NICCOLÒ da Poggibonsi

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013)

NICCOLO da Poggibonsi

Sergio Gensini

NICCOLÒ da Poggibonsi. – Non si conoscono gli estremi biografici di questo frate nato tra il 1310 e il 1320 a Poggibonsi, nei pressi di Siena, che si definì «Frate Nicola di Corbico da Poeibonici del contado di Fiorenca dela Provincia di Toscoana» nell’acrostico da lui stesso compilato con le iniziali dei capitoli XIII (seconda metà) - LXXXVI del suo Libro d’Oltramare dopo averne dato una chiave di lettura nel Proemio.

Suo padre potrebbe essere quel «Corbiczino Nicolai de Podio Bonitii» che, in un documento proveniente dall’Ospedale di S. Maria della Scala, figura insieme ad altri quale inviato del Comune di Poggibonsi per trattare la resa con gli occupanti del nuovo castello di cui Enrico VII di Lussemburgo aveva fatto iniziare la ricostruzione nel gennaio 1313; tale documento potrebbe rimettere in discussione l’ipotizzata parentela con l’illustre famiglia fiorentina dei Corbizi. Si deve, comunque, escludere la nascita fiorentina di Niccolò poiché egli stesso si definisce «da Poggibonsi» e con tale espressione si intendeva il luogo di nascita secondo l’uso corrente tra i francescani, ai quali dice di appartenere: «io frate Niccolò de’ frati minori di Poggibonizi» (Libro d’Oltramare, 1945, Proemio).

A Poggibonsi stimoli di varia natura e soprattutto il culto di s. Lucchese – che una tradizione recepita da fra Mariano da Firenze, da Luke Wadding e da altri vuole accolto nel Terz’Ordine dallo stesso Francesco – lo spinsero a indossare il saio francescano, mentre la memoria di personaggi legati, direttamente o indirettamente, alla Terrasanta, lo indusse al pellegrinaggio verso quei luoghi dove già erano insediati i suoi confratelli. Così, dopo aver visitato alcune città della Toscana (ricorda più volte Firenze e, al capitolo VI, Siena, il cui duomo paragona a una «grande chiesa» che incontra sulla via di Damasco) e, forse, Roma (lo si intuisce dal riferimento al Colosseo durante la sosta a Pola), intraprese il suo viaggio verso Gerusalemme.

Partì da Poggibonsi «fra il mese di marzo a più dì negli anni di nostro Signore Gesù Cristo MCCCXLV» (ibid., cap. I, p. 2), cioè prima del 25 marzo 1346 secondo lo stile comune, quando era ancora abbastanza giovane e, passando per Firenze, Bologna, Ferrara, Chioggia, giunse a Venezia, «il più reale porto del mondo; però che sempre truovi navilij da navigare in qualunque paese l’uomo à mestieri d’andare» (cap. II, p. 3). Ne ripartì il 6 aprile e, dopo una navigazione di 56 giorni, tormentata dalle furie del mare e dall’assalto dei pirati, il 1° giugno giunse nel porto cipriota di Famagosta; si recò poi a Nicosia, dove rimase sei mesi coi francescani e, imbarcatosi per Giaffa nel febbraio 1347, giunse a Gerusalemme il 25 di quel mese e vi si trattenne quattro mesi presso la chiesa del S. Sepolcro. Fra l’estate e l’autunno fece una digressione a Ebron, ‘Ain Karem, in Samaria e Galilea prima di rientrare a Gerusalemme. Assisté alle funzioni della Natività nella chiesa di Betlemme, le cui contrade «sono colli e valli, e tutti inarborati come la corte di Poggibonizi» (cap. CVIII, p. 84). Il 6 gennaio 1348 fu presente alle funzioni dell’Epifania sul Giordano, visitò poi il monte della Quarantena a Gerico e ne ripartì per Damasco, di cui descrisse più oltre le meraviglie in uno dei capitoli più belli per ricchezza e vivacità. Passò l’intero anno fra Siria e Libano; all’inizio del 1349 si recò a Beirut e poi in Egitto: Damietta, Alessandria, Il Cairo. In primavera attraversò il Sinai e, passando per Gaza, tornò a Damietta. Nell’estate del 1349 salpò dall’Egitto per Cipro e, passando per la Slavonia, l’Istria e il Friuli, giunse a Venezia, che lasciò nel gennaio 1350 e, attraverso Chioggia, Ferrara, Bologna e Firenze, tornò in patria fra il marzo e l’aprile.

Fra i luoghi che segnano la storia della spiritualità cristiana, Gerusalemme è anche il punto di riferimento per ebraismo e islamismo, come Niccolò annota: «tutte le generazioni del mondo ti chiamano santa» (cap. XI, p. 10). La pratica del pellegrinaggio, iniziata sin dall’età apostolica ed estesa nel IV secolo all’Occidente, per impulso della madre dell’imperatore Costantino, Elena, conobbe un grande incremento fra il VII e l’XI secolo, quando, favorito anche dalle autorità ecclesiastiche, si affermò l’uso delle peregrinationes poenitentiales, viaggi imposti a titolo di penitenza per peccati specifici, che anticipavano l’uso delle indulgenze. Dal ceppo di tali itineraria deriva anche quello di Niccolò.

Il viaggio non dovette avere solo natura devozionale: se è vero che scrisse il Libro d’Oltramare per servire da guida ai pellegrini, è anche vero che si lasciò attrarre da un’infinità di cose, sintomo di grande curiosità e attento spirito di osservazione. Di Venezia, per esempio, lo colpiscono sia il fatto che «tutta giente sono mercatanti» (cap. I, p. 2), sia la struttura urbanistica, «però ch’ella è fatta in altro modo che l’altre terre» e le «strade, piccole e grandi, sono canali d’acqua» (cap. II, p. 2); ugualmente è impressionato dalla complessa organizzazione allestita dai musulmani per fornire guide, alloggi, cavalcature e altro, la cui descrizione fa pensare a un turismo oggi definibile ‘di massa’. Notevoli inoltre sono l’ampiezza dell’itinerario, l’eccezionale durata del viaggio e soprattutto la molteplicità degli interessi che Niccolò manifesta, cogliendo i più vari aspetti dei paesi che visita e i caratteri delle genti che incontra. Da buon francescano rifiutò il denaro offertogli da un ricco giacobita di Alessandria di Egitto per il ritorno («la nostra regola non ci concede di portare denari», cap. XXVI, p. 148), ma del francescano non manifestò la vocazione missionaria.

Che il Libro d’Oltramare corrisponda a un programma costruito con estrema lucidità e perseguito con rigore lo dice lo stesso autore: « […] quando passai oltramare, l’animo mio puosi di volere tutte cose visitare […]. E quello che con gli occhi vedea, e colle mani toccava, e anche altrui domandando […] io lo scriveva in su un pajo di tavolelle, che allato portava. […] E la ragione […] si è questa: prima, che molti, che ànno grande voluntà di visitare le sante luogora, a molti nuoce la povertà, e altri lasciano per troppa fatica, e chi per non potere avere licentia, che si debba avere, dal Papa» (cap. XIII, p. 13). In queste parole è espresso l’intento principale dell’opera, che è quello di dare informazioni a chi non poteva compiere il pellegrinaggio. A ben guardare, però, essa si configura anche come una vera e propria guida turistica. Niccolò, infatti, si abbandona spesso a descrizioni di colore esotico, lasciandosi attrarre dal meraviglioso perfino nei luoghi sacri nei quali ci si aspetterebbe di vederlo concentrato nella preghiera. Così, nella chiesa di S. Caterina del Sinai, dove lo colpisce il gran numero di lampade «che io non potevo venire a fine di contarle» e che poi seppe essere «più di mille cinquecento […] fralle quali ce n’è molte d’oro e d’argento» (cap. CCXIV, p. 126). Di Damasco lo attraggono, invece, la struttura urbanistica e le consuetudini economico-sociali: «…tutte le strade buonamente sono coperte di sopra, con molti spiragli [lucernari] spessi e molte lampane appiccate per farne lume la notte; e le case sono altissime […] dentro tutte messe [dipinte] ad azzurro fine, di sotto lavorate ad opera musaica […]. Ecci grande mercato d’oro e d’azzurro [zaffiro], e d’ogni spezieria. […] E’ giardinieri sono XX. migliaia […] e LXX. migliaia d’orafi e di cambiatori […] e XXIII. migliaia di lavoratori di rame; e XXII. migliaia e ottocento lavoranti che fanno vivande da mangiare» perché «in Damasco non è niuno signore e niuno sì povero, che mai cuoca in sua casa; […] e ogni cosa che vogliono, sì truovano cotto […] a tutte l’ore […] però ch’e’ Saracini mangiano così di dì come di notte, che pare ch’egli abbiano lo stomaco di ferro. […] Anco ànno nella detta città X. migliaia delle loro chiese, le quali chiamano moschede. Ancora ànno CVIII. persone, che ciascuna persona ripone XV. migliaia di botti d’acqua rosata, e la botte tiene da XXIII. some insu […]. La detta città è molto fredda, e nelle montagne che sono d’intorno, sì ci dura la neve infino a giugno; e portasi la detta neve insu i camelli a vendere in Damasco, e ivi si vende di maggio e di giugno; e anche la mettono nelle cantine, e mangionla nelle loro abeverature» (cap. CLII, pp. 90-91).

A una commozione, talora anche intensa, provata davanti a certi monumenti che ricordano momenti particolari della vita e della passione di Gesù, si accompagna un forte interesse per le cose esteriori, tanto più quando si trova davanti a cose ben diverse da quelle che conosce, come lo struzzo, l’elefante, la giraffa e soprattutto quella sorta di fenomeno da baraccone che vide a Gaza il quale «colle mani dimezzava li peducci [stinchi] crudi del castrone, che pareva fusseno baccelli di fave […]. E poi pigliava V. uomini, l’uno si poneva in sullo collo ginocchione, e l’altro in sulla spalla a cavalcione, e lo terzo in sull’altra spalla in quello modo, e lo quarto sotto il ditello [ascella] del braccio, e lo quinto sotto l’altro ditello. E così, con questi V. uomini a dosso […] si volgeva con le mani vote intorno intorno, a modo di trottola» (cap. CCXLII, p. 139). Niccolò aggiunge inoltre indicazioni di pratica utilità: da quelle sulle monete a quelle di carattere geografico.

Molte sue osservazioni, sfuggite a tanti altri pellegrini, sono esatte e fondate, confermate dai monumenti superstiti e dagli scavi archeologici; non meno interessanti, pur se non altrettanto esclusive, sono le descrizioni degli usi liturgici di ebrei e di musulmani, nonché di confessioni cristiane diverse dalla cattolica, delle quali offre un quadro variegato (cap. CLXXVII, p. 105), come la festa dell’Epifania sul Giordano, descritta anche con qualche nota di colore (cap. CXLVIII, p. 85) o quella, ancor più pittoresca, di una messa ad Alessandria d’Egitto officiata dai giacobiti (cap. CCLVI, p. 148). Notevoli la sua attenzione verso gli altri popoli e la particolare simpatia per i musulmani.

Un posto di rilievo è dato anche alle leggende, che, pur non ritenendole tutte vere, trova attraenti. Una parte di esse sono relative alla vita della Madonna. Su tutte s’impone quella del legno della Santa Croce, alla quale, parlando dell’omonima chiesa di Gerusalemme, dedica una suggestiva descrizione: «Come uno dottore dice, la croce di Cristo fu di quattro legni; per lo lungo della croce fu il legno che Set, figliolo d’Adamo nostro padre, recò dal paradiso; e questo legno crebbe in valle Ebron, sopra la sepoltura d’Adamo. Il secondo legno, che fu per le braccia della croce, fu d’arcipresso, e questo crebbe in questa chiesa sopra detta. Il terzo legno si fu cedro, e questo crebbe in monte Libano, il quale fu posto a’ piedi di Cristo. Il quarto fu d’ulivo, dove scritto fu: Yesus Nazarenus rex Iudeorum. Alla detta chiesa si fa bella festa la seconda domenica della quaresima, che vanno tutti i Cristiani, e Saracini di Ierusalem. E dicesi, che in quello dì fu tagliato detto albero» (cap. CXII, p. 66)

Fra le reliquie che Niccolò ricorda, i chiodi della porta Aurea del Tempio, che i cristiani «tragono, quando possono, però che ànno grande virtude» (cap. LXXXV, p. 53), e la terra del campo damasceno, che i saraceni «comperano molto cara, quando ne possono avere, e mangionla come fusse confetto» (cap. CXVI, p. 68). Sempre in chiave devozionale, le preghiere e le liturgie non presentano niente di notevole, mentre rilevanti sono le annotazioni sulle indulgenze e i luoghi dove si possono lucrare, come quello dove Cristo apparve a s. Maria Maddalena (cap. XXIII, p. 20) e quello dove fu imprigionato (cap. XXIV). Fedele, inoltre, alla promessa fatta nel Proemio («chi leggerà, troverràe tutte le ‘ndulgenzie per ordine»), Niccolò le distingue in parziali e plenarie.

Notevole è, infine, la straordinaria precisione con la quale vengono descritti i monumenti, sia antichi sia moderni, con l’occhio rivolto di preferenza agli aspetti artistici, dei quali, a differenza della maggior parte dei pellegrini, Niccolò sa distinguere il genere, lo stile e le tecniche.

Francesco Zambrini, che per primo ebbe l’idea di una edizione completa e, costretto a rinunciarvi, ne affidò la realizzazione ad Alberto Bacchi della Lega, recensendo tale edizione (in Propugnatore, XVI [1881], 2 ) compendia le caratteristiche del Libro d’Oltramare, dandone questo giudizio complessivo: «Non solo vi si parla minutamente dei luoghi santi di Gerusalemme e de’ suoi contorni, come altri vagamente si limitarono; ma l’Autore nostro […] descrisse fortune di mare, pericoli di terra, costumi di diversi popoli; parlò di ginnastica, di meccanica, di storia naturale: trattò delle pietre preziose, de’ metalli, de’ pesci, de’ quadrupedi, dei frutti, dei vegetali e d’assai altre importantissime materie; cotale che questo libro torna molto utile non solamente ai filologhi, ma a qualunque ordine di persone. Onde i suoi concittadini farebbero opera molto pietosa ed equa se innalzassero un degno monumento a colui che può annoverarsi fra’ i primari viaggiatori del medio evo». Insomma, è una guida meno legata alla dimensione del pellegrinaggio e aperta a nuove e più ampie problematiche: che fu appunto la grande novità maturata entro la prima metà del Trecento e che lascia intravedere l’affacciarsi di quella ispirazione ad ampliare le proprie conoscenze, tipica dell’Europa tardomedievale.

Niccolò difese il suo lavoro da eventuali plagi con una ferma rivendicazione. Fornì gli scarsi dati autobiografici nell’opera proprio «acciocché niuna persona il detto travaglio, che io ebbi per lo detto libro, a sé nollo riputi, né […] possa dire che l’abbia fatto altro che io, frate Niccolò de’ frati minori di Poggibonizi» (Proemio). E tanta deve essere stata la fretta di far conoscere agli altri la sua esperienza da impedirgli di dare un ordine più preciso a quanto andava rilevando dalle sue preziose «tavolelle». Il racconto, infatti, è tutt’altro che lineare e il lettore deve faticare non poco a ricostruire con ordine le tappe del viaggio.

Dell’opera, di cui non si conosce l’autografo, si hanno 20 codici compilati tra il XV e il XVII secolo conservati in varie biblioteche italiane (fra cui la Biblioteca nazionale di Firenze) e straniere, uno dei quali scritto da un conterraneo dell’autore: «Francesco di Barone di Salvi de’ Belforti da Petrognano in Valdensa (sic), nato a Poggibonsi nel 1413», come scrive p. Bellarmino Bagatti nell’Introduzione. Ma, salvo due esclusioni, i vari editori mantennero il testo originale pressoché intatto.

Il Libro d’Oltramare fu pubblicato da Bacchi della Lega (Bologna 1881, rist. anast. Bologna 1968) in due volumi; una successiva edizione, riveduta e annotata – Libro d’Oltramare (1346-1350) –, fu pubblicata per il sesto centenario da Bagatti (Gerusalemme 1945, trad. ingl. a cura di T. Bellorini - E. Hoade, Jerusalem 1945; trad. ted. C.D.M. Conar, Gottinga 1985). Un’altra edizione del Libro d’Oltramare, a cura di A. Lanza, è in Pellegrini scrittori. Viaggiatori toscani del Trecento in Terrasanta, a cura di A. Lanza - M. Troncarelli, Firenze 1990.

Fonti e Bibl.: L. Frescobaldi, Viaggio in Terra Santa …, in Viaggi in Terra Santa di Lionardo Frescobaldi e d’altri del secolo XIV, a cura di C. Gargioli, Firenze 1862, pp. 3 ss.; A. Gregorini, Le relazioni in lingua volgare di viaggiatori italiani in Palestina nel secolo XIV, Pisa 1896, p. 80; A. Franco, Cenni su N. da P., in Esercitazioni di letteratura religiosa in Italia nei secoli XIII e XIV, a cura di G. Mazzoni, Firenze 1905, pp. 298-331; Mariano da Firenze, Compendium Chronicarum Ordinis Fratrum Minorum, estr. da Archivum Franciscanum Historicum, I-IV (1908-1911), p. 17; P. Del Zanna, Un viaggiatore del sec. XIV e l’opera sua (Il “libro d’Oltramare” di fra N. da P.), in Miscellanea storica della Valdelsa, XX (1912), 2, pp. 93-99; L. Wadding, Annales Minorum seu Trium Ordinum a S. Francisco Institutorum, II (1221-1237), Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1913 (1a ed. Lyon 1625); A. D’Ancona - O. Bacci, Manuale della letteratura italiana, I, Firenze 1921, pp. 483-485; G. Golubovic, Biblioteca bio-bibliografica della Terra Santa e dell’Oriente francescano, V, Quaracchi 1927; G. Mazzoni, I viaggi nella letteratura italiana, Roma 1931, pp. 156-160; Repertorium fontium historiae Medii Aevi primum ab Augusto Pottast digestum, nunc cura collegii historicorum e pluribus nationibus emendatum et auctum, Roma 1948, pp. 181 s.; G. Auletta, Pellegrini e viaggiatori in Terrasanta, Bologna 1963; M. Bertagna, S. Lucchese di Poggibonsi. Note storiche edocumenti, Firenze 1969; Marcellino da Civezza, Saggio di bibliografia geografica, storica, etnografica sanfrancescana, Bologna 1971, p. 467; J. Guerin Della Mese, Egypte, Firenze 1991, ad ind.; F. Cardini, Ricordo di N. da P., in Miscellanea storica della Valdelsa, XCI (1995), 3, pp. 263-267; S. Gensini, Un «baedecker» del XIV secolo: il Libro d’Oltramare di N. da P., ibid., CXIII (2007), 1-3, p. 108.

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