NUMERAZIONE

Enciclopedia Italiana (1935)

NUMERAZIONE

Ettore BORTOLOTTI
Iliehard DANGEL
Richard DANGEL

. Il concetto di numero, per sua natura primitivo e astratto, viene per uso costante estrinsecato in aggruppamenti di cose sensibili (oggetti materiali, segni grafici, voci del linguaggio, ecc.), e sotto questo aspetto i numeri vengono usati nei calcoli e introdotti nelle speculazioni scientifiche; e poiché la formazione di tali aggruppamenti, cioè la numerazione, procede con leggi sue proprie, le quali permettono di costruire successivamente e indefinitamente nuovi simboli numerici, così il numero viene ad essere concepito come creato dall'operazione del numerare, e l'intera aritmetica, come una naturale conseguenza del più semplice atto numerico, cioè del numerare. Le leggi, i modi, gli strumenti della numerazione presentano nelle loro origini una mirabile universalità, che ci fa palese essere l'atto del numerare uno degli attributi caratteristici del pensiero umano, e seguono nel loro sviluppo lo sviluppo della civiltà, a segno che fu lecito a M. Cantor l'intitolare un suo classico studio sopra i segni numerali usati dagli antichi Contributo matematico alla storia della vita intellettuale dei popoli. Dai modi diversi che si possono seguire nell'atto del numerare, la numerazione viene detta: strumentale, parlata, scritta.

Numerazione strumentale. - I mezzi strumentali usati dagli antichissimi popoli sono quegli stessi che si trovano in uso presso le popolazioni selvagge o in stato inferiore di civiltà, cioè tacche fatte in pezzetti di legno, piccoli stecchi infilati o infissi in asticelle, mucchietti o file di pietruzze (donde le voci: calcolo e calcolare) o di dischetti, ecc. L'uso di cordoni a nodi, o portanti perle (mobili o fisse), staccati, o riuniti in frange, o fissati in telai, come strumenti idonei al numerare, o a conservare memoria di numeri calcolati, è assai antico e diffuso. A tale uso si debbono riferire gli strumenti di aritmetica palpabile tuttora usati da alcune popolazioni di razza slava, il pallottoliere, lo swan pan cinese, certe forme di abachi usati dai Romani e la corona del rosario.

Ma il mezzo strumentale più universalmente usato è la mano stessa dell'uomo, che con opportune flessioni delle dita serve a rappresentare i numeri e ad eseguire le operazioni su essi. La tavoletta qui riportata (fig.1) è presa dalla Summa del Pacioli. Le regole dell'indigitazione, nella forma a noi rivelata nei trattati medievali, erano universalmente note non solo ai Latini, ma anche agli Egiziani, agli Ebrei, ai Persiani, ai popoli della Libia, e più tardi agli Arabi e ai Berberi, presso i quali tuttora si riscontra. L'uso di contare sulle dita era così diffuso che persino le note musicali avevano una rappresentazione digitale, della quale si da un esempio (fig. 2), tolto dal manoscritto 147 della Biblioteca universitaria di Bologna. Un'abitudine durata tanti secoli, e così largamente diffusa, ha lasciato notevoli tracce nella letteratura e in ogni manifestazione della vita civile: fino ai primi tempi del Rinascimento, l'aritmetica era nel concetto volgare immedesimata con l'indigitazione, tanto che i pittori e gli scultori rappresentavano quell'arte come una donna intenta a comporre le mani nel modo che si usava nei calcoli (il Venturi scrive che la "matematica fa le corna"). Senza la conoscenza dei canoni dell'indigitazione, sarebbero indecifrabili certi passi di autori antichi e non sarebbe possibile il determinare le date di avvenimenti cui fu accennato solo col ricordare la loro rappresentazione digitale. Il Liber de loquela per gestum digitorum fu scritto dal venerabile Beda per facilitare l'interpretazione delle opere dei Santi Padri, e fece poi testo per l'insegnamento dell'aritmetica, sia nelle scuole claustrali sia in quelle del quadrivio, per tutto il Medioevo.

Sistemi di numerazione. - In un primitivo stadio di civiltà è possibile rappresentare i numeri con la semplice ripetizione del simbolo ideografico dell'oggetto considerato. Si ha così una numerazione primitiva, che non ha bisogno d'essere insegnata ed è da tutti immediatamente interpretata. Noi facciamo tuttora uso di una tale numerazione per i dadi, il domino, le carte da giuoco, ecc.; i Greci, nei primissimi tempi, designavano i numeri con tanti tratti di linea paralleli, e ciò tuttora si usa, da illetterati, in villaggi remoti dal consorzio con la vita civile. Ma una tale numerazione è soverchiamente ingombrante e non permette di discernere prontamente numeri alquanto grandi. Da ciò l'uso di una scala di simboli dei quali il primo rappresenti un solo oggetto (unità semplice), il secondo (che diremo unità del secondo ordine) un determinato numero di unità semplici, il terzo un dato numero di unità del secondo ordine, ecc. Se in questa scala si ascende con regola costante, cioè se è costante il numero di unità d'un ordine qualunque che formano detto base della numerazione. L'uso dell'indigitazione ha portato a un sistema quinario. Tale è stata la primitiva numerazione dei popoli più antichi; il primo segno grafico usato per rappresentare classi di unità servì per il numero 5, e questo segno, che, al dire del Mommsen, è un'imitazione della mano aperta, è comune ai Romani, ai Sabelli e agli Etruschi. Gli antichi Greci usavano nel significato di "contare" anche una voce (πεμπαξευς) che propriamente vuol dire "quinare" e presso i popoli primitivi dell'America, dell'Africa e dell'Australia sono parecchi gl'idiomi nei quali al numero cinque si dà il nome stesso che alla mano. L'applicazione del sistema quinario esigerebbe la considerazione delle unità di ordine superiore 52 = 25,53 = 125, ecc.; ma questo fatto non si è riscontrato. Invece si è osservato che il sistema quinario ha dato origine ad altri che meglio convengono a un più avanzato stadio di civiltà. È stato riscontrato un sistema vigesimale presso alcune popolazioni dell'America Centrale, e in particolare presso i Maya; rimangono numerose tracce d'un tale sistema in dialetti parlati nell'Armorica, nei Paesi Bassi e nella lingua francese.

La numerazione quaternaria, che padre abbia avuto origine dal contare col pollice le rimanenti dita della mano, è segnalata da Aristotele presso le popolazioni della Tracia; e, presso di noi, ne rimangono tracce nei multipli e sottomultipli di misure usate prima dell'introduzione del sistema metrico decimale (la quarta, il quartarone, il quartirolo, il quarticino, il dito = 4 grani, il palmo = 4 dita, il piede = 4 palmi, il cubito = 4 piedi).

Triplicando la base della numerazione quaternaria (contando col pollice le falangi delle rimanenti dita) si giunge a una numerazione duodecimale, largamente usata sia nei multipli sia nei sottomultipli (la dozzina, la grossa, l'oncia, il grano, ecc.). La combinazione delle basi 5 e 12 dà luogo alla numerazione sessagesimale, usata in Egitto e nella Babilonide, ecc., e universalmente usata fino a tempi recenti nel calcolo delle frazioni, tuttora in uso nella misura degli angoli e del tempo.

Il sistema decimale si trova presso tutti i popoli che raggiunsero un grado avanzato di civiltà, e già Aristotele avvertiva che l'universalità d'un tale sistema prova che la sua adozione non fu accidentale, ma ebbe fondamento in una legge generale di natura.

Numerazione parlata. - Le parole atte a esprimere i numeri sono primitive e arbitrarie, ma dipendono dal modo tenuto dai varî popoli nel numerare. Presso i popoli primitivi tali parole rispondono spesso, se non sempre, all'uso di contare per mezzo di parti del corpo umano e specialmente di far corrispondere gli oggetti da numerare alle dita delle mani e dei piedi (v. sotto: Etnografia).

Il numero dello zero non fu naturalmente introdotto se non con l'uso della numerazione scritta posizionale. Dagl'Indiani era detto sunya e dagli Arabi aṣ-ṣifr; Leonardo Pisano (1202) scrisse latinamente zephirum, donde la traduzione italiana zefiro, che si trova in aritmetiche medievali (Pietro Borghi, 1484), e la corruzione zeuero (Giacomo di Firenze, prima metà del secolo XV), e finalmente zero, che si riscontra già in un manoscritto italiano del sec. XIV.

Dalla lingua italiana questa voce passò in idiomi stranieri, mentre per altra via l'arabo ṣifr ha dato origine a cifra (v.). Nell'odierna numerazione decimale, oltre alle unità principali, fino al migliaio, si è usata la parola milione per le migliaia di migliaia, parola introdotta dai maestri d'abaco italiani del sec. XIV. Col nominare poi bilione il milione di milioni, trilione il milione di bilioni, ecc., si diede un'estensione indefinita alla numerazione parlata. Presentemente si usa la parola milardo per il migliaio di milioni.

Numerazione scritta. - Prima di conoscere la scrittura fonetica si sono usate scritture ideografiche, e in queste i segni numerici (cifre) sono indipendenti dalle parole, con le quali i numeri sono nominati, e dalla diversità delle lingue; hanno cioè un carattere di universalità che si è conservato anche quando si usarono come segni numerici lettere dell'alfabeto (cifre alfabetiche). Dalle varie leggi, con le quali questi segni si accoppiano per formare i numeri, nascono le forme diverse di numerazione scritta, che si possono distinguere in forme o sistemi a legge additiva e a legge additiva e moltiplicativa. Nei primi il numero è indicato dalla somma delle unità rappresentate da cifre disposte in ordine conveniente (generalmente l'una accanto all'altra, nel senso dei caratteri alfabetici della scrittura ordinaria). Qualche volta un'inversione nella collocazione delle cifre indica una sottrazione: si hanno, cioè, in via di eccezione, forme sottrattive o minorative.

Nei sistemi a legge additiva e moltiplicativa, quando l'accoppiamento di due o più cifre è seguito in modo determinato, può rappresentare prodotto dei numeri da esse rappresentati. La moltiplicazione per unità degli ordini superiori viene in taluni casi indicata con la sovrapposizione d'un segno opportuno e, dalla ripetizione di tale segno, viene una numerazione a forma esponenziale. In altri sistemi la moltiplicazione per il numero base, o per le potenze di esso, viene indicata con la scomposizione delle cifre in gruppi e con la posizione relativa di tali gruppi: si ha allora una numerazione posizionale.

Di tutti questi sistemi si hanno classici esempî nelle numerazioni usate dai popoli storici, delle quali daremo ora rapido cenno.

Numerazione a cifre ideografiche; scrittura cuneiforme. - Nella notazione cuneiforme (Babilonesi, Assiri, Elamiti, Hittiti, Persiani, ecc.) l'unità è rappresentata da un cuneo verticale con la punta in basso: ▾, la decina, con due cunei uniti per la base e disposti ad angolo 〈. Un cuneo orizzontale con la punta a destra accoppiato a uno verticale alla sua sinistra ▾ ► rappresenta il numero 100. Ripetendo i cunei verticali si formano i numeri delle centinaia ▾ ▾ ► = 200.

Il segno del 10, posto a sinistra di quello del 100, ha ufficio di moltiplicatore: 〈 ▾ ► = 10 × 100 = 1000; ma il segno 〈 〈 ▾ ► non si legge 20 × 100, bensì 10 × 1000 = 10.000.

Nella notazione cuneiforme del sistema sessagesimale i numeri inferiori al 60 sono scritti al modo dianzi indicato; ma un cuneo verticale posto a sinistra del segno del 10, indica 60; così si leggerà: ▾ 〈 ▾ = 60 + 10 + 1 = 71, e similmente: ▾ 〈 ▾ 〈 〈▾ ▾ ▾ 〈 〈 = 2 × 602 + 10 × 60 + 20.

Notazione geroglifica. - Gli Egiziani nella loro scrittura geroglifica, che serviva specialmente nei monumenti, formavano i numeri con legge additiva dai simboli fondamentali:

Ogni simbolo è ripetuto tante volte quante occorre, fino a 9 volte, e nella riunione di più segni uguali, per rendere più perspicua la lettura, si fanno gruppetti di non più di 4 segni.

Nella scrittura ieratica degli Egiziani, che si riscontra specialmente sui papiri, i numeri si formavano per combinazione additiva dei simboli:

Segni numerici usati dai Cinesi. - Presso i Cinesi si hanno tre distinti sistemi di numerazione, tutti a base 10. Quello che più di frequente si riscontra è a legge additiva e moltiplicativa, e ha per simboli fondamentali i seguenti:

La scrittura procede per colonne verticali che si leggono dall'alto al basso: quando uno dei primi 9 numeri è prima del 10 o di una delle sue potenze, funziona da moltiplicatore; quando è posto dopo, da addendo:

Si hanno altri due sistemi di numerazione che si leggono orizontalmente, mettendo a sinistra le unità d'ordine più elevato, e sono: la scrittura commerciale fondata sui simboli

e la numerazione ad aste numeriche (probabilmente d'importazione straniera), che fa uso d'un principio di posizione analogo a quello da noi presentemente seguito, e fondato sui simboli:

Si è voluto interpretare come pertinente a una numerazione binaria un quadro contenente i caratteri detti di Fo-hi, cui si attribuiscono i significati:

Numerazione a cifre alfabetiche. - I Greci avevano tre sistemi di numerazione, tutti a base decimale. Il più antico, detto erodianeo, perché descrittoci da Erodiano, grammatico alessandrino del secolo II d. C., pare risalga al sec. VI a. C.; veniva usato specialmente nella scrittura monumentale e si fondava sui segni:

Un secondo modo di numerazione consisteva nel rappresentare i numeri con le lettere dell'alfabeto, nello stesso loro ordine progressivo, fino al 24, e nell'accoppiare questi segni con legge additiva.

Il terzo, detto ordinario, è troppo noto perché qui se ne parli ulteriormente (v. cifra). In questo sistema la miriade, presa come unità d'ordine superiore, si esprimeva spesso sia con la sola iniziale, sia (seguendo un principio di posizione) separando con un punto il gruppo di unità, in numero minore di 10.000, da un gruppo di cifre a sinistra, rappresentante miriadi. Occorrendo esprimere numeri molto grandi, si separa un terzo gruppo, indicante miriadi di miriadi, ecc.

Gli Ebrei usavano come cifre numeriche le 22 lettere del loro alfabeto, delle quali 9 servivano per le unità semplici, 9 per le decine, le altre quattro per i primi quattro numeri di centinaia. Per rappresentare una maggiore quantità di centinaia riunivano per addizione le centinaia rappresentate dalle dette 4 cifre alfabetiche. Più tardi ebbero anche per gli ultimi numeri di centinaia figure particolari, ottenute dalle forme che cinque delle loro lettere assumono in fine di parola. Per esprimere le migliaia sovrapponevano due punti, che indicavano moltiplicazione per 10, ai simboli delle centinaia.

Tra i Siri, e per un certo tempo anche fra gli Arabi, si usava una notazione alfabetica fondata sugli stessi principî di quella ebraica.

Gli Etruschi usavano una numerazione a base decimale, che risentiva d'un primitivo sistema quinario, fondata sui segni:

Questo modo di numerare era comune anche agli altri popoli italici, quali gli osci, gli Umbri, i Sanniti, ecc.

I Romani usarono i segni numerali degli Etruschi, ma rovesciati e procedenti da sinistra. Tali segni presentano, nella numerazione romana, forma alfabetica, ma, specialmente nella primitiva forma etrusca, appaiono come segni scelti fra i più facili a disegnare o a incidere, tanto facili e spontanei, che tuttora si vedono usati da persone illetterate. Il segno ???∣) del 500 non è che la metà del segno ???(∣) del mille e finì con l'identificarsi con una D, come il secondo con una M. Il numero 1000 si trova anche indicato con uno dei simboli: ???, ???, ???, e circoscrivendo coppie di semicircoli alla cifra ??? si moltiplicavano le migliaia. (???) = 10.000, ((???)) = 100.000, ecc.

Ma la moltipolicazione per 1000 era più comunemente rappresentata con la sovrapposizione d'una lineetta, scrivendo così: ??? = 1000, ??? = 10.000, (??? = 100.000. Si trova, anche nella numerazione romana, usato talvolta un principio di posizione analogo a quello segnalato presso i Greci, con la separazione delle cifre in ruppi, dei quali il primo a destra indicava unità semplici, il secondo migliaia, il terzo migliaia di migliaia, ecc.

La numerazione come strumento di calcolo. - I caratteri numerali finora considerati, e in specie quelli romani, renderebbero assai malagevole l'esecuzione di calcoli aritmetici, fatti al modo presentemente da noi tenuto; ma gli antichi usavano tali caratteri per esprimere conti fatti, mentre per l'effettiva esecuzione di essi si servivano di mezzi strumentali, e specialmente degli abachi (v.). Questi consistevano in tavolette rettangolari con sopra disegnate o incise linee verticali, determinanti colonne, intestate con i segni delle unità dei varî ordini, press'a poco nel modo indicato dalla tavoletta qui rappresentata:

I calcoli (pietruzze o dischetti) si disponevano in fila su dette colonne, e rappresentavano unità dell'ordine indicato dalla intestazione della colonna. Il numero segnato dalla nostra tavoletta è 4013. Si avevano anche abachi a polvere, sui quali si spargeva della polvere (in generale verde: pulvis hyalinus), con opportuno mezzo costretta a rimanere aderente alla superficie dell'abaco, cosicché con una bacchetta (radius) si potevano segnare numeri o tracciare figure, non altrimenti di quello che ora si fa sulla lavagna. Al medesimo uso servivano le tavolette cerate.

Un'importante modificazione si fece col sostituire ai calcoli da disporre su una stessa colonna d'abaco, un solo gettone, che aveva un marchio indicante il numero dei calcoli da collocare. Bastarono così nove marche, o segni diversi, a rappresentare qualunque numero, e quei segni acquistarono un valore di posizione, indicato dalla colonna d'abaco su cui il gettone era collocato (o quel segno era disegnato). Quando mancavano unità d'un dato ordine, rimaneva vuota la colonna corrispondente. La descrizione dell'abaco, l'indicazione delle nove cifre, l'esposizione delle regole atte all'esecuzione dei calcoli aritmetici che per mezzo dell'abaco si potevano seguire, si trova già (forse come posteriore interpolazione) nella Geometria di Boezio. Pare certo che Alcuino (morto nel 804) conoscesse l'abaco e le cifre d'abaco. Si narra che Gerberto (morto nel 1003) facesse coniare un certo numero di gettoni con su impresse le cifre d'abaco, e ne insegnasse e ne diffondesse l'uso. In Italia Guido d'Arezzo scriveva, verso l'anno 1028, un trattato sul computo, ove si contengono le cifre d'abaco e la descrizione dell'abaco e delle operazioni a esso inerenti.

Le cifre incise sui nove gettoni furono chiamate apici o figure d'abaco e avevano press'a poco la forma seguente:

La parola scritta sotto ogni cifra ne designa il nome, e, mentre taluni di questi vocaboli sono di evidente origine araba (per esempio arbas dall'arabo arbà "quattro" e temenias dall'arabo thamànin "otto"), per altri sono oscuri il senso, l'origine e l'etimologia.

La forma degli apici, quando si tenga conto delle deformazioni inevitabili nelle successive trascrizioni, fa ritenere probabile l'opinione che riscontra in esse l'origine delle odierne cifre numeriche, dette impropriamente arabiche.

Il vedere i numeri rappresentati con cifre simili alle nostre, scritte l'una accanto all'altra, nel modo stesso che noi usiamo nella odierna numerazione, porterebbe all'identificazione, con questa numerazione, di quella usata dagli abachisti; e si stenta a credere che i Latini abbiano per più secoli usato le cifre d'abaco, e l'abaco, esclusivamente come strumento di calcolo, senza accorgersi che tale sistema includeva un principio di posizione, atto alla rappresentazione dei numeri; anche fuori dalle colonne d'abaco. Ma a ciò forse si opponeva la legge additiva, che è fondamento delle numerazioni in uso presso i popoli occidentali, e la mancanza di un segno (lo zero) idoneo a segnare il posto delle unità che non dovevano comparire nella rappresentazione dei numeri. Queste difficoltà appaiono superate, prima che in ogni altro luogo, nell'India. Dall'esame delle opere di Āryabhaṭa, di Brahmagupta, di Bhāskarācārya, appare che gl'Indiani erano da tempo assai remoto in possesso delle 9 cifre (con caratteri diversi dagli odierni) e del principio di posizione e già Brahmagupta possedeva il concetto dello zero.

Dagl'Indiani è fama che gli Arabi abbiano appreso il sistema di numerazione, che noi diciamo arabico. Sappiamo che il califfo al-Ma'mūn (il cui regno incominciò l'anno 813) incaricò il matematico persiano, Muḥammad ibn Mūsà al-Khuwārizmī (v.) di scrivere in lingua araba un trattato di aritmetica atto a divulgare nel suo popolo la numerazione degl'Indiani. Tale trattato ci è stato conservato nella traduzione latina contenuta in un manoscritto della biblioteca di Cambridge, pubblicato nel 1857 dal Boncompagni, che incomincia con le parole: "Algoritmi de numero indorum".

I mercanti italiani, che avevano fiorente traffico con l'Oriente, presto conobbero il nuovo sistema di numerazione, ne apprezzarono i vantaggi e lo portarono in Occidente. Insieme col libro di al-Khuwārizmī si tradussero in latino, nello scorcio del sec. XII, alcuni trattatelli ebraici (quali il Liber Embadorum di Savasorda, il Liber Isagosarum e l'Algorismo di Giovanni Ispalense) nei quali è insegnata la numerazione indiana. Ma tale sistema di numerazione, piuttosto che atto alla rappresentazione di numeri noti, appare in quei libri come un mezzo atto a sostituire l'uso dell'abaco nell'esecuzione dei calcoli. I numeri, che conviene registrare (i dati, il risultato dei conti fatti), sono nel corso del testo sempre indicati con l'antica numerazione romana.

Il più efficace incentivo all'introduzione in Italia, nella completa sua accezione, del sistema posizionale indiano di numerazione si deve al Liber Abbaci di Leonardo Pisano (1202). Questo libro non è traduzione di trattati arabi o giudaici, ma è un'opera originale, che raccoglie in esposizione organica, ordinata, compiuta tutto quanto a quei tempi si conosceva sia dagli Orientali, sia dai Bizantini. Insieme con gli altri volumi dello stesso autore (la Practica Geometriae, il Liber Quadratorum, gli Opuscoli), esso ha costituito un corpo di scienza che per più secoli ha fatto testo e fu il caposaldo del rinascimento scientifico italiano.

Bibl.: Boetius, De institutione arithmetica, Lipsia 1868, p. 396; R. Bombelli, Dell'antica numerazione italica, Roma 1876; Trattati di aritmetica, pubblicati da B. Boncompagni, Roma 1857; C. P. Bowditch, Maya Numeration, Calendar and Astronomy, Cambridge Mass. 1910; F. Cajori, The controverse on the origin of our Numerals, in Scientific Monthly, 1919; M. Cantor, Mathematische Beiträge zum Culturleben der Völker, Halle 1863; Carra des Vaux, Sur l'origine des chiffres, in Scientia, 1917; M. Chasles, Explication des traités de l'Abbacus, in Comptes rendus de l'Ac. des sciences, 1843; G. Friedlein, Die Zahlzeichen und das elementare Rechnen der Griechen und Römer und des christlichen Abendlanders, Erlangen 1869; S. Gandz, The origin of the Ghubar Numerals, in Isis, 1931; L. Hervas, Aritmetica delle nazioni, Cesena 1786; G. R. Kaye, Notes on Indian Mathematics, in Journal of the Asiatic Society of Bengal, 1907; id., Influence grecque dans le développement des mathématiques hindoues, in Scientia, 1919; L. C. Karpinski, The History of Arithmetic, Chicago 1925; Marre, Manière de compter des anciens avec les doigts des mains, d'après un poème d'inédit arabe, in Bull. Bonc., 1868; Martin, Les signes numéraux et l'arithmétique chez les peuples de l'antiquité et du moyen âge, in Ann. di Tortolini, 1863; Smith e Karpinski, The Indu-Arabic numerals, Londra 1911; P. Tannery, La pseudo-géométrie de Boèce, in Bibl. Math., I, 1900; id., Sur les prétendues notations pythagoriciennes sur l'origine de nos chiffres, in Mémoires scient., V, Tolosa-Parigi 1923; P. Treutlein, Scritti inediti relativi al calcolo dell'abbaco, in Bull. Bonc., 1878; A. Trombetti, Saggi di glottologia. I Numerali, in Mem. Acc. di Bologna, classe di scienze morali, s. 1ª, II (1908-11); H. Weissenborn, Einführung der jetzigen Ziffern in Europa durch Gerbert, Berlino 1892; F. Woepeke, Memoire sur la propagation des chiffres indiens, Parigi 1863; id., Sur une donnée historique relative à l'emploi des chiffres indiens par les Arabes, in Ann. di Tortolini, 1855. G. S. Colin (in Journ. Asiat., 1933) sostiene l'ipotesi, che le cifre indiane da cui alla loro volta derivano quelle arabe, giunte poi in Occidente, non siano altro che una trasformazione grafica delle lettere greche usate in funzione di numeri il che confermerebbe l'influsso greco anche sulla matematica indiana.

Etnografia.

L'uso di contare per mezzo di parti del proprio corpo, e soprattutto facendo corrispondere le dita delle mani e dei piedi agli oggetti da numerarsi, si presenta già presso l'uomo primitivo, come specialmente risulta, oltre che dalle abbondantissime notizie intorno ai gesti numeratori presso i primitivi attuali, dalle lingue di questi. Si può dire anzi che la numerazione mimica deve considerarsi quale il sistema primitivo di numerazione, giacché nel maggior numero di casi i numerali non sono altro che designazioni verbali dei gesti numeratorî usati per esprimerli. Così, p. es., la parola per 2 presso i Sioux e gli Algonchini è connessa con quella che significa "braccio", presso i Baska con quella che significa "piede", e significa dunque propriamente "le due mani", "i due piedi". Nella maggior parte delle lingue il numerale 5 è apparentato col nome della "mano", e designa dunque "le 5 dita di una mano". Nella lingua dei Subya (Bantu dello Zambesi) 6 significa "piegare un dito", perché, per contare fino a 6, si piega il primo dito della mano destra. Il vocabolo herero per 7 significa "passare all'altra mano e contare su essa due dita". In molte lingue 10 è reso con "due mani". Nella lingua dei Chibcha-Muysca 11 significa "uno del piede"; si è cioè contato fino a 10 sulle dita delle mani e si comincia con quelle dei piedi. Presso gli Eschimesi 7 è "due dita del secondo piede". Il 20 viene designato spesso con l'espressione "un uomo intero".

La numerazione mimica non corrisponde sempre esattamente alla numerazione verbale, specie quando p. es. si abbia, in seguito a vicende storiche, incrocio di sistemi differenti. Varie tribù Bantu del NO., p. es., costruiscono i numerali in base al principio quinario, cioè 6 è reso con 5 + 1, 8 con 5 + 3; ma nella numerazione mimica rendono 6 con 3 + 3 e 8 con 4 + 4. La numerazione mimica presenta una molteplicità di tipi: p. es. i Wa-Shambola (Bantu dell'Africa orientale) esprimono 1 con l'indice proteso della destra, 2 con l'indice e il medio protesi della stessa mano, 3 con le tre dita esterne e 4 con le quattro esterne della destra (unendo il mignolo all'anulare nel primo caso, il medio all'indice nel secondo), 5 col pugno chiuso, 6 protendendo le tre dita esterne delle due mani, 7 con quattro dita della destra e tre della sinistra, 8 con 4 + 4, 9 contando 5 con la destra e 4 con la sinistra. Invece nelle isole Bank (Nuove Ebridi), p. es., dove la numerazione comincia dal pollice della destra, i numeri s'indicano piegando, anziché protendendo, le dita. Molte tribù indiane dell'America cominciano col mignolo della sinistra, ecc.

Tutti i popoli nel contare hanno usato le dita delle mani e alcuni, come p. es. gl'indigeni delle Andamane, non sono andati oltre; ma molti, esaurite queste, hanno continuato, praticamente o teoricamente, con quelle dei piedi. Molto di rado si ha una serie numerica che si estende anche ad altre parti del corpo: ciò si riscontra specialmente presso alcune tribù papuane dello stretto di Torres, le quali hanno numerali speciali soltanto per 1 e 2, e di essi si servono per formare i numerali superiori. Così i Papuani Gogodara contano fino a 5 ponendo dapprima il mignolo, poi le altre dita della sinistra tra il pollice e l'indice della destra; indi s i pone l'indice della destra sul polso sinistro (6), sull'articolazione del gomito sinistro (7), sulla spalla sinistra (8), sullo sterno (9); in seguito si porta l'indice sinistro alla spalla destra (10), al gomito destro (11), a polso destro (12), al pollice destro (13), e si applicano successivamente a questo le altre dita della destra (14-17); poi con l'indice e il pollice della destra si affermano l'alluce e indi le altre dita del piede destro (18-22); l'indice della mano destra si muove quindi lungo il lato destro del corpo toccando il malleolo (23), il ginocchio (24), l'anca (25), l'ombelico (26); l'indice sinistro ripete lo stesso gesto a sinistra attraverso l'anca (27), il ginocchio (28), il malleolo (29); finalmente, cominciando dall'alluce, si pongono tutte le dita del piede sinistro tra il pollice e l'indice della mano destra (30-34). Da questo esempio s'impara al tempo stesso a evitare un errore nel quale sono caduti molti ricercatori, i quali dalla circostanza che numerose tribù non possiedono numerali proprî se non per i e 2 hanno indotto che esse non sapessero contare che fino a 2, e che al disopra di questo numero non conoscessero che una "pluralità indeterminata". Ciò, naturalmente, è falso: i Gogodara hanno i soli numerali i e 2, ma arrivano fino a 34 mediante la numerazione sul corpo; gl'indigeni delle Andamane non hanno anch'essi altri numerali che 1 e 2, ma contano sulle dita fino a 10; ed è verosimile che la maggioranza delle tribù le quali non distinguono nel linguaggio altro che 1 e 2 procedesse oltre con numerazione binaria. Naturalmente si arriva presto a un limite oltre il quale non si conta più né a parole né a gesti, ma non già perché non lo si possa fare, bensì perché, data la maniera di vita di quelle tribù, sarebbe inutile. A nessun primitivo verrebbe in mente di eseguire calcoli per puro scopo teoretico; egli ne compie in quanto gli siano assolutamente necessaarî, e in caso di quantità maggiori si accontenta di stime approssimative. Quando gli Abiponi del Paraguay erano di ritorno dalla caccia ai cavalli selvaggi, non contavano i capi catturati, ma ne stimavano il numero dallo spazio da essi occupato. L'Abipone che andava a caccia con un'imponente muta di cani si accorgeva subito se ne mancava uno, non già, naturalmente, per averli contati, ma semplicemente in seguito all'impressione ottica. Soltanto la riunione di grandi masse in occasione di feste o di spedizioni guerresche, la necessità di calcolare con numeri alti nel commercio e nell'industria pastorizia, l'introduzione della moneta e delle imposte e la scienza del calendario hanno esteso la numerazione al disopra di 100, il qual numero per la maggior parte dei primitivi rappresenta in pratica il limite estremo. Nell'Africa occidentale, dove sviluppo il commercio e la moneta, si usano numeri anche maggiori; alcune tribù indiane dell'America Settentrionale contavano, a quanto si dice, fino a 1000, ma in molti casi l'etimologia del vocabolo usato con tale significato mostra trattarsi soltanto d'una stima approssimativa al disopra di 100 ( grande cento"). Che il linguaggio amministrativo degli Inca, il quecha, conosca un'espressione per 106 non deve fare meraviglia: anche gli Aztechi e i Maya usavano numeri particolarmente elevati: i primi avevano vocaboli per 202 (tceirtli) e 203 (xiffltipilli), i secondi per 202 (baq), 203 (pik), 204 (kalab), 205 (qintsil), 206 (alaw). Moltn spesso, del resto, appunto nel caso di numerali tanto eleiati si può riconoscere chiaramente che essi non erano propriamente sentiti che come una specie di "quantità innumerevole": quando, p. es., l'antica scrittura geroglifica tappresenta il numero 100.000 con l'immagine d'un girino, ciò significa evidentemente che quel numero era sentito come "tanto immensamente alto, quanto i girini in una palude".

Per rendere più facile il calcolo con quantità elevate, alcune quantità determinate degli oggetti da numerarsi vengono aggruppate in nuove unità. Così i Canachi della costa NE. della Nuova Britannia usano vocaboli particolari per ciascun gruppo di 4 uova, maiali, cani, di 6 conchiglie-moneta, di 8 liste di bambù per la confezione dei canestri da pesci. Siffatte quantità o misure tipo, destinate a rendere più spedito il calcolo, si trovano dovunque è fortemente sviluppato il commercio, p. es., nell'Africa occidentale. Quasi dappertutto il calcolo è aiutato per mezzo di fuscelli, aste a intacchi, corde a nodi, pietruzze, conchiglie e simili. Si calcola, p. es., una quantità elevata ponendo una pietruzza per ciascuna delle quantità tipo contenute in essa e poi contando a loro volta le pietruzze. In rapporto con un tipo di commereio il quale richiede la numerazione di grandi quantità di oggetti differenti sembra stare lo suluppo particolarmente intenso dei cosiddetti "numerativi", ossia di espressioni che ripartiscono gli oggetti da contarsi in determinate categorie. Mentre le nostre lingue non usano in tale funzione se non i vocaboli "pezzo", capo", la lingua dei Maya del Yucatán, p. es., possiede circa 80 di tali "numerativi", che devono essere sempre usati unitamente ai numerali. Così per contare uccelli e altri animali si usa il vocabolo patš, per oggetti circtilari (p. es. focacce di granturco) peh, per fasci di frutta, collane e simili tš'ni, per carichi kutš, per piante e alberi pénuk, per esseri umani tul. per schegge di legno hah, ecc. Questi numerativi, riccamente sriluppati presso popoli a intensa attività commerciale, si trovano anche presso tribù molto più primitive e con sviluppo più limitato, e sembrano risalire al fatto che non si riusciva a distingue. e esattamente il concetto astratto del numero dalla specie determinata degli oggetti adoperati; in altro parole, la "ottoità" di 8 uomini non era sentita come la stessa che la "ottoità" di 8 oggetti rotondi.

È attestato per alcune tribù, p. es. i Wa-Sania dell'Africa orientale che alcuni gruppi si ribellavano a essere contati, credendo che ciò avrebbe prodotto la morte a breve scadenza d'un intlividuo del gruppo contato. Presso la maggior parte delle tribù si trovano numeri cosiddetti "sacri", che ritornano costantemente nel culto e nel mito; tali numeri non derivano dalla base del sistema di numerazione usato presso un determinato popolo, bensì piuttosto dalle sue idee intorno all'origine e alla costituzione del mondo; così, p. es., il numero 4, il quale presso una gran parte degl'Indiani dell'America Settentrionale appare come numero sacro, in connessione con una veduta cosmica nella quale i punti cartlinali o i 4 venti, hanno una parte fondamentale. Molti Indiani della costa del Pacifico nell'America Settentrionale hanno come numero sacro il 5; i Cherokee hanno come tale il 7, alcimi indigeni della Melanesia l'8.

Oltre ai numerali cardinali, quasi tutte le tribù possiedono ordinali, distributivi, moltiplicativi. Le frazioni non sono svluppate negli stadî più primitivi, e di rado oltrepassano il 1/2

Si dice "sistema di numerazione" e la presenxa d'un numero fond: imentale ("base"), per mezzo del quale si formano gli altri numerali. Se la base è due, si parla di "sistema binario", e in esso 3 si esprime con 2 + 1, 4 con 2 + 2, 5 con 2 + 2 + 1, ecc. Un tale sistema, che risale al computo delle due mani e dei due piedi, si trova presso la maggior parte degli Australiani, presso i Tasmaniani, una parte dei Papua, i Ges-Tapuya del Brasile, i Boscimani dell'Africa meridionale. È da notarsi che tah. oltii si riscontra una formazione binaria di alcuni numeri anche accanto ad altri sistemi di numerazione; p. es. i Miskito del Nicaragua e del Honduras, i quali hanno un sistema vigesimale, formano il 4 raddoppiando il 2. Nello stesso territorio in cui domina il sistema binario appare sporadicamente anche la numerazione "asistematica", nella quale non esiste nemmeno il numero base 2. Tale è, p. es., il caso degl'indigeni delle Andamane, i quali a partire dal 2 alzano un dito per ciascuna nuova unità, esclamando: "E questo ancora!". I Kaliana dell'America Meridionale possiedono un solo numerale, che adoperano a proposito di qualsiasi numero, indicando poi il carattere specifico di questo per mezzo delle dita delle mani e dei piedi. Dal sistema binario, il quale evidentemente deve assegnarsi alle più antiche tra le civiltà tuttora esistenti, si sono sviluppati qua e là sistemi quaternarî, senarî e duodecimali, il cui sviluppo è stato per altro ovunque ostacolato dal sistema quinario-decimale. Sistemi senarî si riscontrano, p. es., nell'Africa occidentale, dove si hanno qua e là (p. es. tra gli Apho a N. del Benué infeiiore) anche sistemi duodecimali. Il sistema quinario, che risale alle 5 dita d'una mano sola e nel quale tutti quanti i numeri dovrebbero formarsi su questa base (8 sarebbe 5 + 3, per 30 dovrebbe dirsi "6 mani"), si trova allo stato puro soltanto in casi del tutto eccezionali, p. es. tra i Saraweka del Rio Guaporé nel Brasile, mentre in genere è connesso col sistema decimale o col vigesimale. Nel sistema quinario-decimale la base vera e propria è il 10: per 9 non si dice "5 + 4", ma "10 − 1" (così, p. es., nell'Aimará). Secondo W. Schmidt tale sistema è caratteristico della ciciltà matriarcale della zappa: esso si trova, p. es., presso una parte dei Papua e dei Melanesiani, presso inolte tribù Bantu, una parte dei Nilotici, alcuni popoli di lingue austroasiatiche e austronesiane. Al ciclo culturale totemistico-patriarcale W. Schmidt attribuisce il sistema vigesimale, che si fonda sull'unione delle dita delle mani e dei piedi. In tale sistema il vocabolo per 20 ha in genere il significato di "un uomo intero", e come nel sistema decimale puro le potenze di 10 sono designate con numerali speciali, così qui le potenze di 20. Questo sistema predomina nelle cn iltà superiori americane: gli Aztechi, i Maya, i Chibcha-Muysca lo hanno posseduto e sviluppato in maniera così conseguente come non si riscontra altrove nel mondo intero. Esso si trova poi spesso misto con la numerazione quinaria e decimale, p. es. presso varie tribù australiane, papuane e melanesiane, in Asia presso alcune tribù tibeto-cinesi nel NE. dell'India anteriore, nelle Nicobare, presso varî Paleoasiatici (Ainu, Ciukci, Coriaki); così anche presso gli Eschimesi e la maggior parte dei Caucasici; in Europa lo si riscontra tra i Baschi e anche, a quanto pare, nello strato preindoeuropeo dell'Europa. Il sistema decimale puro, fondato sulle dita delle due mani assunte a unità, è quello clelle civiltà superiori dell'Asia e dell'Europa; W. Schmidt lo assegna al ciclo culturale dei pastori nomadi. In esso le potenze del numero base 10 sono segnalate con numerali particolari. Tra i popoli che hanno posseduto tale sistema sono da menzionarsi anzitutto gl'Indoeuropei, i Semiti, i Camiti, i Turchi e gl'Indocinesi. Nell'America Meridionale lo hanno gli Inca del Perù, la cui lingua (il quechua) presenta tutte le caratteristiche del sistema decimale puro: i numeri da 1 a 9 sono formati senz'alcuna suddivisione quinaria, ed esistono vocaboli particolari per 102, 103 e 106.

Bibl.: Levi L. Conant, The Number Concept, its orig. and develop., New York e Londra 1896; W. J. MacGee, Primit. Numbers, in Ann. Report Bur. Ethnol., XIX, Washington 1900; Levy-Brühl, Les fonctions mentales dans les sociétés inf., Parigi 1910; P. W. Schmidt, Die Sprachfamilien u. Sprachkreise der Erde, Heidelberg 1926; M. Schmidl, ahl u. Zählen in Africa, in Mitt. Anthrop. Ges. Wien., XLV, p. 165 segg.; A. Klingenheben, Zu den Zählmeth. in den Berber-Spr., in Zeitschr. f. Eingeborenenspr., XVII, 1926.

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