Niccolò Tommaseo: Opere - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1963)

Niccolò Tommaseo: Opere  – Introduzione

Aldo Borlenghi

Uomo inamabile, polemico, pieno di contraddizioni, incapace di raccogliere in unità la propria vita spirituale, ma in apparenza, e a torto, più attraente proprio per una presunta ricchezza di temi, spunti, atteggiamenti frammentariamente contenuti in quelle contraddizioni: troppo è stata accentuata una lettura di questa specie: una lettura «moderna» del Tommaseo. Ha finito così per interessare solo il personaggio: l’uomo come documento, e, in quanto artista, proprio perché artista in una zona, per così dire, vissuta. A ben guardare, è un atteggiamento che di necessità implica un giudizio altrettanto restrittivo su noi moderni, cui connaturali sarebbero il frammentismo, la contraddizione: un’arte, essa stessa, marginale. Si è accentuata per tale via, nella lettura del Tommaseo, un’anticipazione di aspetti sensuali, decadentistici, che invece sono propri d’un’età e d’un gusto letterario, d’un costume, che nulla più conservano del mondo intellettuale e culturale del Tommaseo. Anzi s’è finito, a forza di accentuarli, con l’isolare tali aspetti nella sua opera: nel vocabolarista si è creduto di poter trovare espressioni più icastiche e felici appunto perché ristrette a una «voce», anzi a un particolare d’una «voce». Presentano invece le sue imprese di vocabolarista (e questo vale anche per il lungo lavoro del commento al poema di Dante) un interesse, un valore affatto diverso: scientifico per il Vocabolario, e critico per il commento. Più del frammentismo conta la costanza d’interessi: si dovrà dunque controllare se la natura artistica del Tommaseo sia appena qualcosa di autobiografico, o non richiami a una storia, a una carriera spirituale e culturale in cui si reinseriranno, non meno che le conquiste, anche le contraddizioni e gli errori. Hanno finito invece per prevalere sempre più nella curiosità del pubblico, accentuando fatalmente una tradizionale mancanza di simpatia verso il personaggio più che verso lo scrittore, le confessioni e le polemiche, l’opera del linguista, e soprattutto, come si è accennato, il vocabolarista. Quest’ultimo è da ricondurre a precisi e coerenti princìpi innanzi tutto artistici, poiché le prime prove vocabolaristiche sono non solo del tempo stesso ma escono, per così dire, da una stessa polla con la poesia, e con il lavoro critico dell’autore. Il vocabolarista è venuto maturando e formandosi attraverso una magari ricca di contraddizioni ma coerente e complessa formazione, e questa durò quanto la vita intellettuale del Tommaseo.

Con pungolo ostinato lo scrittore ha sollecitata la propria coscienza, e, si direbbe, castigata la propria natura, votandosi ad abbracciar gli altri, ad uscir di sé. Alle pene e alle difficoltà d’una particolare generazione romantica Niccolò Tommaseo pagò, di fatto, lungo tributo. Tributo volontario e tenace nonostante il distacco perenne della sua carriera letteraria dalle esperienze contemporanee. V’era infatti in lui, per quanto coltivato e stimolato, un trasporto istintivo, una ricchezza piena, naturale, cieca, nella quale si muoveva confusamente tra difficoltà di soluzioni pronte bensì ad offrirglisi quanto però incapaci di rendergli una completa soddisfazione. Quindi, e il senso d’un’anima particolarmente dotata, e, al tempo stesso, l’avvertire il pericolo dell’aridità che seguirebbe a un superbo isolamento egoistico. Quindi un perpetuo avventarsi verso l’avvenire: e, sempre, il timore d’un precoce inaridimento. E il trasferirsi e riconoscersi, fuori dal chiuso della propria anima, in compiti e mete tanto più definite quanto meno individuali e private, ma collettive, popolari.

Negli stessi anni intorno al 1830, una analoga difficoltà morale si esprimeva in altri poeti italiani, nelle forme d’una proiezione verso l’avvenire, ma corroso intimamente dalla sfiducia nelle forze proprie, nelle proprie origini: soprattutto nei più dotati per rigore di formazione culturale e per capacità espressiva, come Giovita Scalvini e Alessandro Poerio.

Quel perpetuo votarsi a compiti di educazione civile e religiosa ci indica già quel che di diverso è nel Tommaseo. Perché egli non ci dà la confessione d’un doloroso scacco spirituale: d’una ricchezza ovunque riconosciuta, salutata, ma cui la propria vita non può più rispondere; documento di una esperienza, come è negli altri, sentita ormai conclusa. Costantemente si trova di fronte all’impeto d’un primo moto, istintivo magari e d’una confusa ricchezza sensuale, astratta e piena di detriti, ma che costituisce, invece d’un resoconto ultimativo, come negli altri, una disponibilità perennemente intatta e, si vorrebbe dire, vergine. Rientra in tale impeto l’accogliere la voce sconfortata di quei compagni, e unirvi la propria, e farsi guida agli altri mentre scuote la propria coscienza.

Tommaseo era assistito in questo, innanzi tutto, da una concezione diversa della carriera letteraria; non fatta in lui soltanto momento d’una formazione spirituale, ma, al pari delle altre realtà in cui volta a volta lo si vede trasferirsi, seguita come istituzione oggettiva e corpo di tradizioni e valori connesso senza effettivo stacco con gli altri tutti. Vale a dire che, nella chiusa educazione umanistica della sua prima gioventù a Padova, già s’era abituato a sottomettere il proprio essere alle leggi retoriche e stilistiche e a disciplinarvi retoricamente e musicalmente un’abbondanza istintiva di affetti, carichi d’orgoglio sensuale, e quindi inclini a esaurirsi in misure astratte. L’esperienza espressiva, poetica, retorica, era destinata, per quella prima educazione, a rispondere sempre in lui con una immediatezza e pienezza in cui era la garanzia d’una curiosità e d’una inquietudine perenni, d’una forza vergine dei sentimenti. Al pari che nelle leggi retoriche, si riconoscerà in leggi o forme o istituti cui possa appoggiarsi quel puro moto magari ancora, per lo più, sensuale. Era destinato a proporsi d’uscir di sé: pena il soffrire immediato l’ingombro del tedio, del chiuso egoistico, orgoglioso, d’una propria avvilita coscienza.

Questo il tributo pagato a una generazione che è anche la sua: il prevalere d’una inquieta avida spiritualità, su un pensiero destinato appena a documentare la realtà come esterno o inarrivabile o estraneo istituto. Tommaseo, con inquietudine che dura quanto durò la sua lunga carriera, riuscì a trasportarsi effettivamente senza residui, senza rinunce, in ognuno dei compiti in cui gli appariva espressa la propria intima vita, ogni facoltà più gelosa, la poesia sua innanzi tutto. Ma era destinato a esprimervisi solo per categorie e compiti esterni, pena quello sterile egoistico inaridimento, un grave tedio. In questo, sì, più ancora d’ogni altro, disarmato, quanto più mobile e vergine la sua natura e renitente ad ogni disciplina che non fosse lo spontaneo progressivo illimpidimento e approfondimento degli affetti: l’uscir di sé appunto, o nella poesia o in altra forma di quello che egli chiama «affetto».

Nel nostro volume, s’è dunque accentrata la figura dello scrittore al tempo della sua piena formazione, che coincide o continua ad avere il suo fulcro nello studio della poesia.

Abbiamo dato delle poesie la scelta più larga, se pur con esclusioni e orientamenti di cui è bene dir subito perché sono gli stessi che ci hanno guidato nella sistemazione dell’intero volume, nel quale il lettore vedrà che sono escluse tutte le opere di più chiara origine occasionale. E sono pure quest’ultime che rappresentano la maggior parte della sua attività di scrittore, e quelle cui tuttora è in prevalenza affidata la sua fama, e, possiamo dire, la stessa fortuna critica del Tommaseo. Non figurano nella nostra silloge, tra le poesie di soggetto storico, quelle nelle quali la storia si presta solo a fortuiti esperimenti in margine a caduche mode letterarie, cui nonostante una distratta e rara curiosità rimase estraneo, o nelle quali l’occasione storica gli servì appena di sostegno a esperimenti retorici o a sfoghi polemici: e questi ultimi apparentano a poesie di soggetto storico varie altre, politiche, di temi giornalieri patriottici o «risorgimentali». L’esperienza politica aveva troppo profonde radici nella sua formazione anche di scrittore, anche nella sua poesia, perché non dovesse risultare doveroso criterio quello di una decisa scelta tra formule liriche occasionali, fuori da una effettiva esperienza e fuori anche dalle convinzioni artistiche dello scrittore, e le poesie che segnano invece un preciso tempo della sua storia spirituale, descritto in voti, timori, speranze, in un’ansia complessa di riuscire attraverso una prova irta, specie per lui, di pericoli, come l’esilio, a un rinnovamento di tutto il proprio spirito, e del proprio avvenire. Concorrono a questa storia le poesie d’amore, e meglio si dica le poesie degli anni fiorentini e dell’esilio parigino, fino al ritorno in Italia: per un arco che comprende tutte le sue opere più ispirate, più segnate del sigillo ancora recente, e dolente, d’un pungolo interiore o d’un chiarimento perseguito con difficoltà, ma con un’ostinazione ancor superiore: le poesie, appunto, e Fede e Bellezza. e, quasi fiore dell’esperienza che ha avuto i primi suoi due tempi nelle poesie e in Fede e Bellezza. l’aprirsi a nuove sorgenti spirituali documentato dalle versioni dei canti popolari illirici e greci e, per la prosa, dagli Esempi di generosità proposti al popolo italiano.

Tale esperienza culminò in determinati interessi, ed ebbe il tempo centrale della sua storia negli anni di cui s’è detto, tra il primo soggiorno fiorentino e il ritorno in Italia dopo l’esilio in Francia. Ma non per questo è limitata ad un periodo particolare. Continua, ad esempio, nelle poesie di tema religioso: poesie preannunciate già da quelle dell’esilio, e dalle altre, d’amore, nelle quali già traspariva la lettura dei Salmi, la cui traduzione, che è da porre, al pari dei canti illirici e greci, tra le esperienze liriche originali del Tommaseo, apre il tempo degli Inni della Chiesa e delle poesie religiose. E i temi, gli interessi nuovi vi son tutti dichiarati, ma con ben altro significato da quello a cui essi scadono in scritti d’occasione e d’origine ben diversa, prevalenti soprattutto dopo la giovinezza dello scrittore. Era fatale, del resto, che l’arricchirsi della sua esperienza interiore lo portasse sempre più a dedicarsi a umili compiti di educazione e di propaganda, in cui poi la sua natura lo trascinava a perenni sfoghi. Ma la parte viva d’una tale carriera, e per tutto intero il suo arco, è presente sempre nei rari testimoni ch’egli scelse a quella sua storia intima, è presente nelle sue lettere private, soprattutto nelle lettere a Gino Capponi, e in quelle dell’amico. E tra le poesie e le lettere s’apre e conclude il nostro volume: circoscritto per tal forma come in un cerchio ideale e di temperie costante, e, il dono in apparenza più raro nel nostro scrittore, d’intima armonia. Le lettere sono, del resto, in gran parte presenti già dalle prime pagine della nostra silloge, poiché in esse s’apriva, col Capponi soprattutto, sugli elementi anche minimi della propria poesia, e noi d’ogni momento di questa ci siamo preoccupati di conservare fedelmente la storia, i successi, nelle note a piè di pagina; nelle quali dunque s’incontreranno di frequente anche passi di scritti polemici, quelli di proposito da noi esclusi, ma in questa sede reintrodotti legittimamente perché riferiti a quel tempo centrale d’una sua effettiva formazione che ci siamo proposti di restituire nel suo disegno o nel suo corso intero.

La stessa avvertenza vale per la sua narrativa, in versi e in prosa. Delle novelle in versi non s’è dato esempio; sono tra gli scritti di più diretto sfogo, e di più scoperta ambizione d’una letteratura istruttiva, per il popolo, pur con l’intervento di tutt’altre ambizioni, come quella, magari, di riuscire mediante la più minuta insistenza su termini medici a provare il ridursi della scienza tutta a religione. Temi che in altra sede, cioè in tutt’altra disposizione, gli detteranno alcune tra le sue liriche più alte. Nelle novelle, prevalevano fini diversi da quello d’esprimere solo le intime sofferte esperienze d’una sua perenne ricerca. E le abbiamo escluse, fatta eccezione per Una serva, che rientra in confessioni più prossime al passaggio tra le poesie e Fede e Bellezza. Ma di questo più avanti. Si sono escluse tutte le prose narrative perché tutte nel loro lato più di originale esperienza meglio rappresentate dal suo capolavoro, che è Fede e Bellezza. Non diamo esempi del gusto retorico dei giovanili ditirambi e inni, e della ricostruzione d’una narrativa condotta come poema o lirica, e d’un romanzo storico inteso come studio di tradizioni politiche, civili, nel linguaggio. Gli interessi delle prose narrative ricordate, che sono in maggior parte inserite dal Tommaseo in quelle Memorie poetiche che pure abbiamo seguite costantemente nella sezione delle Poesie della nostra silloge, e il romanzo storico Il duca d’Atene rientrano in quegli aspetti della sua opera di cui s’è detto che abbiamo inteso rendere la linea centrale. E già in Fede e Bellezza anche quello studio di tradizioni storiche nel linguaggio s’apre ed estende a una ricerca di tradizioni comuni (maturata in lui specie negli anni parigini, e da cui nasceranno le traduzioni dei canti corsi e illirici), soprattutto negli arricchimenti del «giornale» del protagonista. Ma poiché questa complessa esperienza era esperienza anche di studi e di ricerche storiche e linguistiche, pure di questa parte abbiamo scelto gli esempi più unitari, più vicini ancora al loro effettivo centro: li cerchi il lettore nelle note introduttive ad alcuni canti danteschi, riportate dal commento al poema di Dante. Ma si intenda che tutto quanto nella nostra silloge non compare è, piuttosto che escluso, da riferire alle parti scelte, rappresentato da queste. Lo sono così i suoi libri Dell’Italia, del tempo stesso delle poesie dell’esilio, e d’amore; ma le discussioni minute e le figurazioni tra storiche e retoriche che vi campeggiano non avrebbero reso intera, come la rendono le poesie e le lettere, l’ispirazione complessiva dell’opera. E del resto anche osservazioni in apparenza strettamente attinenti alle poesie, o a sezioni pur essenziali di queste, come le pagine sugli angeli raccolte dal Misciatelli e che sembrano ripetere temi di poesie sue religiose, abbiamo del tutto escluse dal commento perché, appunto, di carattere occasionale e esterno. Della sua critica letteraria, vasta quanto diffusa e dispersa, gli elementi centrali son già nelle convinzioni che s’ordinano organicamente tra poesie e romanzo e lettere e quanto, di quest’ultime e d’altri scritti, è richiamato nelle note alle poesie e al romanzo. Come dare del vocabolario una voce od altra senza avvertire del particolare cammino percorso dallo scrittore dai primi scritti intorno a dizionari, attraverso le prime prove artistiche e scientifiche, le une alle altre sempre strettamente connesse? Nelle lettere e nei «ragionamenti» sui canti del poema abbiamo riferito questa gran parte della sua attività. E lo stesso si ripeta per tutte le altre parti, di polemica politica, di scritture autobiografiche, di argomenti religiosi, e così via. La sua fu esperienza complessa ma soprattutto e prima di tutto esperienza che ebbe espressione o risoluzione nella poesia.

Da questa solo seppe arrivare più tardi, e in mezzo a preoccupazioni moralistiche e a distrazioni ormai prevalenti, a cogliere il frutto della sua più intima formazione anche in lavori scientifici. Delle opere degli ultimi anni, o meglio si dica decenni, dopo il ritorno da Corfù, basta a noi fornire nell’introduzione notizia esterna. Interessa prima descrivere nella sua formazione, parte a parte, la nascita e il determinarsi d’una esperienza originale e nuova quanto più inquadrata in una precisa situazione storica.

Abbiamo detto che nel Tommaseo c’è una ostinazione che dalle più intime esperienze sale a investire, e spesso con eccessiva sproporzione, le più marginali e letterarie, e che può apparire come un orgoglio che raffreddi il sentimento, una mancanza di carità. Ma quanto vigore in quello sforzo incessante di portare a chiarezza una formazione difficoltosa e contrastata, e quanto nella sua continuità d’arricchimenti contiene di una forza, una decisione, una necessarietà, che testimoniano d’una diversa e più interna e originaria differenza sua dai romantici ricordati: soprattutto Scalvini e Poerio. Formazione di pensiero, elaborazione d’esperienze liriche, che ci richiamano a un carattere proprio solo dei tre maggiori poeti del primo Ottocento. E s’intende che Foscolo, Leopardi, Manzoni, egli dovesse accogliere o subire con immediatezza polemica, nei violenti aggressivi rifiuti, nelle mai veramente pacifiche celebrazioni. E varrà ricordare che, al tempo stesso, e a differenza di quei tre idoli della sua esperienza intellettuale e culturale, nulla o quasi intese d’altri scrittori d’eccezionale rilievo, non italiani: ove, cioè, una intima familiarità con la lingua non gli consentisse d’assumerli in un rapporto più confidente e privato, esempi d’intelligenza della natura, di sentimento diretto, spontaneo, della realtà. Di tale specie i motivi del rifiuto o della diffidenza verso Goethe, e dell’ammirazione, contrastata e ambigua pur questa, per George Sand. E di fatto, nei rapporti con gli scrittori francesi, specie negli anni passati in Francia dal 1834 al ’39, gli anni del suo primo esilio, continua l’acquisto privato e polemico, quella caratteristica specie d’ammirazione o di repulsa ch’egli aveva sperimentato in gioventù verso Foscolo, verso Manzoni; o quella compatta repulsa, da involgere un sistema di pensiero e di vita, di cui è esempio la lunga polemica sua antileopardiana.

Poco per lui potevano contare le difese tentate contro le sue accuse. Non si trattava infatti d’una valutazione critica, nella quale ben potevano andargli avanti lo Scalvini e il Poerio. Si trattava per lui d’una unitaria assunzione d’un campo della realtà a una intima esperienza, a una vissuta e sofferta verità: in questa, parte a parte, gli parlavano quelle altre concordi o, per lui, assurdamente ostinatamente negatrici voci; negatrici e negate. Questo spiega la diversità da poeti come Poerio, come altri della stessa età d’esperienze liriche, convinti d’una disparità tra vocazione poetica e reperimento d’una concreta propria esperienza capace di avverare quella pur sentita, riconosciuta vocazione: e, quanto sottili intelligenze, tanto più esperti innanzi tutto, di non poter di sé lasciar che voci tronche, confuse. Saldo e unitario invece, in lui, il portare così la natura, che la propria vita, a un significato, sia pur lirico e poetico, a una verità coerentemente, pienamente vissuta. Di qui la compatta assunzione d’un significato, d’una verità, dei tre maggiori, da identificare con quel ch’egli intende della poesia stessa, piuttosto e prima che della propria poesia soltanto.

Eppure ogni suo incontro con quei maggiori è caratterizzato da qualcosa d’episodico, d’aneddotico. Non è possibile nemmeno accennare ai perpetui suoi interventi sul Foscolo, a quelli più rari al confronto ma forse più monotoni, su Leopardi. Ma riguardo al Manzoni è innanzi tutto una precisa disparità tra l’ammirazione per il poeta religioso, e per il romanziere: il primo tende a confonderglisi con un’idea sua della lirica, e gli diventa un esemplare sostanzialmente astratto; il romanziere s’identifica volta a volta con princìpi diversi prospettati pur sempre in aspetti esemplari; princìpi morali, storici, retorici. Ma il lirico, e il romanziere, riferiti sempre a esempi o a progetti suoi particolari, e che scoprono in questo qualcosa d’ostinato. Com’è di tutte le sue convinzioni, che gli si spiegano effettivamente solo se ricondotte ed esemplate in un cerchio di riferimenti occasionali, quotidiani, aneddotici. Un’ispirazione lirica, anche se di rara purezza, egli deve ricondurla a un’occasione la più privata, umile, per sentirne l’effettiva commozione, per esprimerla pur in un suo assoluto valore. Così deve condursi in ogni propria esperienza. Per questo, spontaneamente circoscrive entro aneddoti minuti anche una pur alta, fondata venerazione: la riscalda e quasi, in quelli, giustifica umanamente. L’obiezione a un Foscolo, a un Leopardi, e magari a Manzoni, al suo Manzoni, diventa così obiezione non solo stilistica o letteraria, ma morale (e sempre appoggiata a circostanze umili o misere, o a prevenzioni e ubbie pur sempre d’ordine solo privato). È tuttavia da avvertir subito come nulla fosse in questo di frammentario, come rispondesse anzi a una generale, costante e intensa facoltà, per cui riporta ogni esperienza a occasioni presenti (affetti o curiosità o fantasmi, appena suscettibili magari d’annotazione): facoltà, vale a dire, di sollevarsi a un senso, confessato magari confuso, o doloroso, della natura, ma con una continuità di vita affettiva, ma unitario sempre. Senso della natura, e il proprio pensiero; e scoperte ed esperienze di questo. Nella loro natura reale, esperienze sempre letterarie, liriche. Questo il carattere, diviso, incerto, ma coerente, delle prime confessioni, dei primi tentativi d’un loro ordinamento; si dica già, delle Memorie poetiche.

Ma, al tempo delle Memorie poetiche. di un suo noviziato non si può più parlare. Se non come, in quel libro, è prospettato dall’autore: noviziato descritto secondo presagi e scoperte che son già del presente, anzi avventate e prefigurate in vista di disegni e imprese future. Le Memorie poetiche erano state scritte nella primavera del ’37; la quarta del suo esilio in Francia. E già a Firenze, probabilmente soprattutto nel ’33, doveva avere superato le prime decisive esperienze d’una carriera di straordinaria coerenza, un effettivo noviziato: che si iscrive non sotto l’assillante collaborazione all’«Antologia» del Vieusseux, iniziata già quand’era a Milano, nel ’26, ma è sostanzialmente rappresentato dall’amicizia con Gino Capponi. Poi Tommaseo si creerà un’idea particolarissima dei benefici influssi di vari amici sulla sua prima giovinezza. Ritesserà, in forma pur sempre libera e inventiva, la scala, o il succedersi, di quei benefìci ricevuti, e di quei contributi a una sua formazione, prospettata, appunto per questo, come un fatto spirituale d’eccezione. Aveva conosciuto tenaci, se pur mai pacifiche amicizie. Troppo vi lasciava prevalere l’apporto della memoria, la trasfigurazione del ricordo; oppure, un comune interesse finiva per segnar di fatto un limite decisivo; come, nei rapporti con Poerio, i colloqui, spesso unanimi, sulla poesia. O magari, invece, l’affetto, scoprendo le ragioni sostanzialmente o prevalentemente private dei rapporti e degli interessi comuni, veniva a urtare necessariamente la sua gelosa intimità, e a imporgli un distacco, dal quale la venerazione, e la stessa proclamata accettazione del pensiero o delle esperienze intellettuali artistiche d’un amico gli consentisse di farsene un mito, o magari gli consentisse una riduzione adatta alla misura delle proprie convinzioni. Oggetti da contemplare, e ricreare, con la libertà di cui disponeva davanti alla natura, o ad aspetti d’una realtà obiettiva (nella quale s’è avvertito già che anche i contributi delle amicizie venivano da lui, in effetti, reinseriti).

Si tratta d’un adattamento naturale, e quindi senza storia, spontaneo e continuo. Suggestioni, accolte sia da letture che da conversazioni, e ch’egli esaltava in sé investendole di significati e di articolazioni in cui versava intero l’impeto dei suoi sentimenti. Erano nel Tommaseo bensì esperienze intime; dove, però, quel che sorprende è la facoltà vigorosa d’accettazione e d’intervento con contributi e apporti impetuosi che rendono in pieno il ritratto d’una conquista di chiarimenti entro un proprio processo di ragioni e concetti astratti.

È la stessa facoltà, che gli fa legare a quanto di più minuto lo circonda, di più occasionale, fuggevole, le esperienze o i fatti interiori, e che lo fa riversarsi ogni attimo all’esterno dal raccoglimento, dalle suggestioni più segrete e chiuse. Che lo porta a riversarsi nella natura perpetuamente, a riconoscer le difficili tappe d’uno svolgimento spirituale nell’illimpidirsi della natura nel suo generale prospetto: e, cioè, in ogni minimo elemento o aspetto d’essa, ai suoi occhi.

S’intende, che la via per simile forma di comprensione è solo quella del simbolo, dell’ellissi, della suggestione analogica. Vale a dire, innanzi tutto, della letteratura. A una intelligenza retorica e magari accademica, accomodata in moduli prestabiliti, tradizionali d’una tradizione tutta scolastica, s’era educato nel primo noviziato culturale, a Padova. Da quella chiusa educazione retorica, più che i primi tempestosi incontri con i documenti d’una sensibilità moderna, da Alfieri a Rousseau, lo aveva potuto liberare quell’aderire ad ogni nuovo interesse con un impeto istintivo caratterizzato d’alcunché d’astratto e sensuale. Era quel suo carattere che al tempo della giovinezza era apparso agli amici – basterà ricordare la testimonianza pur affettuosa del Rosmini – orgoglioso, altero. Quel carattere – come s’è detto – simbolico e analogico, astratto e impetuoso quanto portato ad esaltare il particolare più minuto, che spiega l’intima difficoltà della sua natura, quel senso d’un processo infinito e d’un pungolo incessante a trasferirsi in un affetto che egli identificherà sempre con valori o realtà oggettive: tradizioni, e la natura; o le une e l’altra fatte un affetto o un valore solo, cui poter infinitamente aderire.

Tali i contributi che gli venivano da amici quali un Rosmini, un Manzoni. Amici, che proteggeva d’un affetto reverente. Il quale poi gli consentiva di spiegare intera la propria indipendenza pratica, reinserita in una difesa di ordine morale della propria necessaria libertà d’esperienze e d’affetti. A Milano, col Rosmini; e poi i rapporti col Manzoni: sempre, le visite e i colloqui gli servono, si direbbe, a riacquistare a sorgenti più fonde e più vive e pure, e sollecitanti infinitamente, il possesso d’un carattere e di ragioni proprie originali. E al suo gusto d’osservazione e intelligenza dei particolari si dovrà aver sempre riguardo. Il colloquio, e l’affetto, portato fino a un tributo impetuoso, e pur pieno d’orgoglio: esperienza vissuta con assoluta libertà di intuizioni intessute attraverso articolazioni e connessioni in cui tutta la sua persona, tutta la sua educazione riesce sollecitata. Al punto da risultare arbitrario il riferire poi una od altra opinione, o tema, a quegli amici dai quali pur venne l’occasione a colloqui e dibattiti assunti in lui a significati nei quali quei primi involontari sollecitatori non si sarebbero potuti riconoscere, né lo avrebbero a nessun patto voluto. E tanto più, che legittimo è ricondurre quei particolari fatti, quelle opinioni, ch’egli confessa o immagina d’aver ricevuto, ad altre pur sue, d’anni prima, anche anni lontani: come per quelle comunicazioni degli enti, e articolarsi spirituale della vita dell’universo, forse il tema centrale della sua lirica (e Rosmini suggerì qualche correzione terminologica, non accolta, e a Rosmini ne riferirà i princìpi, l’intuizione) che risaliva almeno ai primi tempi del suo soggiorno a Firenze; e per il linguaggio popolare, e per il rapporto tra storia e invenzione, tante volte oggetto d’appassionati colloqui col Manzoni, e di cui la più vivace testimonianza è nelle lettere con cui Tommaseo ne riferiva, e ci si riporta anche in questo caso alla prima sua formazione, da Milano a Vieusseux, tra il ’26 e il ’27.

S’è detto già che, degli anni fiorentini, un fatto acquista rilievo di prima importanza nella formazione del Tommaseo: l’amicizia col Capponi. Episodio, la collaborazione all’«Antologia» del Vieusseux, nella quale si comprenderanno pur avvenimenti d’altro rilievo: l’iniziazione politica, e la stesura dei libri Dell’Italia, la cui pubblicazione sarà lo scopo reale della volontaria partenza per l’esilio in Francia, nel febbraio del ’34; e la conoscenza con Lambruschini e Lamennais; diciamo l’incontro col cattolicesimo liberale, destinato ad avere effettive conseguenze più tardi, negli anni in Francia e dopo il ritorno dal primo esilio. Di un’altra esperienza di questi anni fiorentini, tra il ’27 e il ’33, si deve far parola, perché passata, ed è in questo il suo vero dono e la misura della sua efficacia nell’intima vita del Tommaseo, a influire nella concezione d’ogni sua nuova opera di poesia, d’ogni progetto d’arte futuro: l’amore per una popolana, amore affettuoso e violento, la Geppina Catelli.

Esperienze tutte nelle quali la mente del Tommaseo non ci apparisce, come invece nei rapporti col Capponi, sollevata in una chiara unitaria espressione, e, per così dire, all’intelligenza d’un significato di quella sua vocazione a trasferirsi nella natura, negli affetti stessi. Eccezionale significato ha già il fatto che col Capponi s’aprì sui propri versi, e dal colloquio col Capponi la sua poesia seppe trarre sollecitazione a meglio riconoscere una vocazione intima, perché fatta genere nuovo di comunicazioni spirituali, di intelligenza di se stesso, di compiti avvenire in cui dar espressione, vita, alla propria anima. Un rivolgimento ha luogo in questi termini. L’espressione letteraria cessa d’essere un fatto oggettivo, esterno, reale, come era stata esperimentata e praticata da lui, per la sua educazione accademica, umanistica. Le stesse amicizie precedenti non avevano superato una condizione di chiuso orgoglio, la difesa d’una confusa astratta individualità: esplorazioni bensì e dedizioni a volte entusiastiche, ma che ottenevano piuttosto di invitarlo a una difesa della propria natura, come d’un deposito tuttavia ancora involto e confuso. La giovinezza, e sembra in questo termine di poter indicare quell’astratta condizione cui s’è accennato, scomparve a contatto col Capponi. Ci si affaccia nei colloqui col Capponi una spiegata personalità spirituale, con capricci e ostentazioni certamente, ma per così dire, originale, e sofferta. La particolarità, che s’è avvertito come sia bene non confondere con una natura frammentaria che sarebbe tutt’altro istinto, una del tutto diversa disposizione (e che tuttavia isolava fin qua i dati d’ogni sua esperienza in fatti minuti, li riduceva a occasioni quasi con ostinazione), ora si determina in una caratteristica inclinazione alla confessione, al colloquio, anzi, in quelli, all’identificazione dei dati d’un trasporto affettivo. E d’un inquieto reperimento delle concrete ragioni dell’affetto, non egoistico più, non compiaciuto. Pungolo morale di piena chiarezza interiore. Che si presenta anche come un più diretto, limpido contatto con le cose, e penetrare nella natura. Ma è prima di tutto qualcosa d’unitario, saldo: coscienza, e poesia, dolore. Certo, la natura, l’istinto, portavano Tommaseo a immaginare invenzioni astratte, rapporti inusitati, fantastici; disegni o progetti che riuscivano a giustificarsi solo come esperimenti d’interesse retorico, nel quale esaurivano ogni significato. Ora invece la affinata coscienza lo educa a sorprenderli solo come astratto moto interiore, a seguirne l’arco puramente inventivo come voci e scoperte e confessioni, magari intimi presagi. E a coordinare tra ricordi e presentimenti una assidua facoltà di ripiegamento e scavo, da cui è investita anche ogni particolare attenzione presente, ogni incontro, e minuto episodio, e occasione; di rapporti umani, di annotazioni della natura esterna.

Cresce in questi anni fiorentini della sua amicizia col Capponi il diario intimo. E questo diario, e le lettere all’amico, sebbene scritti d’accento diverso, d’intonazione distinta, sono tra i documenti più schietti e concreti della sua spiritualità. Rappresentano due opere, nel loro complesso, tra le più significanti anche come equilibrio e intimo controllo espressivo: opere in cui l’attenzione aperta a relazioni sempre particolari fissa di ciascuna la sollecitazione concreta, e quella sollecitazione conserva intatta di fatto in fatto, e d’una in altra osservazione, e sfoghi, e scoperte. Gradi diversi, le lettere, e il diario, d’un colloquio del quale preme qua stabilire il carattere d’un processo di chiarimento espressivo d’una natura, come quella del Tommaseo, incline (o condannata) altrimenti a trasportarsi, senza riconoscervisi mai effettivamente, in astratte anticipazioni, in prestabiliti irreali autoritratti programmatici (ed erano questi, in gran parte, difesa d’una propria originalità oscuramente, orgogliosamente, vissuta nell’intimo): condannata a consumarsi perpetuamente, e difendersi, in sfoghi di troppo corto respiro. Natura, la sua, resa inoltre catafratta, appunto, da una chiusa armatura di discipline umanistiche, quasi per vocazione intese e professate essenzialmente, anzi appuntate in ogni loro significato al dato solo espressivo. E le lettere spontanee, confidenti più di quanto a volte le occasioni non lascino subito vedere, quali sono le lettere sue al Capponi, in questo rappresentano un processo spirituale nuovo, perché involgono una crisi generale di tutti quei princìpi ch’erano stati sempre fino allora la premessa salda, obiettiva, d’ogni opinione, e quindi non intaccati da confessioni soltanto private e accidentali. La sua relazione col Capponi era sentita e vissuta di fatto come un’esperienza culturale e spirituale decisiva. Era un progressivo, anche se ora vedeva per quanto lungo corso d’esperienze e dolori preparato, chiarirsi della cultura come presente vita spirituale, come vita in atto, anzi scavo perpetuamente insidiato nella sua purezza. E ricondotta quindi, pur nelle sue strutture, la cultura – cultura letteraria, e lingua, e storia – a esperienza interiore; assidua quanto rara nella resa ultima dei suoi valori. E a cui pare più d’ogni altra condizione avvicini il dolore. E al dolore, a questa confidenziale espressione d’un invito a un perpetuo affinamento, ricondotta dal Capponi la poesia.

Decisivo già agli inizi, il primo anno del carteggio col Capponi è il 1833: e particolarmente significativo lo stesso anno del diario intimo; è fissato il tono già delle confessioni degli anni successivi e si legge già quali colloqui dovettero costituirne le premesse. Quei colloqui, e quelle confessioni, di cui un anno dopo la partenza dell’amico per Parigi, gli scriveva Capponi, nel febbraio del ’35 «i discorsi inesauribili lasciati in tronco ieri»: e certo erano stati sollecitanti anche per il Capponi, né si spiegherebbe se no il perenne rimpianto, in termini che potrebbero sorprendere nella loro crudezza, chi non riconoscesse in quel tono un elemento costante di quei passati colloqui, e più in generale del loro apprezzamento della realtà della vita. «La faccia d’ogni cosa, schifosa come la sostanza», nella stessa lettera il Capponi, a cui la vita «più povera, più torbida, più impedita» dopo la partenza del Tommaseo: che lascia intendere di cosa si nutrisse il conforto del reciproco intendersi. Per cui, ora, scriveva, «non ritrovo altro che fila rotte, e un voto tramezzo, angoscioso, profondo». Né s’intenderebbero sfoghi simili, ove non si avvertisse che erano variazioni di luoghi classici (il reciproco vanto della eccezionalità loro di citatori): cultura, poesia pareggiate e ricondotte a un controllo, d’ordine, dunque, così in apparenza privato, sostanzialmente sofferto a forza d’immediata inquieta concretezza.

Poteva in Capponi esser coraggioso asservimento come a una specie di milizia o di sprone assiduo contro una sua profonda sfiducia o disperazione, per un senso geloso di dignità umana, e desiderio di comunicare o conoscere d’essa qualche rara esperienza. E nel Tommaseo, disperazione per una non breve esperienza di profondi tedi, d’esaurimenti rapidi degli impulsi pur avvertiti con sicura coscienza nell’intimo, e d’una disparità tra vocazione, tendenze, volontà effettive, che si risolve in un’impressione di imprese frammentarie, sciupate, corrotte. Col Tommaseo si è in una situazione più particolarmente esposta a provocazioni, inquieta, volta a perpetue sollecitazioni, avventata magari, e che a Capponi dovette presentarsi come l’effettivo segno nell’amico d’una dignità umana rara, anzi, nella fatale vocazione di simile natura al dolore, d’un presente destino poetico. Avventurarsi nel mistero – mistero agli stessi protagonisti – d’una rara comunicazione di spiriti è impossibile per noi, ma più ancora che nelle lettere o nelle confessioni del diario intimo, il dono di quella sollecitazione, di quell’acquisto spirituale, è affidato alle poesie del Tommaseo. Che a lui apparivano in quegli anni non tanto frammenti (il termine stesso porta lontano dalle effettive esperienze del Tommaseo) quanto brani, sezioni; sezioni di quelle così sofferte speranze, e scoperte.

Con l’alterezza consueta, con la solita gelosa difesa d’una intimità di cui avvertiva ancora l’eccezionalità, e in questo il tanto ancora d’inespresso, ch’è pur una condizione del senso della propria vita, e delle cose, e della propria poesia, quello stesso anno ’35 scriveva a Capponi: «Ho poi pensato di non istampar nulla de’ versi, né qui né altrove. Non mi dà l’animo di gettare le mie precordia sanguinanti sotto il piè degli armenti che pascono». Alterezza romantica, della quale si son descritte le difficoltà, gli scompensi penosi, ma che già conta potesse definire con così crudele e immediata confessione: «precordia sanguinanti». E a cui corrisponderà con pari spontanea immediatezza la convinzione che quelle così aperte confessioni della più gelosa spiritualità sua debbano risultare sigillate d’una nobiltà di significati e orientamenti esemplari; assistite da presentimenti, confortate da autorità di esperienze passate; e tali dunque, «sanguinanti» cioè, per la ricchezza di vita a cui si son portate in profondo. E confessioni che il pensiero, l’espressione, ha sollevate all’armonia d’una ispirazione poetica «pensata». Perché «pensata» è la poesia cui egli aspira; e ancora, in questo, appartata esperienza, spiritualità meditata, romita. E s’intende che l’insidia dell’astrattezza e del particolare biografico corrode perennemente, senza per altro corromperla, ispirazione o esperienza lirica di tale carattere.

Essenziale, per intendere la poesia del Tommaseo, un chiarimento della diversa intelligenza della sostanza e della natura della poesia, affidato a lettere del novembre del ’33: «Ho fame di versi, cioè desiderio del desiderio», gli scriveva Capponi il 21 ottobre. E la fine dello stesso mese, si spazientiva di ricevere dal Tommaseo a pezzi i versi, perché sentiva come fosse dovuto a scrupolo minuzioso di controllo d’ogni particolare: «vorrei la ode tutta intera; e non occorre che aspetti d’averla scorticata, lisciandola ...». Poesia per Capponi non tanto lo scritto, il testo nella sua struttura strofica e concettuale, ma una facoltà rara, eccezionale, dell’anima, che può bensì passare in qualche forma espressiva, in qualche parte di componimenti poetici, ma a frammenti, appunto per una disparità di natura: perché facoltà tutta dell’anima, mentre la struttura d’ogni poesia come ogni altro operato umano è fatto di natura sostanzialmente pratica; ma la poesia «desiderio del desiderio». Anzi la natura per nulla pratica d’essa è meglio enunciata in quella «fame» che è termine, per tradizione biblica, e classica, tutto traslato, e da riferire all’anima. Il resto chiamava aritmetica; e questa, l’aritmetica, difenderà con ostinazione il Tommaseo.

Essenziale che Capponi avviasse l’amico a distinguere tra la concretezza dell’affetto, «fame», «desiderio», pungolo spirituale, e l’infinita preoccupazione sua di portare un controllo in ogni idea, ogni termine e osservazione, e volta a volta sacrificare alla testimonianza esatta o fedele d’uno scrupolo morale, o solo capriccioso e risentito, ogni altra facoltà e ricerca. S’intende che lo strumento dell’espressione poetica come Tommaseo vi s’era educato in gioventù, concepita per categorie di paragoni, immagini, citazioni o riferimenti, variazioni metriche, sembrasse offrirsi come il più opportuno a quel frammentarsi minuto dei pensieri. Ora, che Capponi lo avviasse a distinguere tra questo, e l’affetto, il «desiderio» e la «fame» dell’anima, doveva riuscir risolutivo nell’indirizzarlo a trovare un suolo unitario a quella dispersa tensione. Ch’era tensione bensì spirituale, ma consumata e fatta astratta. E ne avvertirà invece la «continuità di suolo», come diceva Capponi, non nelle cure, negli interessi, in ciò che è materia, ma nell’affetto.

Affetto la poesia: «Quaggiù, messaggera d’un paese più sereno, appena se trova qualche vetta isolata su cui posarsi, in questo diluvio d’arimmetica. Ma non trova continuità di suolo per allignarvi e comporvisi». In queste parole par d’avvertire un presentimento della poesia cui si dedicherà quasi unicamente il Tommaseo in avvenire; di comunicazioni di spiriti, d’enti o elementi invisibili, che operano spiritualmente nell’universo. Ma avrà allora riscattato ogni particolare a una simile «continuità di suolo»: invisibile, avvertita solo per potenza dello spirito; presentimento dell’anima, e facoltà poetica. A questo avrà ridotto il senso d’ogni interesse, d’ogni esperienza, e programma. Anche di programmi pratici. Ma avrà ottenuto di porre un distacco preciso tra la poesia, e gli altri suoi interessi, e d’affidare alla poesia l’espressione solo dell’affetto nelle sue facoltà più segrete, intime, romite. Dunque si allontanerà dalla fiducia irriflessa, spontanea, di potersi riversare e confessare intero nei versi, di potervisi trasferire immediatamente, con ogni cura del momento; impeto d’orgoglio, movente da un senso effettivo di ricchezza interiore, ma condannato ad esaurirsi in frammentarie espressioni, inadeguate a quell’interno senso unitario di cui gli rimaneva un’impressione difficoltosa di sproporzione.

Questo non era solo dell’espressione lirica. Identica scontentezza di sé, e sproporzione tra istinto, o natura, ed affetti, in ogni propria opera, e disegno, esperienza. E insisterà a lungo il desiderio d’un ritorno al principio della propria esperienza, di poterne mutare il corso, chiudendolo romanticamente in una ingenua, astratta e letteraria ignoranza. Sfoghi, del resto, anche se sinceri, marginali. È vero che nella poesia degli anni fiorentini e dell’esilio in Francia, cioè delle prime due raccolte, le Confessioni e le Memorie poetiche, dal ’33 al ’38, trovano espressione i suoi diversi interessi, politici, morali, autobiografici; e, s’intende, articolati spesso con una ricerca di particolari che dovrebbero sostituire un orizzonte d’interessi unitario. Ma sta il fatto che sentiva di poter affidare la vita dei propri affetti alla poesia, e di questa espressione confidarsi con l’amico: era cosi, di fatto, una sezione dei propri interessi sottratta già a quella dispersione tanto a lungo sofferta, e descritta nei suoi andirivieni nelle Memorie poetiche come una difficoltà ad accogliere il senso compatto della natura, e così compatto conservarlo nella poesia, in una coincidenza cioè dei due fatti: natura e poesia.

Degli interessi suoi, l’espressione poetica rappresenta l’avvenuta assunzione d’essi ad affetto: è la conquista guadagnata attraverso la confessione col Capponi. La realtà alla quale guardava come a oggetto esterno cui adeguare disperse astratte disposizioni, è ancora avvertita come una continuità, e che abbraccia natura e tradizioni, il passato e il futuro; quel ch’egli difendeva nell’aritmetica. Ma è continuità che solo si spiega nell’affetto. L’affetto illimpidisce allo sguardo il prospetto della natura, lo fa trasparente di corrispondenze spirituali infinite; l’affetto riconosce in ogni particolare interesse quel che lo lega a tradizioni lontane, lo fa portatore del futuro. E nell’affetto poteva ora difendere, nella discussione col Capponi sulla poesia, l’identità tra aritmetica e poesia; tra facoltà poetica, che è diffusa ovunque e presente in ogni atto della vita, e la poesia scritta, che Capponi distingueva dalla prima come «materia disgregata, rada, gazosa». Affetto, dunque, non interrotto, come nella poesia lo avvertiva Capponi, anzi riconosciuto come ritmo, e canto, vale a dire identificato con le strutture logiche e strofiche d’ogni particolare poesia. E s’intende che a Capponi dovessero poco riuscir convincenti gli ostinati esperimenti metrici dell’amico. In questi, Tommaseo identificava la poesia come affetto; e appoggerà in quest’ordine a nuovi programmi, di poesia per cerimonie, per fanciulli, e religiosa, le sue esperienze, richiamandosi anche in questo caso a particolari tradizioni.

Evidente come in una esperienza del genere non si faccia sentire alcuna inclinazione realistica, alcun interesse per uno studio della realtà. Proprio come un gusto frammentistico è escluso dalla compattezza con cui aderisce anche a osservazioni isolate, anzi rotte; così una simile condizione affettiva, volta a rendere una facoltà interiore, anzi d’una rara intimità, e che vive nelle regioni più segrete d’una autobiografia avvertita nella sua eccezionalità e in parte confessata come mistero dalla persona stessa del poeta, esclude un interesse effettivo d’analisi o di resa di elementi e situazioni reali.

Eppure la riduzione ad affetto non sembra detrarre alla trita confessione d’ogni privata avventura: la poesia degli anni fiorentini e parigini è poesia soprattutto d’amore; ma le protagoniste di questi amori non hanno veri caratteri distintivi. Solo la condizione esterna, l’età, o il grado sociale, le avvicenda come in un catalogo; anzi, non sono oggetto di sentimenti davvero diversi. Si ripete in questa parte analoga difficoltà a quella delle strutture logiche e strofiche; i tagli, le soppressioni, apparirebbero violente sempre, ove non si badasse all’interesse che guida lo scrittore nel sacrificare intere parti, e centrali, d’una poesia, o nel riscrivere in diversa misura strofica una stessa poesia, o nella richiesta assidua al Capponi di suggerimenti per varianti e correzioni particolari. Tutte queste sono parti, soltanto parti, d’un affetto che conta effettivamente per la sua più pura, ultima espressione, e possono apparire o un’accentuazione o falsificazione di esso, ma comunque, come il ritmo stesso, valide per l’intonazione. E così per i più particolari elementi: suscettibili tutti d’essere assunti alla dignità di quella intonazione, ma in sé legittimi sempre e sempre variabili e sostituibili. Un affetto affidato all’intonazione, al ritmo – cioè ragioni, idee, speranze, illimpidite e connesse per una reciproca comunicazione perpetua – costituisce un’esperienza poetica non solo, come s’è avvertito, corrosa sempre da un pericolo d’astrattezza, ma diretta a una espressione di tono rara, indefinita, e a fermare anche con l’aiuto o sull’avvio ritmico una sospensione o un’assorta effusione interiore, fino al risultato d’uno scavo rivolto a consumarsi in un’immobilità contemplativa, o nel repetìo d’una invocazione di tale stato, come preghiera, meditazione. Repetìo in cui, sì, può arrivare a riscattarsi la sollecitazione dei particolari autobiografici, quella descrizione e quel catalogo perenni in cui è il primo documento della natura particolare, e anche il margine d’astrattezza della sua lirica.

Altissima nei risultati cui è destinata, cui raramente come sempre la poesia, per servirci dei «riguardi» del Capponi, perviene. Ma è questa natura che spiega l’obiezione sua alla lirica del Poerio, che ci ricorda punti di valore programmatico nei riguardi del proprio lavoro. Poesia romita, meditata, a lui appariva quella del Poerio, e s’intende che dovesse operar qualche suggestione sul suo stesso lavoro. Eccessivamente vi insisterà, quasi a riproporsi il segno di un pericolo d’astrattezza, nella tensione d’esprimer un senso lirico per forza di dimostrazione logica: il pericolo di perdere il bene intimo dell’affetto, di quell’illimpidirsi che rende trasparenti del pari, all’anima, natura, e dolori propri. Dolore severo, ma di rinuncia, quel lamento del Poerio; a lui tutt’altro che lamento riusciva la propria poesia ormai. Certo gli doveva parlare intimamente quella facoltà di far sentire il mistero e la vastità del reale, e il desiderio d’esso che sollecita lo spirito: quella poesia «meditata». Certi temi in particolare, a cui sentiva d’esser destinato, ma che esperimentava, al confronto dell’amico, da una diversa disposizione: l’universo, la luce, l’avvenire; poesia di concetto, quella, ora avvertiva; a lui anche l’espressione della vita universale appariva ormai un mistero dell’affetto, esprimibile per comunicazione e quasi sollevandosi per una scala di intimi schiarimenti spirituali. Concetto, e dei concetti i legami logici, le connessioni, i passaggi, son trattati con l’impazienza di sussidi privati, di elementi che contano nella loro particolarità come esempi: immagini, la cui vita effettiva è non nel significato particolare ma in quel significato che rendono per la collocazione e il riferirsi a un’espressione poetica che illuminano e della cui luce si rivestono. È facile notare un prevalere, prima, di confessioni più precise, affidate poi, nelle correzioni, a speranze o a espressioni d’affetto meno circoscritte, anche se sempre vi avrà gran parte un animo polemico, che è in tutta la sua vita, in ogni sua opera. Si tratta del resto di correzioni spesso lontane nel tempo. Le armature retoriche, il linguaggio in particolare dei trecentisti insiste ancora nelle poesie del ’35, ma in parti destinate a cadere, quando nella vecchiaia ordinerà la raccolta delle sue poesie.

Della educazione retorica, letteraria, conserverà l’ostinato dar voce agli affetti in forma drammatica, creando figure, enti astratti bensì, ma personificazioni o meglio concrete immagini di stati altrimenti inesprimibili. E tale difesa valeva soprattutto verso Poerio, al cui asciutto rigore intellettuale quelle apparivano fredde zeppe retoriche; e vi dava voce invece Tommaseo a quelle zone, di cui s’è detto, difficilmente esprimibili. Si indica con questo la ragione oltre che il tono della poesia del Tommaseo. In generale la sua poesia, col sussidio magari del ritmo, o dell’immagine, anche d’un’insistenza di elementi ritornanti quasi a fissare una particolare condizione, chiama in vita una voce, un’immagine, quasi il soprassalto d’un’apparizione intima, d’un aprirsi segreto dell’anima: apparizioni, spesso. Ma s’intende che sostanzialmente la capacità d’una esperienza di tale specie viva solo in una tensione eccezionale, debba riconoscersi in una aperta condizione di dolore. Che è un approdo di quanto indicato come destino delle confessioni sue col Capponi, del rispondere delle sollecitazioni dell’amico a una concreta pur se ancora involuta situazione spirituale.

E varrà avvertire che l’accordo non vuol dire coincidenza d’opinioni, nemmeno nella poesia. Ma la confidenza reciproca consentiva la disparità o divergenza di programmi e idee in altri campi; quanto in particolare è dato seguire, attraverso il carteggio dei due amici, per le opinioni politiche, destinate a differenziarsi e separarsi vieppiù, col passare da desideri e speranze all’accettazione o al rifiuto di avvenimenti precisi, di organismi nuovi, dal 1831 all’unità d’Italia. Del resto, è una carriera d’eccezione anche considerata nell’ambito dell’attività letteraria complessiva del Tommaseo, e della quale ha subìto il giudizio in genere restrittivo, l’appunto di frammentarietà e di sfogo polemico. Anzi, come l’inclinazione a vizi del genere era apertamente manifesta già nelle confessioni giovanili d’orgoglio morale e di superbe prospettive culturali e ideologiche, e qualcosa di minuzioso e assillante accompagna anche le parti più spontanee e intime e gli anni migliori della sua vita intellettuale e artistica, così tra il ’40 e il ’50 verrà sempre più prevalendo in lui la preoccupazione di far servire quest’ultimo valore del sentimento a fini sociali e pedagogici, richiudendo in zona più intima e alta, e rara, quelle ch’egli chiamava le intime visioni, la poesia sua.

Le poesie delle Memorie poetiche. che seguono a una confessione delle confuse e retoriche esperienze giovanili, si collocano in una serie di quattro volumi di Nuovi scritti, che raccolgono vari saggi e scritture anche diaristiche, tra le quali hanno rilievo e significato particolare solo le giunte alla Crusca, (la Nuova proposta). Nella Nuova proposta si veniva definendo una ricerca di linguaggio e tradizioni popolari destinata a influire su tutti i successivi scritti, dalle poesie stesse a Fede e Bellezza. alle raccolte di canti popolari, corsi toscani greci illirici, alle versioni bibliche in versi e in prosa. Ricerca appoggiata già a due modelli ch’erano pur dei suoi primi anni, ma ora con diversa esperienza di ragioni e significati: la Bibbia, appunto. E Dante, nel cui nome aveva concluso le Memorie poetiche. e assiduamente presente nelle esperienze dei recenti anni, anche in minime osservazioni di carattere poetico che son da ricondurre alla esperienza lirica sua che veniva prendendo allora deciso carattere. Dante, attraverso i miti culturali della popolarità e delle tradizioni conservate soprattutto nella lingua, verrà da lui ricondotto a una sostanza di valori affettivi, e in forza di questi perennemente, nel suo commento alla Divina Commedia, e fin dagli anni fiorentini e del soggiorno francese, accostato a Virgilio, sovrano esempio, per lui, nella poesia, d’affetti intimi. E s’indica già con questo la direzione dei contributi successivi, dopo la prima edizione, del ’37.

Quanto intima, minacciata, però, sempre di soluzioni esterne, di sfoghi privati o astratti, di compiacimenti retorici, di prolissità e dispersione strutturale, una sua pur effettiva facoltà poetica. Di quell’inclinarsi sulla coscienza, di quell’aprirsi d’una confessione cui si sforza con perpetuo assillo al bene d’un illimpidimento che si riflette o sente allargarsi, fuori di lui, ecco che segna le occasioni, il ricordo, che gli diventano come simboli e speranze di visioni e comunicazioni spirituali avvenire. Ecco il Tommaseo segnare ad ogni poesia l’ora, il luogo, le circostanze del momento o dei diversi momenti della composizione. Soprattutto nei primi anni, quando le poesie accompagnano l’aprirsi da ciechi impeti all’affetto, o al dolore: ma questi si accampano nelle poesie in una particolare espressione come di immagine sognata, o recuperata sulla segreta musicale via d’un ricordo: pronuncia d’una voce, allontanarsi o svanire d’essa, o d’un’immagine, o impeto d’un risveglio, come a richiamo improvviso, della coscienza. È l’annuncio, il segno, della sua particolare ispirazione, della sua disposizione poetica: poi vi si dispiegano dolori, voti, speranze, che diversamente possono o sforzare o segnar davvero un illimpidimento di quella disposizione, che era innanzi tutto da indicare nella sua iniziale struttura. E la poesia è stata l’esperienza unica, o l’unica d’una concretezza spirituale effettiva, e condotta interamente in un suo arco, del Tommaseo.

Ad essa si rifanno nelle loro parti o nei loro elementi vivi tutte le altre opere, e soprattutto quelle che di essa sono appena variazione o svolgimento e contributo, come Fede e Bellezza e le raccolte dei canti popolari greci e illirici. Ora, la poesia sua s’arricchiva di queste nuove esperienze, e insieme si liberava di interessi, temi, che meglio gli riusciva esprimere in altre forme. Condotta a espressione d’affetto soltanto, di dolore non più solo limitato alle prove della sua vita, spontaneo gli veniva d’articolarvi le zone più sfuggenti, più accompagnate di desiderio, dagli anni passati: il potere comunicare, ma per affinamento spirituale, come per un solo estendersi di questo, con le creature e con la natura, come nella coscienza d’una raggiunta comunione spirituale. A tale comunione solleva lo sguardo e s’innalza di voto in voto, d’accento in accento, in liriche quali A una foglia, o D’un quasi cieco e presso a esser vedovo. Che si indicano come pronte a offrir l’esempio di quanto si viene indicando, non perché esse in particolare di diverso valore da tante altre. Ma è da quell’interrogare, o sperare, inchiuso nella confessione, in quella violenza e quasi vittoria celebrata appena in qualche irruenza strofica – che a volte il parlato di gusto popolare, tante volte astratto, sottolinea e rende immediata – che si intendono (anche queste nella loro tensione e insistenza di cui si deve saper sentire la prima e lontana ragione morale, d’esplorazione e interrogazione e confessione segreta) le poesie delle comunicazioni di spiriti, degli elementi invisibili e degli universi.

Fede e Bellezza

Vero, piuttosto, che quel suo libro diceva «umile», tenue: termini che usava per le sue opere, non solo certo per Fede e Bellezza, e ne indicavano la regione particolare degli affetti, delle comunicazioni segrete, e quel voto, o desiderio dell’anima, di uscir di sé. Che è descritto anche nel romanzo, nell’affetto che unisce i protagonisti. Qui l’affetto è fatto coincidere con un’istituzione, il matrimonio, che ci apparisce come l’elemento più oggettivo, o esterno, del romanzo, appena si considerino, come pur si deve per intendere il libro, Giovanni, Maria, non più quali convenzionali protagonisti romanzeschi, ma figure, piuttosto, d’un fatale itinerario. Di un uscir dalle cadute: e quanto più intimamente certo, in quelle anime, il senso d’una spiritualità dotata, desta, ma travolta dal proprio impeto. Che vale tanto per Giovanni che per Maria. Non tenta di tracciare, di Giovanni, una storia qualunque: ma di Maria, a invitarlo a tracciar un arco di vita, d’errori, su un fondo di purezza incontaminata, quante storie ripetute a lui in momenti di intimità, e custodite gelosamente, dovevano invitarlo a tentare di rendere e d’innalzarsi nel racconto a quei dolori, a quel pianto perenne d’una vita di peccatrice non perduta. Il racconto di Maria, con tanti squilibri e nonostante gli echi letterari, ha nel primo capitolo una sua coerenza. Ma l’incontro, il matrimonio, è qua un simbolo: quell’uscir di sé e comunicare, nella realtà si ridurrebbe col matrimonio a un’indicazione pratica, insignificante a confronto dell’eccezionalità dell’esperienza spirituale che vuol rappresentare. L’incontro, le ragioni dell’affetto, e il determinarsi di questo, si spiegano, come solo è possibile, dato il significato intimo della esperienza narrata, nel riflesso d’un estendersi e approfondirsi degli interessi e delle iniziative spirituali di Giovanni. Di qua l’accentuazione portata, con la seconda edizione del ’40, l’anno stesso della prima edizione, e poi con la nuova accresciuta del ’52, in quelle iniziative, che ripetano grado a grado gli interessi nuovi del Tommaseo in quel decennio: nuovi, del resto, relativamente, perché cosi i canti popolari che le tradizioni nazionali, e l’esempio d’un simbolo della storia universale nella Bibbia, eran presenti, già prima, anche se diversi. La definizione di questi interessi faceva discordante l’attenzione, ancora prevalente nella prima edizione, ai pericoli sensuali di Giovanni. Cercherà d’armonizzar diversamente, tra passioni pur sempre insorgenti e indirizzi via via riconosciuti e abbracciati, la vita di Giovanni tra l’incontro con Maria e il matrimonio.

Tra questi due fatti si svolge nella sua storia la capacità nuova del protagonista di sollevarsi da una ricchezza di passioni (che ha il suo documento nel secondo capitolo, il diario di Giovanni), ad imprese rinnovatrici. E queste entreranno anche nel diario, per accentuare, più che la diversità esterna d’interessi, l’efficacia intima dell’esempio, della presenza, della voce confortatrice, e pur nei dolori virginale, di Maria. Il matrimonio conclude quella comunicazione di spiriti, quel crescer dell’affetto nell’uscir di sé, ove se ne renda capace; che è il significato del romanzo. Del matrimonio, soluzione romanzesca, si libera con la morte della protagonista. I due fatti, i due momenti, fomite di dolori, immagini o figure di dolore.

Tutto il libro tende a prospettarsi come immagine, simbolo di un’esperienza intima ricca e dolorosa: vi sono accolti, così, gli interessi nuovi del Tommaseo, appoggiati magari a episodi autobiografici, ma come esperienze e scoperte dell’anima (l’educazione della donna, dei fanciulli, la ricerca delle tradizioni storiche nel linguaggio, un ritorno all’Oriente per la via della fratellanza coi dalmati e i greci, appoggiata alla traduzione dei canti popolari). È il carattere d’ogni parte e avvenimento, descritti nel romanzo. Il primo incontro di Giovanni e Maria avviene sotto il segno d’un verso di Dante, fatto simbolo d’un improvviso presagio di futura comunione spirituale; ed è la sottintesa premessa delle due confessioni, che occupano i due primi capitoli. Anche la minuziosa cura stilistica è presa nel cerchio di quella pronuncia d’un verso di Dante; cura presente in tutto il libro, e spesso con sproporzione. Ma era parte intima di quel rappresentare simbolico, di cui forse il più esplicito esempio ci è offerto dalle note introduttive ai canti illirici e, soprattutto, ai canti greci. E se nel romanzo è spesso ingombrante la preoccupazione stilistica, però, reinserita nella materia, nei simboli, conferma il significato particolare di quell’amore, la comunione tra quegli studi di Giovanni e quella intelligenza schietta della natura, e dell’arte, di Maria: il rispondere pronto della donna agli inviti del creato che aveva già cantato in una poesia dal titolo, appunto, La donna ideale. E, per quel che riguarda una particolare nativa intelligenza connessa con tradizioni popolari nella lingua, altra poesia soccorre, che si ramifica poi per tanti altri temi delle sue poesie, A donna lucchese dornato ingegno.

Alle poesie richiamano anche tutte le prose narrative precedenti, dai frammenti affidati alle Memorie poetiche. ai Due baci, al Sacco di Lucca, e al Duca dAtene (questi due ultimi ricorderanno in particolare la struttura tentata già in poesie, anche per la lingua da riferire a modelli medievali, come Odio e Amore e Montaperti, o, per rifarci ai primitivi titoli, al Coro dei Bresciani e al Portico di San Frediano). La riduzione a una sostanza più reale, di quelle energiche tradizioni storiche e linguistiche da riscattare e riguadagnare nella lingua d’oggi, segna tutto un passaggio a nuovi interessi, quelli al cui centro si colloca Fede e Bellezza. E v’era pervenuto con un graduale passaggio al vernacolo, dalla sostenutezza stilistica degli esemplari dei primi secoli. Vernacolo pur sostenuto a esempi d’eccezionale dignità, come Dante, e la Bibbia anche in esempi trecenteschi della Volgata; le due fonti maggiori della Nuova proposta, contemporanea a questi nuovi studi, e di cui s’è detto già, e il cui primo esperimento poetico è legato alla Rut, d’un linguaggio popolare, parlato. I nuovi successi (dell’esempio già tentato nella Rut) s’ordineranno nel migliore dei suoi racconti in versi, Una serva (in ottave come la Rut, e come La contessa Matilde di diverso tono, avvertiva lui stesso), e nel romanzo. Mentre il pettegolo popolarismo, e certa insistenza sentimentale, che già perpetuamente minacciano il romanzo e ne confermano però la natura non tanto lirica quanto di confessione sollevata in simboliche figure d’un riscatto spirituale (figure proposte come pungolo e voto alla coscienza); l’illusione insomma d’un pacifico aderire a pettegolo sentimentalismo vernacolo, in cui scadeva una tensione eccezionale, di rari risultati, aveva espressione in successivi racconti in versi, come Una madre e Due vedove. Ma l’esperimento della Rut, che in Fede e Bellezza già si configura come un tono caratteristico alla natura intima, d’affetto e consolazione, di comunione spirituale, di quella tenue storia, si rafforzerà in altre narrazioni, se pur frammentarie come Un medico, o, al pari dei Canti popolari greci e illirici, appoggiate a testi esemplari, traduzioni o variazioni di questi, come gli Esempi di generosità proposti al popolo italiano. Per un lungo arco d’anni che quasi intera copre la vita dello scrittore, ma ha il suo centro nel decennio tra il ’40 e il ’50.

Hanno tutte queste opere un particolare comune carattere, di variazione, passaggio o analogie; ma cercate, dichiarate; e in questo anche stilisticamente espresse e sottolineate come d’un alone o d’un perpetuo soccorso d’addentellati, in cui si riconoscerà ancora l’eredità dell’ostinata educazione umanistica dei primi suoi anni (ma anch’essa divenuta ormai soltanto terreno adatto alle esperienze nuove). Passaggio da un’immagine, una parola, a un affetto: o a una tradizione, o a un ricordo; o a programmi politici, o grammaticali. E con legittima comunicazione tra tutti questi aspetti d’una realtà, fatta sensibile o appuntata a un affetto, in cui si rispecchia, per così dire, nei suoi diversi gradi e colori. È questa la forma della sua intelligenza della poesia, e del linguaggio nelle sue strutture grammaticali; del suo toccare il perché della bellezza di tanti luoghi della Divina Commedia, e di Virgilio, e del suo fantasticare d’una universale opera poetica il cui corpo sarebbe un dizionario: l’interesse ricco e articolatissimo delle sue imprese vocabolaristiche. E si è sempre in una zona d’interessi teorici, o di strutture magari, ma liberamente rifatte, commentate; di studi sempre sostanzialmente poetici.

Lo stesso si deve dire dei suoi volumi politici, con la differenza che l’ispirazione soggettiva, la riduzione ai voti e ai presentimenti della sua coscienza riescono in intuizioni e ritratti o disegni frammentari, e i giudizi d’ambito storico, le soluzioni di problemi ch’hanno in una realtà sociale o politica obiettiva il loro campo, scoprono un orizzonte strettamente privato. Questo vale per i libri Dell’Italia, per la cui pubblicazione scelse nel ’34 l’esilio in Francia (e per Rome et le monde. di circa quindici anni posteriore). E quali anni, per l’Italia, e per la partecipazione diretta del Tommaseo ai nuovi conflitti, e per l’appassionata esperienza della difesa, contro le armi austriache, di Venezia. Caduta la città, s’imbarca per l’esilio il 27 agosto del ’49 sul piroscafo francese Pluton, che arriva il 30 a Corfù. È il suo secondo esilio, che durerà fino ai primi del ’54; indi toccando Napoli e Livorno sbarca a Genova, diretto a Torino. Di là ancora a Firenze nell’autunno del ’59, dove trascorrerà il resto della vita. A Corfù scrive Venezia negli anni 1848 e 1849, e poco dopo Rome et le monde. Di quest’opera gli scriveva il Capponi, richiamandosi ai libri del Savonarola (ch’era il modo usato tra loro per indicare i libri Dell’Italia): «sono i cinque antichi libri del Savonarola, maturati ora dagli anni e dalle dure esperienze fatte. A questi non crederanno, come non crederono a quelle ch’erano profezie quindici anni fa: ma non importa; il libro farà del bene come si può farne a questo mondo». Concedeva bensì, in questa lettera, all’amico. Ma non si dovrà credere a una effettiva coincidenza d’interpretazione dei fatti politici; si richiamava a benefìci morali, solo in parte da riferire agli indirizzi del cattolicesimo liberale, soprattutto però a più lontane speranze, più sciolte dai disinganni o dalle mediocrità e dalle incertezze del giorno, e meglio identificabili con una lunga educazione al dolore, a conforti collocati nell’intima coscienza, e nel cui clima anche i disegni politici prendevan forma di vaticini dell’anima, di presentimenti lirici. In tale clima s’identificano le speranze nel lontano avvenire d’una fraternità di nazioni, e i disegni di proprie opere future, poetiche, linguistiche, senza distinzione da quell’altra materia. E s’intende che in ognuno di questi dovesse sentir sempre d’essersi pronunciato appena, e che le opere come la vita sua gli risultassero di fila spezzate, di disegni interrotti, e di sogni, di vaticini, di presentimenti. A tutto si riprometteva di metter mano, sempre. Ma anche negli anni posteriori al ’50 i suoi lavori maggiori son letterari; il Dizionario, e le poesie, e opere ancora autobiografiche nell’intima loro ragione, come il Supplizio d’un italiano in Corfù. Ma, tranne quest’ultima, opere frammentarie, e dispersa quant’altra mai la messe da lui lasciata di tali imprese.

Ma s’è descritto quale esperienza effettiva avesse condotta in quel campo d’intimi vaticini e affetti; e quanto d’essa abbia fruttato una rara, eccezionalmente alta, carriera poetica. E che di questa si rifrangesse negli altri scritti una parte è bensì naturale. Si spiega così l’interesse suscitato ancora dalle sue convinzioni circa il ritmo e le soluzioni metriche e strofiche (specie nel campo delle traduzioni, ad esempio nel Pascoli); e l’appartata stima della sua poesia, della quale gusto e linguaggio e un’immediata energica affettività nel guardar alla natura passeranno tra i più concreti elementi dell’esperienza poetica degli ultimi decenni del secolo. Ma sulla sua poesia son ribaltate poi, da questa stessa successiva tradizione, le indicazioni più polemiche d’una maniera letteraria, parnassianismo, impressionismo, frammentismo, che in realtà spettano bensì al largo margine retorico d’ogni sua esperienza, come tante altre diverse e del pari approssimative e generiche; non spettano, però, all’esperienza della sua poesia.

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