Nembrot

Enciclopedia Dantesca (1970)

Nembrot (Nemrod, Nimrod; in D. anche Nembrotto)

Gian Roberto Sarolli

Figlio di Chus, il " robustus venator coram Domino " (secondo la lezione della Vulgata, Gen. 10, 9) oppure il " gigans venator contra Dominum Deum " (secondo la lezione dei Settanta passata nell'Itala e ripresa da s. Agostino Civ. XVI 3, 4 e 11), che fondò il regno di Babel (Babilonia) e ne fu il primo re (Gen. 10, 8-10).

Esempio di superbia e di rivolta contro Dio, secondo la tradizione N. volle costruire, per raggiungere il cielo, la torre di Babele in Sennaar, ma Dio, confondendo i linguaggi dei lavoratori, vanificò il folle disegno.

D. lo menziona come Nembrotto. (secondo la forma popolare difesa dal Petrocchi, mentre gli editori della '21 avevano preferito la forma Nembròt, con tacita epitesi) in If XXXI 77 questi è Nembrotto; come Nembròt, in Pg XII 34 Vedea Nembròt a piè del gran lavoro, e in Pd XXVI 126 la gente di Nembròt; e, infine, come gigans, in VE I VII 4 Praesumpsit ergo in corde suo incurabilis homo sub persuasione gigantis Nembroth, arte sua non solum superare naturam, sed etiam ipsum naturantem, qui Deus est; et coepit aedificare turrim in Sennaar, quae postea dicta est Babel, hoc est confusio, per quam coelum sperabat ascendere, intendens inscius non aequare, sed suum superare Factorem.

Questo passo del De vulg. Eloq. (v.) contiene gli elementi essenziali per comprendere il simbolismo tipologico e allegorico prefigurato da N. nei tre episodi in cui compare nella Commedia, ed è esemplificativo per la piena verifica della profonda conoscenza che D. possiede sia della tradizione esegetica scritturale sia di quella esoterica musulmana. La prima appare infatti pienamente usufruita nella ‛ praesumptio ' dell'incurabilis homo e negl'incisi sub persuasione gigantis e Babel, hoc est confusio, che richiamano i peccati di Adamo e di Lucifero, unificando sia il simbolismo tipologico (" typus Diaboli ") che Isidoro attribuisce a N. (Patrol. Lat. LXXXIII 103), contaminato con l'equazione ‛ gigas = Antichristus ' della lunga tradizione apocalittica culminante in Gioacchino da Fiore, sia il simbolismo allegorico, e più precisamente la serie degli esempi di superbia punita aperti, con quello di Lucifero, in Pg XII 25-63 (Vedea colui...), e costruiti in modo da formare l'acrostico VOMo, e insieme l'impiego dell'equazione topologica ‛ Babel = confusio ' (artificio retorico reso canonico da Isidoro sulla scorta di s. Paolo, e qui ritrascritto dalle Magnae Derivationes di Uguccione); la seconda nell'impiego di una lingua esotica nel verso Raphèl maì amècche zabì almi, in If XXXI 67, gridato dalla fiera bocca di N. a significare, secondo il Lemay, la più alta accusa del suo peccato e la giusta vendetta divina. La proposta del Lemay, verificata e controbattuta dal Nardi, ma nella sostanza non demolita, rappresenta l'ultimo anello di una lunga catena di tentativi, iniziatisi con i primi commentatori, volti a decifrare la ‛ crux ' dantesca.

Questa, come ogni altra ‛ crux ', può servire da vertiente tra le posizioni estreme assunte dai commentatori, da un lato quelli che si sono appagati dell'indecifrabilità del linguaggio di N., basandosi sull'affermazione contenuta nello stesso episodio al v. 81 ('l suo [linguaggio]... a nullo è noto), dall'altro quelli che han ritenuto che il senso letterale implicasse o celasse una più profonda istanza allegorica.

Dei commentatori del primo filone campioni possono essere considerati sia Benvenuto sia il Buti che, rispettivamente, hanno scritto: " est hic notandum, quod ista verba non sunt significativa, et posito quod in se aliquid significarent, sicut aliqui interpretari conantur, adhuc nihil significarent hic, nisi quod ponuntur ad significandum quod idioma istius non erat intelligibile alicui, quia propter eius superbiam facta est divisio labiorum. Et haec est intentio autoris quam expresse ponit in litera "; e " Queste sono voci senza significazione: altrimenti, chi ci volesse dare significazione, mostrerebbe che l'autore avesse contradetto a se medesimo ". Del secondo filone, e con un primo tentativo di cercare una lingua specifica, " la caldea lingua ", campione può essere considerato il Landino, sulle cui orme si sono mossi gli altri commentatori.

La proposta del Lemay, invece, s'inserisce in un discorso più ampio e presuppone in D. una chiara intenzione contaminatoria di natura teologico-filosofico-poetica che si addice perfettamente alla forma mentis di D., il quale non esita a impiegare con precisa e voluta scelta la lezione dell'Itala contro quella della Vulgata, assunta o direttamente o attraverso s. Agostino, e a seguire il filone esegetico scritturale che inglobava anche il Liber Nemroth, per arrivare alla prefigurazione tipologica di N. quale ‛ gigans ', per mezzo della quale la tradizione dei giganti mitologici Efialte, Briareo e Anteo s'inseriva in un'analogico-allusiva concordanza di tipologie di Lucifero, il più gigantesco dei giganti.

Allo stesso modo, l'impiego della lingua musulmana (sempre secondo il Lemay) starebbe a significare la condanna della scienza umana e addirittura un capitolo di ‛ guerra santa ' contro l'Islam, e perciò verifica dello speciale valore che assumono le cosiddette fonti musulmane nella Commedia, e di riflesso per mutato clima culturale verifica dei limiti dei primi commentatori danteschi, ormai lontani dagl'interessi simbolici ed epistemologici di Dante.

A sostegno di questa proposta, aggiungeremo che l'impegno del poeta nel descriverci l'altezza di N. (come più oltre farà anche per Lucifero, in If XXXIV 29-31) s'iscrive nella tradizione esegetica esemplata nelle minute descrizioni del tempio di Salomone in Riccardo da San Vittore, così come le sottili allusioni suggerite con le equazioni allegoriche torri = giganti (equazioni allegoriche nella ‛ distinzione ' in malo, e perciò contrapposte a quelle in bono, cioè torre = Cristo e Maria, della tradizione esegetica scritturale) e l'impiego della formula antifrastica dolci salmi per sottolineare il grido di N. da considerare qui espressione di musica diaboli, e perciò ulteriore manifestazione di tutta la tragica antitesi rappresentata, dall'Inferno, il doloroso regno dell'antitrinitario Lucifero.

Bibl. - Sul problema del linguaggio di N.: D. Guerri, Il nome di Dio nella lingua di Adamo secondo il XXVI del Paradiso e il verso di N. nel XXXI dell'Inferno, in " Giorn. stor. " LIV (1909) 65-76; e si veda anche la nota al verso 67 di If XXXI nell'ediz. Petrocchi. La proposta di R. Lemay, Le Nemrod de l' " Enfer " de D. et le " Liber Nemroth " (seconda parte di un lavoro intitolato D. connaissait-il l'arabe?), apparsa in " Studi d. " XL (1963) 57-128, è stata ripresa e inserita in un secondo articolo, Mythologie paîenne et Révélation chrétienne éclairant la destinée humaine chez D.: les cas des Géants, apparso nel numero speciale dedicato a D., della " Revue Etudes Ital. " n.s., XI (1965) 237-279; si veda inoltre B. Nardi, in " L'Alighieri " VI (1965), rist. in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 367-376. Vedi ora G.R. Sarolli, Prolegomeni alla D.C., Firenze 1971.

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