DORIA, Nicolò

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992)

DORIA, Nicolò

Maristella Cavanna Ciappina

Nacque a Genova attorno al 1525, primogenito di Giacomo e di Bettina De Marini; ebbe tre fratelli maschi (Stefano, Gerolamo ed Agostino, doge nel 1601) e cinque femmine, tutte sposate con esponenti delle principali famiglie nobili della città (Eliana ad Ambrogio Di Negro; Sobrana a Francesco Pallavicini; Ginevra a Francesco Maria Imperiale; Orietta ad Isnardo Cattaneo; Isotta a Battista Giustiniani).

Il ramo della famiglia Doria cui apparteneva il D. discendeva in linea diretta dal celebre ammiraglio Lamba, ma acquistò nuovo prestigio politico nel corso del '500 attraverso il legame con Andrea Doria prima e col suo erede Giovanni Andrea poi: legame originato non tanto dal vincolo di parentela quanto dalla comunanza di interessi economico-politici, che passavano attraverso la Spagna e la pratica dell'assentismo.

Il D. accentuò questi vincoli anche attraverso il matrimonio con la figlia di Nicolò Grimaldi, ricchissimo banchiere di Filippo II, nonché proprietario dello splendido palazzo in strada Nuova che, dopo lunga lite giudiziaria tra Spinola e Doria, sarebbe andato al figlio di Giovan Andrea, Carlo duca di Tursi. Il fatto che il matrimonio del D. sia stato celebrato nel periodo della guerra civile del 1575-76 tra nobiltà "vecchia" e "nuova", mentre il D. era uno dei nove deputati dei "vecchi" fuorusciti, ne conferma il carattere politico che consentì al D. di acquisire ulteriore prestigio e ricchezza.

Il D. godeva già personalmente di un vasto patrimonio, che, nello stesso anno 1576, in occasione della tassazione del 2,1/2%sui patrimoni (stabilita dagli stessi nobili per la ripartizione delle spese di guerra), venne valutato di 162.500scudi: il più alto della famiglia Doria, dopo quello del principe Giovan Andrea (200.000scudi) e quasi doppio rispetto a quello del fratello del D., Agostino (73.750scudi). Il patrimonio del D. dovette poi comunque passare al figlio di Agostino, Giovan Stefano, anche lui doge nel 1633, che sarà considerato l'uomo più ricco d'Italia.

All'ascesa politica del D. aveva prima contribuito lo zio paterno, Giovanni Battista Doria, primo doge della famiglia nel 1537 e fedelissimo di Andrea Doria. La carriera del D. aveva avuto inizio nel 1555, quando venne ascritto al Maggior Consiglio; ma la prima carica vera e propria venne nel 1558, come sindacatore minore, cioè funzionario addetto al controllo di tutto l'operato delle autorità governative delle Riviere. Negli anni successivi fu utilizzato come diplomatico: nel marzo 1569 inviato straordinario a Torino per difendere i diritti genovesi su Villafranca contro le mire del duca di Savoia e per ottenere il rilascio di due navi confiscate; tra il maggio e.il giugno 1566 oratore a Roma con Ansaldo Giustiniani, Simone Spinola e Battista Cattaneo per le congratulazioni di rito al nuovo pontefice Pio V. Nel 1568 fu nominato tra i Dodici governatori, cioè nel Senato della Repubblica, e alla scadenza della carica, nel 1570 subito tra gli Otto procuratori, cioè nella Camera, che era l'organo centrale dello Stato, incaricato dell'amministrazione delle finanze. Senza considerare le minute incombenze (come l'acquisto a Brescia della campana grossa per la torre di palazzo ducale), il D. e Giacomo Promontorio, nella loro qualità di procuratori, ebbero l'incarico di incontrare a Ventimiglia il principe ereditario di Spagna, Filippo, e il fratellastro Giovanni d'Austria, per concretare con loro alcuni aspetti della partecipazione genovese alla spedizione collegata contro i Turchi (conclusa con la battaglia di Lepanto).

Anche una galea del D. prese parte, il 7 ott. 1571, con lo stuolo di quelle di Giovan Andrea e degli altri assentisti genovesi, alla storica battaglia; ma ignoriamo se il D. vi abbia partecipato personalmente. Certo egli, benché non sembri possedere la tempra del combattente, nel corso della guerra civile del 1575-76 fu nominato tra i nove componenti la deputazione dei nobili "vecchi" che, da Finale, con l'appoggio del principe Doria e della Spagna, dirigeva le ostilità contro la nobiltà "nuova" rimasta a Genova.

La deputazione (della quale, oltre il D facevano parte Stefano Cicala, Benedetto Spinola, Giacomo Di Negro, Paolo Vivaldi, Pier Battista Cattaneo, Bartolomeo Lomellini, Giovan Battista Spinola e Luca Grimaldi) diresse anche le operazioni per il recupero delle spese di guerra, assommanti, secondo la stima del D. e dei colleghi, a 300.000 scudi. Un'ulteriore commissione di sette patrìzi provvide poi alla valutazione dei patrimoni e alla loro tassazione: da questa operazione risulta l'entità del patrimonio del D. sopra citata. Tale patrimonio e le benemerenze acquisite durante la guerra civile consentirono al D., nel marzo 1576 in Casale, di essere inserito nell'urna del primo seminario con i nomi dei 120 più autorevoli cittadini tra i quali, ai sensi della nuova costituzione, si dovevano estrarre i componenti del nuovo governo. Si sa che nei primi mesi del 1576 il D. si era recato a Venezia a depositarvi una forte somma d'oro: ma ignoriamo se per sottrarla ai rischi o alla tassazione, o per provvedere ai bisogni della sua fazione.

Ma il consenso di cui il suo operato era stato circondato ai tempi della guerra civile e della sua soluzione è dimostrato dalla sua elezione ducale, alla quale i nobili "vecchi" dovettero concorrere con assoluta unanimità: il 20 ott. 1579, infatti, il D. fu eletto con 269 voti, la votuzione più alta mai raggiunta.

Giuridicamente legato al dogato del D. resta l'acquisizione del titolo di serenissimo, che nel 1580 l'ambasciatore a Vienna, Giorgio Doria, ottenne dall'imperatore Rodolfo II appunto per il doge, per il Senato e per la Repubblica: titolo poi causa di fiere opposizioni da parte dei rivali di Genova, specie del duca di Savoia e del granduca di Toscana, e di interminabili vertenze diplomatico-giuridiche con lo stesso Impero e con la Spagna, che ne mercanteggiarono a lungo la reciprocità.

I legami internazionali che consentivano al D. di svolgere come doge una politica di prestigio, per sé e per l'immagine della città, sono anche confermati dalla fastosa accoglienza riservata, proprio sul finire del suo dogato, nel 1581, a Maria d'Asburgo, vedova dell'imperatore Massimiliano II, venuta ad imbarcarsi a Genova per la Spagna.

Dopo gli anni bui della guerra civile e di una epidemia di peste che, tra il 15 79 e il 1580, aveva causato solo a Genova 28.250 vittime (e sembra che il D. si sia adoperato con efficente dedizione per organizzare le opportune misure sanitarie), questa apoteosi del dogato del D. doveva dimostrare che, grazie alla guida della nobiltà "vecchia", Genova poteva ritornare centro internazionale anche a livello mondano-diplomatico, oltre che politico-economico e finanziario.

Nella sua qualità di doge, il D. dovette provvedere alla nomina di un nuovo annalista della Repubblica, dopo la morte di monsignor Oberto Foglietta: fu Antonio Roccatagliata, che avrebbe compilato gli annali di Genova dal 1581 al 1607 senza dimostrare particolare benevolenza verso il suo committente, anzi. Il Roccatagliata infatti, tralasciando del tutto gli aspetti positivi della personalità umana e politica del D. che altri storiografi gli riconoscono, si diffonde invece sul procedimento di censura subito dal D. a carica espletata.Tale procedimento, contemplato dalla prassi costituzionale e chiamato col termine di sindicato, venne esteso, con procedura eccezionale, al doge che aveva preceduto il D. nella carica, Giovan Battista Gentile, che aveva già concluso il suo biennio come procuratore perpetuo. Pare che tale procedura di coinvolgimento del predecessore fosse stata voluta dal D. come rivalsa nei confronti dei gruppi che avevano portato all'elezione dei Gentile e, sopra tutto, come affermazione della propria "intoccabilità". Secondo il Roccatagliata (Annali, p. 171), il D. sarebbe "occorso nell'universale odio di ognuno per essere egli molto ricco, dei principali, e di natura superba ed altera, e che perciò anche fosse stato la cagione di questa novita". Il Collegio dei supremi sindicatori, cui la recente costituzione del 1576, confermando le norme del 1528, sottoponeva l'operato del doge e dei due Collegi, impiegò due anni prima di pervenire al giudizio di piena assoluzione per il D., dibattendo varie questioni dalle quali risultano evidenti non solo le perduranti rivalità tra le due fazioni "vecchia" e "nuova", che i patti di Casale avevano solo formalmente composto, ma anche le ostilità di gruppi rivali all'interno delle due fazioni; gruppi che si giocavano la leadership attraverso l'appoggio spagnolo e che, in questi anni, ruotavano attorno ai Doria (il principe Giovan Andrea e i suoi uomini, tra cui il D. appunto) e agli Spinola. Infatti, il lungo sindicato sul dogato del D. sembra principalmente dovuto alla revoca del mandato di ambasciatore in Spagna a Giulio Spinola (poi reintegrato nell'incarico): segno evidente che i gruppi non allineati od ostili al principe Doria riuscivano ad ostacolarne i piani e ad esprimere la loro opposizione, almeno attraverso questi giochi di potere.

Una volta assolto, nel 1583 il D. entrò tra i procuratori perpetui e nel magistrato di Corsica; poi, nel 1584, anche in quello di S. Giorgio. Quindi fu protettore del S. Ufficio e direttore delle Munizioni e Artiglierie. Dal 1588 al 1591fu magistrato dei Confini: durante il mandato, si scontrò violentemente con l'ambasciatore di Spagna, perché aveva chiesto il rilascio di un non meglio identificato "prigioniero d'alto bordo" per incarico del governatore di Milano. Il D. morì a Genova il 13 ott. 1592 e venne sepolto nella chiesa gentilizia di S. Matteo, nella cappella del Sacramento, dove nel 1607 sarà sepolto anche il fratello Agostino.

Dalla moglie Aurelia Grimaldi aveva avuto nove figli, sette maschi e due femmine: Giovanni Battista e Giovanni Stefano sposarono due sorelle Spinola, rispettivamente Vittoria e Ottavia, figlie di Giovanni; Marc'Antonio, Giacomo, Camillo, Giovan Girolamo, Giovan Pietro restarono celibi; Livia e Maria sposarono rispettivamente Enrico Salvago e Gaspare Spinola di Goffredo. Questo ramo della famiglia Doria non fu continuato dai figli del D. ma da quelli del fratello Agostino; le ingenti ricchezze di Giovan Stefano furono poi ereditate dai figli delle sue sorelle, Luca Spinola e Nicolò e Carlo Salvago. Del D. resta ancor oggi un busto marmoreo, visibile in un palazzo attiguo a S. Matteo, busto che egli stesso si fece erigere al tempo del dogato; inoltre gli resta dedicato, oltre agli Annali del Roccatagliata, un libro edito nel 1581 dalla tipografia Belloni, Rotae Genuae de mercatura, recante le decisioni giudiziarie in materia. Accanto al D. operarono alcuni omonimi, il più insidioso dei quali, al fine della corretta individuazione, risulta un Nicolò fu Giacomo fu Pietro; più facile la distinzione dal Nicolò figlio del cardinale Gerolamo, sia per ragioni cronologiche sia perché quest'ultimo è in genere indicato come "q. reverendissimi".

Fonti e Bibl.: Genova, Bibl. civica Berio, m. r. X, 2, 168: L. Della Cella, Famiglie di Genova, II, c. 56; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1800, III, p. 180; IV, pp. 95 s.; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, Genova 1835, c. 52; J. Doria, La chiesa di S. Matteo, Genova 1860, p. 220; A. Roccatagliata, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1873, pp. 3, 6, 70, M; G. B. Confalonieri, Genova nel 1592, Roma 1911, p. 24; L. Donaver, Storia della Repubblica di Genova, Genova 1913, II, pp. 251, 259; F. Poggi, Le guerre civili di Genova, in Arch. d. Soc. ligure di st. patria, LIV (1930), pp. 24, 112; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, ibid., LXIII (1934), pp. 7, 40; G. Guelfi Camajani, Il Liber nobilitatis Genuensis, Firenze 1965, p. 158.

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