Notabili

Enciclopedia delle scienze sociali (1996)

Notabili

Giorgio Sola

Il termine 'notabili': storia e applicazioni

Per quanto il termine 'notabili' sia comunemente adoperato, persino nelle inchieste giornalistiche e televisive, in riferimento a persone importanti, autorevoli, influenti che, in una città, in una comunità, in una organizzazione, godono di notevole prestigio e occupano una posizione di primo piano nella considerazione generale, il suo impiego nelle scienze politiche e sociali non solo è discontinuo, ma non viene registrato neppure dalle più importanti opere di consultazione del settore. Questa assenza può essere agevolmente dimostrata constatando che né l'edizione della Encyclopaedia of the Social Sciences del 1930 né quella dell'International Encyclopedia del 1968 né i Geschichtliche Grundbegriffe - la monumentale storia dei concetti e del lessico storiografici curata da Brunner, Conze e Koselleck a partire dal 1979 - riservano alcun richiamo alla parola in questione. Tale omissione risulta sorprendente per tre ordini di motivi.

In primo luogo, perché l'impiego del termine per indicare persone, famiglie o gruppi che godono di prestigio e di autorità - e che ricoprono una posizione eminente nella gerarchia sociale o politica - ha una lunga storia alle spalle, come dimostra l'uso che ne viene fatto in Italia, già a partire dal Guicciardini, o in Francia, come attesta il Dictionnaire de l'Académie (1694) che definisce 'notabili' un aggettivo sostantivato applicato, solitamente al plurale, alle persone più influenti e considerevoli di una città, di una provincia, di uno Stato. Il secondo motivo è che questo vocabolo, derivato dal latino curiale notabilis (degno di nota), è presente nella stessa accezione e con lo stesso significato nelle principali lingue europee (inglese, francese, italiano e spagnolo), con l'eccezione del tedesco, in cui il termine Honoratioren discende invece dal latino medievale honorati, mediante il quale si designavano le persone incaricate di funzioni pubbliche importanti. Nonostante questa ampia diffusione linguistica, la bibliografia raccolta dimostra che al tema dei notabili non è stato dedicato né uno studio sistematico né una concettualizzazione scientificamente soddisfacente. Ma il terzo motivo, ancor più sorprendente, è che in Francia, come attestano il Dictionnaire politique (1848) di Garnier-Pagès e il Dictionnaire général de la politique (1873-1874) di Maurice Block, i notabili non sono soltanto le persone più eminenti, gli ottimati di una comunità, ma una vera e propria categoria sociale dotata di profilo istituzionale, il cui ruolo ufficiale nelle strutture giuridico-politiche è previsto e codificato già a partire dal regno di Francesco I. Le Assemblee di notabili - composte, oltre che da elementi del clero e della nobiltà, da funzionari pubblici scelti da altri funzionari o il più delle volte dallo stesso monarca - avevano funzioni propriamente consultive e, per quanto non possano essere scambiate né per organi rappresentativi né per occasioni di emancipazione della borghesia, tuttavia dimostrano un'articolazione del potere dell'antico regime meno rigida di quanto non si sia abituati a pensare. Esse attestano infatti la necessità di coinvolgere nel processo di governo i cittadini più eminenti che altrimenti, in un sistema dominato dall'aristocrazia di nascita, ne sarebbero rimasti esclusi.

Dopo queste osservazioni - a cui va aggiunto il rilievo che i notabili hanno avuto nel sistema politico inglese nel passaggio dal suffragio ristretto a quello allargato - si possono tracciare alcune prime conclusioni. A differenza di nozioni affini e contigue, come élite, classe politica o classe dirigente, la nozione di notabili non è entrata stabilmente a far parte del lessico e delle categorie di analisi abitualmente adoperati nelle scienze sociali e politiche. Nonostante il suo impiego frequente nel linguaggio comune, il ricorso alla parola 'notabili' in sede sociologica o politologica è discontinuo e impreciso e non ha comunque prodotto una chiarificazione concettuale tale da renderla utilizzabile come rigoroso strumento d'indagine. Uniche eccezioni significative: l'uso della categoria dei notabili negli studi di sociologia e di storia dei partiti e quello fattone, nella scienza politica americana, da Robert Dahl (v., 1961) nella sua ricerca Who governs?, in cui "the social and economic notables" vengono presentati come i gruppi più influenti della città di New Haven, assunta come campo di osservazione esemplare per un'indagine sulla distribuzione del potere locale.

D'altro canto la presenza, in epoche e con modalità differenti, di categorie di notabili nell'assetto istituzionale dei diversi paesi europei è stata oggetto di un'ampia letteratura storiografica, soprattutto di lingua francese, che peraltro non è riuscita a creare un consenso unanime né sulle dimensioni del fenomeno né sulle sue caratteristiche di fondo. Basti pensare che mentre alcuni storici d'oltralpe hanno studiato l'ascesa dei notabili nell'ancien régime, altri ne hanno sottolineato il ruolo in epoca napoleonica, e altri ancora ne hanno circoscritto l'importanza al periodo compreso tra la Restaurazione seguita al Congresso di Vienna e la rivoluzione del 1848. Non sono poi mancati studiosi che - come Daniel Halévy - hanno descritto la persistente influenza esercitata dai notabili sulla politica francese durante l'affermazione della Terza Repubblica. Nella storiografia del nostro paese la cosiddetta 'Italia dei notabili' viene fatta coincidere o con la limitata esperienza napoleonica, o con il periodo dominato dalla Destra storica e successivamente da Depretis e Crispi, oppure ancora con l'intero arco temporale compreso tra l'unificazione nazionale e l'introduzione, nel 1913, del suffragio allargato a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni e sapessero leggere e scrivere. Il ruolo dei notabili nel sistema politico italiano viene comunque collegato alla composizione e alla selezione della classe dirigente liberale, in riferimento alle modalità di gestione del potere di governo e alla sua legittimazione; attraverso la sua analisi si cerca di descrivere e interpretare i canali del rapporto e dello scambio politico tra i cittadini e il potere, in un contesto contraddistinto dal suffragio ristretto e dall'assenza di partiti di massa organizzati.

La sociologia dei notabili in Weber

Anche se, come si è detto, il concetto di 'notabili' non è entrato a far parte in maniera significativa del vocabolario delle scienze sociali, è possibile tuttavia ricostruire alcune tappe fondamentali del suo impiego nelle indagini che hanno avuto per oggetto la progressiva separazione del potere sociale dal potere politico e l'emancipazione strutturale del sistema politico dalla società civile.In questo senso, l'autore che più di ogni altro ha sottolineato l'opportunità di comprendere le caratteristiche della politica contemporanea proprio a partire da un confronto con il sistema notabilare del passato è stato Max Weber, che ai notabili ha dedicato numerose pagine della sua opera principale, Wirtschaft und Gesellschaft (1922). L'attenzione che Weber ha riservato al potere dei notabili e gli sforzi da lui intrapresi per individuare le caratteristiche fondamentali di questo gruppo sociale consentono di affermare che, al pari di Mosca e di Pareto, cui viene fatta risalire la paternità dei concetti di 'classe politica' e di 'élite', allo studioso di Heidelberg può essere attribuito il merito di aver affrontato in chiave scientifica e sistematica l'analisi del fenomeno in questione. Weber si occupa dei notabili in tre diversi contesti del suo lavoro. In primo luogo, ne parla in riferimento alla tipologia delle classi sociali e dei ceti. In secondo luogo, delinea i tratti fondamentali dell'amministrazione dei notabili inserendola nelle pagine dedicate allo studio dei diversi tipi di potere. Infine, traccia un confronto tra il ruolo che i notabili hanno avuto nella sfera politica (fino all'instaurazione della democrazia rappresentativa) e il ruolo dei politici di professione, che sono apparsi sulla scena in seguito all'estendersi del suffragio e alla costituzione dei partiti di massa.

Per quanto concerne l'analisi della stratificazione sociale è noto che Weber ha sottolineato la distinzione tra classe (Klasse) e ceto (Stand). In sintonia con Marx, Weber ammette che il possesso o la mancanza di risorse economiche costituiscono il fondamento della divisione in classi all'interno di una situazione di mercato concorrenziale; tuttavia, a fianco delle classi possidenti (Besitzklassen), egli suggerisce di considerare anche le classi acquisitive (Erwerbsklassen), la cui esistenza poggia sulla possibilità per un individuo di utilizzare nel mercato la propria capacità di lavoro e la propria professionalità. Peraltro, le classi si articolano al loro interno in una varietà di ceti, che sono dei gruppi sociali unificati dalla condivisione di una qualche forma di prestigio o di stima sociale. I ceti, diversamente dalle classi, sono quasi sempre consapevoli della loro condizione comune derivante dall'adozione di un particolare stile di vita e dal godimento di privilegi e prerogative sancite da prescrizioni di tipo legale e consuetudinario. A una specifica condotta di vita, che frutta loro dignità, prestigio e onore, gli individui che fanno parte di un ceto affiancano generalmente il possesso dei mezzi materiali di amministrazione che li mette in grado di assumere il potere politico e le cariche pubbliche come "ufficio onorario" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, pp. 254-255).

In questo senso, il 'ceto' dei notabili (Honoratiorenstand) è costituito da quelle persone che ottengono una particolare considerazione sociale in virtù della loro condizione economica e che, per il fatto di possedere "proprietà e cultura", sono in grado di dirigere o amministrare un gruppo, un'organizzazione, un'istituzione come professione secondaria, senza cioè percepire uno stipendio, oppure ricavandone una remunerazione onoraria o nominale. Il presupposto indispensabile della posizione dei notabili, prosegue Weber, è un grado specifico di "disponibilità" rispetto ai propri affari privati; disponibilità che li mette in posizione di accettare uffici e cariche pubbliche, dapprima volontariamente, in base alla fiducia dei consociati, e successivamente per tradizione. In particolare, possono far parte del ceto dei notabili sia i redditieri di ogni specie, sia coloro che si dedicano a una libera professione che - oltre a lasciare loro del tempo libero - li qualifica sotto il profilo dell'esperienza, della competenza e della relativa autonomia.

Se dal piano sociale si passa al piano politico, quella forma di amministrazione in cui prevalgono i notabili (Honoratiorenverwaltung) si caratterizza e si distingue da altri tipi di organizzazione del potere per due elementi fondamentali. Innanzitutto, dal momento che sono in posizione privilegiata per la ricchezza, i notabili possono vivere per la politica senza dover vivere di essa, con la conseguenza che spesso i mezzi materiali di amministrazione sono le loro stesse risorse private. D'altro canto, poiché il potere politico tende a corrispondere al potere economico e sociale, nell'amministrazione dei notabili non esiste, o è poco sviluppata, una competenza politica specifica; ciò che contraddistingue il titolare di una carica pubblica è soprattutto la sua posizione sociale e la dignità che ha acquisito nella società civile. Di qui due conseguenze: 1) un bassissimo grado di emancipazione della sfera politica dalla sfera sociale, al punto che si configura una vera e propria forma di 'privatizzazione' della politica; 2) il trionfo del dilettantismo, della discrezionalità, della mutevolezza nell'impegno, che costituiscono altrettanti fattori di una potenziale instabilità delle istituzioni.Il potere dei notabili e il tipo di amministrazione che da loro prende il nome si manifestano originariamente entro le comunità locali, come dimostrano le forme di democrazia diretta del passato, in cui i capi sono generalmente le persone dotate di maggiore ricchezza e di più elevato prestigio sociale. Secondo Weber, la preminenza dei notabili viene meno quando la comunità da essi amministrata supera una certa dimensione e gli uffici pubblici richiedono una qualificazione professionale e una continuità di direzione. Queste condizioni si verificano con l'avvento della democrazia di massa e con l'instaurazione di un'amministrazione di tipo burocratico. Ma se il confronto tra i diversi tipi di amministrazione consente a Weber di individuare i grandi mutamenti che hanno portato dal sistema dei notabili al sistema dei burocrati, in cui la politica e l'amministrazione si emancipano progressivamente dalla società civile (in conseguenza del fatto che i funzionari non hanno il possesso diretto delle cariche e dei mezzi occorrenti all'amministrazione e in seguito all'affermazione di un ordinamento impersonale fondato sulla competenza, sulla gerarchia, sulla certezza e sulla prevedibilità dei comportamenti), è nel campo dei partiti politici che si può cogliere con netta evidenza il sorgere del contrasto tra dilettantismo e professionismo politico.

A giudizio di Weber, la storia recente dei partiti nel mondo occidentale non solo risente del progressivo allargamento del suffragio - che altera profondamente le modalità della partecipazione politica e l'organizzazione delle associazioni che si incaricano di organizzare e raccogliere il consenso delle masse e di selezionare una classe politica rappresentativa -, ma permette anche di tratteggiare alcune modificazioni significative in tema di gestione del potere e, soprattutto, di delineare l'insorgenza di quel processo che è conosciuto come 'professionalizzazione della politica', con la conseguente nascita del politico di professione. Se si tiene conto dell'esperienza inglese, almeno fino alla metà del secolo scorso, i partiti potevano essere classificati in due gruppi: il partito del monarca e delle grandi famiglie della nobiltà e il partito dei notabili, sviluppatosi col sorgere del potere della borghesia. Quest'ultimo tipo di associazione - capace di riunire ecclesiastici, insegnanti, professori, avvocati, medici, farmacisti, agricoltori facoltosi e industriali - conservava tuttavia un carattere del tutto occasionale e la sua funzione principale si esauriva nella scelta dei candidati da mandare al parlamento. Ma a partire dal 1868, con l'introduzione del caucus dapprima nelle elezioni locali a Birmingham e poi in tutto il paese, si profila sulla scena il moderno partito-macchina, contraddistinto da un'organizzazione permanente cui si rivolgono i ceti sociali progressivamente investiti del diritto di voto. Se fino a questa data si può quindi dire che l'attività politica era sempre esercitata dai notabili, sia pure in condominio con esponenti dell'aristocrazia, dopo questa data si afferma un'organizzazione di tipo burocratico che si propone di ampliare il seguito elettorale e richiede la presenza di un corpo di funzionari competenti e dediti continuativamente e professionalmente al funzionamento e al successo dell'organizzazione stessa.

Le forme più moderne dell'organizzazione di partito, oltre a costituire un segno della fine del sistema notabilare, sono figlie della democrazia rappresentativa e del diritto elettorale delle masse, con la conseguente necessità di conquistare e di organizzare queste ultime, adottando, a tale scopo, forme organizzative caratterizzate dalla più assoluta unità di direzione e dalla più rigida disciplina. Il risultato di tale trasformazione è che il dominio dei notabili tradizionali viene a cessare e le redini della politica, al di fuori dei parlamenti, vengono prese da politici di professione, i quali possono presentarsi ora come veri e propri imprenditori che hanno lo scopo di catturare i voti e creare il consenso, ora come impiegati stipendiati che lavorano esclusivamente per l'apparato di partito. Le 'macchine' di partito, che si affermano originariamente nel mondo anglosassone, possono essere a loro volta classificate in base a due diversi principî ispiratori. Da un lato vi sono le organizzazioni di patronato delle cariche, il cui scopo è insediare al governo il loro leader perché questi collochi poi negli uffici dell'amministrazione statale i componenti del suo seguito. Dall'altro si hanno quei partiti che sono contraddistinti da una intuizione del mondo, dal momento che mirano all'attuazione di ideali e valori di contenuto politico. Col progredire dell'estensione del suffragio, i partiti dei notabili perdono corrispondentemente importanza e vengono sostituiti da organizzazioni burocratiche, amministrate da un apparato di funzionari stabili e con una preparazione specialistica. Analogamente, a livello statale, la politica non può più essere esercitata soltanto da coloro che accettavano le cariche pubbliche in via onorifica, poiché erano persone facoltose e potevano vivere indipendentemente dai proventi dell'attività di governo. A fronte dei notabili, che generalmente vivevano per la politica - in quanto godevano del mero possesso dell'autorità esercitata e si ritenevano gratificati dal dare un senso alla propria vita per il fatto di servire una 'causa' - si profila il gruppo sempre più numeroso di coloro che vivono di politica, in quanto dedicano la maggior parte del loro tempo a questa attività da cui traggono sostentamento economico e una più elevata collocazione sociale.

Dal partito dei notabili ai notabili di partito

Per cogliere le tappe fondamentali del passaggio dai partiti di notabili ai partiti burocratici e per individuare l'insorgenza del professionismo politico è necessario ricordare che - alla metà dell'Ottocento - nessun paese, tranne gli Stati Uniti, conosceva l'esistenza di partiti politici nel senso moderno del termine. Come annota Tocqueville al ritorno dal suo viaggio in America, due sono i tratti distintivi della democrazia d'oltreoceano che assumono un rilievo particolare rispetto all'Europa: la presenza di grandi partiti politici e il fatto che gli uomini più eminenti e ragguardevoli della società civile raramente sono chiamati alla direzione degli affari pubblici. E sebbene i grandi partiti, secondo Tocqueville, siano entrati in una fase di declino, passando dallo scontro sulle idee e sui principî (limitare il potere popolare o estenderlo indefinitamente) alla contrapposizione tra interessi materiali, particolari o locali (protezionismo commerciale o libero scambio), l'attività di governo e l'ingresso nella classe politica continuano a non attrarre le classi ricche e i notabili in genere. I ricchi, prosegue Tocqueville, preferiscono star fuori dalla competizione politica, piuttosto che sostenervi una lotta, spesso ineguale, con i più poveri fra i loro concittadini: "non potendo avere nella vita pubblica una posizione analoga a quella che occupano nella vita privata, essi abbandonano la prima per concentrarsi sulla seconda" (v. Tocqueville, 1835-1840; tr. it., p. 214). Pertanto se da un lato "immischiarsi del governo e parlarne" sembra essere la più grande occupazione e - per così dire - "il solo piacere che un americano conosca", dall'altro, osserva Tocqueville, le classi elevate della società si astengono dall'intraprendere una carriera politica e lasciano che le cariche elettive e le posizioni amministrative vengano ricoperte da funzionari appositamente stipendiati.

Mezzo secolo dopo la pubblicazione della Démocratie en Amérique, altri due studiosi tracciano un parallelo tra la democrazia americana e quella europea. Sia James Bryce in The American Commonwealth (1888), sia Moisei Ostrogorski in La démocratie et l'organisation des partis politiques (1903), sottolineano la differenza tra la situazione europea, nella quale il personale politico è ancora di estrazione prevalentemente notabilare, e la situazione americana, in cui la politica è divenuta a tutti gli effetti una vera e propria professione lucrativa (a gainfull profession) per una speciale classe di persone che ne intraprende l'esercizio per 'vivere di essa', direttamente o indirettamente. Dall'opera di questi due studiosi, e in particolare dall'analisi dedicata dal ricercatore russo alla costituzione del caucus (l'organizzazione elettorale preposta alla selezione dei candidati, sorta in Gran Bretagna per iniziativa di Joseph Chamberlain all'indomani della riforma elettorale del 1867, che aveva considerevolmente esteso il diritto di suffragio), Weber avrebbe tratto una serie di spunti che gli sarebbero serviti per operare un confronto tra la politica dei notabili e la politica dell'election agent o del boss. Questi ultimi, al pari dell'imprenditore capitalistico, si attivavano per proprio conto e a proprio rischio al fine di controllare una determinata percentuale di voti che avrebbero offerto ai candidati in cambio di denaro o di uffici pubblici. E se il governo di uno Stato o di un partito, per mezzo di persone le quali vivevano esclusivamente per la politica e non di politica, comportava necessariamente un reclutamento 'plutocratico' delle categorie politicamente dirigenti, l'entrata in scena di persone che fanno della politica una professione apre nuove possibilità anche a coloro che sono privi di risorse economiche, a condizione che trovino o una remunerazione fissa nell'organizzazione di partito o un guadagno derivante dall'influenza che sono in grado di esercitare sul corpo elettorale.

Tuttavia per ricostruire il passaggio dai partiti di notabili (Honoratiorenparteien) all'affermazione dei notabili di partito (Parteihonoratioren) - ossia ai 'professionisti della politica' che, costituiti in oligarchia, monopolizzano il potere, perpetuandosi attraverso la cooptazione e sottraendosi al controllo degli iscritti al partito e degli elettori - si deve fare riferimento, oltre che all'opera di Weber, alle ricerche condotte da Roberto Michels.

È stato infatti questo studioso, nato a Colonia e in seguito diventato cittadino italiano, che ha introdotto nella scienza politica la famosa "legge ferrea dell'oligarchia" enunciata nella formula "chi dice partito dice organizzazione e chi dice organizzazione dice tendenza all'oligarchia". Secondo questa legge - codificata nel saggio Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie (pubblicato nel 1911) - la nascita dei partiti di massa, in questo caso quelli che organizzano la classe operaia, innesca una serie di processi di burocratizzazione, centralizzazione e professionalizzazione dell'apparato dirigente, in assenza dei quali il proletariato non sarebbe neppure in grado di presentarsi come attore politico e di competere con i partiti della borghesia in vista della conquista del potere di governo.

Ispirandosi ai lavori di Weber, cui era legato da rapporti d'amicizia, e alle teorie di Mosca e Pareto, che aveva potuto conoscere durante il suo soggiorno in Italia, Michels affronta lo studio dei partiti moderni non tanto per metterne in evidenza le differenze rispetto alle associazioni politiche del passato, quanto piuttosto per sottolineare l'inevitabile degenerazione aristocratica che colpisce anche i partiti di ispirazione socialista. Egli inoltre dimostra come burocratizzazione e professionalizzazione concorrano a creare una nuova figura di dirigenza politica (Parteiführertum) il cui potere non dipende più dalla posizione occupata nella società civile, ma dal monopolio delle funzioni politico-amministrative esercitate all'interno del partito stesso. Laddove Weber, sulla base degli studi di Ostrogorski, si era soffermato sulla trasformazione del partito dominato dai notabili extraparlamentari (i quali esercitavano la loro influenza in condominio con lo strato dei notabili politici costituito dai deputati che sedevano nel parlamento) in una forma di organizzazione in cui l'esercizio del potere viene assunto da politici "a titolo di professione principale", Michels rivolge la sua attenzione alle qualità vere o presunte della nuova leadership politica.

Nel condurre questa ricerca, egli insiste sulle caratteristiche psicologiche e sui tratti di personalità che spingono i dirigenti di partito non solo a partecipare alla competizione per le posizioni di vertice, ma anche ad abusare del potere e a sviluppare un esprit de corps che li porta a rendersi indipendenti e irresponsabili nei confronti dei loro stessi seguaci. Nel corso dell'indagine, ai fattori della psicologia individuale Michels aggiunge quelli derivanti dalla psicologia collettiva, per cui le stesse masse sono portate a tributare una venerazione ai propri capi, in virtù della quale sono disposte a perdonare loro errori e manchevolezze. Tuttavia, nonostante il peso dei fattori psicologici, il potere dei capi di un partito-macchina è fondamentalmente legato alla competenza tecnica, alla superiorità culturale e alla capacità di padroneggiare l'apparato organizzativo. I nuovi 'notabili' - anche se Michels non ricorre a questa parola per indicare i dirigenti di partito - costituiscono una cerchia ristretta dotata di un potere pressoché assoluto da cui le masse e gli elettori sono incapaci di difendersi e tantomeno di liberarsi. L'oligarchia di partito, la cui indispensabilità è fondamento di indipendenza, si impone ai seguaci esercitando il potere secondo modalità non molto diverse da quelle tipiche dei vecchi ceti dominanti. L'identificazione del dirigente con il partito, la crescente differenziazione tra gli interessi dei leaders e quelli dei membri, l'alterazione dei fini (per cui la salvaguardia del partito diventa talvolta più importante del raggiungimento degli obiettivi dichiarati) portano Michels a concludere che i partiti di massa si trasformano in uno Stato in formato ridotto, dunque in uno Stato nello Stato. Come tali essi si presentano e si impongono ai propri seguaci che si trovano così ad obbedire a due gerarchie di comando: quella costituita dalle classi politiche governanti a livello nazionale e quella dei nuovi notabili posti al vertice delle organizzazioni che avrebbero dovuto agevolare la partecipazione popolare e, soprattutto, realizzare gradi crescenti di democratizzazione.

I notabili in Francia

Il ruolo dei notabili nella storia delle istituzioni politiche francesi può essere distinto in due grandi periodi che hanno come spartiacque la Rivoluzione del 1789.

Per quanto riguarda l'ancien régime, si è soliti ricordare che, oltre all'Assemblea dei notabili riunita nel 1526 a Cognac da Francesco I per ratificare il trattato di Madrid, vi furono anche quella convocata da Enrico IV a Rouen nel 1596 e quella costituita tra il 1626 e il 1627 da Richelieu, sotto la denominazione di Conseil des notables du royaume. Tuttavia, l'Assemblea cui la storiografia ha dedicato maggiore attenzione venne convocata in prima battuta - dal 22 febbraio al 5 maggio 1787 - da Charles de Calonne, controllore generale delle finanze di Luigi XVI e successore di Turgot e di Necker, e riconvocata dopo le sue dimissioni il 5 ottobre dell'anno successivo da Necker, nel frattempo ritornato al potere. Di questa Assemblea, che avrebbe dovuto dibattere e ratificare l'aumento delle imposte deciso da Calonne per contenere la vertiginosa crescita del debito pubblico, si conoscono sia la composizione sia la puntuale resocontazione dei verbali di ciascuno dei sette bureaux in cui si articolarono i lavori, come pure le memorie, i diari e le corrispondenze dei partecipanti. E soprattutto si ricordano l'atteggiamento intransigente in difesa dei privilegi - che doveva culminare con l'opposizione quasi unanime nei confronti di una riforma fiscale di orientamento egualitario-proporzionale -, l'allontanamento di Calonne, sostituito prima da Brienne e poi da Necker, e la richiesta di convocazione degli Stati Generali. Ed è stata proprio questa circostanza che ha portato alcuni storici a individuare nell'Assemblea dei notabili del 1787-1788 l'origine degli sconvolgimenti successivi e a parlare del suo atteggiamento intransigente nei confronti della monarchia come di una "rivoluzione dei notabili" (v. Egret, 1950), che avrebbe quindi costituito il preludio e l'innesco della grande Rivoluzione.

Tuttavia un esame più attento della composizione dell'Assemblea in questione impedisce di rilevare una qualunque continuità tra i due fenomeni, sia sotto il profilo della composizione sociale che in riferimento agli obiettivi da raggiungere. Presenziava ai lavori dell'Assemblea prerivoluzionaria un gruppo di 144 notabili che provenivano, per la stragrande maggioranza, dalle file della nobiltà, anche se erano stati deliberatamente esclusi i cortigiani ed erano stati invece convocati i membri dell'alto clero, i comandanti militari, i governatori di province o città, i magistrati in capo di corti sovrane, i membri del Consiglio del re, i deputati degli stati provinciali e i rappresentanti delle municipalità. In definitiva, i notabili erano stati scelti non in virtù del loro status sociale, bensì in considerazione delle cariche pubbliche ricoperte. E se almeno i due terzi di loro appartenevano alla ancienne noblesse (vale a dire a famiglie nobili da quattro o più generazioni), una minoranza non insignificante faceva parte della 'nuova nobiltà', ossia di quelle famiglie che avevano acquisito di recente il titolo nobiliare grazie al fatto di aver ricoperto un'alta carica in un ufficio pubblico a livello sia centrale che locale o municipale. La constatazione per cui i notabili dell'ancien régime erano nobili, proprietari terrieri e in misura minore detentori di cariche pubbliche è sufficiente a differenziare nettamente questo corpo dal Terzo Stato, che invece era composto da delegati della borghesia, che aveva accresciuto il suo peso economico nelle campagne e nelle città, ma si trovava ancora impedita nell'accesso alle cariche più elevate dell'amministrazione, della magistratura e dell'esercito. Non è un caso quindi se, proprio alla vigilia della Rivoluzione, l'abate Sieyès, nel suo Essai sur les privilèges, contestando duramente un libro di Louis Chérin che aveva difeso il valore sociale e simbolico dell'aristocrazia dominante, proponeva di sostituire un ceto notabilare che era tale per nascita, opulenza o presentazione a corte, con un ceto di notabili che fossero qualificati solo in virtù della capacità e dell'ingegno personali. I veri notabili - sostiene Sieyès - sono i notabili nei "lumi" e cioè quei cittadini che, istruiti nell'"arte sociale" e moralmente affidabili, hanno le competenze necessarie per svolgere quei compiti e quelle responsabilità che la nazione sovrana delega loro.

Dopo i turbolenti avvenimenti che culminano con l'elezione a suffragio universale della Convenzione, con la proclamazione della Repubblica, con l'esecuzione di Luigi XVI e l'adozione della Costituzione democratica del 1793 (che prevedeva l'approvazione popolare di ogni legge mediante il ricorso a plebisciti), le due Costituzioni successive, quella dell'anno III (1795) e soprattutto la Costituzione dell'anno VIII (1799), si preoccuparono di restringere progressivamente l'estensione del suffragio. Quest'ultimo documento - steso da Sieyès, che faceva parte (insieme a Napoleone e a Ducos) della Commissione consolare esecutiva e che aveva in precedenza redatto alcuni dei 300 progetti costituzionali che circolavano in quegli anni - si caratterizzava, tra l'altro, per il ricorso a un complicato sistema di elezione che aveva il suo punto qualificante nelle listes des notabilités. Partendo da un elettorato di circa 6.000.000 di persone, i candidati sarebbero stati iscritti nelle liste, in ragione di un decimo, secondo una progressione che contemplava: 600.000 candidati alle funzioni municipali, 60.000 iscritti sulle liste dei notabili dipartimentali, 6.000 sulle liste nazionali. Un magistrato unico, chiamato il 'Grande Elettore', avrebbe scelto personalmente da queste liste i deputati, gli amministratori locali, i funzionari pubblici. Contestato soprattutto da Napoleone, che temeva che lo stesso Sieyès si sarebbe candidato a ricoprire il ruolo di Grande Elettore, il progetto venne in parte ridimensionato e comunque abbandonato con l'approvazione della Costituzione dell'anno X (1802). In seguito alla nomina di Bonaparte a console a vita, solo le assemblee cantonali venivano elette a suffragio universale, mentre tutti gli altri rappresentanti ai diversi livelli di governo erano designati in secondo grado da collegi elettorali di dipartimento composti a loro volta da cittadini selezionati su base censitaria ed eletti dai 'notabili comunali', il cui numero non oltrepassava un decimo del totale dei cittadini.

Sotto il profilo della stratificazione sociale, l'Impero prosegue una dislocazione del potere dagli antichi ordini privilegiati verso nuove élites e nuovi ceti sociali. Alla base dell'estensione e della ricomposizione della classe dominante napoleonica vi era una generalizzazione del concetto di proprietà che, pur restando saldamente legato alla dimensione fondiaria, viene progressivamente dilatato fino a comprendere quanti svolgono una funzione dirigente nell'economia e nella vita pubblica, come "proprietari d'industria e di lumi". Nella nobiltà imperiale, istituita da Napoleone nel 1808, la vecchia nobiltà è rappresentata solo per il 22%; il 58% dei nuovi titolati è di origine borghese, mentre il 20% è di estrazione popolare (v. Capra, 1978, p. 20). All'interno di questa nuova classe dirigente, il riconoscimento delle capacità e del merito personale occupa una posizione eminente. Lo dimostra il fatto che ai notabili dell'Impero, che sono saliti ai vertici della gerarchia soprattutto attraverso la carriera delle armi, vanno aggiunti i nominativi compresi nelle liste dei 600 maggiori contribuenti di ciascun dipartimento, liste che registrano un vasto campionario di rentiers borghesi, commercianti e professionisti.

Ma il trionfo dei notabili come ceto si realizza negli anni che vanno dal 1815 fino al 1848, periodo nel quale dapprima la restaurata monarchia borbonica e in seguito la monarchia orleanista accettano il sistema rappresentativo, naturalmente nella sua forma censitaria. Sotto la Restaurazione, e soprattutto durante la monarchia orleanista, i notabili che assumono la preminenza economica e il potere politico provengono prevalentemente dall'aristocrazia finanziaria, mentre gli esponenti della borghesia industriale o della piccola borghesia formano una parte dell'opposizione ufficiale o continuano a essere esclusi dal potere. Secondo lo storico André-Jean Tudesq, che ai grandi notabili in Francia ha dedicato una ponderosa ricerca, è nel decennio compreso tra il 1840 e il 1849, in gran parte coincidente con la presenza al governo di François Guizot, che si afferma compiutamente il dominio di questo ceto, il quale si impone non solo per le risorse economiche di cui dispone, ma anche perché sviluppa una coscienza collettiva che lo porta a proporsi e a comportarsi come vera e propria classe dirigente sia nella sfera sociale che in quella politica.

L'introduzione del suffragio universale, dopo la rivoluzione del 1848, mette in crisi la supremazia dei notabili e fa entrare nella classe dirigente e nella classe politica esponenti delle altre frazioni della borghesia, nonché i primi rappresentanti del proletariato. Per quanto continui a occupare una posizione eminente nella gerarchia sociale - non solo nella fase dominata da Luigi Bonaparte, ma persino negli anni immediatamente successivi alla Comune - il ceto notabilare non riuscirà più a recuperare il predominio politico né tantomeno l'egemonia culturale che soltanto tre decenni prima ancora esercitava. L'avvento della società di massa, la crescente industrializzazione, il suffragio universale e la nascita dei grandi partiti politici porteranno la Francia della Terza Repubblica da una situazione descritta da D. Halévy (v., 1937) in termini di République des ducs a quella République des camarades, di cui parla Robert De Jouvenel (v., 1914). Nel periodo che separa queste due situazioni, i notabili tradizionali verranno definitivamente soppiantati da un personale politico di tipo nuovo, attento alla propria circoscrizione e alla propria rielezione: dagli esponenti della vecchia aristocrazia - i 'duchi' tornati a far parte della classe politica all'indomani delle elezioni del 1871 - si passerà, alla vigilia del conflitto mondiale, a un ceto parlamentare di 'politici di mestiere', completamente rinnovato e selezionato su basi clientelari e corporative che lo configurano come una 'consorteria di compari'.

L'Italia dei notabili

Prima di descrivere alcuni tratti salienti del rilievo dei notabili nella politica italiana dall'unificazione nazionale al consolidamento del regime fascista, susseguente alla consultazione elettorale del 24 marzo 1929, che attraverso un plebiscito espresso su un'unica lista di 400 candidati allontanava dal potere le vecchie élites dirigenti, occorre mettere in luce alcune analogie e alcune differenze rispetto all'esperienza francese. Le seconde sono di gran lunga prevalenti sulle prime. Infatti, se anche per l'Italia si può dire che la presenza dei notabili in politica deve essere collegata ai processi di formazione e composizione della classe politica e che l'interpretazione del loro ruolo deve essere posta in relazione con i problemi della rappresentanza e dei rapporti tra le diverse classi sociali, i punti di divergenza tra i due sistemi rimangono fondamentali.

Innanzitutto, i notabili italiani non costituiscono un ceto omogeneo e coeso né tantomeno riescono ad affermarsi, oltre che come classe parlamentare, anche come classe dirigente ufficiale e istituzionalizzata. In secondo luogo, la condizione dei notabili in Francia viene sancita esplicitamente dalle leggi elettorali e viene legittimata da una pluralità di scrittori e dottrinari che ne esaltano la supremazia rispetto alle vecchie classi dominanti, mettendone in rilievo il carattere di emancipazione politica per tutti coloro che riescono, in virtù delle loro qualità, a imporsi nella gerarchia sociale e ad acquisire una posizione eminente in campo economico. Viceversa in Italia i notabili, spesso identificati a livello locale con i 'grandi elettori', vengono abitualmente dipinti come degli intriganti, degli ambiziosi, degli affaristi che corrompono la vita politica con la loro spregiudicatezza e con le loro pratiche clientelari. Infine, mentre i notabili francesi costituiscono, almeno in certi periodi, un ceto compatto e tutto sommato consapevole di rappresentare la nazione, i notabili italiani tendono a 'personalizzare' la gestione della cosa pubblica e si dividono in fazioni e consorterie in perenne contrasto tra loro. Da questa situazione - a malapena mitigata dall'assestamento di equilibri precari - nasce una delle tante contraddizioni dell'Italia liberale su cui, solo in anni recenti, la scienza politica (v. Farneti, 1971 e 1989; v. Pombeni, 1993) e la storiografia (v. Romanelli, 1988; v. Gherardi, 1993; v. Musella, 1994; v. Conti, 1994) hanno incominciato a riflettere. Tale contraddizione riguarda soprattutto tre punti. Il primo concerne il carattere della rappresentanza delle classi governanti che si sono succedute al potere fino all'introduzione del suffragio universale maschile (1913). Il secondo mette in luce i problemi di legittimazione dello Stato liberale, l'anomalia dei processi di socializzazione politica e l'assenza di integrazione di larghissimi strati della popolazione; il terzo, infine, sottolinea alcuni tratti dominanti di una cultura politica improntata fin dalle origini alla mediazione e al compromesso, al clientelismo e al trasformismo.

Sotto il profilo della composizione, si può dire che le classi governanti selezionate a partire dalle elezioni del 1861 hanno in comune la natura di notabilato sia per la ristrettezza del corpo elettorale sia per la estrazione sociale degli eletti. Questi provengono dalle file dei proprietari terrieri, dei commercianti, dei professionisti (soprattutto avvocati e notai), dei professori di università, degli amministratori pubblici, degli insegnanti e dei giornalisti. La base elettorale ristretta (che nelle prime elezioni post-unitarie blocca l'accesso al voto al 98% degli Italiani e solo nel 1913 estende l'elettorato al 23% della popolazione, con un incremento numerico di oltre 5 milioni di elettori rispetto alla consultazione precedente) non ha eguali negli altri paesi europei, e contribuisce a diffondere e a consolidare l'immagine di una nazione frammentata e divisa in cui si contrappongono un paese 'legale' e un paese 'reale'. Ad aggravare la situazione e a rendere ancora più problematica la rappresentatività dei parlamentari italiani concorrono inoltre: l'alto tasso di astensionismo (che oscilla dal 43%, nel 1861, al 40% del 1882, e al 35% del 1909); il fenomeno della 'vischiosità' delle candidature che, nel periodo tra il 1866 e il 1897, in almeno un quinto dei seggi disponibili rende impossibile la sconfitta del candidato uscente; l'esiguità dei consensi che sono necessari per assicurarsi un seggio in parlamento, come dimostra il caso di Gaetano Mosca che, ancora nel 1909, viene eletto nel collegio di Caccamo in Sicilia con 1.260 voti su un totale di 2.249 votanti.

Di fronte a queste cifre, che sottolineano drammaticamente la natura minoritaria se non addirittura oligarchica del 'paese legale', il carattere notabilare della rappresentanza politica risulta ulteriormente confermato da altri due fenomeni. Il primo riguarda la composizione delle classi di governo, soprattutto della Destra e della Sinistra - composizione che dimostra una sostanziale continuità di reclutamento sociale tra i ceti medi e un forte radicamento nella struttura del 'potere di fatto' della società civile. Il secondo attiene alle modalità con cui sono selezionati i candidati, ai canali di comunicazione tra rappresentanti e rappresentati, al ruolo di un gruppo di persone (i grandi elettori) che, pur non aspirando a partecipare direttamente alla competizione politica, assumono una posizione fondamentale nel condizionarne l'esito e nell'influenzare i comportamenti e le scelte degli eletti. L'entrata in gioco di coloro che, a livello di collegio elettorale, si attivano a sostegno di un candidato mette in evidenza l'esistenza di un secondo ceto di notabili, questa volta locali, che si affianca ai notabili che compongono la classe politica nazionale. Ed è proprio la presenza di questi notabili, che sono tali perché svolgono una funzione di mediazione tra centro e periferia, che spiega secondo Mosca - il quale alla descrizione del fenomeno ha dedicato alcune pagine memorabili della Teorica dei governi (1884) - come mai il parlamento sia sempre più diventato una "parziale e fittizia rappresentanza del paese", la sede di un "nuvolo di camarille e combriccole, illegali ma potentissime", dedite alla difesa di interessi settoriali e all'affarismo clientelare. Il ritratto che Mosca ha tratteggiato della classe politica arrivata al potere dopo le elezioni del 1882 e dei grandi elettori che hanno concorso a selezionarla fornisce una descrizione assai vivace dei diversi tipi di notabili presenti nell'Italia liberale e permette di capire alcuni fenomeni che tenderanno a ripresentarsi fino all'avvento delle istituzioni repubblicane. Ciò vale, in particolare, per la relativa separazione dello Stato dalla maggioranza dei cittadini, per l'insufficiente integrazione degli strati meno abbienti nelle istituzioni politiche, per una debole legittimazione di un governo percepito come un comitato d'affari delle classi possidenti, rivolto principalmente allo sfruttamento e alla manipolazione dei governati. Solo la comparsa dei partiti di massa, all'indomani della grande guerra, consentirà di saldare momentaneamente la sfasatura tra momento elettorale e momento politico, tra società civile e società politica, anche se il processo di integrazione delle masse popolari nello Stato conoscerà una soluzione del tutto particolare con l'esperienza del fascismo, che sancirà l'avvento di una società politica organica in cui i pieni diritti di cittadinanza vengono tuttavia collegati al tesseramento nel partito unico.

Il richiamo ai lavori di Mosca consente di delineare alcuni tratti fondamentali dell'Italia dei notabili e di metterne in evidenza le luci e le ombre. In genere, scrive Mosca - che si dichiara a favore di una classe politica selezionata non in base alla nascita, alla fortuna pecuniaria o all'intrigo clientelare, ma al merito personale, alle qualità morali e intellettuali e al senso di responsabilità -, i notabili che entrano in parlamento rappresentano "gli interessi del grosso capitale e della grande proprietà fondiaria" e sono perlopiù i mandatari di un gruppo di persone influenti e qualche volta di un pugno di intriganti coalizzati. Questi, per la posizione sociale che occupano - nelle campagne sono grandi proprietari o grandi fittavoli, mentre nelle città sono liberi professionisti e in generale persone danarose -, dispongono di centinaia di voti che conferiscono a un candidato piuttosto che a un altro sulla base di rapporti di parentela o di clientela e per ricavarne vantaggi personali. Dal momento che il deputato dipende dal notabile locale che ne assicura il successo elettorale, Mosca conclude che il vero potere, invisibile e irresponsabile, del sistema parlamentare è proprio nelle mani dei grandi elettori. La gerarchia politica ufficiale dell'Italia liberale rappresenta quindi solo in minimo grado la gerarchia sociale reale del paese; pertanto una quantità sempre maggiore di forze vive, di elementi atti alla direzione politica, ne resta esclusa.In un siffatto contesto i grandi elettori e i comitati elettorali si comportano come dei veri e propri 'gruppi di pressione', dal momento che tendono a 'premere' sui membri elettivi della struttura decisionale politica per orientare le scelte di governo e per ottenere provvedimenti legislativi o amministrativi a loro favorevoli. Fare politica in questo quadro equivale a ricercare il soddisfacimento di "privati vantaggi", ossia, come dice Mosca, a strappare alle pubbliche amministrazioni quante maggiori utilità è possibile assumendo quanto meno si può carichi e oneri. Il sistema parlamentare che scaturisce dal doppio circuito di scambi e negoziazioni tra notabili parlamentari e notabili elettorali diventa il sistema più adatto per realizzare ed espandere il favoritismo, il clientelismo, l'arbitrio e la discrezionalità: "tutti in esso, dal più alto al più basso, dal ministro all'elettore, trovano il loro privato interesse nel tradire quegli interessi pubblici che loro sono affidati. Tutti devono, per farsi avanti e sostenersi, favorire gli aderenti e gli amici a scapito del buon andamento degli affari, della coscienza e della giustizia" (v. Mosca, Teorica..., 1982, p. 486).

E se questa immagine della politica italiana alla fine dell'Ottocento può sembrare troppo cinica e dettata dall'irruenza conservatrice del giovane studioso siciliano, basta leggere le osservazioni non dissimili riportate da Pareto nelle Cronache, pubblicate sul "Giornale degli economisti" fra il 1893 e il 1897 - nonché le centinaia di opuscoli, memorie, libri, epistolari, discorsi agli elettori e interventi parlamentari dei protagonisti di quel dibattito che è conosciuto sotto la formula 'crisi del parlamentarismo' - per rendersi conto di come tale immagine fosse accreditata e diffusa. Autori come De Sanctis, Bonghi, Spaventa, Sonnino, Torraca, Lioy, Jacini, Fortunato, Marselli, Minghetti, Turiello - che, oltre a essere studiosi delle istituzioni politiche, appartengono al ceto dei notabili di rilievo nazionale e come tali siedono in parlamento - descrivono la politica, che peraltro essi stessi contribuiscono a tenere in vita e ad alimentare, come l'arte del compromesso e della mediazione e si limitano a ovviarne gli inconvenienti più gravi mediante l'impegno personale e una gestione paternalistica del potere.

Accomunati, sia pure con qualche eccezione, dal timore della mobilitazione e della partecipazione popolare, più o meno diffidenti nei confronti dell'estensione del suffragio e della costituzione dei grandi partiti di massa, più propensi a riformare il sistema dal suo interno che a sottoporlo ai cambiamenti derivanti da un reale processo di democratizzazione, i notabili italiani dell'età liberale si dimostrano tanto acuti nella diagnosi quanto miopi nella terapia. La critica che essi stessi muovono al cattivo funzionamento delle istituzioni rappresentative non impedisce loro di fare ricorso ai grandi elettori per ottenere il consenso quando si candidano nei rispettivi collegi. La miriade di progetti di riforma che sono capaci di escogitare, almeno fino al 1919 - quando una legge che introduce lo scrutinio di lista e la rappresentanza proporzionale consentirà di eleggere 211 deputati costituzionali, 156 socialisti e 100 cattolici -, non scalfisce la sostanziale immobilità del sistema. La condanna del clientelismo e dell'affarismo parlamentare non vieta loro di soddisfare le richieste dei grandi elettori e di privilegiare quasi sempre gli interessi locali rispetto a quelli nazionali. La selezione della classe politica avviene quindi attraverso il riconoscimento non tanto dei meriti specificamente politici, quanto delle capacità di patronato. La stessa condizione di notabile non viene a dipendere dall'attività svolta nella società o dalle qualità personali, bensì dalla posizione occupata nelle sedi della rappresentanza politica e dalle capacità dimostrate nell'esercizio della funzione di mediazione e di negoziato.

Sotto questo profilo si può quindi concludere che nell'Italia liberale quanto più il sistema dei notabili si dimostra efficace ed efficiente nel tutelare gli interessi particolari e nel garantire il potere e il prestigio di chi fa della mediazione politica la sua attività principale, tanto più lo Stato non viene vissuto come una istituzione al servizio di tutti i cittadini, ma viene identificato con la sola classe politica e con i suoi personaggi più rappresentativi. Quanto più l'integrazione dei milioni di cittadini esclusi dai circuiti della rappresentanza e dalle pratiche clientelari che assicurano il consenso si dimostra un problema cui non si sa o non si vuole porre rimedio, tanto più si alimentano un rigetto della formula politica liberale e un malcontento che può sfociare, come dimostrerà il fascismo, nell'adesione a un regime totalitario, ma comunque 'diverso' da quello che lo ha preceduto. (V. anche Classi e stratificazione sociale; Élites, teoria delle; Partiti politici e sistemi di partito).

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