JOMMELLI, Niccolò

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 62 (2004)

JOMMELLI, Niccolò

Angela Romagnoli

Nacque ad Aversa il 10 sett. 1714 dal commerciante di stoffe Francesco Antonio e da Margherita Cristiano.

Ricevette la prima istruzione musicale come fanciullo cantore nella cattedrale della città natale dal canonico Muzzillo. A 11 anni andò a Napoli; dopo una prima esperienza al conservatorio di S. Onofrio sotto I. Prota e F. Feo, nel 1728 si trasferì al conservatorio S. Maria della Pietà dei Turchini, dove studiò tra gli altri con N. Fago, A. Basso e G. Sarconi. Divenne un protetto del marchese del Vasto, che probabilmente ne promosse l'esordio teatrale: nel 1737, al teatro Nuovo, andò in scena con successo la sua prima opera (comica), L'errore amoroso. Anche la seconda opera (sempre comica), Odoardo, segnò un punto a favore del giovane compositore, la cui fama cominciò a circolare e lo portò rapidamente a calcare le scene di tutta Italia. Nel 1740 esordì a Roma con Ricimero re dei Goti, che impressionò il duca di York, Henry Benedict Stuart (poi cardinale), uno dei suoi più importanti protettori.

Nel 1741 allestì Ezio a Bologna, facendosi notare dall'aristocrazia locale. Dalla corrispondenza di C. Broschi, il Farinelli, con il conte Pepoli si ricavano alcune annotazioni sulla magnificenza dell'allestimento, ma anche sul desiderio del conte di introdurre lo J. presso la corte spagnola per il tramite del cantante, cosa che riuscirà solo nel decennio successivo. A Bologna lo J. entrò in contatto con padre G.B. Martini, presso il quale voleva consolidare la propria formazione contrappuntistica e imparare "l'arte di uscire da qualunque angustia, o aridità, in cui si fosse ridotto un maestro, e di trovarsi in un nuovo campo spazioso a ripigliare il cammino, quando si credea, che non ci fosse più dove andare" (Mattei, p. 76); divenne inoltre accademico filarmonico. Sempre nel 1741 scrisse Merope, la prima opera per Venezia. Gli anni '40 furono estremamente prolifici: lo J. produsse opere per Bologna, Roma e Venezia, ma anche Torino, Padova, Ferrara, e oratori di grande successo, come Betulia liberata e Isacco figura del Redentore, più volte ripresi.

L'esordio veneziano non passò sotto silenzio: su raccomandazione di J.A. Hasse lo J. venne chiamato nel 1745 (ma forse i contatti iniziarono nel 1742: cfr. Hochstein, Die Kirchenmusik, I, pp. 25 s.) come maestro di cappella presso l'ospedale degli Incurabili, per il quale produsse una considerevole quantità di pezzi sacri. Mantenne l'incarico per un paio d'anni, prima di trasferirsi a Roma tra la fine del 1746 e l'inizio del 1747; nel gennaio andò in scena la prima Didone, opera su cui il musicista tornerà (come su altre) più volte. Nel 1748 a Napoli con L'amore in maschera riprovò dopo 10 anni la via del comico, a cui si dedicherà negli anni successivi scrivendo opere e intermezzi ma non con la stessa continuità che si riscontra nella produzione seria.

La produzione dei primi dieci anni presenta già diverse caratteristiche emblematiche dello stile dello Jommelli. L'attenzione al piano dinamico emerge subito e si trasforma rapidamente da elemento accidentale a fatto strutturale (Hell, p. 356); soprattutto per quanto riguarda l'uso del "crescendo" strumentale, e abbinata alla regolarità di costruzione del periodo, la concezione dinamica dello J. darà frutti fecondi nel sinfonismo d'Oltralpe e segnatamente dei Mannheimer. Il crescendo strutturale si innesta su una tradizione interpretativa già presente nei napoletani (L. Leo), espressa eventualmente da un "rinforzando" in partitura, e viene individuato da Hell (pp. 365 s.) a partire dall'Artaserse (1749), nonostante l'espressione "crescendo il forte" compaia già nell'Eumene (2a versione, 1747). Altrettanto precoce è la vocazione per il recitativo accompagnato; Ch. De Brosses, a Roma nel 1740 (quando fu eseguito Ricimero), ne fu colpito: "i recitativi con accompagnamento obbligato di violini […] sono i più belli; ma sono rari. Quando sono svolti alla perfezione, come certuni di Jommelli che ho udito, bisogna riconoscere che, per la forza della declamazione e la varietà armonica e sublime dell'accompagnamento, sono di una drammaticità estrema, ineguagliabile, molto superiore al miglior recitativo francese e alle più belle arie italiane" (De Brosses, p. 594). Pure l'interesse per l'esplorazione delle potenzialità strutturali dell'opera tramite l'alterazione dell'imperante modello metastasiano si manifesta subito: la Merope veneziana del 1741 presenta già una singolare costruzione del raccordo tra primo e secondo atto, con coro, recitativo accompagnato, balletto e pantomima. In generale, rimane costante negli anni la tensione verso una forte espressività, demandata spesso all'orchestra e al particolare equilibrio tra questa e le voci, oppure all'armonia, senza mai perdere di vista l'effetto della concatenazione dei singoli pezzi anche nel modello più strettamente metastasiano. Mattei (p. 123) sottolinea la continuità di ispirazione, rispetto a chi rimprovera allo J. un'eccessiva germanizzazione nel dopo Stoccarda: "Jommelli né ha corrotto, né ha cambiato lo stile, sebene le sue carte ultime sien differenti dalle prime. Ogni scrittore, che ha tenuto in esercizio la penna per cinquant'anni, si va avanzando in certe virtù, e va mancando in certe altre, perché tal'è l'imperfezione delle cose umane, ed ogni età ha le sue virtù, ed i suoi difetti. Nel giovane ci troverete un maggior impeto, e una maggior fluidità, ma minor esattezza: nel vecchio ci troverete maggior esattezza, ma minor impeto, e maggior [recte: minor] fluidità". L'affermazione è corroborata dagli studi recenti: McClymonds (The evolution of J.'s style, p. 327) si schiera esplicitamente con Mattei contro le posizioni di A.L. Tolkoff.

Agli anni '40 risale la prima ondata significativa di composizioni sacre. La produzione per gli Incurabili di Venezia era ritagliata sulle esigenze dell'istituzione, che disponeva solo di cantanti donne; alle versioni "al femminile" corrispondono a volte riadattamenti successivi per voci miste. Per il conservatorio lo J. scrisse soprattutto messe e salmi, spesso composizioni di ampie proporzioni e in funzione rappresentativa per l'istituzione (tra le più citate il Laudate pueri in si bemolle maggiore del 1746: su cui v. Hochstein, Die Kirchenmusik, II, C.I.17). Troviamo poi una serie di mottetti (cantate sacre) per uso paraliturgico o per studio delle ragazze, di norma per voce sola, archi e basso continuo, e almeno un paio di oratori (Joas e Juda proditor).

Il 1749 fu un anno cardine per la carriera dello J., che mantenne i contatti con il suo protettore, il cardinale Stuart (a cui dedicò La Passione di Gesù Cristo), e al contempo sviluppò quelli con la cerchia papale, soprattutto con il cardinale Alessandro Albani. In questo periodo si avviò l'iter che condurrà lo J. a servire in S. Pietro: dopo una veloce selezione (e con non poche invidie), in aprile venne eletto coadiutor a fianco dell'anziano P.P. Bencini, che era pure maestro di cappella della chiesa nazionale tedesca, S. Maria dell'Anima. Il 18 novembre lo J. fu chiamato ad affiancarlo anche lì (Heyink, 1997, pp. 418 s.). Fin da questo primo anno romano lo J. compose inoltre per i collegi Nazareno e Capranica. Albani gli procurò un abboccamento alla corte di Vienna, dove lo J. si fermò alcuni mesi tra l'estate del 1749 e la fine del 1750 per una tappa di rilievo nella sua esperienza teatrale: conobbe Metastasio, compose Achille in Sciro per il compleanno di Elisabetta Cristina di Brunswick, vedova di Carlo VI (30 agosto), e la seconda versione della Didone, partecipò a vari pasticci, si impose come direttore. L'ultima data riferibile a una sua presenza viennese è l'8 ott. 1750, quando andò in scena Armida placata (pasticcio); non fu però a Vienna continuativamente, ma tornò in Italia per diversi impegni a Venezia e a Roma. Questo calcolo coinciderebbe con l'affermazione del Mattei, secondo cui egli passò a Vienna un anno e mezzo (pp. 82 s.; cfr. anche McClymonds, N. J., the last years, p. 6). Oltre all'attività teatrale pubblica lo J. accompagnò i divertimenti musicali privati dell'imperatrice Maria Teresa, ricevendone generose ricompense.

Il contatto diretto con Metastasio rappresentò un momento forte per lo Jommelli. Secondo Mattei (p. 79) lo J. dichiarava che durante le loro discussioni di "cose teatrali" il poeta gli insegnò di più di quello che aveva appreso da Feo, Leo e padre Martini, e insiste anche sui consigli pratici che il poeta fornì su come affrontare l'intonazione dei testi (cfr. anche Gialdroni). Lo J. idolatrò Metastasio fino alla fine della sua carriera, anche quando riconoscerà i limiti della ormai datata penna del poeta. La stima sembra ricambiata, dato l'entusiasmo con cui Metastasio si esprime nelle lettere; valga ad esempio il commento alla Didone: "ornata d'una musica, che giustamente ha sorpresa, ed incantata la Corte. È piena di grazia, di fondo, di novità, di armonia, e sopra tutto di espressione. Tutto parla, sino a' violini, e a' contrabbassi. Io non ho finora in questo genere inteso cosa, che m'abbia più persuaso" (Metastasio alla principessa di Belmonte, 13 dic. 1749). Il soggiorno viennese per lo J. fu assai denso; egli entrò in contatto con musicisti portatori di una cultura musicale in parte alternativa a quella italiana, come G.Chr. Wagenseil, e con i giovani autoctoni come K. Ditters von Dittersdorf, che dalla sua frequentazione trarranno spunti decisivi per le composizioni sinfoniche (Hell, pp. 479-481, 488). È probabile che l'inclinazione a incrementare scene corali e d'insieme che si ritrova nelle opere degli anni successivi sia un'eredità del gusto incontrato a Vienna: troviamo il coro in Achille in Sciro e pezzi di insieme anche imponenti nei pasticci, come il grande quartetto con archi che chiude il secondo atto della Merope del 1749, oppure la composita scena dell'Euridice (atto II, scena 8), che presenta in successione e praticamente senza soluzione di continuità recitativo semplice, recitativo accompagnato, arioso di Orfeo, quest'ultimo alternato a sezioni corali (con orchestra piena), il duetto Orfeo-Euridice, anch'esso alternato a un coro.

Tornato a Roma, nel 1750 (anno santo) lo J. prese servizio effettivo a S. Pietro; il papa lo dichiarò suo virtuoso, sottraendolo all'esame della congregazione di S. Cecilia, che avrebbe desiderato influenzare la nomina. Il triennio 1750-53 vide un'ovvia intensificazione della produzione sacra, dato che lo J. era tenuto per contratto a fornire la musica per il servizio quotidiano della Cappella Giulia, cioè per le messe (compreso il proprium) e l'ufficio. Tra le composizioni per S. Pietro viene spesso citato dai contemporanei con ammirazione il Veni Creator Spiritus (Hochstein, Die Kirchenmusik, II, F.3).

La produzione sacra veneziana e romana è stata studiata a fondo da Hochstein, anche se non tutti i problemi di datazione e destinazione della musica sopravvissuta sono stati risolti. Stilisticamente lo J. praticò diverse strade, a seconda dei generi, delle occasioni e delle disponibilità materiali delle diverse cappelle, sperimentando tutto l'arco delle scelte possibili, dalla composizione in stile antico a cappella (i Miserere) fino a pezzi concertanti per grossi organici.

Una testimonianza della grandiosità possibile in S. Pietro riguarda la festa del santo ed è riportata dal Diario ordinario romano del 4 luglio 1750: "la festa celebratasi in S. Pietro è stata quest'anno di una magnificenza straordinaria […]. La musica del Vespero fu numerosa di sopra 200 persone tra voci, ed instromenti, con undici organi, e l'eco sul cornicione della cuppola; dirette le virtuose composizioni dal sig. Niccola Jummella maestro di cappella coadiutore della basilica; il tutto fatto eseguire senza risparmio di spesa dalle signorile idea, & ottimo gusto di Monsign. Passionei canonico della stessa basilica, e prefetto della musica" (v. Hochstein, Die Kirchenmusik, I, p. 45). Tra le composizioni eseguite doveva esserci Aurea luce dello J. e forse anche un suo Magnificat a doppio coro (H.I.2).

Ai collegi e ad altre istituzioni romane (e anche palermitane) lo J. fornì cantate sacre e oratori (cfr. elenco delle opere), generi nei quali era ammessa una teatralizzazione del sacro esclusa dalla musica liturgica, soprattutto per S. Pietro. Più problematico è discernere tra la produzione per la Cappella Giulia e quella per S. Maria dell'Anima, sulla quale l'attenzione si è puntata solo di recente.

L'esordio dello J. alla chiesa tedesca sembra sia stato l'8 sett. 1751, con "tutti tre l'officij con musica", per i quali utilizzò strumenti a fiato e i "più scelti cantanti della città" (Heyink, 1997, pp. 425 s.); compose poi certamente musica per le Quarantore del dicembre 1751, anche negli anni successivi. L'identificazione precisa delle composizioni per S. Maria dell'Anima è difficoltosa, ma sembra che uno dei criteri-guida possa essere l'organico: secondo Heyink è probabile che una buona parte della musica con organici imponenti, mal graditi nella Cappella Giulia, possano essere ricondotti alle più importanti occasioni festive della chiesa tedesca.

I pesanti incarichi per le istituzioni ecclesiastiche non distolsero del tutto lo J. dal teatro: sia pure a ritmo ridotto la composizione di opere continuò, solo brevemente interrotta nel corso del 1750. Grazie ai buoni uffici di Farinelli, nel 1751 lo J. approdò in Spagna con un rifacimento del Demetrio; il percorso un po' faticoso dell'adattamento e dell'allestimento è documentato nella corrispondenza tra il cantante e Metastasio.

Nel 1753 lo J. entrò in Arcadia come Anfione Eteoclide; questo, insieme con testimonianze coeve e ad alcuni testi pubblicati, rivela la sua abilità poetica, dal momento che l'accademia pretendeva dagli aspiranti una prova di composizione estemporanea. Le capacità letterarie si riflettono anche negli adattamenti dei libretti, che egli era in grado di condurre in prima persona. Sempre nel 1753 una sua opera buffa (Il parataio, una versione de L'uccellatrice) fu portata a Parigi dai buffi italiani, dove si trovò a rappresentare il contributo (involontario) dello J. alla celeberrima "Querelle des bouffons".

In questi anni lo J. era al culmine della fama ed era ricercatissimo: ricevette offerte da sedi prestigiose come Lisbona, Mannheim e Stoccarda, e decise per quest'ultima, che gli offriva garanzie soprattutto riguardo alla qualità eccellente dei mezzi che avrebbe avuto a disposizione. Nel 1750 il duca di Württemberg Carlo Eugenio aveva dotato Stoccarda di un attrezzatissimo teatro, dove nel 1751 vennero eseguiti con grande successo anche l'Ezio e la Didone dello J.; nel 1753 troviamo suoi contributi nel pasticcio Fetonte, per il compleanno del duca. All'inizio dell'anno Carlo Eugenio si recò a Roma, dove conobbe il compositore e forse trattò personalmente le condizioni di un ingaggio: ne sortì la commissione dell'opera per il compleanno (30 agosto) della duchessa Federica, La clemenza di Tito. Il 1° genn. 1754 lo J. assunse ufficialmente la carica di Oberkapellmeister della corte di Stoccarda.

Le condizioni erano molto vantaggiose, anche se il duca non rinunciò a un ruolo attivo nelle questioni teatrali: a lui spettava l'ultima parola sulla scelta dei soggetti e sulla struttura delle opere. Lo J. aveva però il controllo su tutta la produzione, e poteva contare su elementi eccellenti in ogni settore (cantanti, orchestrali, scenografi, ballerini); doveva fornire almeno due opere all'anno e occuparsi dell'organizzazione della musica da camera e da chiesa; lavorò molto sull'orchestra, che dai 24 elementi del 1755 passò ai 47 del 1767.

Le composizioni sacre di questo periodo sono poche ma incisive, legate in genere a occasioni specifiche, come la morte della madre del duca, che suscitò la creazione di un importante Requiem. Sul versante teatrale rielaborò produzioni precedenti, adattandole però radicalmente, accanto a partiture del tutto nuove: dalla collaborazione con il librettista M. Verazi, con cui aveva già lavorato a Roma nel 1751 per Ifigenia, nacquero nel 1755 Pelope ed Enea nel Lazio. Il contratto consentiva allo J. di assentarsi per coltivare i suoi interessi italiani; nel 1757 ne approfittò per riproporsi sulle scene napoletane e romane. Successivamente (1758-59) il teatro di Stoccarda venne ulteriormente migliorato, e lo J. si dedicò a tempo pieno solo al servizio per il duca. Verazi si era trasferito a Mannheim; lo J. si rivolse sempre più spesso a testi metastasiani, sebbene profondamente rielaborati per poterli adattare alla forma contaminata con le abitudini francesi che il duca amava e a cui egli stesso aderiva. Il modello che lo J. sviluppò in questi anni era formalmente molto flessibile e marcatamente spettacolare. Accanto alle vere e proprie opere lo J. coltivava per la corte anche generi più disimpegnati, come serenate e pastorali. Dopo la metà degli anni '60 il duca si trasferì nella sua residenza di Ludwigsburg, impiantando là anche l'attività teatrale.

L'ambiente di Stoccarda fornì allo J. mezzi straordinari: secondo Mattei questo fu il periodo aureo per la produzione teatrale dello J., perché in nessun altro teatro d'Europa avrebbe potuto trovare "un tutto insieme egualmente perfetto" (p. 85). Inoltre, e questa è con ogni probabilità la vera chiave dell'evoluzione dello J., il compositore aveva pienamente sotto controllo la gestione dell'orchestra, e "non solo era il maestro, ma il direttore di tutto lo spettacolo, avendo il Duca riunite in lui tutte le facoltà illimitate per ciò che riguardava lo spettacolo, senza dipendenza di Ministero alto, o forense". Mattei sottolinea la competenza del duca e il suo buon gusto, nonché l'atteggiamento del pubblico, che doveva andare a teatro "con quel raccoglimento, con cui si anderebbe agli esercizj spirituali" (p. 86), doveva prestare attenzione a tutti i momenti dell'opera, all'azione, a ogni parola di recitativo. Anche i balli erano curati in modo del tutto differente rispetto alle abitudini italiane: a dispetto dell'altissima qualità degli interpreti, il ruolo che essi erano chiamati a svolgere era comunque solo "di gioconda distrazione dopo la dolce fatica della filosofica musica dello Jommelli, non già di faticosa occupazione dopo la distrazione nojosa d'una musica effeminata, e a capriccio" (ibid.). In queste condizioni lo J. poteva liberamente perseguire i suoi ideali estetici già radicati nelle opere precedenti e in più, complice Verazi e il gusto del duca, sperimentare soluzioni strutturali meno rigide rispetto a quelle del melodramma metastasiano di tradizione hassiana. Già nel 1755 con le opere citate su testo di Verazi appare in tutta evidenza questo interesse verso forme (francesizzanti) più complesse e con significativi inserti corali, d'insieme e anche solo strumentali. Ma la cartina tornasole del nuovo atteggiamento drammaturgico dello J. sono soprattutto le rielaborazioni metastasiane, probabilmente curate in gran parte in prima persona.

A Stoccarda nacquero diverse nuove versioni dei grandi drammi del poeta cesareo, tra cui Ezio (1758), Alessandro nell'Indie (1760), Didone abbandonata (1763), Demofoonte (1764), nonché alcune prime intonazioni di testi già molto diffusi, come L'olimpiade (1761). Proprio l'analisi della produzione metastasiana di Stoccarda dà indicazioni preziose sullo sviluppo stilistico dello J., da leggere però più come una logica evoluzione di premesse già poste che non come una manifestazione ex novo di esigenze dettate dall'ambiente tedesco; questo senza negare che quelle particolari condizioni favorirono scelte che lo J. non avrebbe forse potuto compiere così decisamente se fosse rimasto legato solo all'ambiente italiano.

Due esempi sono le terze versioni della Didone abbandonata (autografo: Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Mus. Hs., 16488) e del Demofoonte. Vi ritroviamo l'attenzione spasmodica al piano dinamico o alla valorizzazione della componente orchestrale, potenziata dalla ricchezza dei mezzi a disposizione. La presenza del recitativo accompagnato è estesa e soprattutto variegata e dosata rispetto al recitativo semplice o alle altre forme, per creare momenti di tensione all'interno del dialogo o dell'azione; non solo momento particolare chiuso, riservato a determinate situazioni (monologo, preghiera) come era in uso dalla prima metà del secolo, ma struttura elastica che irrompe e impone un'accelerazione emotiva che può sfociare nel pezzo lirico oppure rientrare nel racconto o nel dialogo piano.

In Didone (atto I, scena 1), Enea passa dalla semplice narrazione delle ragioni della sua partenza a un intenso accompagnato, contrastato dinamicamente e agogicamente, che illustra l'apparizione in sogno di Anchise, per tornare poi al dialogo semplice. L'atto II pullula di accompagnati: la terza scena, momento di estrema tensione tra Didone ed Enea, parte in recitativo semplice e, intensificandosi il dialogo, prende le forme dell'accompagnato in modo assolutamente variegato e conforme alla necessità espressiva dei diversi elementi testuali. Si può ancora citare l'invocazione di Enea ai compagni (III, 1) o l'accompagnato di Didone (III, 17), un potente sfogo della regina abbandonata, con gli archi sordinati. L'ultima scena è un crescendo di emozioni culminante nella musica puramente strumentale che accompagna il suicidio della regina (a cui segue una chiusa estranea al dramma, ricalcata sull'originaria licenza metastasiana). Nelle arie l'orchestra è in primo piano, mentre la parte vocale è sostanzialmente sillabica (escluse le sezioni fiorite d'obbligo). Il materiale musicale non è necessariamente omogeneo tra voce e strumenti, contrariamente alla prassi italiana dei decenni precedenti: la voce campeggia con incisiva semplicità su un intenso tessuto orchestrale. Non mancano momenti di virtuosismo, il cui profilo però si mantiene aderente a un ideale vocale e si discosta in genere con nettezza dalle figure proprie degli strumenti: si veda ad es. l'aria "Son quel fiume che gonfio d'umori" (Jarba, I, 11). Lo sfruttamento delle risorse orchestrali eccezionali della corte di Stoccarda è evidente nell'aria "A trionfar mi chiama" (Enea, III, 6), dove ad archi e basso continuo si affiancano una coppia di oboi, una di corni e una parte di corno concertante. La peculiarità dell'orchestrazione dello J. non sta però tanto nella ricchezza dei colori, quanto nella qualità della scrittura, nel contenuto tecnico delle singole parti e nella loro autonomia espressiva.

Il Demofoonte è pure ricco di momenti drammatizzati attraverso mezzi musicali simili a quelli illustrati. I recitativi accompagnati sono almeno 12; il libretto originale è variamente alterato, pur mantenendo ampie porzioni di testo, buona parte delle arie e la sostanza del nucleo drammatico. Un primo punto di alta tensione è rappresentato dal recitativo accompagnato e aria di Timante "Sperai vicino il lido" (I, 5), che si susseguono senza soluzione di continuità; segue una musica puramente strumentale a orchestra piena (con oboi, flauti e corni) che accompagna lo sbarco di Creusa e del suo corteggio. Di grande interesse è il finale primo, ricavato sostanzialmente dalla scena 12 dell'originale metastasiano: abbiamo un terzetto Dircea - Timante - Matusio (con archi, oboi e corni), derivante dall'aria di Dircea che chiudeva la scena, con un testo diverso per gli altri due personaggi e una nuova sezione B. Come nella Didone, l'atto II è particolarmente denso di recitativi accompagnati, dosati a sottolineare il crescendo drammatico delle situazioni; nell'atto III si segnala l'aria di Demofoonte "Odo il suono de' queruli accenti" (III, 6), che godeva già di una considerevole tradizione di intonazioni di grande efficacia drammatica.

Le trasformazioni cui i testi metastasiani sono assoggettati nelle versioni tarde rappresentano i procedimenti tipici di adattamento della drammaturgia metastasiana alle nuove esigenze espressive e strutturali dei musicisti come lo J., il cui atteggiamento è in un certo modo esemplare: legato pur sempre, e convintamente, alla lezione del Metastasio e al dramma di tipo storico, ne auspicava il rinnovamento.

La corrispondenza con il librettista G. Martinelli immediatamente successiva alla lunga stagione tedesca ci illumina sul punto di vista del musicista: citiamo solo il paragone tra Fetonte (ultima opera per Stoccarda) e Vologeso, e alcune considerazioni sul libretto metastasiano. Nel primo caso (lettera del 17 ott. 1769, in McClymonds, N. J., the last years, pp. 472-479) il dramma storico viene reputato decisamente superiore a quello fantastico, in quanto più adatto a sollecitare nel compositore quegli stessi sentimenti che poi egli susciterà negli ascoltatori; il musicista deve essere portato dal soggetto a un "certo grado di passione […] necessario per fare una musica espressiva", e nel confronto tra soggetto storico e soggetto favoloso "vincerà dunque sempre […] il Vologeso al Fetonte". La differenza sta nella capacità di toccare ed emozionare del primo, mentre il secondo sorprende e suscita ammirazione, ma non passioni forti. Dal che si potrebbe facilmente evincere che il Fetonte, celebratissimo dalla critica come esempio di una drammaturgia moderna e "riformata", non era in realtà frutto di una adesione drammatica convinta del compositore, ma piuttosto delle esigenze del suo committente. La critica al Metastasio, pur nella persistente e dichiarata venerazione, si ritrova in una lunga e importante lettera di poco successiva (14 nov. 1769): "Io amo, venero, m'inginocchio avanti, adoro Metastasio, e tutte le sue opere: ma vorrei che anche lui, adattandosi alla moda, ne facesse tante delle nuove, quanto è il desiderio di tutto il mondo di volerle. Poiché, quel dover cavare tanti pensieri diversi, non solo differenti da quelli fatti da se stesso, e più e più volte, ma anche da quelli di tanti, e tanti altri compositori, sempre, sempre sull'istesse parole; è cosa da far girare la testa anche a chi l'avesse di bronzo" (ibid., pp. 485-498).

Nel 1766 iniziò l'amicizia e la collaborazione con il nuovo poeta di corte, Martinelli, che scrisse per lo J. due opere comiche, La critica e Il matrimonio per concorso. Negli anni successivi lo J. sperimentò il "dramma serio-comico" (Il cacciatore deluso [ovvero] La Semiramide in Bernesco nel 1767, e La schiava liberata nel 1768, a cui seguirà nel 1771 Le avventure di Cleomede), un genere parodistico in cui ebbe mano felice.

Come era consueto per la sua generazione, lo J. aveva esordito con il comico; nel corso della carriera compose diversi intermezzi, di cui un esempio tipico è il Don Trastullo (Roma 1749).

Il testo (in sé mediocre) fornisce spunti per divertenti parodie dei moduli seri: nel primo intermezzo Don Trastullo si dichiara poeta e improvvisa una cantata sul tema Paride - Elena, con immagini maldestre, di cortissimo respiro e molto contrastanti, a cui lo J. applica con efficace comicità musicale i topoi più sfruttati dell'armamentario espressivo serio. La sproporzione tra i sempre dotti mezzi musicali dello J. (orchestrazione piena, scrittura densa) e il testo suscita inevitabilmente il riso anche nel terzetto finale del primo intermezzo ("Son qual topo al gatto in faccia"), o nell'aria di Giambarone all'inizio del secondo intermezzo ("M'avete visto in guerra?"), o ancora nella pomposa sfida a duello infarcita di citazioni astrologiche e immagini classiche che Trastullo lancia a Giambarone, per poi far marcia indietro appena l'altro sguaina la spada.

Gli intermezzi e le opere buffe sono per lo J. un capitolo riuscito ma in qualche modo di routine e dagli esiti nel complesso meno felici rispetto alla produzione seria; più interessante è l'esperimento del "dramma serio-comico" condotto con Martinelli. Qui, nella commistione di elementi francamente buffi e parodistici con altri seri (pochi, in verità), lo J. non deve rinunciare completamente al patetico (tra le sue corde migliori) e produce perciò partiture caratterizzate con maggiore efficacia rispetto a quelle puramente comiche. Il ritorno al comico degli anni '60 va messo in relazione con l'arrivo a Stoccarda di Martinelli, con cui lo J. aveva un rapporto particolarmente felice, e con l'assunzione di cantanti specializzati da parte del duca. Più che un'adesione intima dello J. al genere, sembrano le condizioni esterne a dirigere i suoi sforzi creativi in quella direzione.

Lo stesso avverrà in seguito, quando si trovò a dover onorare gli impegni con la corte portoghese; l'unica opera buffa composta ex novo per Lisbona sarà Le avventure di Cleomene, molto moderna per concezione, piena di insiemi, della cui fase di composizione abbiamo una descrizione vivida nella corrispondenza edita da McClymonds. Lo J. lamenta più volte che la composizione gli costa quanto quella di 4 opere per i teatri italiani, e che "[q]uesti tanti benedetti cori, duetti, terzetti, quartetti, e finali; è vero che in scena dovrebbero fare ottimo effetto; ma mi costano pene, e fatiche incredibili. Se in ogn'altra opera ve ne sono due, o tre, al più; in questa ve ne sono non meno di dieci, senza li due gran finali, che devono contarsi più del doppio" (lettera a Bottelho, 28 marzo 1771; McClymonds, N. J., the last years, pp. 542 s.).

Intorno al 1768 la situazione a Ludwigsburg e a corte si modificò. Carlo Eugenio non riuscì a mantenere il livello di eccellenza del suo teatro: licenziò il celeberrimo ballerino Noverre e sostituì molti musicisti; anche il rapporto personale con lo J. si raffreddò. A questo si aggiunsero difficoltà personali del musicista, la cui moglie si ammalò gravemente, tanto da fargli invocare la clausola contrattuale che gli consentiva di tornare in Italia, nella speranza che il clima favorisse un miglioramento della situazione. L'allontanamento non giovò al ripristino di condizioni migliori in Germania per lo J., che ruppe definitivamente i rapporti con il duca senza riuscire neanche a ottenere la restituzione delle sue partiture o almeno copia di esse, e neppure l'assegnazione di una pensione, cui pure riteneva di avere diritto.

Nel frattempo l'amico Martinelli trattava per suo conto un ingaggio con la corte di Giuseppe Emanuele di Portogallo; nel 1769 si strinse l'accordo, che prevedeva una pensione in cambio della fornitura di musica, senza obbligo di residenza a Lisbona. Lo J. si impegnò a scrivere un'opera seria e una comica nuove, a mandare partiture già eseguite in Italia da adattare alle esigenze dei Portoghesi per mano del compositore J. Cordeiro da Silva, nonché musica sacra per la cappella reale.

Appena tornato in Italia, ricevette forti pressioni per riprendere a scrivere opere; così nel 1770 compose per Napoli l'Armida abbandonata, "inarrivabile musica, che sorprese, e scosse tutti, ed attirò il concorso e degl'ignoranti, e de' dotti" (Mattei, p. 91), nonostante le scelte compositive abbastanza divergenti dalle abitudini medie del pubblico. Ancora una volta Mattei ci regala un'annotazione che, pur necessitando di opportuni filtri di lettura, merita di essere tenuta presente sullo sfondo della valutazione degli ultimi anni italiani dello Jommelli.

Tornando in patria, egli avrebbe trovato una situazione completamente diversa da come l'aveva lasciata, "pieni di quegli abusi, che con somma energia ha rilevato, e tentato di correggere nell'opera […]. Una dissipazione continua, un cicaleccio importuno, un gusto per una musica molle, e snervata, un'aversione per tutto ciò che costa fatica, ed una libertà di cantare a capriccio, un'ostentazione di abilità fuor di luogo e di tempo in certi ornamenti superflui, con cui i cantanti opprimono le note, e le parole; e specialmente la negligenza dell'azione, e il nessuno interesse pe' recitativi, da' quali dipende lo sviluppo de' motivi nelle arie, che si voglion sentire staccate senza alcuna connessione" (pp. 91 s.); tutte cose che avrebbero dovuto scoraggiare lo J. che però, soddisfatto del cast, accettò comunque di scrivere l'opera, e lo fece talmente bene che i Napoletani da quel momento in poi trovavano insipida qualsiasi altra musica. Di certo le prime parti, Giuseppe Aprile come Rinaldo e Anna De Amicis come Armida, contribuirono non poco al trionfo dell'opera.

All'Armida seguì la quarta versione del Demofoonte, meno convincente forse anche per il diverso profilo artistico della prima donna Marianna Bianchi rispetto alla De Amicis; nel 1771 ripresero anche i rapporti con Roma, per la quale lo J. scrisse una seconda versione di Achille in Sciro e l'opera comica L'amante cacciatore. Un vero e proprio fiasco fu invece l'Ifigenia in Tauride (Napoli 1771), che lo J. finì di comporre il giorno precedente la prima esecuzione, lasciando in fiero imbarazzo i cantanti e compromettendo le possibilità di successo; l'opera fu sostituita con la ripresa della più sicura Armida.

L'ultimo periodo creativo dello J. è stato sviscerato dalla McClymonds sia dal punto di vista storico sia da quello estetico e tecnico, e al suo studio si rimanda per un'analisi e una valutazione puntuale.

L'Armida fu un grosso successo, pur presentando caratteristiche analoghe alle opere di Stoccarda e perciò poco familiari per il pubblico napoletano, come l'abbondanza di recitativi accompagnati, oppure la grande scena corale (III, 5) in cui Rinaldo affronta cori di spiriti seduttori prima e demoni orrendi poi. Evidentemente la maestria dell'esecuzione era riuscita a valorizzare appieno la creazione dello J., accettata senza riserve ideologiche dal pubblico. Sulla quarta versione del Demofoonte abbiamo una testimonianza di Burney (p. 322), che assistette alle prove: la sinfonia era deludente rispetto alle sue aspettative, ma arie e recitativi accompagnati si imponevano tutti all'attenzione; il cast era buono con punte di eccellenza, condizione necessaria per l'esecuzione di un'opera "scritta in uno stile difficile, più ricca di effetti strumentali che vocali". Il giudizio complessivo sulla musica è che "si può giudicare troppo elaborata, ma tout ensemble è ammirevole, magistrale nella modulazione e ricca di passaggi originali nella parte melodica". La prova descritta da Burney è la prima, e con questo egli giustifica alcune incertezze dell'orchestra, il cui appoggio però era assolutamente necessario ai cantanti "per accentuare le immagini e mettere in evidenza le passioni che la poesia voleva esprimere". Per l'ennesima volta torna il discorso della capacità espressiva dello J., che si manifesta comunque attraverso recitativi accompagnati, una scrittura vocale intensa ma sobria e una gestione assolutamente emozionante dell'orchestra.

Un elemento importante delle ultime opere, soprattutto dopo il ritorno a Napoli, è la tendenza ad abbandonare l'aria nella forma "dal segno", prevalente nel periodo precedente, a favore di strutture durchkomponiert, che si ritrovano anche negli insiemi; ancora, tipico dell'ultimo J. (sebbene non del tutto assente prima), è l'uso di cavatine, arie brevi inserite all'inizio o nel corpo di una scena, che contribuiscono a creare aree di intensità lirica senza però interrompere drasticamente il flusso dell'azione come le grandi arie.

Nell'agosto dello stesso 1771 un colpo apoplettico lasciò lo J. molto debilitato e gli impedì di scrivere per diversi mesi. Con l'aiuto del fratello Ignazio e di G. Sigismondo riuscì a riprendere l'attività creativa: scrisse la serenata Cerere placata (1772), e riprese a onorare gli impegni portoghesi. Alla primavera del 1774 risalgono gli ultimi lavori: Il trionfo di Clelia, opera seria su libretto di Metastasio, rivista per una esecuzione del 6 giugno a Lisbona; il Miserere sulla versione italiana del salmo (Pietà Signore, di Mattei), eseguito per la settimana santa dal duo Aprile - De Amicis, e universalmente considerato il suo canto del cigno.

Il 25 ag. 1774 lo J. morì a Napoli a seguito di un'altra apoplessia; fu sepolto nella chiesa di S. Agostino della Zecca, vicino alla moglie. I musicisti e i poeti napoletani, organizzati da G. Manna, animarono un funerale grandioso; le reazioni alla morte del grande maestro si fecero sentire in tutta Europa.

Il ruolo dello J. rispetto agli sviluppi musicali del pieno Settecento è già stato disegnato, ormai fino a un buon grado di dettaglio, dagli studiosi che hanno analizzato i singoli aspetti della sua produzione, a cominciare da H. Abert, che gli ha dedicato la prima monografia di rilievo, per arrivare a R. Pattengale con gli studi sulle cantate, ai lavori di A.L. Tolkoff e M. McClymonds sulla produzione teatrale e di W. Hochstein sulla musica sacra, nonché a una serie di lavori specifici su singole composizioni e aspetti. La produzione dello J. presenta alcune costanti che permettono di considerarla unitariamente frutto di una ricerca ininterrotta secondo linee che si delineano con precisione fin dai primi lavori, come si è già evidenziato. Su queste linee si articolano poi scelte specifiche derivanti dalle condizioni materiali di lavoro, dal gusto dei committenti, dalla necessità di considerare gli aspetti funzionali del far musica, il tutto nel quadro generale di una continua ricerca sulla dinamica, sull'orchestra e sulla sua integrazione con il canto, sulla drammaturgia musicale, che lo accompagna fino agli ultimissimi lavori. La critica tardo-settecentesca riconosceva quasi unanimemente allo J. un ruolo di assoluto rilievo nel panorama musicale dell'epoca; quella moderna lo ha riscoperto e ha potuto puntualizzare alcuni nodi importanti, tra i quali, ad esempio, la qualità dello scambio con l'ambiente tedesco, per il quale, dopo gli studi di Hell, è chiaro che il movimento inizialmente fu molto di più nella direzione verso i compositori tedeschi che non viceversa da essi verso lo J., oppure la sua collocazione nell'ambito dei processi di "riforma" del melodramma metastasiano, ripulita dalle immagini contrapposte (e correnti fino agli studi sopracitati) del compositore come attardato tradizionalista metastasiano oppure "Gluck italiano".

Gli ultimi anni vedono in crescita l'interesse degli esecutori per la musica dello J., che ha dato luogo a un'ancora piccola, ma già rappresentativa, discografia che copre un po' tutti i generi, dall'oratorio all'opera seria, all'intermezzo, alla musica sacra. Meno sensibile si dimostra per ora il circuito concertistico e teatrale, in cui salvo rarissime eccezioni il repertorio jommelliano risulta ancora assente.

Opere. Le diverse versioni delle opere sono elencate tra parentesi in coda ai dati della prima; per le riprese si rimanda alle schede relative nel catalogo Sartori.

Opere serie e pastorali: Ricimero re de' Goti (A. Zeno - P. Pariati), Roma, Argentina, 16 genn. 1740; Astianatte (Andromaca) (A. Salvi), ibid., 4 febbr. 1741; Ezio (Metastasio), Bologna, Malvezzi, 29 apr. 1741 (Napoli, 1748; Stoccarda, 1758; Lisbona, 1772); Merope (Zeno), Venezia, S. Giovanni Grisostomo, 26 dic. 1741; Tito Manlio (G. Roccaforte), Torino, Regio, Carnevale 1742 (Stoccarda, 1758); Semiramide riconosciuta (Metastasio), Torino, Regio, 20 genn. 1742 (Piacenza, 1753; Stoccarda, 1762); Eumene (Zeno), Bologna, Malvezzi, 5 maggio 1742 (Napoli, 1747); Semiramide (F. Silvani), Venezia, S. Giovanni Grisostomo, 26 dic. 1742; Ciro riconosciuto (Metastasio), Ferrara, Bonacossi, 20 genn. 1743 (Venezia, 1749); Demofoonte (Metastasio), Padova, Obizzi, 13 giugno 1743 (Milano, 1753; Stoccarda, 1764 [facsimile Garland in The Italian Opera, XLVIII, a cura di H.M. Brown, New York 1978]; Napoli, 1770); Alessandro nell'Indie (Metastasio), Ferrara, Bonacossi, 26 dic. 1743 (Stoccarda, 1760); Antigono (Metastasio), Crema, Grande, settembre 1744; Sofonisba (A. Zanetti - G. Zanetti), Venezia, S. Giovanni Grisostomo, 26 dic. 1745; Caio Mario (Roccaforte), Roma, Argentina, 12 febbr. 1746; Tito Manlio (J. Sanvitale da M. Noris), Venezia, S. Giovanni Grisostomo, Autunno 1746; Didone abbandonata (Metastasio), Roma, Argentina, 28 genn. 1747 (Vienna, 1749; Stoccarda, 1763); Artaserse (Metastasio), Roma, Argentina, 6 febbr. 1749 (Stoccarda, 1756); Demetrio (Metastasio), Parma, Ducale, maggio 1749; Achille in Sciro (Metastasio), Vienna, Burgtheater, 30 ag. 1749 (Roma, 1771); Ifigenia (M. Verazi), Roma, Argentina, 9 febbr. 1751; Cesare in Egitto (G.F. Bussani), ibid., 1751; Ipermestra (Metastasio), Spoleto, Nobile, 9 ott. 1751; Talestri (Roccaforte), Roma, Dame, 28 dic. 1751; Attilio Regolo (Metastasio), ibid., 8 genn. 1753; La clemenza di Tito (Metastasio), Stoccarda, Herzogliches, 30 ag. 1753 (Ludwigsburg, 1765); Bajazette (A. Piovene), Torino, Regio, 26 dic. 1753; Lucio Vero (da Zeno), Milano, Regio Ducale, genn. 1754; Catone in Utica (Metastasio), Stoccarda, Herzogliches, 30 ag. 1754; Pelope (Verazi), ibid., 11 febbr. 1755; Enea nel Lazio (Verazi), ibid., 30 ag. 1755 (Ludwigsburg, 1766); Creso (G. Pizzi), Roma, Argentina, 5 febbr. 1757; Temistocle (Metastasio), Napoli, S. Carlo, 18 dic. 1757 (Ludwigsburg, 1765); Nitteti (Metastasio), Stoccarda, Herzogliches, 11 febbr. 1759; Endimione, ovvero Il trionfo d'Amore (pastorale, da Metastasio), ibid., Primavera 1759; Caio Fabrizio (Verazi), Mannheim, Hof, 4 nov. 1760; L'olimpiade (Metastasio), Stoccarda, Herzogliches, 11 febbr. 1761 (facsimile Garland in The Italian Opera, XLVI, a cura di H.M. Brown, New York 1978); L'isola disabitata (pastorale, Metastasio), Ludwigsburg, Schloss, 4 nov. 1761; Il trionfo d'Amore (pastorale, G. Tagliazucchi), ibid., 16 febbr. 1763; La pastorella illustre (pastorale, G. Tagliazucchi), Stoccarda, Herzogliches, 4 nov. 1763; Il re pastore (Metastasio), Ludwigsburg, Schloss, 4 nov. 1764; Imeneo in Atene (pastorale, da S. Stampiglia), ibid., 4 nov. 1765; Vologeso (Verazi da Zeno: Lucio Vero), ibid., 11 febbr. 1766; Fetonte (Verazi), ibid., 11 febbr. 1768 (ed. in Denkmäler deutscher Tonkunst, XXXII-XXXIII, Leipzig 1907, a cura di H. Abert; 2ª ed., a cura di H.J. Moser, Wiesbaden 1958); Armida abbandonata (F.S. De Rogati), Napoli, S. Carlo, 30 maggio 1770 (facsimile Garland in The Italian Opera, a cura di H.M. Brown, XCI, New York 1983); Ifigenia in Tauride (Verazi), Napoli, S. Carlo, 30 maggio 1771; Il trionfo di Clelia (Metastasio), Lisbona, Ajuda, 6 giugno 1774 (revisione di J. da Silva).

Pasticci, seri e comici: La contessina, 1743; Catone in Utica, 1747; Merope, 1749; Andromeda, 1750; Euridice, 1750 (facsimile Garland in The Italian Opera, a cura di H.M. Brown, LXXV, New York 1983); Armida placata, 1750; César in Egipte, 1751; Fetonte, 1753; I tre vecchi innamorati, 1768; Arcadia in Brenta.

Intermezzi, opere buffe e "drammi serio-comici": L'errore amoroso (opera buffa, A. Palomba), Napoli, Nuovo, primavera 1737; Odoardo (opera buffa), Napoli, Fiorentini, inverno 1738; Don Chichibio (intermezzo), Roma, Valle, 1742; L'amore in maschera (opera buffa, Palomba), Napoli, Fiorentini, Carnevale 1748; La cantata e disfida di Don Trastullo (intermezzo), Roma, Pace, Carnevale 1749; L'uccellatrice (intermezzo), Venezia, S. Samuele, 6 maggio 1750, poi con il titolo Il parataio [La pipée] (C.F. Clément), Paris, Opéra, 25 sett. 1753 (revisione M. Zanon, spartito per canto e pianoforte, Milano 1954); La villana nobile (opera buffa), Palermo, de' Valguarneri di S. Lucia, Carnevale 1751; I rivali delusi (intermezzo), Roma, Valle, Carnevale 1752; Don Falcone (intermezzo), Bologna, Marsigli-Rossi, 22 genn. 1754; La critica (opera buffa, Martinelli), Ludwigsburg, Schloss, 1766, poi con il titolo Il giuoco di Picchetto (intermezzo), Koblenz, Hof, primavera 1772, e come La conversazione e L'accademia di musica (intermezzo), Salvaterra, Real, Carnevale 1775; Il matrimonio per concorso (opera buffa, Martinelli), Ludwigsburg, Schloss, 4 nov. 1766; Il cacciatore delusoovvero La Semiramide in bernesco (dramma serio-comico, Martinelli), Tubinga, 4 nov. 1767; La schiava liberata (dramma serio-comico, Martinelli), Ludwigsburg, Schloss, 18 dic. 1768; L'amante cacciatore (intermezzo, A. Gatta), Roma, Pallacorda, Carnevale 1771; Le avventure di Cleomede, composto nell'aprile 1771 (dramma serio-comico, Martinelli), Lisbona, Ajuda, 6 giugno 1772 (revisione di J. da Silva); La pellegrina (opera buffa), per Lisbona.

Composizioni teatrali minori, serenate (scelta): Perché da l'alta reggia (F. Scarselli), Roma, 9 febbr. 1747; Siam nel Parnaso, o amica (G. Pizzi), Ronciglione, 28 febbr. 1751; La reggia de' Fati (G. Pascali), Milano, Regio Ducale, 13 marzo 1753, con G.B. Sammartini; La pastorale offerta (Pascali), ibid., 19 marzo 1753, con G.B. Sammartini; L'asilo d'amore (Metastasio), Stoccarda, Herzogliches, 11 febbr. 1758; Le cinesi (Metastasio), Ludwigsburg, 1765; L'unione coronata (Martinelli), teatro eretto nei pressi del palazzo della Solitudine (Stoccarda), 22 sett. 1768; Cerere placata (M. Sarcone), Napoli, palazzo Perrelli, 14 sett. 1772; La partenza, parte 2 (parte 1: G.B. Zonca); Arcadia conservata, circa 1765.

Oratori e cantate sacre (per dettagli cfr. Pattengale e Hochstein, Die Kirchenmusik): Isacco figura del Redentore (Il sacrificio di Abramo; Abramo ed Isacco) (Metastasio), forse Venezia, 1742; La Betulia liberata (La Giuditta) (Metastasio), forse Venezia, 1743 (facsimile in The Italian Oratorio, XVIII, New York 1986); Joas (Gioas; Il Gioas re di Giuda) (Metastasio, trad. lat. G.B. Visino), Venezia, Incurabili, 1745; Juda proditor (J. de Bellis), ibid., circa 1745-46; La Passione di Gesù Cristo (Metastasio), Roma 1749 [ed. parziale, a cura di G.F. Malipiero, Milano 1919; facsimile in The Italian Oratorio, XVIII, cit.); Giuseppe glorificato in Egitto (Giuseppe riconosciuto), Roma, collegio Nazareno, 1749; Le spose di Elcana (C.E. Santa Colomba), Palermo, Chiesa del monastero del S. Salvadore, 1750; La natività della Beatissima Vergine (Ove son? Chi mi guida?) (G. Luca), Roma, collegio Nazareno, 1750; La gloriosa ascensione al cielo di Nostro Signor Gesù Cristo (In queste incolte rive) (F. Perazzotti), Roma, collegio Capranica, 20 maggio 1751; La natività della Beatissima Vergine (Che impetuoso è questo torrente), ibid., collegio Nazareno, 1751; La natività della Beata Vergine (Non più: l'atteso istante) (G.L. Bendini), ibid., 1752; Il sacrificio di Gefte, Palermo, chiesa del monastero di S. Maria di Monte Vergine, 1753; La reconciliazione della Virtù e della Gloria (C. Taviani), Pistoia, palazzo del Magistrato supremo, 1754; Gerusalemme convertita (A. Zeno), Palermo, Congregazione di S. Filippo Neri, 1755; Il sogno di Nabucco, ibid., 1755.

Per l'elenco dettagliato delle fonti così come per le cantate, le altre composizioni profane, la musica strumentale cfr. Die Musik in Geschichte und Gegenwart e The New Grove Dictionary. Per la produzione di musica sacra (messe, salmi, mottetti, ecc. composti soprattutto per gli Incurabili di Venezia e per Roma) si rimanda ancora al catalogo tematico di Hochstein, Die Kirchenmusik.

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