Non mi poriano gia mai fare ammenda

Enciclopedia Dantesca (1970)

Non mi poriano già mai fare ammenda

Marco Pecoraro

. Sonetto (Rime LI) adespoto nel Memoriale bolognese del notaio trecentesco Enrichetto delle Querce, da cui fu trascritto primieramente nel 1869 da Giovanni Gozzadini, attribuito invece a D. in diversi manoscritti, per es. Chigiano L VIII 305 (c. 59v), Bartoliniano (c. 2v), Trivulziano 1058 (già Bossi 36: c. 41j), cod. 820 (già 824) della biblioteca Capitolare di Verona (c. 102d), cod. II II 144 della biblioteca Nazionale di Firenze (c. 28v) e cod. 2448 dell'università di Bologna (c. 1r).

Edito per la prima volta nel 1874 da Angelo Gualandi, che lo attribuì a Enrichetto delle Querce, fu ristampato l'anno dopo dal Gozzadini, e nel 1876 dal Carducci (che già l'aveva comunicato nel 1872 alla Deputazione di Storia patria per le province di Romagna), come di autore incerto. Nel biennio successivo, invece, apparve ne " Il Propugnatore " (voli. X-XII), con la paternità di D., nell'edizione diplomatica del " Canzoniere Chigiano " fatta dal Monaci e dal Molteni; e nel 1879 fu ripubblicato dal Witte, nelle Dante Forschungen, fra le rime attribuite all'Alighieri, ma con l'esplicita attestazione che esso " di certo non gli sembrava fattura di Dante ". Flaminio Pellegrini lo dette nuovamente in luce nel 1890, tentandone una ricostituzione critica, nell'opuscolo Di un sonetto sopra la torre Garisenda attribuito a D., e, pur non esprimendo alcun parere sull'autore, si dimostrò incerto nell'assegnarlo a D., non essendo convinto che egli fosse stato a Bologna, per lo studio del diritto, nella sua giovinezza. Anche il Sighinolfi non credette alla sua autenticità, e asserì che " l'attribuzione a Dante è pura supposizione erudita della seconda metà del sec. XIV ". Successivamente il Barbi, sul fondamento della comune concordanza dei codici, che lo ascrivono all'Alighieri, lo ristampò con le altre rime dantesche nelle sue Opere, e lo incluse fra quelle del tempo della Vita Nuova, considerando che esso è senza dubbio anteriore al 1287, quando fu compilato appunto il Memoriale in cui è contenuto. Dopo di lui nessuna incertezza è più sorta, fra gli studiosi, sull'autenticità del componimento.

Varie, e spesso discordi sono state le interpretazioni del sonetto. Alcuni, infatti, hanno creduto che il poeta si mostri sdegnatissimo e minacci i suoi occhi di accecamento per aver mirato con diletto solo la torre della Garisenda, senza porre attenzione a quella degli Asinelli, che è tanto famosa in ogni luogo per la sua altezza (Ricci, Torraca, Pellegrini, Zingarelli). Altri, al contrario, hanno supposto che la maggior de la qual si favelli sia una gentildonna, molto celebrata a Bologna per la sua avvenenza (Carducci, Barbi). Certuni, inoltre, sono stati di opinione che quella contrapposta alla Garisenda / torre sia probabilmente una donna della famiglia dei Garisendi, la maggiore, cioè " la più alta ", se il paragone fra le due s'intende in senso scherzoso (Lovarini); " la più illustre ", se invece si giudica scevro di ogni intento satirico (Mazzoni). Qualcuno, infine (e tralasciamo, fra l'altro, le ingegnose spiegazioni del Gualandi, del Bilancioni, dello Zenatti, del Parodi, del Filippini), ha addirittura congetturato che la prima è ‛ senhal ' di una donna, per il cui vagheggiamento gli occhi del poeta non conobbero " nel suo valore " la maggiore di tutte le altre lodate, cioè " Beatrice lontana " (Salvadori, Bertoni).

Il senso del sonetto, che, come afferma il Confini, è in generale " una divertita iperbole di scuola ", non è molto evidente: per questo talune espressioni, come risguardi (v. 4), con elli (v. 8) - che nel Memoriale si leggono, rispettivamente, " cum li sguardi ", " sonelli " -, poi tanto furo (v. 9), sono state argomento di varie chiose e supposizioni allo scopo di poter dare un significato possibile a lle frasi Il Carducci, ad esempio, propose di correggere belli in felli, cioè traditori, e poi in rei; il Pellegrini furo in feron, secondo la variante del cod. 820 della Capitolare di Verona; il Lovarini soneli in reveli, cioè ribelli, o in sonnelli, cioè sonnacchiosi, considerando il termine come aggettivo da unire sintatticamente col v. 9; e così via. Ci sembra a ogni modo che, fra le interpretazioni suggerite, le più logiche e conformi al senso letterale di esso restino ancora quelle del Ricci e del Carducci.

Bibl. - G. Carducci, Intorno ad alcune rime dei secoli XIII e XIV ritrovate nei Memoriali dell'Archivio notarile di Bologna, in " Atti e Mem. Deputazione St. Patria Prov. di Romagna " s. 2, II (1876), 128-130; K. Witte, Dante Forschungen. Altes und neues, Heilbronn 1879, 571; F. Pellegrini, Di un sonetto sopra la torre Garisenda attribuito a D., Bologna 1890; C. Ricci, D. allo Studio di Bologna, in " Nuova Antol. " s. 3, XXXII (1891) 305; O. Zenatti, D. e Firenze, Firenze 1902, 42; G. Salvadori, Sulla vita giovanile di D., Roma 1906, 150-151; G. Bertoni, D., Genova 1913, 22; F. Filippini, Il sonetto di D. sulle due torri, in " l'Archiginnasio " X (1915); ID., Ancora pel sonetto di D. sulle due torri, Ibid. XI (1916) 1-3; XV (1920) 108-113; ID., Per l'" Asinella " dantesca, in " Resto del Carlino " 23-24 marzo 1921; F. Torraca, Di un aneddoto dantesco, in " Atti Accad. Archeologia Lettere Belle Arti Napoli " n. s., V (1916) 263-288 (poi in Nuovi studi danteschi nel VI centenario della morte di D., Napoli 1921); G. Livi, D., suoi primi cultori, sua gente in Bologna, Bologna 1918, 3; L. Sighinolfi, I notari bolognesi e il sonetto per la Garisenda attribuito a D., in " Giorn. d. " XXVI (1918) 203-220; E.G. Parodi, in " Bull. " n. s. XXVI (1919) 94-97; E. Lovarini, Il sonetto di D. per la Garisenda, Bologna 1920; Contini, Rime 39; G. Mazzoni, Almae luces, malae cruces. Studii danteschi, Bologna 1941, 123-135: e vedi pure " l'Archiginnasio " XXXII (1937); Zingarelli, Dante 211-212 e 216-217; Barbi-Maggini, Rime 184-192 (e del Barbi cfr. anche Il sonetto per la Garisenda, in " Studi d. " III [1921] 155-158)