Norme sulla tutela della genitorialità

Il Libro dell'anno del Diritto 2016

Norme sulla tutela della genitorialità

Donata Gottardi

La disciplina sui congedi riconosciuti alla lavoratrice e al lavoratore in caso di filiazione naturale o giuridica è contenuta nel testo unico del 2001 (d.lgs. 26.3.2001, n. 151), che ha subito limitate modifiche nel corso dell’ultimo decennio. Le deleghe ricorrenti a intervenire si sono risolte in correzioni soprattutto formali. Anche la delega in via di approvazione nell’ultima legge comunitaria in riferimento alla trasposizione dell’accordo quadro/direttiva sui congedi parentali non sembra proiettata a cambiamenti significativi. Si discosta da questo quadro la legge “Monti-Fornero” di riforma del mercato del lavoro, che introduce due misure, rispettivamente in materia di congedo di paternità e di congedi parentali, che si presentano, la prima, in continuità con alcune delle proposte recenti in materia e, la seconda, con una forte e discutibile innovazione di sistema, possibile fonte di procedura di infrazione da parte delle istituzioni europee.

La ricognizione. La genesi della nuova disciplina e i suoi rapporti con il quadro normativo previgente

La disciplina sulla tutela della genitorialità nella riforma “Monti-Fornero” si compone di due misure, rispettivamente in materia di congedo di paternità e di congedi parentali, che si presentano, la prima, in continuità con alcune delle proposte recenti in materia e, la seconda, con una forte (e discutibile) innovazione di sistema.

Per quanto riguarda il congedo di paternità connesso alla nascita di figli, nel corso dell’ultima legislatura sono stati presentati disegni di legge volti alla sua introduzione, provenienti da parti politiche opposte, ma convergenti quanto a schema di massima: un periodo di congedo da quindici a trenta giorni, obbligatorio per il padre lavoratore, con una indennità pari allo stesso ammontare della retribuzione, a carico del datore di lavoro o del sistema previdenziale1. Come avremo modo di verificare, la disciplina introdotta con la riforma è tributaria di questa impostazione, particolarmente evidente nella scelta di rendere una parte del congedo di paternità non tanto un diritto quanto un obbligo. Per quanto riguarda il congedo parentale, una fitta rete di deleghe, marginalmente esercitate, non aveva finora prodotto significative variazioni rispetto all’assetto vigente a partire dal 2000. Si tratterà ora di verificare gli esiti della (ennesima) delega contenuta anche nell’ultima legge comunitaria in via di approvazione in Parlamento e che deve recepire – fuori tempo massimo – la nuova direttiva in materia. Su questo versante, la nuova disciplina esce dal seminato e si avventura in un problematico scambio tra tempo di assenza per la cura e sostegno economico al servizio prestato da terzi. Gli embrioni di quelle che sono diventate le disposizioni vigenti trovano la luce nel documento sulla Riforma del mercato del lavoro che chiude la fase di presentazione alle parti sociali. Il punto 7 era dedicato a introdurre «interventi per una maggiore inclusione delle donne nella vita economica», secondo quello che, almeno a partire dalla prima Strategia di Lisbona del 2000, ora rinnovata in quella che ci porterà al 2020, è uno degli obiettivi primari che le istituzioni europee hanno assegnato agli Stati membri. Ad una prima parte dedicata al contrasto del fenomeno delle dimissioni in bianco, seguivano, in formula sintetica e quanto mai abborracciata, compresi errati riferimenti normativi, indicazioni circa le misure poi entrate nel testo legislativo. Nonostante alcune migliorie, l’impianto non ha, però, subito variazioni significative. Non è bastato, quindi, il più avanzato parterre femminile di tutti i tempi (Ministro del lavoro – Presidente di Confindustria – Segretario generale della Cgil) ad evitare un intervento tanto deludente e preoccupante sul versante specifico dei congedi e così insoddisfacente rispetto all’obiettivo da conseguire. All’enfasi rivolta al congedo di paternità nella presentazione alla stampa è seguito il pressoché completo silenzio dei commentatori, spiegabile solo in parte con la polarizzazione del dibattito sulla flessibilità in entrata e, soprattutto, sulla flessibilità in uscita, come ormai, con linguaggio europeo, è chiamata la modifica della tutela nel licenziamento individuale. Non è un novità. La normativa sui congedi attiene a uno dei diritti fondamentali delle persone, toccandole nei momenti più intimi e determinanti della loro vita. È sancito nell’art. 33 della Carta di Nizza2. Riguarda la protezione della lavoratrice madre e il benessere del bambino e della famiglia e ha ricadute straordinarie sulla determinazione dell’orario di lavoro, sull’organizzazione del lavoro e sulla stessa prestazione lavorativa. Eppure è tema considerato minore, scarsamente indagato in dottrina. Come ho già avuto modo di ricordare, a livello di Unione europea è dimostrata la centralità che il tema della conciliazione tra vita professionale, familiare e personale3 assume all’interno della determinazione della durata dell’orario di lavoro, tutto il contrario di quanto avviene nel nostro Paese4. Anche gli emendamenti presentati al Senato, unica sede di discussione parlamentare, non erano particolarmente incisivi né hanno provocato modifiche di netto miglioramento, a differenza di quanto è avvenuto per altre parti della riforma. È così che la disposizione in commento, contenuta nel progetto di legge governativo all’art. 56, è ora prevista nei co. 24, 25 e 26 dell’art. 4, mutuando la titolazione al «sostegno della genitorialità», con un intervento distinto in due misure sperimentali destinate l’una ai padri lavoratori, l’altra alle madri lavoratrici.

1.1 I contenuti dell’intervento normativo: il “nuovo” congedo di paternità e il voucher in cambio del congedo parentale

La disciplina introduce un congedo di paternità di tre giorni, integralmente compensato, distinto al suo interno in due mini-segmenti, l’uno di un giorno, l’altro di due, con diversa qualificazione giuridica e diverse condizioni di fruizione e di copertura finanziaria. Nella versione vigente, come modificata al Senato, i tre giorni hanno, infatti, statuto giuridico distinto: il primo giorno appartiene alla categoria degli obblighi, gli altri due a quella – tipica dei congedi parentali, ma certo non solo – dei diritti potestativi. Il periodo di tempo entro il quale il padre lavoratore subordinato ha l’obbligo di astenersi dal lavoro per un giorno e la facoltà di fruire degli ulteriori due giorni è di cinque mesi, a partire «dalla nascita del figlio». Il primo giorno può essere fruito senza condizioni, gli ulteriori due solo «previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest’ultima». Per i due giorni fruiti in sostituzione della madre l’indennità è pari alla retribuzione ed è «a carico dell’Inps»; per il primo e unico giorno di cui il padre deve obbligatoriamente fruire l’indennità sembra posta a carico del datore di lavoro. Per tutti e tre i giorni, il padre lavoratore deve preventivamente comunicare al datore di lavoro per iscritto e con un preavviso di quindici giorni quando ritiene di astenersi dal lavoro. L’onere – di due dei tre giorni – è valutato in 78 milioni di euro annui, fino al 2015, larga parte dei quali prelevati dal Fondo per l’occupazione giovanile e femminile. La seconda parte della disposizione prevede che, se la madre lavoratrice torna al lavoro al termine del congedo di maternità – cioè quando il figlio ha da tre a quattro mesi –, ottiene in cambio, «per gli undici mesi successivi e in alternativa al congedo parentale», la corresponsione di un voucher per l’acquisto di servizi di baby-sitting o «per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati» (aggiunta questa frutto di emendamento accolto dal Senato), da richiedere al datore di lavoro. Sarà un decreto ministeriale a stabilire criteri di accesso e modalità di utilizzo, così come il numero e l’importo dei voucher, tenuto anche conto dell’Isee, nei limiti delle risorse del Fondo sopra richiamato, limiti che verranno determinati dallo stesso decreto.

1.2 Le modifiche introdotte alla disciplina previgente

Il congedo di paternità esiste da tempo nel nostro ordinamento. Declinato per la prima volta come tale dal testo unico maternità-paternità del 2001, prevede il diritto del padre di astenersi dal lavoro, in sostituzione e/o in alternativa alla madre, nelle situazioni patologiche in cui questa è morta o è gravemente malata oppure ha abbandonato o non riconosciuto il figlio, diritto che ha avuto origine da una ormai risalente sentenza della Corte costituzionale. Quello ora introdotto è un istituto nuovo, nel senso di ulteriore e diverso dal previgente congedo di paternità, rivolto ai casi patologici, e che potremmo qualificare come un frammento (minimo) di congedo “fisiologico”. Per quanto riguarda la seconda misura, i congedi parentali spettano ad entrambi i genitori e sono entrati nel nostro ordinamento con il testo unico maternità-paternità del 2001, raccogliendo l’eredità della disciplina sull’astensione facoltativa ed estendendola secondo le indicazioni del primo accordo quadro/direttiva europea del 1996, raccolte dalla l. 8.3.2000, n. 53. Sono così diventati, da più di un decennio, un diritto della madre lavoratrice e del padre lavoratore. La loro durata massima è di undici mesi, distribuiti all’interno della coppia, in modo tale che il padre possa richiedere un massimo di sette mesi e la madre un massimo di sei mesi. In questo senso, ma solo in questo senso, è necessario un coordinamento interno ai due genitori, restando il diritto autonomo per entrambi. La loro fruizione può avvenire fino agli otto anni di vita del figlio e anche oltre in caso di adozione e affido.

La focalizzazione. Le questioni più importanti

Il “congedo di paternità fisiologico” si inserisce nella prospettiva di cui si discute a livello europeo. Questo congedo è già presente in alcuni Stati membri e possiamo contare su una risoluzione del Parlamento europeo del 20.10.2010 che chiede di riconoscere al padre lavoratore il diritto a un congedo di paternità di minimo due settimane entro il periodo previsto per il congedo di maternità.

Il voucher in alternativa al congedo parentale non sembra, invece, avere antesignani. Come ricordato in precedenza, siamo in attesa dell’approvazione della delega per il recepimento del nuovo accordo quadro/direttiva, che peraltro presenta limitate esigenze di adeguamento se non in termini di prolungamento fino a sette mesi della soglia massima fruibile dalla madre. Diversa sembra essere la finalità della disposizione della riforma, consistente nella promozione della tempestiva ripresa del lavoro da parte della lavoratrice, compensata da sostegno economico. La linea di politica del diritto è condivisibile, dato che cerca di evitare alla lavoratrice una lunga lontananza dal posto di lavoro, possibile fonte di discriminazioni, e la perdita economica conseguente a una indennità che, al massimo, arriva al 30% della retribuzione. Come vedremo, rilevanti sono però i dubbi di legittimità, derivanti da una tecnica maldestra e uno sperequato bilanciamento di interessi.

I profili problematici. Il congedo di paternità “fisiologico”

La disposizione presenta criticità legate ad un inquadramento sistematico ampiamente carente, oltre che alla limitatezza dell’intervento. Tre giorni sono un quinto del congedo di paternità di cui si discute in Europa, appartenendo alla categoria dei permessi più che a quella dei congedi.

Inutilmente complicato è il meccanismo che porta a distinguere tra obbligo (per un giorno) e diritto (per due giorni). Nel dibattito parlamentare nazionale, cui abbiamo fatto cenno in apertura, lo scopo della qualificazione come obbligo è quella di proteggere i padri dal rischio di discriminazioni o ritorsioni. La preoccupazione è reale, ma apre uno iato rispetto alla politica di ripartizione dei ruoli famigliari che intende perseguire e che difficilmente può essere percorsa con l’armatura dell’obbligo e non con quella della attribuzione di diritti, e appare superflua data l’esiguità del periodo di assenza, pari appunto a un giorno. Il testo fa riferimento esclusivo alla nascita, dimenticando l’avvenuta progressiva equiparazione tra filiazione naturale e filiazione giuridica. Introduce una discriminazione illegittima quanto al diverso trattamento del congedo di maternità, fermo all’ottanta per cento della retribuzione, salvo migliori condizioni della contrattazione collettiva.  Entra in un vero e proprio campo minato quanto alla contemporanea o disgiunta fruizione da parte dei due genitori. I due giorni di congedo di paternità da godere in accordo e in sostituzione della madre comportano la necessità del suo rientro al lavoro. La loro fruizione viene così limitata a un periodo di tempo che va da uno a due mesi, al completamento del congedo di maternità. E se al termine di questo, la lavoratrice decidesse di fruire di quello parentale? Dovrà comunque tornare per due giorni al lavoro? Con quale utilità? Per spingere il padre a occuparsi “da solo” del figlio, situazione che ovviamente non è dato verificare? Quanto questo “gioco a incastro” sarà bene accolto dal datore di lavoro e da chi si occupa di gestione organizzativa del personale? Vi è di più. La necessità dello scambio di presenza per la cura del figlio tra padre e madre significa che, affinché il padre possa goderne, è necessario che la madre sia una lavoratrice subordinata, ancorando ancora una volta l’esercizio di un diritto del padre alla peculiare condizione lavorativa della madre. Sembra di tornare alla penna del legislatore del 1977, le cui disposizioni sono state più volte riviste in chiave evolutiva dalla Corte costituzionale, oltre che sulla base della normativa proveniente dall’Unione europea.

3.1 Lo scambio tra voucher e congedo parentale

Numerosi sono i profili problematici dello scambio – per come è prefigurato – tra sostegno economico della cura del figlio affidata ad altri (baby-sitter o servizio per l’infanzia) e la rinuncia alla fruizione del congedo parentale (proprio e del padre?). Il primo riguarda l’assenza di riferimenti al congedo parentale del padre. Gli undici mesi sono la durata massima nei confronti del figlio. La madre può scambiare “solo” il “suo” congedo parentale, della durata massima di sei mesi. Una interpretazione diversa ci farebbe tornare indietro di decenni, violando il diritto del padre lavoratore al congedo parentale, previsto dall’accordo quadro/direttiva. Il secondo riguarda la collocazione temporale dell’esercizio dell’opzione, che analogamente ci espone alla procedura di infrazione per violazione dell’accordo quadro/direttiva. I congedi parentali sono tempo consegnato ai lavoratori che decidono se fruirne o meno e quando fruirne, anche in via frazionata, in un arco temporale dilatato fino agli otto anni e più di vita del figlio. Collocare in un unico momento, quello in cui termina il congedo di maternità, la decisione da parte della madre di rinunciarvi, anche laddove si ritenga questa rinuncia legittima, è in contrasto con la lettera e con lo spirito della normativa. Sotto il profilo fattuale, se è vero che la madre non è costretta a scambiare tempo di congedo con parziale pagamento del servizio di baby-sitting, sappiamo quanto incombenti siano i rischi di pressione, ricatto o ritorsione. Del resto, se non fosse così non si spiegherebbe perché preoccuparsi di rendere obbligatorio il giorno (anche un solo giorno) di congedo di paternità. Non si dica che i datori di lavoro sono più abituati e, quindi, più tolleranti nei confronti delle scelte di conciliazione con il lavoro di cura esercitate dalle lavoratrici, perché lo spartito delle discriminazioni nel nostro Paese, come è noto, vede una presenza prevalente: le discriminazioni legate alla maternità. Mancano, inoltre, dati certi sul finanziamento. Non si dimentichi che la disposizione collega il numero e l’importo dei voucher non solo alla retribuzione della madre lavoratrice, ma anche all’indicatore Isee del nucleo familiare, violando il principio dell’incardinamento del diritto al reddito della persona che lavora. Da ultimo, segnalo che questo intervento sul congedo parentale va in controtendenza rispetto alle esigenze di cambiamento, da tempo rilevate, finalizzate a rendere la sua utilizzazione da parte di madri e di padri lavoratori più equilibrata, dato che a fruirne sono ancora quasi sempre solo le prime; più conveniente, dato che l’indennità è bassa o inesistente; meno discriminatoria; più effettiva nei lavori precari e instabili. A ben vedere, la previsione della riforma potrebbe essere utile proprio per le lavoratrici con lavori precari e instabili. Come sappiamo, in questi casi, il riconoscimento, previsto dalla legislazione, del diritto al congedo parentale, non si traduce in effettiva possibilità di fruirne, per ovvie e intuitive ragioni. Ma allora è errato il riferimento normativo alla disposizione del testo unico maternità-paternità (art. 32, congedo parentale nel lavoro subordinato).

3.2 Brevi cenni conclusivi

In conclusione, la nuova disciplina solo ad una lettura superficiale può sembrare soddisfacente, essendo al contrario discutibile sotto numerosi profili: da quello più generale dell’inquadramento sistematico, a quello delle scelte di politica legislativa, nonché a quello della tecnica utilizzata. Non serve alcuna dimostrazione, mi pare, per spiegare quanto sia da escludere che il “nuovo” congedo di paternità possa essere ascritto agli interventi di redistribuzione dei ruoli familiari. Anche se questi tre giorni fossero fruiti non per festeggiare la nascita, ma per condividere la cura in un momento di difficoltà, sarebbero un periodo del tutto insufficiente, direi irrilevante, per un aiuto effettivo. Non sottovalutiamo la portata del cambiamento proposto sui congedi parentali. Formalmente interviene ad aiutare la lavoratrice, ma in realtà afferma la primazia della continuità del lavoro sui diritti sociali, mettendo all’angolo la promozione dell’allattamento al seno, l’importanza del rapporto fisico ed affettivo nel primo anno di vita, il rientro al lavoro progressivo, mediato dalla riduzione di orario, il diritto a esercitare l’assenza dal lavoro in un ampio periodo di tempo in modo da assecondare le esigenze nella relazione genitoriale.

Note

1 Ne è un esempio la proposta di l. 27.4.2012, n. 5168, Camera, Mogherini, gruppo PD. Si muovono sul medesimo schema: la proposta di l. 13.12.2011, n. 4838, Camera, Savino, gruppo PdL, e il d.d.l. 23.6.2011, n. 2797, Senato, Franco, gruppo PD.

2 Ogni individuo ha diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio (co. 2).

3 Ballestrero, M.V., La conciliazione tra lavoro e famiglia. Brevi considerazioni introduttive, in Lav. dir., 2009, 161 e, in precedenza, sulla stessa rivista, Calafà, L.-Gottardi, D., Famiglia, lavoro, diritto: combinazioni possibili, 2001, 5.

4 Gottardi, D., La legislazione e le politiche sulla conciliazione: l’Italia nel quadro europeo, in Soc. lav., 2010, 24.

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