NEUROBIOLOGIA DELLO SVILUPPO EMOTIVO

XXI Secolo (2010)

Neurobiologia dello sviluppo emotivo

Francesca Cirulli

Lo sviluppo neurologico dei mammiferi è un processo graduale che dipende da una continua interazione tra il milieu interno e quello esterno, o ‘ambientale’. Questa interazione ha alla base complessi processi epigenetici che inducono modifiche funzionali del sistema nervoso in risposta all’ambiente esterno.

Se è ormai una nozione acquisita che il cervello necessita di esperienza per il corretto sviluppo, non tutto ciò che viene esperito ha un effetto positivo. Evidenze epidemiologiche suggeriscono che episodi negativi o veri e propri traumi subiti durante fasi precoci della vita possono impedire un corretto sviluppo cerebrale e creare le basi per l’instaurarsi della malattia mentale. Risulta, tuttavia, estremamente difficile predire quale sarà la direzione dell’effetto di una determinata esperienza poiché il valore ultimo di ciò che si sperimenta dipende da un complesso processo d’interazione tra variabili ambientali e corredo genetico dell’individuo.

I meccanismi neurobiologici alla base degli effetti dell’ambiente precoce sono ancora in via di definizione. Una sempre maggiore fertilizzazione incrociata tra ricerca di base e ricerca clinica sta comunque accelerando notevolmente lo studio dei fattori neurobiologici che sottostanno alla patologia mentale. Tale processo è anche il risultato dello sviluppo di nuove tecnologie, come la diagnostica per immagini, che permettono di studiare in modo non invasivo i fenomeni biologici alla base di una determinata patologia.

Un altro importante catalizzatore è rappresentato dal sostanziale aumento della multidisciplinarietà. Per quanto concerne la psichiatria biologica, per es., si assiste in questi primi anni del 21° sec. a un’esplosione di ricerche che integrano studi neurobiologici di sviluppo cerebrale e altri, di ambito più prettamente psicologico, focalizzati su quello emozionale, sociale e cognitivo, con particolare riguardo alle interazioni madre-prole. Le ricerche concentrate sullo sviluppo del cervello, e in grado di aggregare un largo spettro di discipline medico-scientifiche, rappresentano un punto di convergenza importante per la creazione di modelli complessi di struttura e funzione del cervello – inclusa la plasticità in risposta all’ambiente – e dei processi mentali e del comportamento (Schore 2005).

Rapporto madre-prole

Per il piccolo di mammifero la principale fonte di stimolazione, e la variabile ambientale più importante, è rappresentata dalla madre (intesa più estesamente come colei/colui che si prende maggiore cura del neonato). Le emozioni sono alla base dello sviluppo delle relazioni di attaccamento e della comunicazione infantile. Esse possono essere definite come stati centrali di regolazione del cervello, generati internamente, che unificano la coscienza e coordinano l’attività di un soggetto coerente e mentalmente attivo. Le emozioni possiedono un’importante componente comunicativa finalizzata a promuovere e sviluppare l’interazione con i comportamenti e le motivazioni di altri soggetti. Nell’uomo esse regolano un rapporto intersoggettivo unico nel suo genere che crea cooperazione consapevole e favorisce al contempo l’acquisizione di uno specifico bagaglio di conoscenze.

Le emozioni possono regolare le attività psicologiche. Le complesse interazioni tra le regolazioni cognitive e corporee delle emozioni contribuiscono all’apprendimento di adattamenti sociali oppure culturali, attraverso i quali le funzioni delle emozioni e l’autocoscienza dei soggetti vengono modificate e simbolizzate. Nel bambino le emozioni sono ben poco coscienti di sé e non sono ancora state modificate dalle convenzioni sociali.

L’attaccamento nell’uomo è stato definito come regolazione interattiva della sincronia biologica di due organismi. Perché tale sincronia sia possibile, si deve ipotizzare che il neonato umano non sia un essere passivo e capace solo di riflessi, ma che sia in grado di coordinazioni coscienti e volontarie. I bambini appaiono molto motivati a comunicare con gli altri esseri umani e a stabilire stati comunicativi intersoggettivi. Le ricerche in questo campo indicano come in essi emerga precocemente una consapevolezza attiva di un ‘sé-e-l’altro’, la quale ha un ruolo fondamentale nei processi comunicativi e cognitivi: il cervello del neonato è in grado di produrre una coordinazione tra stimoli sensoriali e attività motoria che gli permette di orientarsi verso gli stimoli preferiti e di apprendere da essi. Il contatto efficace con il mondo delle persone e delle cose dipende dallo stato del sistema comunicativo bambino-caretaker (il termine caretaker viene utilizzato dagli autori anglosassoni per indicare colui o coloro che si prendono cura del bambino) e dalla misura in cui esso è in grado di facilitare i processi motivazionali del neonato. Tali interazioni costituiscono un sistema di mutua regolazione, basato sulla capacità di ciascuno dei due individui di esprimere le proprie intenzioni e di riconoscere quelle dell’altro, in modo che entrambi possano raggiungere i propri obiettivi all’interno di un sistema di feedback o retroazione reciproca: per es., quando alla madre accade di indurre stress nel bambino, ella partecipa poi attivamente a un processo regolatore di riparazione interattiva. Queste transazioni a due servono nel breve termine a regolare lo stato affettivo del neonato e sono inoltre associate, nel lungo termine, a importanti modifiche strutturali del cervello. È stato suggerito che la regolazione del sistema emozionale immaturo del neonato da parte della madre, in determinati periodi critici, possa rappresentare il primo fattore responsabile della modulazione da parte dell’esperienza dello sviluppo di alcune aree cerebrali e, in particolare, delle strutture cortico- e sottocorticolimbiche a cui è attribuibile l’autoregolazione degli stati emozionali.

Stress precoce e predisposizione alla patologia

Eventi stressanti sperimentati dopo la nascita sono in grado di influenzare in maniera determinante il configurarsi delle differenze individuali nella vulnerabilità a sviluppare la malattia mentale nell’arco della vita (Heim, Nemeroff 2001). Episodi gravi di abuso fisico o sessuale, che spesso si associano a condizioni persistenti di vuoto affettivo o di conflitto familiare, possono compromettere l’accrescimento e/o lo sviluppo intellettivo del bambino e comportare per l’adulto un maggiore rischio di sviluppare obesità e disturbi dell’umore.

I dettagli che sottostanno al rapporto tra la qualità delle prime fasi della vita e la salute dell’individuo adulto sono ancora in via di definizione. Durante i primi anni di vita il cervello è attivamente alla ricerca di esperienze ed è provvisto di una considerevole plasticità grazie alla quale l’organismo in via di sviluppo e l’ambiente esterno possono adattarsi e armonizzarsi l’uno con l’altro. È stato ipotizzato che condizioni precoci avverse possano influenzare negativamente la maturazione di quelle strutture o processi – come il sistema corticolimbico e la risposta ormonale allo stress – che sono alla base del nostro funzionamento emozionale e il cui sviluppo è sensibile agli effetti dell’esperienza. Il risultato finale è quello di un individuo che mostra una maggiore risposta a situazioni stressanti nella vita adulta (Heim, Nemeroff 2001; Meaney 2001; Schore 2005). I pazienti depressi che hanno alle spalle una storia di abuso infantile sono effettivamente caratterizzati da un’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA, Hypothalamic-Pituitary-Adrenal), il quale costituisce il principale sistema di risposta allo stress. Inoltre, l’abuso o la mancanza di cure durante l’infanzia sono stati messi in relazione con la presenza di varie anomalie nelle regioni cerebrali che risultano coinvolte nei disturbi emozionali, tra cui una riduzione generalizzata del volume dell’ippocampo, del corpo calloso e della corteccia prefrontale, un’alterazione della simmetria corticale in determinate aree e una ridotta densità e integrità neuronale in altre.

Al fine di spiegare l’insorgenza della psicopatologia in età adulta è stato proposto il modello diatesi-stress, secondo il quale è l’interazione tra una vulnerabilità o predisposizione genetica (diatesi) e l’ambiente, inclusi gli eventi avversi che si verificano nella vita dell’individuo (i cosiddetti stressori), a indurre determinati comportamenti o disturbi psicologici. La maggior parte delle patologie psichiatriche può essere spiegata da questo modello per così dire ‘a due colpi’, in cui i fattori genetici e quelli ambientali interferiscono precocemente con lo sviluppo del sistema nervoso centrale (SNC), producendo in tal modo una vulnerabilità a lungo termine a causa della quale il sopraggiungere di un secondo ‘colpo’, sia esso un lutto, un divorzio o una malattia cronica, può facilmente produrre sintomi di tipo psichiatrico. I meccanismi coinvolti nella differenziazione cellulare potrebbero costituire il principale bersaglio sia del primo ‘colpo’, quello che arriva nelle fasi precoci dello sviluppo, sia – una volta posti al servizio del mantenimento e della plasticità neuronale – del secondo ‘colpo’, quello che viene per così dire inferto al cervello adolescente o adulto. Dunque, se gli stressori vanno a colpire, nell’organismo immaturo come in quello adulto, sempre gli stessi circuiti, risultano perfettamente integrati i fattori genetici, evolutivi e ambientali responsabili della vulnerabilità e dell’eziopatogenesi dei disturbi psichiatrici. In tale contesto, la sollecitazione innescata dall’esperienza stressante che interviene in età adulta rappresenta un fattore primario di vulnerabilità, e i suoi effetti risultano maggiormente negativi negli individui che hanno avuto precedenti esperienze avverse, particolarmente se esperite in fasi evolutive precoci.

Interazioni geni-ambiente

Lo stato epigenetico di un dato gene è determinato dalle esperienze cui l’organismo è esposto durante la vita prenatale o le primissime fasi di quella postnatale, che rappresentano dunque una delle più importanti fonti di variazione dei fenotipi biologici e comportamentali (Jablonka, Lamb 2005).

Nell’ultimo decennio, l’importanza dell’interazione tra fattori genetici ed esperienziali nello sviluppo della malattia mentale è stata ampiamente riconosciuta in ambito tanto preclinico quanto clinico. I più recenti approcci teorici sono basati sull’influenza che i geni esercitano sulla suscettibilità dell’individuo ai cosiddetti patogeni ambientali (Caspi, Moffitt 2006). È stato infatti dimostrato che lievi variazioni nella sequenza genica (polimorfismi) del promotore del trasportatore della serotonina, un neurotrasmettitore implicato nella patologia depressiva, sono in grado di moderare l’effetto esercitato dagli eventi stressanti sulla vulnerabilità alla malattia. In seguito al verificarsi di tali eventi, gli individui che possedevano una o due copie dell’allele variato facevano infatti registrare, rispetto a chi possedeva due copie dell’allele comune, un maggior numero di sintomi depressivi e di depressioni diagnosticabili, nonché una maggiore propensione al suicidio. A ulteriore conferma di tutto ciò, due ricerche condotte sul disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività hanno mostrato che l’interazione tra alcuni polimorfismi caratteristici di un altro sistema di neurotrasmettitori coinvolto nella patologia depressiva, quello dopaminergico, e alcuni fattori di rischio prenatali (come il consumo di alcol da parte della madre o un basso peso alla nascita) è predittiva dell’insorgenza dei sintomi-chiave associati a tale disturbo (per una rassegna, Caspi, Moffitt 2006).

Lo studio dell’interazione tra geni e ambiente è stato per lungo tempo affidato principalmente alla prospettiva epidemiologica, in cui i genotipi, l’esposizione ai patogeni ambientali e i disturbi che ne derivano vengono osservati così come si presentano naturalmente nella popolazione umana. Oggi, tuttavia, il grado di sviluppo raggiunto dalle neuroscienze prefigura concretamente la possibilità di completare il quadro fornito dall’epidemiologia genetica psichiatrica con dati che chiariscano – a un livello più prossimale – gli effetti dell’interazione geni-ambiente sul funzionamento del sistema nervoso centrale nell’ambito in esame. Tra le questioni ancora aperte vi sono quella della qualità e della quantità di esperienza effettivamente in grado di predisporre l’individuo alla malattia mentale, e quella dei sistemi neuronali specificamente coinvolti. Per rispondere a queste domande è necessario utilizzare appropriati modelli animali, nei quali i fattori ambientali ed esperienziali precoci possano essere manipolati in condizioni controllate (Cirulli, Francia, Berry et al. 2009). Negli anni più recenti si sono moltiplicati gli sforzi tesi a sviluppare modelli complessi, capaci di incorporare un elevato numero di variabili manipolabili dallo sperimentatore e di offrire nuove opportunità di trasferire alla ricerca clinica i risultati ottenuti mediante quella di base.

In questa rassegna descriveremo diversi studi uniti dal comune intento di comprendere come l’ambiente precoce in cui l’organismo viene allevato modelli lo sviluppo cerebrale e il funzionamento emozionale. Se da un lato i roditori permettono di rispondere a varie domande in tempi piuttosto brevi e di esaminare i substrati neurobiologici con una certa facilità, dall’altro i primati non umani rappresentano il modello più vicino all’uomo in termini di similarità genetica, biologica e comportamentale (particolarmente per ciò che riguarda il comportamento sociale) e, soprattutto, la durata relativamente lunga della loro vita (in special modo del periodo infantile) e il loro comportamento socioaffettivo rispecchiano caratteristiche importanti dello sviluppo dell’essere umano. La sfida che la scienza di base può oggi raccogliere, avvalendosi di un approccio eminentemente comparativo, è quella di riuscire a trarre da ciascun modello ciò che di meglio esso può dare – al di là delle sue inevitabili limitazioni – in termini di comprensione del complesso percorso che conduce dall’esperienza di eventi negativi o stressanti a un aumento del rischio per la salute mentale.

Sviluppo dei disturbi d’ansia e dell’umore

Benché la relazione tra abuso o mancanza di affetto (o altre condizioni negative precoci) e vulnerabilità individuale a disturbi psichiatrici, quali ansia e depressione, sia ormai chiaramente documentata, gli studi clinici non sono in grado di produrre dati conclusivi in merito ai rapporti di causa-effetto. Poiché le ricerche condotte sull’uomo presentano inevitabilmente evidenti limitazioni etiche che non permettono – nello studio dei meccanismi fisiopatologici – di andare oltre le tecniche di diagnostica medica e un numero limitato di analisi neurochimiche, è necessario ottenere informazioni dagli studi preclinici. Sono sempre più numerosi gli studi che cominciano a mettere direttamente in relazione i risultati della ricerca di base con gli esiti clinici osservati negli individui che hanno subito abusi o ricevuto cure insufficienti e/o incoerenti in fasi evolutive precoci (Cirulli, Francia, Berry et al. 2009). Uno degli obiettivi principali di questi studi è di definire i tempi e le strategie d’intervento che potrebbero prevenire efficacemente o ridurre sensibilmente gli effetti delle esperienze precoci avverse: la prevenzione è ovviamente preferibile, ma sembra comunque che sia possibile alleviare sia la fisio- sia la psicopatologia.

I modelli sviluppati finora sono basati per lo più sull’introduzione di fattori di disturbo nella relazione madre-piccolo con il fine di ‘riprodurre’ un’esperienza di trauma precoce. Di fatto, tanto gli studi sull’uomo quanto quelli sugli animali indicano che il rapporto tra la qualità dell’ambiente precoce e la risposta emozionale adulta è mediato in particolar modo dagli influssi esercitati sullo sviluppo cerebrale da fattori materni o genitoriali (Trevarthen, Aitken 2001; Schore 2005).

L’importanza del ruolo materno e delle esperienze affettive precoci per lo sviluppo psicologico era già stata riconosciuta da Sigmund Freud e dagli altri pionieri dello studio sullo sviluppo umano. Tuttavia, per lungo tempo le teorie evolutive non hanno preso in considerazione né l’individualità dei bambini e la loro vita sociale (per es., l’amicizia o il gioco tra pari), né i loro rapporti con fratelli e sorelle e le loro relazioni affettive. Oggi sappiamo che l’ambiente precoce è sostanzialmente un ambiente sociale, e che l’oggetto sociale primario che media l’approccio del neonato all’ambiente esterno è costituito dalla madre (J. Bowlby, The making and breaking of affectional bonds, 1979; trad. it. 1982). La funzione modulatoria che essa esercita sull’input ambientale è essenziale per la facilitazione (o per l’inibizione) della maturazione delle strutture biologiche (e in particolare neurobiologiche) infantili il cui sviluppo è influenzato dall’esperienza. Tale nozione di regolazione è molto importante, poiché si tratta di uno dei pochi costrutti teorici oggi condivisi dalla maggior parte delle discipline che si occupano di sviluppo e rappresenta un concetto centrale capace di interconnetterle tra loro e dunque, potenzialmente, di portare alla luce i processi evolutivi che sono ancora nascosti.

Istituzionalizzazione e salute mentale nel bambino

Gli studi condotti su bambini istituzionalizzati precocemente sono stati particolarmente utili per comprendere gli effetti che la deprivazione sociale infantile esercita, a lungo termine, sul funzionamento cognitivo e sul comportamento. In Gran Bretagna e in America Settentrionale, l’osservazione di soggetti cresciuti in orfanotrofio e, in seguito, adottati da famiglie ha rivelato la presenza di diversi deficit cognitivi, sociali e fisici. Numerose ricerche longitudinali hanno mostrato come le anomalie riscontrate in questi bambini, che pure possono andare incontro a una parziale remissione, sono qualitativamente molto simili a quelle descritte, in seguito a deprivazione sociale, nei primati non umani (per i modelli di trauma, v. oltre).

Benché le condizioni molto avverse esperite precocemente dai bambini istituzionalizzati siano di varia natura (per es., sono spesso risultate inadeguate sia l’alimentazione sia le cure prenatali) ci sono buone ragioni per prendere in particolare considerazione il ruolo della mancanza di affetti nell’ontogenesi delle difficoltà di natura sociale che risultano evidenti in questi soggetti. Nelle istituzioni dell’Europa orientale è stata regolarmente osservata una spiccata assenza di contatto fisico ed emozionale da parte dei caregivers: pur essendo l’esperienza di ciascun soggetto diversa da quella degli altri, le probabilità di ricevere calore e cure adeguate in questi ambienti sono molto ridotte. Alcuni orfanotrofi forniscono un livello sia pur rudimentale di stimolazione necessaria per lo sviluppo cognitivo, motorio e linguistico, ma nessuno di essi risponde adeguatamente alle esigenze relazionali dei bambini dando loro la possibilità di esperire rapporti stabili e coerenti, all’interno dei quali costruire apprendimenti emozionali e legami sociali (Gunnar, Morison, Chisholm, Schuder 2001). I bambini, infatti, ricevono dai loro caregivers un livello molto ridotto di attenzione e di comunicazione, e i loro bisogni individuali sono spesso disattesi.

I risultati di una serie di studi più approfonditi condotti su soggetti provenienti dai Paesi dell’Europa orientale (e successivamente alla loro istituzionalizzazione) confermano che le esperienze sociali precoci hanno un ruolo di primo piano nello sviluppo dei processi affettivi di base: questi bambini mostrano infatti notevoli difficoltà ad abbinare le espressioni facciali appropriate a scenari lieti, tristi o spaventosi. A ulteriore conferma della presenza di importanti alterazioni del funzionamento cognitivo ed emozionale, Chugani e i suoi collaboratori hanno osservato, in un gruppo di soggetti romeni da qualche tempo affidati alle istituzioni, una riduzione del tasso metabolico del glucosio in svariate regioni corticali (Chugani, Behen, Muzik et al. 2001).

Da queste considerazioni emerge chiaramente l’urgenza di una ricerca rigorosa e serrata che si occupi di valutare gli esiti delle possibili strategie d’intervento o di trattamento di quegli individui esposti precocemente a esperienze avverse. Laddove gli studi sull’uomo difettano in possibilità di controllo sperimentale, quelli condotti sugli animali offrono l’opportunità di eseguire ricerche controllate e, almeno potenzialmente, capaci di separare tra loro gli effetti delle diverse variabili in gioco, come, per es., i singoli aspetti specifici (alimentari, sociali ecc.) che insieme concorrono a fare di un ambiente precoce un ambiente inadeguato e potenzialmente patogeno.

Fattori materni coinvolti nella vulnerabilità psichiatrica

Modelli animali efficaci sono stati sviluppati utilizzando fattori esperienziali con effetti evidenti e relativamente consistenti nelle diverse specie. Al riguardo vanno menzionati gli studi di deprivazione materna in mammiferi quali roditori (S. Levine, Infantile experience and resistance to physiological stress, «Science», 1957, 126, 3270, p. 405) e primati non umani (H.F. Harlow, Total social isolation. Effects on macaque monkey behavior, «Science», 1965, 148, 3670, p. 666) condotti negli anni Sessanta del 20° sec. e che hanno dato il via a un filone di ricerche ancora oggi estremamente fiorente. L’uso di procedure sperimentali in grado di compromettere il rapporto madre-prole ha favorito la comprensione delle conseguenze di lungo termine che esperienze precoci avverse hanno sull’uomo. Tali alterazioni interessano una vasta gamma di processi che coinvolgono la sfera nervosa ed emozionale.

Sviluppo neurologico e comportamentale della prole

Gli effetti della separazione tra madre e prole si configurano come una vera e propria sindrome da deprivazione e sono stati studiati estesamente nei roditori. Le risposte alla separazione materna coinvolgono numerosi ambiti fisiologici e sono caratterizzate da aspetti comportamentali specifici, quali l’emissione di vocalizzazioni nel range del non udibile (ultrasuoni) che hanno lo scopo di riavvicinare la madre alla prole.

La complessità delle risposte evidenziate rivela l’esistenza di regolatori materni discreti che influenzano diversi sistemi fisiologici e il comportamento della prole. Per es., piccoli di ratto separati dalla madre hanno una frequenza cardiaca ridotta rispetto a soggetti non separati, un effetto che si può contrastare con l’infusione di latte nel loro stomaco. Altri aspetti legati alla nutrizione della prole, in particolare la ritmicità del rilascio di latte da parte della madre, possono influenzare il ritmo sonno-veglia della stessa. E ancora, i livelli di attività dei piccoli sono mantenuti alti grazie alla stimolazione da parte della madre, che continuamente sollecita i piccoli prendendoli e spostandoli nella zona nido, leccandoli sul corpo e allattandoli. L’assenza di tutte queste sollecitazioni riduce notevolmente il livello di attività della prole.

La madre esercita anche un importante ruolo di filtro (buffer) delle reazioni allo stress della prole. È noto che le risposte neuroendocrine allo stress sono molto limitate nei piccoli di roditori. Da un punto di vista adattativo ciò è molto importante perché gli ormoni dello stress, che hanno una forte azione catabolica, potrebbero danneggiare il sistema nervoso in sviluppo. Questo periodo di refrattarietà allo stress (SHRP, Stress-HypoResponsive Period) inizia alla nascita e dura all’incirca fino alla seconda settimana postnatale. È stato dimostrato che tale refrattarietà non è dovuta a un’immaturità del sistema neuroendocrino ma dipende da un’inibizione attiva esercitata dalla madre sulla secrezione degli ormoni che mediano la risposta allo stress (glucocorticoidi). L’effetto inibitorio della madre è stato evidenziato separando i piccoli dalla stessa per un periodo sufficiente (circa 8 ore), in seguito al quale la risposta allo stress si reinstaura. Studi successivi hanno dimostrato che l’inibizione è esercitata dalla madre attraverso l’allattamento. Segnali metabolici, come una riduzione nella concentrazione di glucosio presente in circolo, sono lo stimolo fondamentale per indurre il sistema neuroendocrino a rispondere a una stimolazione esterna. Va ricordato che la presenza della madre, oltre a inibire la risposta allo stress, può favorire anche il ritorno del sistema a una situazione d’inattivazione, una volta che esso sia stato stimolato.

Amore materno e nanismo psicosociale

La stimolazione tattile della madre favorisce anche la secrezione di ormoni fondamentali per la crescita corporea del neonato e del bambino, primo fra tutti l’ormone della crescita (GH, Growth Hormone). Studi condotti su piccoli di roditori hanno dimostrato che sono le azioni del leccare e dello strofinare energicamente il piccolo, compiute dalla madre, a mantenere la normale secrezione di questo ormone. Infatti, quando la femmina viene rimossa dal nido, i livelli di GH della prole scendono e vengono ripristinati se questa è stimolata energicamente, per es. mediante un pennello, mimando l’azione del leccare compiuta normalmente dalla madre.

Questo stesso meccanismo sembra operare nel neonato umano. Studiando alcuni prematuri ospitati nei reparti di neonatologia, si è reso evidente che le pratiche infermieristiche legate alla prematurità determinano una scarsa stimolazione tattile dei neonati, che a volte non sono toccati per nulla se non per essere sottoposti a procedure molto dolorose. Alcuni ricercatori hanno iniziato a manipolare i prematuri a intervalli regolari durante il giorno, alzando gli arti o massaggiando energicamente il corpo, ottenendo in questo modo un incremento nella loro crescita del 50%. I prematuri maturavano più velocemente sul piano neurocomportamentale, apparendo anche più attivi e vigili, ed erano dimessi dall’ospedale in media una settimana prima dei neonati non sottoposti al regime di manipolazione. Questi dati sono particolarmente interessanti se messi in relazione con quanto documentato nei neonati umani colpiti da nanismo psicosociale (o sindrome da deprivazione emotiva). Tale sindrome, per fortuna assai rara, colpisce bambini ospitati in orfanotrofi o che sperimentano gravi situazioni di abuso psicologico. Immancabilmente essi sono caratterizzati da bassi livelli di ormone della crescita e di corticosteroidi, che tornano rapidamente alla norma nel momento in cui sono loro fornite cure e attenzioni adeguate.

La stimolazione tattile è quindi un’esperienza fondamentale per il neonato e il bambino. Gli studi sul nanismo psicosociale ci insegnano che uno stimolo stressante non è tale solo perché viene imposto all’organismo: anche la mancanza di qualcosa di fondamentale, quale l’amore materno, può rappresentare un’importante fonte di stress.

Modelli di trauma precoce

Le ricerche di Seymour Levine (Infantile experience and resistance to physiological stress, «Science», 1957, 126, 3270, p. 405) e Victor H. Denenberg (Critical periods, stimulus input, and emotional reactivity. A theory of infantile stimulation, «Psychological review», 1964, 71, pp. 335-51) hanno fornito un contributo fondamentale per la comprensione di ciò che significa la stimolazione infantile e delle sue ricadute nel campo della neuroendocrinologia e delle basi biologiche della suscettibilità alla malattia mentale. Il punto di partenza teorico di questi due padri della psicobiologia era la costruzione di un modello di esperienza traumatica su cui si potessero saggiare alcuni dei principi enunciati dalla psicologia classica.

All’inizio delle sue ricerche Levine s’imbatté in una serie di risultati che si sarebbero rivelati assai importanti per la neuroendocrinologia sperimentale. Fu subito evidente, infatti, che quelle sollecitazioni che avrebbero dovuto traumatizzarli, rendevano invece più resistenti allo stress i piccoli ratti, una volta diventati adulti, secondo un meccanismo che fu definito di immunità emotiva. Questi risultati, totalmente inaspettati, aprirono un campo di ricerche, tutt’oggi assai fiorente, che ha rivelato gli importanti e persistenti effetti che una stimolazione ambientale precoce può avere sulla risposta neuroendocrina.

È stato successivamente definito in dettaglio dallo stesso Levine e da altri ricercatori come, al contrario di soggetti mai sollecitati da piccoli e cresciuti in assenza di stimoli, individui manipolati sono caratterizzati da una risposta allo stress assai efficiente, rappresentata da una secrezione rapida e consistente di glucocorticoidi, velocemente riportati ai livelli iniziali da un efficiente meccanismo di feedback negativo. Le ricadute di tale fenomeno si riscontrano sul lungo periodo in termini di maggiore efficienza cognitiva in fasi, come quella della vecchiaia, in cui il sistema nervoso è particolarmente vulnerabile all’esposizione a elevati livelli di ormoni dello stress.

Gli effetti della stimolazione precoce, tuttavia, non vanno unicamente nella direzione di una maggiore efficienza della risposta allo stress. È stato infatti dimostrato in numerosi studi che separazioni materne prolungate possono produrre effetti opposti a quelli precedentemente enunciati, determinando nell’individuo adulto un aumento eccessivo della secrezione di glucocorticoidi con un ritorno lento ai livelli precedenti alla stimolazione, un effetto mediato da modifiche nel differenziamento di quelle strutture del sistema limbico responsabili del processamento della risposta allo stress e dell’attivazione della secrezione dell’ormone adrenocorticotropo.

Non è sempre facile prevedere se gli effetti di una determinata esperienza saranno positivi o negativi. Infatti, sebbene una condizione di stress sia per lo più associata con un aumento nell’attività dell’asse neuroendocrino, osservazioni fatte sull’uomo mettono in risalto alcune situazioni in cui l’individuo si mostra iporesponsivo alla stimolazione. Questa situazione, definita ipocortisolismo, è caratteristica di bambini allevati in condizioni disagiate e/o stressanti e ha come connotato una paradossale riduzione nella risposta neuroendocrina. Appare anche evidente come una riduzione della risposta allo stress non sia sempre indice di un adattamento funzionale, ma possa invece denotare una compromissione della funzionalità dell’asse neuroendocrino, come conseguenza dell’esposizione a situazioni perinatali disagiate. Per tale motivo è molto importante che accanto a indici fisiologici, quali gli ormoni dello stress, sia rilevato anche un certo numero di variabili comportamentali che possano dare un quadro più completo del grado di compromissione dell’individuo.

In conclusione, le evidenze presentate finora suggeriscono che il differenziamento di un certo numero di strutture nervose deputate al controllo della risposta allo stress è influenzato da fattori ambientali precoci, sottolineando la grande plasticità presente all’interno del sistema nervoso in sviluppo, in grado di adattare finemente le risposte neurocomportamentali di ciascun individuo ai vincoli imposti dalla nicchia ecologica in cui egli nasce e cresce.

Estese ricerche condotte su primati non umani hanno documentato gli effetti duraturi della mancanza della figura materna e di diverse forme d’impoverimento sociale. Il rapporto madre-piccolo costituisce la più importante fonte di stimolazione per il piccolo di primate ed è necessario per sviluppare le capacità di accoppiarsi, procurarsi risorse alimentari, formare legami sociali e alleanze con gli altri membri del gruppo. I piccoli di primate passano le prime settimane di vita in costante contatto con la madre, che fornisce loro una base sicura da cui sperimentare il mondo circostante. Le ricerche sul modello di macaco reso, condotte presso il laboratorio diretto da Harry Frederick Harlow alcune decadi orsono, hanno chiaramente illustrato che soggetti vissuti in condizioni di isolamento dalla nascita sviluppano, da adulti, un comportamento sociale e sessuale incompetente, e mostrano alti livelli di aggressività (H.F. Harlow, Total social isolation. Effects on macaque monkey behaviour, «Science», 1965, 148, 3670, p. 666). La presenza di compagni della stessa età, in assenza della madre, favorisce il formarsi di relazioni di attaccamento tra pari e sembra compensare, almeno in parte, i deficit più gravi che caratterizzano gli individui allevati in condizioni di deprivazione estrema. Questi soggetti allevati dai pari, se così si vogliono definire, mostrano comunque un comportamento aggressivo inadeguato alle circostanze (da cui consegue che essi si posizionano sui ranghi più bassi della gerarchia sociale), presentano stereotipie motorie simili a quelle che caratterizzano gli individui con sindrome autistica e manifestano un’aumentata propensione a sviluppare dipendenza da alcol.

Questo modello d’interazione deviante madre-prole si è dimostrato particolarmente utile per lo studio del ruolo di fattori ambientali sulla patologia mentale. Se si considera che la psicopatologia è caratterizzata da un’inadeguatezza nei rapporti sociali, e visto il comportamento assai complesso dei primati non umani, se confrontato con quello dei roditori, questi studi presentano un alto potenziale di trasferibilità allo studio delle cause della patologia mentale nell’uomo. Recenti ricerche condotte su questo modello hanno mostrato interessanti interazioni tra l’esposizione precoce allo stress derivante dalla separazione dalla madre alla nascita e il background genetico.

Ricercatori del King’s college di Londra hanno identificato un polimorfismo nella regione che agisce da promotore del gene trasportatore della serotonina, il quale sembra moderare gli effetti stressanti della vita (Caspi, Moffitt 2006). Tale polimorfismo determina una diversa espressione quantitativa delle molecole del trasportatore, con successive conseguenze funzionali che si riflettono nella concentrazione sinaptica di serotonina, il neurotrasmettitore maggiormente implicato nella patologia depressiva. I ricercatori hanno dimostrato che soggetti con una o due copie dell’allele corto del polimorfismo relativo al promotore del gene in questione presentano più sintomi depressivi e ideazione suicida in seguito a eventi stressanti di quanto accade agli individui omozigoti per l’allele lungo.

Questo studio epidemiologico ha fornito la prova di un’interazione tra gene e ambiente, in cui la risposta individuale a un insulto ambientale è moderata dalla costituzione genetica. Nel modello di primate qui descritto è stato dimostrato che il fatto di essere stato allevato in assenza della madre interagisce con la presenza dell’allele corto del trasportatore della serotonina, favorendo una maggiore vulnerabilità allo stress.

La madre come ‘mediatore’ di esperienza

In esperimenti condotti negli anni Sessanta del 20° sec. utilizzando come modello i roditori, Denenberg aveva dimostrato che la relazione che si instaura tra la madre e la prole ha conseguenze di lungo termine sull’emotività di quest’ultima, evidenziando come sia lo stato emotivo della madre a influenzare il grado di emotività della prole una volta diventata adulta, giacché figli di madri ansiose si mostravano, a loro volta, ansiosi quando saggiati da adulti in una situazione di pericolo.

L’ipotesi cosiddetta della mediazione materna è stata confermata da numerose osservazioni e alcuni ricercatori hanno dimostrato una relazione diretta tra livelli di cure materne e differenze individuali nella risposta ormonale e comportamentale allo stress nella prole. In particolare, i figli di madri caratterizzate da alti livelli di cura si mostravano meno suscettibili a stimoli stressanti. Tale effetto è il risultato di modifiche nell’espressione di specifiche popolazioni di recettori per i glucocorticoidi presenti nelle regioni limbiche, che rendono il sistema più efficiente, liberando efficacemente dal circolo gli ormoni dello stress.

Nella specie umana, fattori materni sono in grado di influenzare, oltre all’emotività, il comportamento sessuale in età adolescenziale. Nel modello di roditore è stato di recente evidenziato che figlie di madri che a loro volta mostrano poche cure materne hanno un’aumentata recettività sessuale e un’accelerazione nell’età della pubertà, effetti che si accompagnano a modifiche nei livelli di ormoni sessuali e dei loro recettori a livello del sistema nervoso centrale (Cameron, Shahrokh, Del Corpo et al. 2008). Questi risultati indicano che gli effetti evidenziati nell’uomo sullo sviluppo sessuale della prole non sono dovuti a fattori culturali ma a vere e proprie modifiche della funzione riproduttiva programmate attraverso gli esiti della cura materna sulla fisiologia dell’asse gonadico. La finalità di tale programmazione è permettere a un individuo di sviluppare un fenotipo riproduttivo che si adatti in maniera ottimale alle condizioni ambientali. È possibile ipotizzare che un ambiente particolarmente stressante, o dove il cibo sia scarso, favorisca bassi livelli di accudimento materno, indirizzando verso lo sviluppo di una strategia alternativa mirata a raggiungere velocemente la pubertà.

Nel considerare le modifiche della risposta allo stress e della funzione riproduttiva, dovute a effetti principalmente riconducibili alla madre, va sottolineato come queste siano anche funzione di una complessa interazione tra fattori materni e fattori genetici della prole. Ciò è stato studiato mediante adozioni reciproche da parte di madri dello stesso ceppo o di ceppo diverso da quella di origine. I risultati di questi studi hanno evidenziato effetti non univoci, ma dipendenti da complesse interazioni tra l’emotività del ceppo materno e paterno e quello della madre adottiva. In successivi esperimenti di adozione reciproca, previa inserzione di embrioni di topo in madri di diversi ceppi, è stato dimostrato come tanto l’ambiente prenatale in cui l’individuo si sviluppa quanto quello postnatale (inteso come cure materne) interagiscano nel determinare il comportamento, contraddistinto da maggiore o minore emotività, della prole. Per es., i piccoli nati da embrioni del ceppo A, impiantati in femmine del ceppo B e da esse curati alla nascita, da adulti mostreranno lo stesso grado di ansia del ceppo della madre adottiva (B). Tuttavia, risulteranno più simili al ceppo della madre ‘genetica’ (A) se alla nascita saranno curati da femmine di quello stesso ceppo (A).

La ‘programmazione’ dell’emotività e della risposta allo stress sembrerebbe avvenire anche attraverso meccanismi complessi di modifica della capacità di espressione dei geni che includono cambiamenti nella struttura della cromatina e modifiche nella metilazione degli istoni e del DNA (DeoxyriboNucleic Acid). La metilazione del DNA, in particolare, è una delle più importanti modificazioni postreplicative del genoma. Consiste nel legame covalente di gruppi metilici alle basi azotate del DNA. Negli eucarioti la metilazione riguarda principalmente il nucleotide citosina ed è associata a ridotti livelli di trascrizione dei geni.

Un aumento nei livelli di cure materne durante la prima settimana di vita postnatale nel piccolo di ratto può alterare la metilazione nella regione del promotore del gene che codifica per il recettore degli ormoni dello stress, i glucocorticoidi. L’analisi dei livelli di metilazione del DNA nella regione del promotore indica che un alto livello di cure si associa a una diminuzione nella metilazione del gene, cui consegue un’aumentata espressione del recettore a livello delle regioni sottocorticali del sistema nervoso centrale. Le modifiche strutturali del DNA sono programmate dall’ambiente neonatale e risultano dinamiche e potenzialmente reversibili (Meaney, Szyf 2005). Infatti, nell’individuo adulto tali differenze nella metilazione di determinati geni possono essere eliminate utilizzando dei composti farmacologici, suggerendo una relazione diretta tra cure materne, modifiche epigenetiche ed effetti sulla reattività allo stress e sul comportamento materno della prole femminile, una volta che essa abbia raggiunto l’età adulta e si sia riprodotta.

Di recente è stato evidenziato come la qualità della cura materna sia un tratto che può essere trasmesso alle generazioni successive con un meccanismo che si avvale anche di modifiche nella metilazione di geni codificanti per gli ormoni sessuali (estrogeni) presenti nelle regioni limbiche del sistema nervoso centrale (Champagne 2008). Tale meccanismo è particolarmente importante poiché permette la trasmissione di informazioni concernenti l’ambiente di sviluppo da una generazione a quella successiva.

Sebbene la plasticità ambiente-dipendente nell’espressione di determinati geni sia un meccanismo adattativo, quando le risposte predette sulla base dell’ambiente prenatale o neonatale non coincidono con quello in cui l’organismo si trova, aumenta il rischio di sviluppo di patologie. Un importante esempio viene dalla previsione delle risorse nutritive disponibili in conformità a quanto sperimentato nell’utero materno. In questo caso, un aumento improvviso delle risorse – che nella specie umana può derivare per es. da un mutamento inatteso delle condizioni socioeconomiche – può contribuire sostanzialmente allo sviluppo di patologie quali il diabete di tipo 2, l’obesità o le malattie cardiovascolari. Ricerche future sui processi epigenetici delineati in questa sezione potrebbero portare all’elaborazione di terapie d’intervento innovative per combattere le suddette malattie.

Esperienze precoci e salute mentale

Gli effetti delle esperienze precoci sulla genesi della malattia mentale, sebbene riconosciuti, sono stati spesso sottostimati. Siamo inoltre molto lontani dal comprendere appieno i meccanismi molecolari attraverso cui l’ambiente può alterare la suscettibilità individuale a sviluppare una determinata patologia mentale. In seguito a eventi stressanti, e come conseguenza di una sovraesposizione ad alti livelli di glucocorticoidi, possono verificarsi numerose alterazioni strutturali, incluse modifiche nell’arborizzazione delle cellule nervose, o cambiamenti dell’attività cerebrale e del milieu dei neurotrasmettitori, con importanti conseguenze sulla plasticità neuronale.

Per quanto riguarda le aree cerebrali interessate, vi sono evidenze per un ruolo importante dell’amigdala e delle zone corticali temporale e prefrontale, mentre dal punto di vista neurochimico, il sistema monoamminergico sembrerebbe giocare un ruolo preminente, visto che la somministrazione di sostanze farmacologiche in grado di modulare le monoammine, particolarmente la serotonina, rappresenta la terapia più efficace e maggiormente utilizzata, nella pratica clinica, per il trattamento dell’ansia e della depressione.

Eventi traumatici subiti precocemente, quali l’abuso o la completa assenza di cure materne, si associano spesso a una maggiore suscettibilità a sviluppare disordini dell’umore, quali stati ansiosi e depressione, e sono correlati con modifiche sostanziali dell’attività dell’asse HPA. L’atrofia ippocampale, che si riscontra nei soggetti vittime di abusi fisici e psicologici subiti durante l’infanzia, è una delle maggiori evidenze di un ruolo degli ormoni dello stress quali mediatori degli effetti di esperienze traumatiche. Evidenze sperimentali condotte in modelli animali suggeriscono che fattori ambientali sono in grado di modificare l’attività neuroendocrina in maniera permanente e che queste modifiche hanno la possibilità di essere trasmesse alle generazioni successive. Nel modello di primate descritto in precedenza, macachi deprivati della figura materna mostrano, una volta adulti, un comportamento ansioso simile a quello caratteristico della specie umana. Questi effetti a livello comportamentale sono corredati da modifiche funzionali dell’asse HPA e del sistema monoamminergico, che rafforzano le evidenze di un importante ruolo di questi sistemi negli effetti di lungo termine di esperienze precoci avverse.

Per quanto riguarda il sistema serotoninergico, studi di base condotti in roditori indicano nelle prime settimane di vita postnatale un periodo cruciale per porre le basi del grado di ansietà che caratterizzerà l’individuo da adulto. Questo effetto è stato dimostrato eliminando, unicamente durante il primo mese di vita, in topi modificati geneticamente, un recettore selettivo del neurotrasmettitore serotonina. I topi presentano un livello molto alto di comportamenti ansiosi, effetto che mette in risalto come le connessioni neuronali responsabili per il fenotipo adulto vengano a stabilirsi precocemente e siano perciò suscettibili di essere trasformate in modo permanente da esperienze negative.

Fattori epigenetici, esperienze precoci e plasticità cerebrale

Tra i potenziali mediatori di plasticità, nonché trasduttori delle esperienze precoci in modifiche delle connessioni neuronali, vanno annoverate le neurotrofine, e tra queste, in particolare l’NGF (Nerve Growth Factor) e il BDNF (Brain-Derived Neurotrophic Factor). L’NGF è stato il primo fattore neurotrofico a essere scoperto, da Rita Levi-Montalcini circa 50 anni fa (R. Levi-Montalcini, The nerve growth factor 35 years later, «Science», 1987, 237, 4819, pp. 1154-62), quale sostanza rilasciata dal tessuto ber­saglio e in grado di regolare la sopravvivenza e la ma­turazione dei neuroni simpatici del sistema nervoso periferico. Più di recente, è stato dimostrato che le neurotrofine non hanno solo il compito di sostenere la sopravvivenza di neuroni in fase postmitotica, perché esse sono degli importanti mediatori di plasticità morfologica e sinaptica. L’espressione di questi fattori e dei loro recettori è regolata durante lo sviluppo del sistema nervoso, con picchi nei periodi di differenziamento neuronale e di formazione delle sinapsi. È importante sottolineare come stimoli esterni, quali per es. input visivi o eventi stressanti in grado di modificare l’attività neuronale, abbiano un importante effetto sull’espressione genica dei fattori neurotrofici. Queste modifiche di espressione dipendenti dall’attività neuronale fanno di tali mediatori dei potenziali trasduttori di stimolazioni ambientali in modifiche funzionali e strutturali del sistema nervoso.

Durante lo sviluppo l’espressione di NGF e BDNF è stata localizzata in regioni del sistema nervoso centrale, quali la regione ippocampale e quelle corticali, che abbiamo in precedenza rilevato come potenzialmente implicate nella patologia mentale e in cui avvengono importanti fenomeni di plasticità neuronale.

Cambiamenti sostanziali, come una riduzione o un aumento eccessivo nell’espressione di questi fattori durante fasi critiche di sviluppo, a seguito di input esterni, possono incidere sulla maturazione del sistema limbico, con conseguenze di lungo termine sul funzionamento delle connessioni neuronali. Questi cambiamenti, a loro volta, getterebbero le basi per un’alterata risposta alla stimolazione nell’individuo adulto che potrebbe amplificare la risposta neuronale, specialmente come conseguenza di forti sollecitazioni quali quelle derivate da stimoli stressanti.

Tra le neurotrofine, l’NGF e il BDNF sembrerebbero quelle principalmente coinvolte nelle modifiche della funzionalità cerebrale cui può conseguire la malattia mentale. Un aumento di NGF nel circolo, per es., è stato associato a situazioni cariche d’ansia e di stress, come dimostrato in soldati di leva al primo lancio con il paracadute, ma anche in chi si prende cura di un congiunto malato, per es. di Alzheimer. Anche lo stress sperimentato da chi cerca di smettere di fumare può provocare una crescita dei livelli di NGF nel circolo periferico. Un aumento di NGF nell’uomo è stato di recente riportato come correlato neurobiologico della situazione d’innamoramento, un dato che suggerisce un coinvolgimento di questa neurotrofina nei meccanismi di attaccamento.

Il BDNF, d’altro canto, è una neurotrofina che si è conquistata di recente un ruolo centrale nella teoria neurotrofica della depressione. Tale teoria è basata sulla nozione che la depressione e, più in generale, i disturbi dell’umore, sono dovuti ad atrofia o morte di neuroni in determinati circuiti neuronali a seguito di una diminuita espressione di fattori neurotrofici, quali il BDNF, come conseguenza dell’esposizione a eventi stressanti (R.S. Duman, G.R. Heninger, E.J. Nestler, A molecular and cellular theory of depression, «Archives of general psychiatry», 1997, 54, 7, pp. 597-606).

Tale ipotesi è suffragata, almeno in parte, dall’osservazione che in alcuni pazienti depressi si riscontra una piccola diminuzione nel volume dell’area ippocampale, una regione cerebrale coinvolta in processi cognitivi e affettivi. L’efficacia dei farmaci antidepressivi sembra dipendere dalla loro abilità nel promuovere un aumento nei livelli di BDNF, riscattando il suddetto trofismo neuronale.

È stato anche ipotizzato che l’aumento nell’espressione di questa neurotrofina potrebbe innescare un meccanismo di reclutamento di popolazioni neuronali immature, al fine di sostituire quelle degenerate in seguito a fenomeni di stress e/o a potenziare quelle rimaste.

Studi epidemiologici condotti sulla popolazione umana hanno evidenziato che la presenza di alcuni polimorfismi nella sequenza del gene del BDNF si associa a una maggiore probabilità di sviluppare la sintomatologia depressiva. Nella specie umana, inoltre, una riduzione nei livelli circolanti di BDNF è stata associata con una maggiore suscettibilità ai disturbi dell’umore, anche in dipendenza di traumi precoci. È stato dunque ipotizzato che una modificazione nei livelli delle neurotrofine, durante fasi precoci di sviluppo del sistema nervoso centrale, potrebbe riflettersi in modifiche di lungo termine nella suscettibilità di quelle stesse aree a eventi avversi anche nell’individuo adulto (Cirulli, Francia, Berry et al. 2009). Ricerche di base condotte su roditori e primati non umani confermano che il cervello in sviluppo è sensibile ad alterazioni del rapporto madre-prole e che tale suscettibilità si manifesta sotto forma di cambiamenti nell’espressione dei fattori neurotrofici NGF e BDNF. La direzione e l’intensità degli effetti dipendono strettamente dall’età in cui l’insulto è subito e dal suo andamento, acuto o cronico.

Nell’ambito delle ricerche condotte su roditori, in se­guito a eventi acuti, come una separazione materna breve, la risposta in termini di variazione dei livelli di neurotrofine è nella direzione di un aumento dell’espressione di questi fattori, risultato interpretabile come una risposta di ‘riparo’ visto il ruolo trofico esercitato da NGF e BDNF sul neurone. Eventi stressanti più duraturi portano, specie nel caso del BDNF, a una riduzione di lungo termine della sua produzione, evento che si può associare con una diminuzione nella plasticità neuronale, la quale, a sua volta, è stato ipotizzato che possa scatenare, nell’uomo, la patologia mentale.

Nel caso dei primati non umani, è stata evidenziata una maggiore suscettibilità a modifiche nei livelli di BDNF in soggetti di sesso femminile. Questo risultato è in linea con quanto descritto in termini di differenze di suscettibilità di genere alla patologia depressiva nella popolazione umana, in cui le donne mostrano una prevalenza rispetto a individui di sesso maschile (secondo le stime il rapporto è di due donne per ogni uomo). Tale risultato, inoltre, pone l’accento anche sull’importanza di sviluppare modelli adeguati per lo studio delle basi neurobiologiche della malattia mentale.

Conclusioni

Le evidenze documentate in questo saggio pongono l’accento sul ruolo delle esperienze precoci, in particolare delle esperienze negative o dello stress cronico sostenuto, quali importanti fattori di rischio per la psicopatologia. La suscettibilità individuale è determinata dalle esperienze avute in periodi sensibili, che possono anche interagire con il background genetico, gettando le basi per un fenotipo adulto più vulnerabile. Le neurotrofine possono essere annoverate tra i fattori neurobiologici maggiormente coinvolti in tali effetti di lungo termine. Se da una parte questi fattori sono particolarmente sensibili allo stress, che ne può provocare una diminuzione, essi risultano anche modulabili da altri fattori (per es., l’esercizio fisico) che sono intimamente connessi con la risposta adattativa dell’organismo e a uno stile di vita sano e attivo.

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