NECCHI

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013)

NECCHI

Fabio Lavista

– Famiglia di imprenditori lombardi, la cui attività fu sviluppata da Ambrogio, nato a Pavia il 2 gennaio 1860 da Giuseppe e da Teresa Besozzi.

Il padre, fin dalla prima metà dell’Ottocento, aveva avviato un’attività artigiana e commerciale per la produzione e la vendita di ferri, rami e simili. Nel 1865 l’impresa fu stabilita presso l’abitazione della famiglia, situata nei cosiddetti Corpi santi di Pavia, in prossimità del Castello sforzesco. Dopo un lento sviluppo, al principio degli anni Ottanta fu possibile un primo ampliamento dell’attività commerciale e dello stabile, alla quale, nel corso dei decenni, si aggiunse un’officina meccanica con annessa fonderia per getti di ghisa. Nel 1892 lo stabilimento occupava 85 operai ed era rinomato per le produzioni di ponti in ferro, tettoie, macchine e strumenti agricoli, che trovavano poi mercato nel circondario agricolo di Pavia. Tre anni dopo si ebbe un ulteriore allargamento: la Necchi acquistò uno stabile, di fronte a quello in cui si era svolta fino ad allora l’attività, e nel 1896 mise in opera un ampliamento del primo opificio, per costruirvi una nuova fonderia.

Ambrogio, che proprio in quel periodo cominciava ad affiancare il padre, progettò dopo pochi anni un ulteriore incremento di scala delle attività e, a tal fine, cominciò col cercare un’area sulla quale edificare un nuovo stabilimento.

Dopo una trattativa col Comune di Pavia, attraverso la quale ottenne anche una riduzione del dazio sul coke, scelse di costruire il nuovo edificio lungo la strada che conduceva ad Abbiategrasso. Nel 1904, all’estrema periferia occidentale della città, in prossimità della stazione ferroviaria fu edificato un complesso industriale che di lì a qualche anno avrebbe progressivamente inglobato i fabbricati di altre due aziende locali: la Gaslini-Rizzo e il Risificio Traverso-Noè.

Il nuovo stabilimento, detto il «Raccordo» per via del suo diretto collegamento con la rete ferroviaria, era dotato di due forni di fusione che alimentavano la produzione di radiatori per caloriferi; tre anni dopo, tra la fine del 1907 e l’inizio del 1908, Ambrogio – ormai saldamente alla guida dell’azienda di famiglia – acquistò un nuovo appezzamento di terreno dall’amministrazione comunale, disposta a cedere aree di proprietà pubblica a scopi industriali. Fu così che all’inizio del 1908 quella che era ormai diventata la Società anonima fonderie Ambrogio Necchi poté allargare la propria attività produttiva ampliando e adattando il preesistente stabilimento dell’ex Fonderia Torti e ing. G. Callegari alla produzione di vasche da bagno smaltate e cucine economiche.

Negli stessi anni, a testimonianza dell’importanza assunta dalla famiglia nella società pavese, chiuso l’impianto avviato a metà Ottocento, fu costruita al suo posto una villa in stile liberty, che divenne da quel momento la residenza di famiglia. La chiusura dell’antico opificio non significò una riduzione delle attività. Come testimoniano i pochi dati sul numero di occupati nel complesso degli stabilimenti Necchi, se alla fine dell’Ottocento gli addetti erano poco meno di 300, all’inizio degli anni Dieci del Novecento superavano il migliaio. Tra il 1908 e il 1911 nei due nuovi stabilimenti, pur con leggere variazioni stagionali, lavorò un numero di operai compreso tra 900 e 1150.

Ai fini del successivo sviluppo aziendale furono dirimenti due scelte compiute da Ambrogio: la decisione di diversificare le attività, che permise all’impresa di affrontare su più livelli la concorrenza delle altre fonderie che operavano nel mercato nazionale, e l’opzione a favore della produzione di ghisa malleabile, realizzata nel primo stabilimento aperto al di fuori dei Corpi santi, un prodotto che per molti anni avrebbe costituito il punto di forza della fonderia Necchi.

Si trattava di un particolare tipo di ghisa, caratterizzato dal fatto che la lega di ferro e carbonio dalla quale è costituta, decomponendosi in seguito alla solidificazione, diventa particolarmente elastica e duttile, e perciò particolarmente adatta all’impiego in numerose produzioni meccaniche, che non per caso divennero presto clienti dell’azienda pavese.

Che la strategia adottata da Ambrogio – al quale il 1° dicembre 1912 fu conferita l’onorificenza di Cavaliere del lavoro – fosse vincente fu confermato, pochi anni prima dello scoppio della Grande guerra, dall’ultimo ampliamento. All’inizio degli anni Dieci il Comune di Pavia aveva infatti trattato con le autorità militari l’acquisizione della Piazza d’Armi, una vasta area situata alla periferia settentrionale della città, per destinarla a usi industriali. Dopo aver acquistato l’area il Comune stesso aveva aperto una seconda tornata di trattative per cedere i lotti di terreno alle ditte che ne avessero fatto richiesta e tra queste un ruolo importante ebbe certamente la fonderia Necchi, che nel 1913 – al termine delle trattative – riuscì ad assicurarsi più di un terzo dei 120.000 m2 che costituivano l’area. Nell’estate del 1915 l’azienda ne entrò materialmente in possesso e avviò l’edificazione di un nuovo stabilimento, terminato due anni più tardi ed entrato in produzione nel corso del 1919.

La guerra fece segnare una battuta di arresto nell’espansione aziendale, per via delle difficoltà derivanti dal conflitto stesso e della conseguente depressione economica che investì tutta la provincia pavese, ma anche per le vicende che interessarono la famiglia. In uno dei periodi più difficili, mentre parte delle produzioni veniva riconvertita per sostenere lo sforzo bellico, in ottemperanza a quanto previsto dal R. decreto 26 giugno 1915 n. 993 – che concesse al governo, attraverso l’istituto della mobilitazione industriale, la facoltà di imporre direttive all’industria privata in materia di impianti e produzioni e di sottoporne alla giurisdizione militare il personale – Ambrogio morì improvvisamente a Pavia il 19 aprile 1916, a soli 56 anni, lasciando l’azienda nelle mani della moglie Emilia Carcano e dei figli Vittorio, Luigia e Nedda.

Fu questa la premessa per una decisiva riorganizzazione delle attività produttive, della quale fu protagonista il figlio Vittorio, nato a Pavia il 21 novembre 1898. Dopo aver frequentato il liceo locale, si era iscritto alla facoltà di legge ma la prematura scomparsa del padre e la chiamata alle armi non gli consentirono di completare gli studi (ricevette tuttavia una laurea honoris causa in fisica dall’Università degli studi di Pavia nel 1955). Fintanto che rimase assegnato al IX reggimento artiglieria di stanza a Pavia, gestì in prima persona l’impresa di famiglia, quando poi il reggimento fu chiamato al fronte l’affidò a un suo uomo di fiducia. Dopo il congedo decise di tentare una nuova produzione, avvantaggiandosi dell’ampia disponibilità di ghisa proveniente dalle fonderie, e di dedicarsi alle macchine per cucire uso famiglia. Nel 1919 fondò quindi le Industrie Riunite Italiane con 50 dipendenti, che nel 1920 arrivarono a produrre circa 2000 macchine per cucire all’anno in un nuovo stabilimento appositamente dedicato a questa produzione.

Dopo qualche anno di attività precaria, in un mercato dominato dalla concorrenza dell’americana Singer e dei produttori tedeschi, l’impresa si avviò verso la stabilità, anche grazie alla rete di punti vendita nazionali creata da Vittorio in quegli anni. Nel 1925 – dopo aver ceduto alle sorelle Nedda e Luigia e al marito di quest’ultima, Angelo Campiglio, che ne divenne presidente, le fonderie di ghisa comune e la smalteria, che andarono a formare le Fonderie A. Necchi e A. Campiglio – trasferì le produzioni di ghisa malleabile e di macchine per cucire nella nuova sede di Piazza d’Armi. Nello stesso anno le Industrie Riunite Italiane furono trasformate nella Società anonima Vittorio Necchi, della quale Vittorio assunse la presidenza.

La produzione, attestatasi sulle 6120 macchine all’anno, continuò a crescere, anche grazie al nuovo direttore tecnico Emilio Cerri – un ingegnere proveniente dalla Fiat che riordinò sulla base di moderni criteri funzionali il settore produttivo –, e nel 1930 il numero di macchine fabbricate salì a 19.669, più di 2000 delle quali esportate. Nel 1930 entrò in azienda, in qualità di amministratore delegato, Gino Gastaldi, che aveva sposato una sorella di Lina Ferrari, diventata pochi anni prima moglie di Necchi.

Gastaldi dovette affrontare la difficile situazione commerciale causata dagli elevati costi di gestione dovuti a una politica basata esclusivamente su punti vendita diretti; decise perciò di riorganizzare l’intera rete sulla base di concessioni provinciali e locali. La seconda metà degli anni Trenta, nonostante la ristrutturazione della rete commerciale e i rapporti tutto sommato buoni che Vittorio stabilì con il regime fascista – testimoniati dal conferimento del titolo di Cavaliere del lavoro il 27 ottobre 1935 e, soprattutto, dalle frequenti visite di personalità politiche presso la tenuta di caccia di famiglia a Gambolò, la cosiddetta «Portalupa», e presso gli stabilimenti dell’azienda (nel 1938 lo stesso Mussolini giunse a Pavia con la moglie Rachele) – segnò tuttavia una battuta d’arresto nell’espansione dell’azienda. Gli effetti della difficile congiuntura internazionale si tradussero in una contrazione della produzione, determinata anche dall’accresciuta concorrenza straniera, in particolare della Singer che aveva aperto nel 1934 un proprio stabilimento a Monza.

Dopo l’8 settembre 1943 la dirigenza aziendale, a fronte di oggettive difficoltà di mercato e per evitare requisizioni, cominciò a occultare – a Pavia e nel circondario – un numero crescente di macchine per cucire (oltre 20.000), che costituirono nel dopoguerra una preziosa risorsa economica. All’epoca, d’altro canto, la Necchi vantava ormai una posizione preminente sul mercato nazionale: era la prima per numero di dipendenti, circa 1200, e per quantitativo di pezzi prodotti. Circa il 40% delle 120.000 macchine per cucire fabbricate in Italia nel 1947 uscirono dai suoi stabilimenti.

L’azienda, con i suoi quattro settori produttivi – la fonderia, le macchine per cucire industriali, le macchine per cucire famiglia e l’ebanisteria (dove si producevano i mobili su cui venivano montate poi le macchine) – si caratterizzava già per un discreto grado di integrazione delle produzioni. Nei settori trainanti, la fonderia e le macchine uso famiglia, aveva inoltre raggiunto un buon livello qualitativo. La fonderia si era affermata sul mercato nazionale per la produzione di ghisa malleabile; nel settore delle macchine per cucire famiglia il direttore tecnico Cerri aveva raggiunto buoni gradi di standardizzazione e organizzato le produzioni in funzione delle necessità tecniche del prodotto. Aveva inoltre progettato e brevettato nel corso degli anni Trenta una macchina per cucire famiglia che, sfruttando un sistema di trasmissione adottato in precedenza solo sulle macchine industriali, consentiva di cucire con un ago che si spostava a zig-zag, utile per attaccare bottoni, fare asole, rammendi e ricami; il prodotto fu alla base del successo internazionale della Necchi nel corso degli anni Cinquanta.

All’affermazione aziendale concorse altresì Leon Jolson, figlio di un agente Necchi di Varsavia di origini ebraiche che, per sfuggire alle persecuzioni naziste, alla fine degli anni Trenta si era rifugiato negli Stati Uniti. Alla fine del conflitto Jolson riprese l’attività di rappresentanza a New York, contribuendo con la sua fitta rete di agenti alla diffusione delle macchine Necchi sul mercato americano. La produzione nel corso del 1948 superò le 75.000 macchine per cucire; di queste, grazie anche alle difficoltà delle aziende tedesche nel recuperare i livelli di produzione prebellici, circa il 67,24% prese la via dell’esportazione: verso l’Argentina (35,50%), gli Stati Uniti (13,33%), il Belgio (5,67%), il Brasile (3,62%), l’Uruguay (2,92%), la Danimarca (1,16%) e un’altra decina di paesi con percentuali inferiori all’unità.

Nel 1948, in seguito alla scomparsa di Cerri, fu assunto Gino Martinoli, che per più di un decennio aveva ricoperto l’incarico di direttore tecnico alla Olivetti di Ivrea, per poi essere assunto nel settore meccanico dell’IRI. La prima decisione del nuovo manager, in accordo con la proprietà e la direzione generale, fu quella di accrescere la manodopera: l’arrivo di circa 800 nuove unità, agevolmente reperite nel circondario pavese, portò la Necchi nella primavera del 1949 a occupare 2034 addetti, tra produzione e servizi. Successivamente, poiché l’immissione di personale nuovo e impreparato aveva comportato un calo di produttività, fu avviata la riorganizzazione dell’intero processo di fabbricazione.

Abbandonato poco a poco l’edificio a più piani in cui erano poste le produzioni, ci si spostò in una nuova sezione di stabilimento, il capannone F, nel quale si procedette a riorganizzare il flusso produttivo: dall’ingresso delle materie prime e dei semilavorati fino all’assemblaggio finale, per il quale fu adottata per la prima volta la catena di montaggio. La riorganizzazione comportò l’acquisto di nuovi macchinari (grazie a un ingente piano di finanziamento e agli aiuti economici ottenuti nell’ambito del Piano Marshall), il ripensamento della struttura aziendale e del suo coordinamento funzionale, nuove procedure di progettazione delle macchine per cucire. La collaborazione con Marcello Nizzoli, conosciuto da Martinoli a Ivrea alcuni anni prima, permise alla Necchi di aggiudicarsi il premio Compasso d’oro per il design nel 1954 con la serie BU - Bobina Universale Supernova e poi nel 1957 con la serie Mirella.

A metà degli anni Cinquanta, al termine del processo di riorganizzazione, a fronte di un aumento della manodopera (circa 4500 unità), il numero di ore impiegate per produrre una macchina per cucire si era ridotto di oltre un terzo, garantendo alla Necchi il predominio sul mercato nazionale, di cui deteneva circa il 90% assieme alle società Singer e Vigorelli, e su quello dell’export, dove la quota era pari al 74% del totale esportato.

Furono questi gli anni di massimo splendore della casa pavese ma, alla fine del decennio, cominciò qualche segnale di declino: le statistiche indicavano infatti abbastanza chiaramente l’imminente saturazione del mercato italiano, mentre su quelli internazionali cresceva la concorrenza dei nuovi produttori esteri, primi tra tutti i giapponesi. Vittorio si oppose fermamente a ogni diversificazione produttiva, almeno fino a quando questa non si rese indispensabile. Nel 1959 fu siglato un accordo con la Kelvinator per produrre su licenza compressori per frigoriferi. Si trattava di una soluzione di compromesso che permetteva all’azienda di aprirsi un altro mercato, per il quale possedeva le competenze tecniche necessarie, senza rinunciare alla produzione di macchine per cucire. Fu creato un reparto compressori e intensificato il processo di meccanizzazione, con l’aumento dei livelli di automazione, cosa che garantì al compressore Necchi una discreta fama presso i produttori di frigoriferi.

Era però la strategia aziendale di lungo periodo a presentare i problemi maggiori: il compressore era infatti la parte tecnologicamente più avanzata del frigorifero, il componente che determinava la quota principale dei costi di produzione; optare per una lavorazione da ‘terzisti’ significava rinunciare ai margini che solo la produzione dell’intero frigorifero avrebbe garantito. Questa scelta, assieme al restringimento del mercato delle macchine per cucire e alla decisione di istituire alcune ‘collegate’, reintroducendo così la vendita diretta, accrebbe i livelli di indebitamento dell’azienda, che lo stesso Vittorio cercò di mitigare, mettendo in gioco il proprio patrimonio personale.

Nel 1974, dopo la scomparsa di Giuseppe Manidi (l’amministratore delegato che aveva sostituito Gastaldi a metà anni Sessanta), nel tentativo di risollevare le sorti dell’azienda fu contattato Giuseppe Luraghi, manager di pluriennale esperienza nel settore meccanico privato e pubblico.

Vittorio Necchi morì a Milano il 17 novembre 1975, dopo una lunga malattia.

Con lui, che non aveva avuto figli, ebbe fine la dinastia industriale. Il disinteresse per le sorti dell’azienda mostrato dalle sorelle fu infatti di lì a poco all’origine della cessione della stessa.

Fonti e Bibl.: A Vittorio Necchi è intitolata una busta presso l’Archivio Storico della Fonda-zione Cavalieri del lavoro di Roma e, nello stesso, si conserva la pratica relativa ad Ambrogio. Materiale aziendale superstite precedente il 1975 è reperibile presso l’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Pavia: si tratta di qualche lastra fotografica e di documentazione pubblicitaria del periodo tra le due guerre; oltre a questo si veda il dattiloscritto La Necchi. Incontro con: dott. Gastaldi, dott. Ferrara, rag. Repossimoderatore prof. G. Guderzo, Pavia, giugno 1974. Sul periodo di massima espansione aziendale esiste una busta Vittorio Necchi, conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Industria e Commercio-Direzione generale della produzione industriale (1944-9), fondo Finanziamenti ERP, b. 13, f. 197 Necchi Vittorio - 1949; importanti anche due documenti conservati tra le carte di Gino Martinoli presso la Fondazione Censis di Roma: G. Martinoli, Un “caso” di pratica esperienza aziendale, conferenza tenuta il 6 aprile 1954 a Napoli nell’ambito del 1° Corso di perfezionamento di organizzazione aziendale (CENSIS, Carte Martinoli , b. 2, f. 6), e Comitato nazionale per la produttività, Sunti delle lezioni dell’ing. Gino Martinoli tenute al 1° corso nazionale per esperti in tecniche della remunerazione e della consultazione mista sul tema: “azienda e produttività” il 10 e 11 gennaio 1954 a Firenze (Ibid., f. 1). Sintetiche informazioni biografiche sono in A. Vivanti, Pavia col lanternino, Pavia 1980, pp. 332-337 e G. Guderzo, Vittorio N., in Bollettino del Rotary Club di Pavia, 2002, n. 10 (maggio), pp. 19-23 e Id., Vittorio N. Per unabiografia, in Bollettino della Società pavese di storia patria, 2003, n. 103, pp. 215-231 (in particolare pp. 215-217). Sull’evoluzione dell’azienda tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento si rimanda a: G. Brusa, Origini e localizzazione dell’industria nei Corpi Santi pavesi, in Annali di storia pavese, 1982-83, n. 8-9, pp. 11-34; Id., L’industria pavese tra guerra e dopoguerra. Note urbanistiche, in Annali di storia pavese, 1985, n. 11, pp. 45-60 e Id., L’industria pavese. Storia, economia, impatto ambientale, in Annali di storia pavese, 2000, n. 28, pp. 339-349. Sugli anni Cinquanta: S.H. Wellisz, Studies in the Italian light mechanical industry. II. The sewing machine industry, in Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali, 1957, n. 12, pp. 1161-1182 e L. Bono - P. Sillano, Alcuni dati sull’influenza del progresso tecnologico sull’industria di precisione e fine, in Il progresso tecnologico e la società italiana. Effetti economici del progresso tecnologico sull’economia industriale italiana (1938-1958). Atti del convegno ... 1960, III, Milano 1961, pp. 17-46. Informazioni diverse sono in: Realizzazioni dell’industria pavese. Necchi Spa e Realizzazioni dell’industria pavese. NECA Fonderie A. Necchi - A. CampiglioSocietà per azioni, entrambi in Informazioni economiche. Mensile della Camera di commercio industria artigianato e agricoltura di Pavia, 12 (1957), rispettivamente n. 5 (maggio), pp. 3-9 e n. 2 (novembre), pp. 3-7; anche G. Abraini, 160 anni di storia, in Come muore una grande fabbrica del nord. Il caso della Necchi di Pavia, a cura di W. Minella - A. Bottini, Pavia 2000, pp. 17-20. Utili, in generale, le annate della rivista aziendale Necchi. Macchine per cucire, quelle de La Squilla della Necchi. Quindicinale delle maestranze della Necchi di Pavia, rivista della FIOM pubblicata dal 1952 al 1967, e il volume di ricordi di C. Dolcini, C’era una volta la Vittorio Necchi. La Cisl alla Necchi, Pavia 2000.