NONANTOLA

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1997)

NONANTOLA

G. Zanichelli

Centro dell'Emilia-Romagna, posto a km 10 a N-E di Modena, sulla riva destra del Panaro, il cui toponimo deriva dalla centuriazione romana.L'insediamento, sorto come colonia romana, decadde nella Tarda Antichità a causa delle esondazioni del fiume, che ridussero a palude il terreno circostante; nel tempo, una fitta boscaglia ricoprì il territorio, che i Longobardi acquisirono solo con Liutprando (712-744). Nel 751 Anselmo, cognato di re Astolfo e già duca del Friuli, dopo aver fondato nel 749 il monastero di Fanano, nell'Appennino modenese, scelse la curtis regia di Zena per un nuovo insediamento, che aveva una precisa funzione strategica contro l'Esarcato; la comunità venne dedicata alla Vergine e a s. Benedetto, poi ai ss. Pietro e Paolo, ma prevalse il titolo di S. Silvestro a partire dal 756, anno della traslazione delle reliquie nel cenobio. Esiliato a Montecassino durante il regno di Desiderio (756-774), che Anselmo aveva osteggiato, l'abate rientrò a N. - portando con sé un prezioso nucleo di codici (Palma, 1983) - solo nel 774, ottenendo da Carlo Magno la conferma degli antichi privilegi regali che sottraevano l'abbazia al controllo del vescovo locale. Sotto l'abbaziato di Anselmo ben millecento monaci si alternarono a N., ma anche dopo la sua morte (803) il centro religioso continuò a prosperare, così che l'abate Teodorico (870-887 ca.) dovette fondare la pieve di S. Michele foris castrum per la cura delle anime del borgo che si era sviluppato attorno al cenobio.Nell'885 l'abbazia acquisì le spoglie di papa Adriano III (884-885), morto a San Cesario sul Panaro (prov. Modena) durante il viaggio verso la corte di Carlo il Grosso, che nell'883 aveva soggiornato a N. e nel cui scriptorium palatino era stato eseguito il sacramentario donato dal vescovo Giovanni d'Arezzo al monastero padano (Parigi, BN, lat. 2292). Il complesso monastico fu gravemente danneggiato da un incendio (890) e da un'incursione di ungari (899), ma il recupero dovette essere rapido, come documenta la consacrazione del 904; nel 912 arrivarono i corpi dei ss. Sinesio e Teopompo, e alla metà del secolo il monastero contava possedimenti in tutta l'Italia centrosettentrionale; la sua potenza era tale da minacciare gravemente il vescovo di Modena. Questi era arroccato nella città e limitato al possesso di un ristretto territorio, sfruttato intensivamente per le necessità cittadine, mentre ben diversa era l'economia del cenobio, possessore non solo di terreni coltivati, ma anche di ampie zone con foreste e boschi, interrotti da paludi, utili all'economia del tempo (Fumagalli, 1984).Nel corso del sec. 10° il borgo conobbe il fenomeno dell'incastellamento, coincidente con un consistente aumento della popolazione; l'imperatore Ottone I concesse nel 962 l'abbazia al vescovo Guido di Modena (m. nel 969), cui succedettero come abati altri cancellieri imperiali, Uberto, vescovo di Parma (ca. 969-974), e Giovanni Filagato, vescovo di Modena (982-995 ca.). Con Rodolfo (1002-1035), il cui abbaziato fu funestato dal terribile incendio del 1013, N. si legò al mondo riformatore lombardo (Calzona, 1984; Golinelli, 1993), mentre il populus si strutturava politicamente in maiores, mediocres e minores e otteneva dall'abate Gottescalco, nel 1058, la concessione della 'partecipanza' - forma di proprietà collettiva del terreno, suddiviso in lotti assegnati a rotazione in godimento novennale -, in cambio dell'impegno a realizzare su tre lati del castrum mura e fossati, che sul quarto lato dovevano essere realizzati a spese dell'abate.Il fiorire dell'economia nonantolana non venne arrestato dall'espansione della presenza patrimoniale dei Canossa, che piuttosto puntavano al ridimensionamento delle autonomie cittadine. Il processo raggiunse il suo apice con Matilde, che però, mal tollerando l'ingerenza imperiale nell'abbazia, dapprima (1084) la conquistò con la forza, poi la beneficiò abbondantemente. Con l'abbaziato di Damiano (1086-1113), nipote di Pier Damiani (1007-1072), N. divenne decisamente filoromana, come dimostra il Liber de honore ecclesiae composto da Placido di N. nel 1111. Nel 1115, alla morte di Matilde di Canossa, fu il clero bolognese a sostenere l'abbazia in funzione antimodenese, ma il prevalere delle strutture cittadine su quelle curtensi condannò il cenobio a un progressivo indebolimento, come nel caso della distruzione del burgus di N., nel 1148, a opera dei Modenesi. Ciò nonostante interventi edilizi nel complesso sono documentati nel 1162 e 1215.Nel 1514 ai Benedettini subentrarono i Cistercensi, cui si devono importanti interventi condotti nel corso del sec. 18° sia sul convento, destinato a seminario, sia nella chiesa, rielaborata in forme barocche, con la chiusura della cripta, riutilizzata come sepolcreto. La sostituzione dei Cistercensi con un Capitolo di canonici (1783) costituì il preludio all'alienazione della biblioteca - il cui nucleo principale si trova oggi alla Bibl. Naz. di Roma - e alla definitiva annessione del cenobio all'episcopato modenese (1821), che tra fine Ottocento e primo Novecento favorì la trasfigurazione in forme neoromaniche dell'edificio ecclesiale e ancora più disinvolti interventi nella parte monastica.L'urbanistica del borgo, sviluppatosi a O dell'abbazia, lungo la strada che porta a Modena, ricevette nel 1058 l'impronta definitiva, ben leggibile ancora nelle mappe e nelle piante seicentesche, con la realizzazione delle mura; i successivi interventi, come la costruzione delle torri dei Modenesi (1262) e dei Bolognesi (1307), si limitarono a riprendere precedenti strutture (Calzona, 1984; Quintavalle, 1985).La chiesa abbaziale si innalza all'interno delle mura; in laterizio, ha la facciata a profilo spezzato, scandita da quattro pilastri di profilo quadrato ai lati e mistilineo al centro, che inquadrano tre archi ciechi, di cui quello centrale aperto da una bifora. Un sistema di archetti pensili spartiti da lesene orna l'intera facciata, mentre archetti correnti decorano i muri di gronda ai lati e nell'area absidale. Completa la facciata il protiro retto da leoni stilofori e inquadrante un portale scolpito, con tralci e scene dell'Infanzia di Cristo e della vita dei santi titolari negli stipiti, e il Cristo Pantocratore nella lunetta. La testata orientale riprende il profilo a due salienti con pilastri angolari e su di essa s'innestano le tre absidi, poggianti su zoccolo di pietra e scandite da archi ciechi; l'abside mediana ha un coronamento ad archetti pensili, quelle laterali a fornici profondi.L'interno è a tre navate scandite da sette pilastri polistili, con semicolonne terminanti in capitelli cubici, a eccezione di quelle prospicienti la navata mediana, realizzate per reggere le volte inserite nel 1461-1466 in sostituzione dell'originaria copertura della chiesa, che sono decorate con lo stemma estense. Le tre campate orientali sono occupate dal presbiterio sopraelevato (ventiquattro gradini), cui si accede dalla scala mediana, mentre due scale laterali conducono alla cripta, retta da sessantaquattro colonne e ventidue semicolonne, con trentasei capitelli scolpiti.Il dato storico che ha condizionato il dibattito critico relativo all'abbaziale è rappresentato dall'iscrizione che si trova sull'architrave del portale: "Silvestri celsi ceciderunt culmina te(m)pli / mille rede(m)ptoris lapsis vertigine solis / annis centenis septe(m) nec non quoq(ue) denis / quod refici magnos cepit post quatuor annos". L'interpretazione dei versi ha determinato due divergenti ipotesi, che datano rispettivamente l'attuale struttura a dopo il 1121 (Porter, 1917; Salvini, 1966; Gandolfo, 1973; Rossi, Gandolfo, 1984) o a una campagna anteriore (Quintavalle, 1964-1965; 1969; 1974; 1984; 1985; 1991; Calzona, 1984; Serchia, Monari, Giudici, 1984; Segre Montel, Zuliani, 1991). Ma, al di là della cronologia assoluta, il problema nodale è il rapporto con il cantiere di Modena e con la progettazione dell'officina della Riforma. Nel primo caso, infatti, N. sarebbe un prolungamento del cantiere lanfranchiano-wiligelmico, a riprova dei tempi lunghi dei lavori modenesi e della presenza negli anni venti-trenta del sec. 12° di maestranze borgognone nell'area padana; nel secondo, invece, predomina il concetto di programmazione dell'immagine, voluta da Matilde di Canossa una volta posto fine al dominio imperiale, e dei sistemi operativi dell'officina wiligelmica. Lontana da questo dibattito appare la restituzione proposta da Montorsi (1988) di cinque fasi: protolongobarda, anselmiana, teodoriciana, 1090 e post 1121.Dati particolarmente significativi nel dialogo critico, strettamente intrecciato all'analisi storica dei restauri, sono sia le sculture del portale - già ritenute opera di maestranze modenesi-borgognone (de Francovich, 1940; Salvini, 1954; 1956; Cochetti Pratesi, 1972), ma in cui Quintavalle (1969; 1984; 1991) ha riconosciuto la presenza di Wiligelmo e il reimpiego nella lunetta dei marmi, parzialmente di spoglio, provenienti da uno smembrato pulpito -, sia i capitelli della cripta, datati al sec. 8° (Porter, 1917), ai secc. 9°-11° (Bianchi, 1937), al sec. 10°-11° (Salvini, 1966), all'inizio del sec. 12° (Quintavalle, 1969), ai secc. 6°-12° (Gandolfo, 1974-1976), sia la tipologia dei coronamenti delle absidi, dei pilastri delle navate, nonché la possibile presenza di un tiburio e delle volte. Per questi ultimi elementi gli studiosi sono ricorsi spesso al confronto con l'unico altro edificio nonantolano superstite, la pieve di S. Michele Arcangelo extra moenia, che conserva solo pochi elementi originali, tra cui figuravano fino ai restauri del 1912-1924 anche alcuni capitelli, ora documentati da fotografie. Porter (1917) la riteneva terminata entro il 1101, anno di un sinodo, mentre Bianchi (1937) propendeva per l'inizio del sec. 11°, Thümmler (1939) per la metà dell'11°, Quintavalle (1964-1965) per l'inizio del 12°, Salvini (1966) per il 1060-1070, Gandolfo (1973) per la fine del sec. 11°; Gelichi (1993) ha proposto di individuare le tracce della basilica teodoriciana a tre navate sotto la fabbrica attuale, che ritiene dei primi decenni dell'11° secolo.Nessuna attenzione aveva ottenuto il nucleo conventuale fino al restauro del 1983 e alla conseguente indagine di Segre Montel, Zuliani (1991), cui si deve l'individuazione, nel lato ovest del chiostro e nel refettorio, di strutture murarie caratterizzate da corsi alternati di mattoni di recupero e di ciottoli e blocchetti lapidei, assegnabili alla ricostruzione seguita all'incendio del 1013.Particolare rilievo in questo contesto hanno ottenuto gli affreschi rinvenuti nel refettorio, con episodi delle Vite di s. Benedetto e dei ss. Pietro e Paolo; datati alla seconda metà del sec. 12° da Toubert (1989), sono stati invece assegnati alla fine del sec. 11° o agli inizi del 12° da Segre Montel, Zuliani (1991), che, evidenziandone le affinità iconografiche con quelli del refettorio di Cluny e con la tradizione agiografica cassinese e romana, cioè con l'area riformata, ne hanno individuato le radici stilistiche nell'area lombarda e piemontese della seconda metà dell'11° secolo. Gli studiosi negano però che il ciclo abbia qualunque rapporto con quanto resta della coeva miniatura nonantolana, come l'Evangeliario Matildico conservato a N. (Arch. e Tesoro dell'Abbazia di S. Silvestro), aggiungendo che il giudizio non muterebbe neppure se fossero ritenuti produzione del cenobio un graduale conservato a Roma (Bibl. Angelica, 123) o il leggendario e passionario di Bologna (Bibl. Univ., 1576). Questi ultimi manoscritti sono sicuramente assegnati a N. da Bertelli (1994), che propone inoltre una revisione della produzione del sec. 9°, cui assegna anche i due prestigiosi codici delle Homiliae di s. Gregorio Magno e delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia conservati a Vercelli (Bibl. Capitolare, CXLVIII; CCII), in cui sono stati da tempo individuati nessi con i centri produttivi di San Vincenzo al Volturno e Montecassino.Queste tesi critiche, che modificano i giudizi limitativi espressi in precedenza sulla miniatura nonantolana, recentemente ribaditi da Cochetti Pratesi (1995), confermano l'importanza di uno scriptorium in grado di elaborare un proprio tipo di scrittura e di notazione neumatica e propongono un'ipotesi restitutiva di ampio respiro del contesto culturale nonantolano, con la quale sempre più acquisisce rilievo il periodo dell'abbaziato di Damiano, quando il cenobio, sotto il diretto controllo di Matilde, seppe rinnovarsi nello spirito e nelle forme.

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