 2003; Senza verso: un’estate a Roma, 2004; L’onda del porto: un sogno fatto in Asia, 2005). Dall’altra la trilogia di Walter Siti (n. 1947; Scuola di nudo, 1994; Un dolore normale, 1999; Troppi paradisi, 2006; cui si è aggiunto di recente Il contagio, 2008). In entrambi i casi il lettore viene posto di fronte al paradosso di un Io che parla senza sosta, occupa interamente la scena, fa debordare le sue intensità affettive sopra tutti gli eventi pubblici e privati in cui si imbatte; e nello stesso tempo, però, con il succedersi delle pagine subisce un singolare processo di evacuazione, di deidentificazione, di svuotamento. Più ci parla di sé, più ci chiediamo dove sia, e forse addirittura se ci sia; più esibisce narcisisticamente il suo corpo, più lo nasconde e quasi lo cancella dietro una maschera di parole; più evoca intorno a sé il mondo dell’esperienza condivisa (soprattutto Siti, i cui romanzi sono quanto di più accurato e mimetico il ‘realismo’ abbia prodotto in questi anni) e più sembra una voce recitante nel buio. Un dubbio di cui gli autori sono certo consapevoli, come testimonia la conclusione di Troppi paradisi: «Ora sono nato: da circa sette mesi sono nato. Se in più di mille pagine ho prodotto un sosia, era perché io non c’ero, non ci volevo essere: adesso ci sono. […] Ora che Dio mi ama, non ho più bisogno di esibirmi. Sto meglio man mano che il mondo peggiora, pazienza. Le mie idiosincrasie si scontreranno con quelle degli altri in campo aperto; se avrò qualcosa da raccontare, non sarà su di me» (p. 425).

Non è così semplice. Un Io non è soltanto un flusso, una deriva, un processo primario di pulsioni e associazioni; è anche una persistenza, un progetto, una promessa, una responsabilità, un’accettazione della necessità di essere chiamato a rispondere. Non è solo un sentimento ma un ri-sentimento, una memoria proiettata nel domani, un futuro anteriore. «Allevare un animale, cui sia consentito far delle promesse», ha scritto Nietzsche in Zur Genealogie der Moral (1887), «non è forse questo il compito paradossale impostosi dalla natura per quanto riguarda l’uomo? Non è questo il vero e proprio problema dell’uomo?» (trad. it. 19904, p. 45). Questo comporta però una fissazione consensuale del mondo in un’entità stabile ottenuta attraverso la stipula (e poi la dimenticanza) di una miriade di accordi intersoggettivi con cui si sancisce che la realtà ‘è così e così’. Ma questo è esattamente ciò che è impossibile una volta che la realtà sia stata denunciata come apparenza, velo di Maia, mascheratura apotropaica di un reale irriducibile a qualunque ordine simbolico. Quello che resta è soltanto l’immaginario irresponsabile – lo stesso che alimenta e ravviva le narrazioni degli scrittori di genere –, il costante mormorio del monologo, la voce sotto la coperta che si affabula per paura del buio.

Portare l’immaginario, il dichiaratamente falso, in una modalità di scrittura, come quella autobiografica, che più di ogni altra prevederebbe per statuto la sua verificabilità referenziale, è il tour de force che ricongiunge l’autofinzione all’altro versante della scrittura dell’estremo. Mente sempre e comunque chi dice come stanno le cose. E mente, per di più, senza pagare dazio. Freud ha scritto (Der Dichter und das Phantasieren, 1908; trad. it. Il poeta e la fantasia, in S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, 1991) che il motto dell’eroe di tutte le fantasie, dei sogni a occhi aperti, e anche, sia pure «attraverso una catena ininterrotta di passaggi intermedi», di tutti i romanzi, è «nulla ti può accadere»; e in questo «trasparente carattere dell’invulnerabilità» riconosceva senza fatica la firma inconfondibile di «Sua Maestà l’Io». Se questo valga o meno per tutti i romanzi possibili non è qui il luogo per discuterlo. Certo è però che la formula «nulla ti può accadere» si attaglia perfettamente, a sfruttarla in tutta la sua potenziale ambiguità, tanto agli invulnerabili protagonisti del romanzo di genere quanto all’Io irresponsabile (lo si accetti, come Trevi e Siti, o vi si ribelli, come Saviano e Babsi Jones) dell’autofinzione.

E, soprattutto, si attaglia all’inesperienza in cui sono costretti a vivere i loro lettori. Non è da tutti, oggi, farsi succedere qualcosa. Tutto cospira a che questo non accada mai, se non nell’immagine riflessa dei mass media. «Credete di sapere tutto ma non avete capito niente! Ogni volta che una parte del vostro mondo si separa da voi e vi si pone dinanzi costringendovi a guardarlo, ogni volta che qualcuno vi si contrappone facendo di voi degli spettatori, sia esso un cantante, un calciatore o un attore, allora sappiate che state fissando il vostro nemico, state guardando negli occhi la vostra morte! Ed è lì che dovete colpire. Questo soltanto dovreste capire!» (A. Scurati, Il rumore sordo della battaglia, 2002, p. 87). È questo il reale di cui parla la scrittura dell’estremo. E se di qualcosa dobbiamo esserle grati, non è tanto il suo valore estetico, quanto l’impasto di fedeltà e di malafede con cui mantiene viva la consapevolezza di questo fallimento.

Bibliografia

Il tentativo di intendere l’‘estremo’ come un’operazione più che come un tema o uno stile è esplicitamente ricalcato sul concetto di ‘informe’ di Georges Bataille, con cui due storici dell’arte come Y.-A. Bois e R. Krauss (L’informe. Mode d’emploi, Paris 1996; trad. it. Milano 2003) hanno tentato di (de)classificare una serie di fenomeni dell’arte contemporanea da Cézanne ai giorni nostri.

La distinzione tra realtà e reale è ripresa dallo storico dell’arte H. Foster in The return of the real: the avant-garde at the end of the century, Cambridge (Mass.) 1996 (trad. it. Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Milano 2007).

Si vedano inoltre i seguenti studi sulla narrativa contemporanea di cui si è tenuto conto nella stesura del saggio:

F. La Porta, La nuova narrativa italiana. Travestimenti e stili di fine secolo, Torino 1995, nuova ed. ampliata 1999.

A. Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Bologna 2007.

E. Mondello, In principio fu Tondelli. Letteratura, merci, televisione nella narrativa degli anni Novanta, Milano 2007.