NUOVI PARADIGMI DELL'IMMAGINARIO

XXI Secolo (2009)

Nuovi paradigmi dell’immaginario

Marina D’Amato

Come si costituiscono e come si organizzano nel loro funzionamento le immagini sociali? Perché la civiltà occidentale, iconoclasta, ha moltiplicato le figure immaginarie? Che ruolo ha l’immaginario nella vita sociale? Le tecnologie sempre più sofisticate e il notevole ruolo della riproduzione e della trasmissione delle immagini dovuto ai media pongono nuovi interro-gativi. I classici della sociologia, Émile Durkheim, Max Weber, Georg Simmel, Karl Marx, avevano tutti riconosciuto l’importanza della questione. Nonostante molte divergenze, i loro contributi consentono di porre le fondamenta di una teoria dell’immaginazione e dell’immaginario di tipo sociologico che può fare riferimento ad alcuni elementi costanti.

Le rappresentazioni dell’immaginario non possono essere tutte ricondotte ad aggregati di origine empirica, legate fra loro dalle leggi dell’associazione: l’immaginario infatti obbedisce a una propria logica e si organizza intorno a strutture che si possono articolare in leggi (Gaston Bachelard, Claude Lévi-Strauss, Gilbert Durand). E sebbene sia connesso a strutture (i corpi) e a sovrastrutture (i significati intellettuali), diviene opera di un’immaginazione trascendente e indipendente in gran parte dai contenuti accidenta-li della percezione empirica. Sia i sogni sia i miti confermano, infatti, un potere figurativo dell’immagi-nazione che travalica i limiti del mondo sensibile (Bachelard, Durand, Novalis).

L’immaginario induce taluni a formulare una nuova etica, una sorta di deontologia delle immagini, perché si pone il problema delle tecnologie dell’immaginario e anche dei suoi effetti. Nella società delle immagini emergono almeno due ordini di problemi: quelli del troppo e del troppo poco rispetto all’immaginario.

Da una fase storicamente definita come iconoclasta a tutto vantaggio di una cultura razionale e scientista si è passati a una diffusa cultura frenetica, ipertrofica della società delle immagini in cui l’individuo finisce per soccombere non essendo messo nella condizione critica di una scelta. Lo sviluppo tecnologico in evoluzione continua impedirebbe, con la sua velocità e pervasività, all’individuo di interiorizzare ed elaborare una propria simbologia. Il malessere contemporaneo nei confronti dell’immaginario è costituito pertanto sia dalla proliferazione di segni e immagini sia dal consumo che se ne fa e che mette in crisi la creatività.

L’immaginario

Ci si può chiedere se l’immaginario possa essere sociologicamente definito un ambito senza confini. E anche se possa essere identificato in un campo così polimorfo da sfuggire a ogni categoria. La prima questione che l’immaginario pone alla sociologia è proprio quella della sua natura e del suo ambito: in una parola della sua definizione.

Se l’immaginario è il prodotto diretto delle tensioni e delle relazioni che l’uomo ha con il suo am-biente, sia fisico sia mentale, allora esso è anche la realtà trasformata nella sua rappresentazione, una storia che si è accumulata e che continua ad agire in noi al di là di ogni concretezza. I suoi contenuti sono soprattutto astratti; tuttavia i simboli, le immagini, le idee hanno un impatto concreto e quasi sempre affettivo. L’immaginario è il substrato della vita mentale, la dimensione costitutiva dell’umanità. La potenza del sogno, la forza del simbolo e pure la matrice dell’immagine costituiscono una specie di fantastico trascendentale di cui l’individuo non può fare a meno.

Immaginario è un termine che rinvia, in quanto sostantivo, a un insieme piuttosto vago di elementi: ricordi, sogni, fantasmi, credenze, miti, romanzi, finzione che sono determinanti dell’immaginario di un individuo, ma anche di un’intera comunità che si esprime attraverso l’insieme dei suoi manufatti e delle sue credenze. Sono componenti strutturalmente connesse all’immaginario le concezioni prescientifiche, la fantascienza, i credo religiosi, le produzioni artistiche che ‘inventano altre realtà’, gli stereotipi, i pregiudizi sociali. Il termine è piuttosto recente e il suo crescente successo nel 20° sec. può essere attribuito alla disaffezione nei confronti della parola immaginazione, intesa sempre più come facoltà psichica capace di assimilare e utilizzare le immagini, e al declino di una certa psicologia filosofica. Così verso la metà del 20° sec., e sotto la spinta delle scienze umane, lo studio delle produzioni immaginate, delle loro proprietà e dei loro effetti, e cioè l’immaginario, ha progressivamente sopraffatto l’antica questione dell’immaginazione. In altri termini, il mondo delle immagini ha travalicato la loro appartenenza psicologica.

L’immaginario è molto difficile da definire perché invade e pervade altri significati di cui è commisto e con cui interagisce. Tuttavia può essere caratterizzato anche in relazione ai suoi contrari: il reale e il simbolico. L’irreale si oppone sempre al reale, anche se è impossibile accertare se un contenuto immaginario non abbia un fondamento di realtà nello spazio o nel tempo. Per quanto riguarda il termine simbolico, questo sembra opporsi all’immaginario soltanto nell’ambito di alcuni usi logici o psicoanalitici.

In questa analisi, l’immaginario è un insieme di rappresentazioni mentali, a base di immagini visive (per es., cartoni animati, serial, sit-com, telefilm, videogiochi, siti Internet ecc.) e sistemi linguistici (per es., metafore, simboli, racconti, storie ecc.) intese come insiemi coerenti e dinamici.

Sul terreno sociale l’immaginario può essere ricondotto a tre grandi ambiti: la dimensione mitica dell’esistenza, quella che si riferisce ai miti dominanti di una data epoca, di una data cultura, di una nazione, di una generazione, di una classe sociale; la dimensione fantastica di un’altra società-mondo che si rintraccia nelle utopie, nei millenarismi, nelle ideologie e nelle credenze; la dimensione di un immaginario quotidiano, così come lo si rinviene negli oggetti domestici, negli svaghi, nei giochi.

Identità e funzioni

La tradizione occidentale, fin dalle sue origini, ha tenuto in scarsa considerazione l’immagine. Infatti, il pensiero filosofico, quello pedagogico e quello scientifico sono sempre stati antagonisti dell’immaginazione. In tempi più recenti l’immaginario ha trovato una sua identità: nella psicoanalisi di Sigmund Freud, nella sociologia della religione di Mircea Éliade, nella scuola junghiana di psicologia o nel pensiero neokantiano di Ernst Cassirer o Martin Heidegger o nella fenomenologia di Edmund Husserl o ancora nell’ermeneutica o nelle scienze cognitive che tengono in gran conto le rappresentazioni visive, i processi di immaginazione e le metafore.

L’immaginario ha un proprio contenuto e proprie strutture, ma deriva soprattutto da un’intenzione, da una percezione della coscienza. È per questo che tutto può diventare immaginario, anche ciò che è considerato reale, ed è per tale vaghezza che la categoria di analisi è difficile da cogliere. È posto come immaginario tutto ciò che opera sul possibile, ciò che è dotato di una dinamica creatrice interna (funzione poetica), di una pregnanza simbolica (profondità di secondi significati) e di una capacità di coinvolgimento del soggetto. Sostiene Gilles Deleuze (1925-1995) che l’immagine pubblicitaria, cinematografica, televisiva, stampata, ci propone di «sentire con il tatto e con lo sguardo, di usare l’udito con l’occhio» (Peindre le cri, «Critique», 1981, 408, pp. 506-11) anche se, evidentemente, queste promesse dell’immagine non sono parte della sua realtà simbolica, poiché in effetti l’immagine è solo un frammento dell’esperienza del mondo e della sua simbolizzazione. Secondo i semiologi la comunicazione per immagini costituisce una modalità di pensiero partecipativo ed emotivo piuttosto che simbolico. Siamo immersi nelle immagini e quelle virtuali, in tale ottica, costituirebbero la realizzazione tecnologica di un’illusione presente nel rapporto con ogni figura. Le inserzioni pubblicitarie e i cartoni animati sono un buon esempio di questo coinvolgimento ‘per immersione’.

L’immaginario della trasformazione esiste in ogni immagine e, in particolare, in tutte quelle figure attraverso le quali si rappresenta la fantasia per coinvolgerla emotivamente. Bachelard osserva infatti che «se un’immagine non determina una prodigalità di immagini aberranti, una esplosione di immagini, non c’è immaginazione» (L’air et les songes: essai su l’imagination du mouvement, 1943; trad. it. Psicanalisi dell’aria. Sognare di volare: l’ascesa e la caduta, 1988, p. 93). La capacità di trasformare le immagini è insita nel processo stesso della loro costituzione. All’immaginazione si attribuiscono quindi più funzioni: antropofisiologica, che corrisponde al bisogno di sognare; regolatrice nei confronti dell’ignoto (per es., la morte), attraverso miti e riti, un sogno o la scienza stessa; di creatività sociale e individuale in quanto rappresenta i meccanismi della ragione e offre un’apertura epistemologica; e infine di comunione sociale, favorendo la nascita di tipi ideali, di sistemi di rappresentazione e della memoria collettiva.

Il gioco

Come sostiene Edgar Morin (Culture et barbarie européennes, 2005; trad. it. 2006), l’umanizzazione è inseparabile da un adattamento intelligente al reale attraverso la lingua e la tecnica, ma è caratterizzata anche dal bisogno di sfuggire al dato con il ricordo, il sogno, la sbornia, l’arte, ciò che rende di fatto Homo demens complemento di Homo sapiens. Gli uomini inventano, sviluppano e legittimano le proprie credenze in immaginari nella misura in cui la relazione con il mondo fantastico ubbidisce a bisogni, soddisfazioni, effetti a lungo e breve termine inseparabili dalla natura umana.

L’immaginario si nutre anche di attività gratuite, disinteressate, come il gioco, il divertimento o le arti tanto per individuare gli esempi più universali. Tutti gli individui con il gioco, presente in ogni cultura, soddisfano un bisogno essenziale di riposo, di spettacolo, di attività funzionali soltanto al proprio godimento. Il bambino scopre per tappe successive il rapporto con il suo Io e il suo mondo attraverso il gioco sensoriale, motorio e mimetico. Giocare è ‘fare come se’, cioè ripetere un’azione non reale con supporti che la legano alla realtà assente; è una tappa essenziale da cui prende forma l’immaginario infantile. I giocattoli sono stati nel tempo artefatti realistici che sostenevano in qualche modo l’immaginario, mentre oggi la nuova dimensione del giocattolo tende a rappresentare un personaggio televisivo o un sistema di oggetti che lo accompagnano L’immaginario ludico assume una funzione transazionale, rassicura e in qualche modo diventa un ammortizzatore tra il mondo interno ed esterno. I giochi si estendono al mondo degli adulti, penetrano la loro cultura come un divertimento poiché giocare corrisponde, sia per l’adulto sia per il bambino, allo stesso bisogno di riposo, di svago, di ricerca del piacere. L’onnipresenza dell’aspetto ludico nella cultura è stata ben dimostrata. Tale dimensione diventa sempre più appannaggio degli schermi (televisivi e cinematografici, computer e playstation) che costituiscono gli strumenti e le forme principali dell’immaginario quotidiano.

Interrompendo le proprie attività sociali, o casalinghe o di lavoro, per porsi davanti alla televisione, lo spettatore partecipa senza spostarsi al mondo di Homo ludens descritto da Johan Huizinga (1938; trad. it. 1946). Il gioco diventa frivolo, superfluo, gratuito, occasione continua per evadere dalla vita quotidiana, garantendo allo stesso tempo una specie di illusione, magica fonte di piacere.

L’arte

Nella polimorfia dell’arte è possibile rintracciare una costante: l’umanità ha da sempre manifestato una tendenza a privilegiare atteggiamenti destinati a ottenere una gioia allo stato puro dalle immagini artistiche. L’arte attesta negli uomini un bisogno universale di costruire immagini e dare corpo e forza a un immaginario visivo e testuale.

L’uomo si differenzia dagli altri animali in quanto incline alla rappresentazione e vi fa ricorso fin dalle prime fasi della vita, scoprendone il piacere. La rappresentazione artistica si assimila così al gioco, di cui il teatro, per la sua messa in scena, è uno degli ambiti di elezione. Secondo Aristotele gli uomini hanno bisogno di recitare la loro parte, per trarne ritualmente emozioni di piacere o tristezza utili a sedare le emozioni vere giocate sulla scena sociale, fino all’interazionismo simbolico e all’etnometodologia. Homo aesteticus, creando a beneficio del proprio piacere un’altra immagine del mondo, un altro modo di rappresentare le cose, modifica sia il proprio mondo interiore sia quello esterno: crea immagini oggettivate delle sue esperienze sensoriali, affettive, fantastiche come se il suo vissuto interiore, nascosto, non potesse essere sufficiente a provare tutta la loro intensità e la loro ricchezza.

L’immaginario delle opere artistiche appare il luo-go di realizzazione e di espansione della propria soggettività. Recentemente la sociologia si è impegnata in questo ambito, ponendo la questione artistica come elemento di sintesi di una data epoca che racchiude in sé gli elementi più evidenti della civiltà di cui è espressione.

Il mito

L’intelligenza osservatrice e speculativa è soggetta a limiti che inducono a un’investigazione delle cose, ma che obbligano anche a individuare percorsi sostitutivi: l’immaginario può diventare così una soluzione che consente di pensare anche laddove la conoscenza fallisce.

La ricerca della verità sull’origine del mondo, sull’anima, sulla morte, ha favorito le leggende tramandate dalla tradizione che, sebbene non veritiere, ci offrono comunque in maniera indiretta, analogica, una parte di verità. Il mito inventa in modo simbolico una comprensione delle cose, trova un ordine e un senso anche nella spiegazione di ciò che è impossibile. I racconti mitici risalgono generalmente lungo filiere genealogiche fino a un’origine e tessono relazioni tra gli individui o tra gli eventi lontani nello spazio e nel tempo. Il pensiero mitico si fonda su una comprensione pregressa del mondo valutato su diversi piani. Innanzitutto il mondo naturale è concepito attraverso manifestazioni fenomeniche che acquisiscono significato solo se personificate e che sono quindi identificate attraverso nomi propri: nella mitologia greca, per es., l’arcobaleno era identificato con la dea Iris.

È in questo senso che i nomi propri, in quanto manifestazioni di esseri sensibili, assumono la funzione di concetti generali. Inoltre, i personaggi o i fenomeni svelano le loro capacità nell’immaginario mitico soltanto in relazione al loro ambiente che gli attribuisce una funzione e li dota di senso. La produzione di racconti mitici costituisce così un buon approccio nella ricerca di una verità oggettiva.

Gli approcci al fantastico

La narratologia

Secondo la più antica concezione delle storie, tutti i racconti si somigliano. La ‘narratologia’ cerca una grammatica universale e si deve a Vladimir Ja. Propp (1895-1970) e alla sua Morfologija skazki (1928; trad. it. Morfologia della fiaba, 1966), l’analisi strutturale. Secondo Propp, nonostante la grande varietà di personaggi e la pluridimensionalità delle loro vicende, tutti i racconti sarebbero costruiti su uno stesso canovaccio. Sulla base di un’analisi delle fiabe popolari russe, egli individua 7 tipi di personaggi chiave e 31 funzioni possibili. Ipotizza che esistano in ogni racconto fasi conseguenti e immutabili: una disgrazia iniziale che implica l’azione di un eroe il quale lottando, mediante l’intelligenza o con l’aiuto di qualcosa di magico, attraverso una serie di prove, raggiunge il successo finale. Questa trama consequenziale del racconto è stata il punto di partenza per una ricerca di grammatica universale della fiaba che è ancora in atto. A. Julien Greimas (1917-1992) esponente di spicco della scuola semiotica parigina, rimaneggia le teorie di Propp. Lo schema dell’azione viene avvalorato con l’analisi dei ruoli svolti dai protagonisti in situazioni che prevedono una fase iniziale e una finale che inverte la prima (per es., infelicità verso felicità).

Negli anni Sessanta del Novecento il movimento strutturalista tese a produrre una sorta di grammatica universale delle fiabe per svelare i temi narrativi di romanzi, cartoni animati, fumetti, serial televisivi. Ma l’analisi strutturale mostrò ben presto i suoi limiti per il suo elevato livello di astrazione. Si deve a Gérard Genette (n. 1930) l’accento sulla complessità delle forme narrative difficilmente riconducibile a uno schema unico (Figures 3, 1972; trad. it. 1976). Al momento attuale la ‘narratologia’ sostituisce al racconto le strategie comunicative. Si esamina sempre più spesso l’intenzione dell’autore, il ruolo del contesto sociale, delle descrizioni e le interpretazioni possibili (U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, 1979).

L’etnologia

All’inizio del 20° sec. Antti Aarne (1867-1925) e Stith Thompson (1885-1976) tentarono di individuare le variazioni esistenti di una fiaba: questo lavoro di raccolta e classificazione determinò ovunque in Europa la costituzione di grandi cataloghi di fiabe.

Gli studiosi del folklore sembravano più preoccupati a raccogliere piuttosto che a teorizzare, sebbene l’opera sui miti di Hyacinthe Husson (La chaîne traditionelle, contes et légendes au point de vue mythique, 1874) ipotizzasse che le fiabe avessero all’origine grandi mitologie preistoriche. Theodor Benfey (Pantschatantra, 1859) suggeriva addirittura un’origine indoeuropea delle fiabe europee. Arnold van Gennep (La formation des légendes, 1910; trad. it. 1991) riconduceva la presenza degli animali nelle fiabe ai riti totemici. L’etnologia classica ipotizzava che le fiabe esprimessero quindi delle tradizioni antiche e che fossero l’espressione di una cultura pregressa. Per l’etnologia contemporanea le pseudotradizioni millenarie sarebbero la prova di una permanente necessità di reinventare. Si tratterebbe quindi di porre le trasformazioni delle fiabe dietro l’apparenza dell’eternità. Mentre gli etnologi che si occupano di folklore si interessano soprattutto dei contenuti, per i contemporanei la fiaba si inserisce in un processo permanente di creazione collettiva che tiene conto del narratore, del fruitore e delle condizioni di ascolto. In questo modo l’approccio è analogo a quello degli studi della comunicazione: chi dice, che cosa, a chi, in quali termini e con quali effetti. In quest’ottica ci si rifiuta di attribuire alla storia un’unica funzione, sia essa ludica, iniziatica, pedagogica, psicologica.

La psicologia

La psicoanalisi delle fiabe è universalmente associata al nome di Bruno Bettelheim (1903-1990), ma prima di lui Freud e Carl Gustav Jung hanno proposto studi sulla fiaba. Nell’approccio psicoanalitico la fiaba esprime conflitti psichici della prima infanzia: le paure, le pulsioni, i fantasmi di morte o di castrazione rivelerebbero conflitti edipici o fraterni. Le fiabe sottopongono all’attenzione del bambino le prove di difficoltà necessarie per diventare adulto. Per questo nella trasposizione del racconto il bambino deve liberarsi dalla presenza dei genitori, di solito espressa negativamente attraverso orchi, streghe o mostri per raggiungere l’autonomia. È in questo senso che la fiaba ha una funzione iniziatica ed esistenziale che lo aiuta a costruirsi la propria personalità.

Gli approcci cognitivi alla fiaba, apparsi a partire dagli anni Novanta, prendono in considerazione le strategie mentali sollecitate dal racconto. Il ricordo delle fiabe presuppone la mobilizzazione di schemi mentali semplici. È stato ipotizzato che il gusto per le fiabe sia la manifestazione di una predisposizione tipica degli individui a creare eventi fantastici, a inventare mentalmente mondi possibili: l’uomo sarebbe per sua stessa natura Homo fabulator.

Valori e rappresentazioni sociali

L’immaginario è stato sempre trattato in modo ambivalente, sia come origine di male sia come strumento di crescita e benessere dell’individuo: da un lato è lo specchio delle nostre emozioni, della nostra costituzione neurobiologica, dall’altro suscita in noi piacere o dispiacere. Rimane comunque un dato empiricamente verificabile che la forza delle immagini può trasformare sentimenti in passioni fino ad annullare lo spirito critico del soggetto (quando, per es., l’immaginario suscita un fascino incomprimibile di forme di idolatria che trascinano in un delirio politico e religioso).

Le immagini che riproducono le sensazioni sono sempre accompagnate da qualche elemento di conoscenza: certo non potremmo mai credere vera l’immagine di un animale con la testa di un uomo, pur tuttavia siamo in grado di pensarla. Non sappiamo quindi se siamo deboli di fronte all’immaginario che ci fa paura oppure siamo deboli perché gli attribuiamo una realtà: ciò dipende dalle rappresentazioni sociali che concepiamo.

Le rappresentazioni sociali sono l’interfaccia dell’individuale con il sociale, del razionale con il pulsionale, della coscienza con l’inconscio e sono sia i costrutti mentali sia i contenuti dei pensieri. Hanno sempre un soggetto e un oggetto; sono sempre rappresentazioni di qualcosa per qualcuno. Esse derivano da ambiti diversi: da immagini, da ricordi personali o reminescenze collettive (miti, leggende, fiabe, racconti), dalla conoscenza popolare (proverbi, superstizioni, credenze), da pregiudizi e da stereotipi. Nascono a un certo momento e in una data società, nell’ambito di un contesto politico, sociale, storicamente determinato. Le rappresentazioni sociali traggono la loro origine da diversi contesti ed esistono per funzioni diverse: a livello individuale come immagini di vissuti, di fantasmi; a livello collettivo, che è quello più specifico della sociologia, come pregiudizi, racconti, miti, oppure sulla scena sociale come manifestazione di azioni socialmente rappresentate. Esse si inscrivono in una dinamica sociale che risponde a una logica circolare a doppia entrata, perché sintetizzano l’essenziale della scena sociale che contribuiscono a modellare e partecipano alla definizione di figure che in essa svolgono ruoli, delineando i personaggi e i loro atteggiamenti. Di fatto sono al centro del pensiero sociale di cui regolano i processi cognitivi così come i prodotti della conoscenza. È attraverso le rappresentazioni che è possibile cogliere la modalità di comprensione del mondo e il ruolo in esso svolto dagli individui.

Pare importante sottolineare come dopo Durkheim (1858-1917) e la sua scuola si possano spiegare i fenomeni a partire dalle loro rappresentazioni e le azioni da queste prodotte, ma evidentemente tutto non può essere rappresentato perché impossibile, perché spesso è vietato, perché esiste anche un mondo non rappresentabile. Il concetto di rappresentazione è proprio della psicologia, ma soprattutto dell’antropologia culturale e più recentemente della sociologia. Le rappresentazioni mentali appaiono come entità di natura cognitiva che riflettono nel sistema mentale di un singolo individuo tutto l’universo sociale a lui esterno. Si tratta della riproduzione di un’immagine che il soggetto elabora, utilizzando facoltà cognitive che derivano da una memoria collettiva oltre che dal suo personale substrato neurologico. Le più recenti analisi delle neuroscienze mettono in evidenza il ruolo delle rappresentazioni mentali come basilare nella predisposizione del pensiero.

Gli psicoanalisti, dal canto loro, sottolineano come la nozione di rappresentazione sia il prodotto di un’attività psichica diurna comparabile a quella di un sogno. Ma anche tra i sociologi si diffonde il convincimento che l’universo delle credenze, alle quali l’uomo aderisce, sia immerso nell’irrazionale. Il bisogno di credere annulla spesso le giustificazioni scientifiche e le dimostrazioni razionali dei fenomeni. Ciò che sembra interessante da un punto di vista sociologico è quell’insieme di meccanismi psichici che costituisce il supporto delle rappresentazioni mentali su cui si basano credenze e superstizioni diffuse ovunque.

Quella dell’immaginario è una sociologia di ‘profondità’ perché tenta di cogliere le motivazioni profonde, le dinamiche che soggiacciono e animano le società umane. Una sociologia dell’immaginario investe la vita dei gruppi, la vita quotidiana, la politica, la dimensione economica, le attività lavorative, gli atteggiamenti e le credenze religiose, gli ambiti scientifici, letterari, mediatici e si accompagna alle trasformazioni sociali. Una sociologia senza l’immaginario non potrebbe esistere anche se non esiste ancora una vera e propria tradizione di sociologia dell’immaginario.

Alle definizioni negative offerte dalla filosofia occidentale, secondo cui l’immaginario è ciò che non esiste, è il falso e l’irrazionale, la corrente antropologica di Éliade, Bachelard e soprattutto di Durand, oppone una definizione positiva. Secondo tale definizione, l’immaginario è il prodotto del pensiero mitico, un pensiero concreto che funziona per analogie e si esprime con immagini simboliche organizzate in modo dinamico, determinando la percezione dello spazio e del tempo attraverso costruzioni materiali e istituzionali, mitologie e ideologie, saperi e comportamenti collettivi. Ponendo al centro di interesse le rappresentazioni sociali, i loro meccanismi e la loro efficacia, la sociologia dell’immaginario attinge alla psicologia sociale, all’antropologia culturale e si contamina con la sociologia della conoscenza, sebbene i presupposti siano diversi: i primi riferiti ai ragionamenti e alla razionalizzazione delle credenze, i secondi al loro radicamento negli archetipi.

L’importanza dell’immaginario nella società della globalizzazione in cui viviamo è dovuta all’onnipresenza della televisione, di Internet, del telefono e alla loro capacità di produrre esperienze che travalicano il limite oggettivo tra gli eventi e i loro ‘racconti’. La società dell’informazione pone nuovi interrogativi alle questioni economiche, politiche, sociali e culturali proprio perché gli accadimenti diventano fatti sociali in funzione dell’eco che producono: sembra svanita la possibilità di analizzare il sociale senza il suo doppio. La mondializzazione dovuta ai flussi migratori, al turismo, all’internazionalizzazione dei problemi ambientali, delle questioni del mercato, alla transfrontalierità delle comunicazioni produce trasformazioni continue nel tessuto sociale, induce nuovi atteggiamenti etici e politici, apre questioni nuove.

La mondializzazione dell’immaginario

Un fenomeno contemporaneo, poco indagato e di straordinaria portata, è quello che concerne la mondializzazione dell’immaginario.

Dagli anni Settanta del secolo scorso il mondo fantastico dei bambini e dei ragazzi è popolato dagli stessi eroi. Per la prima volta infatti nella storia dell’umanità, in ogni zona del pianeta dove arriva la televisione, esistono gli stessi personaggi che la popolano. E dove esiste un computer i giovani di ogni zona del pianeta possono partecipare a giochi che li mettono in contatto gli uni con gli altri indipendentemente dalla loro presenza fisica, offrendo l’opportunità di immedesimarsi e di combattere gli stessi protagonisti delle storie che frequentano.

Le ricerche più recenti condotte nei Paesi arabi, oltre che nei Paesi occidentali e orientali, dimostrano che la telefantasia omologa gli schermi davanti ai quali sono seduti bambini e ragazzi di culture, etnie, razze, religioni e ideologie diverse. Nessuno sarà mai in grado di sapere quanto e come le condotte di questi eroi potranno influire sugli atteggiamenti dei loro utenti perché, si sa, non è possibile affermare una correlazione diretta, scientificamente attendibile, tra la fruizione dei video e il comportamento, ma è indubbio che dagli schermi trapeli un modo di pensare il mondo. I nuovi paradigmi dell’immaginario collettivo sono alcuni degli elementi fondanti il processo di globalizzazione di cui siamo protagonisti.

L’universo infinito dei miti, degli eroi delle storie televisive, dei videogiochi, dei fumetti, e quello degli oggetti (gadget) che li accompagnano, è costituito da un flusso di immagini, suoni e cose che da più di un trentennio pervade l’umanità ed è in continua crescita esponenziale. Una fantasia composita fatta di storie, di cartoni animati, di telefilm, di situ-ation comedy, di giochi, di giocattoli, popolata dagli stessi eroi. L’ipotesi è che la nuova fantasia contribuisca alla definizione di una nuova cultura. Così come la religiosità ‘fluida’ e il pensiero debole che ci pervade. Il nuovo millennio sembra posticipare il successo della New Age, questa strana miscela che unisce il Feng Shui (vento e acqua) dell’antica geomanzia cinese con gli angeli cristiani, con le profezie di Celestino, e anche la morfopsicologia con l’armonia cosmica, la meditazione trascendentale con la cristalloterapia magica, San Francesco con il buddhismo Zen, il messaggio con il massaggio ayurvedico e shiatsu in un tripudio di idee e di prodotti capaci di mediare contemporaneamente la dimensione psicofisica, mistica, ecologica, tutta presente nei comportamenti e nei valori dei nuovi protagonisti dell’immaginario collettivo.

Ogni società per esistere deve proiettarsi verso il proprio futuro; finora, tutte le comunità umane hanno cercato nel loro passato i prodromi della cultura su cui fondare le basi sociali della personalità delle nuove generazioni. I miti e gli eroi sono sempre stati utili per proporre, con i modelli che implicano, modalità di comportamento e proiezioni sociali accettabili e condivisibili, capaci di unire i membri della comunità fra loro e verso uno scopo.

La crisi e, al contempo, la dimensione più evidente della nostra postmodernità stanno proprio, dopo la caduta delle grandi ideologie e la fine di ogni certezza, nella ricerca di un senso comune diverso e nuovo. Ovunque è possibile osservare i sintomi del mutamento in corso: l’affermazione di un individualismo sempre più marcato che dal narcisismo si è evoluto in edonismo e che oggi è sempre più cinico; la trasversalità del potere che si impone attraverso strategie di cui le ideologie costituiscono più alibi che fini. Emergono tendenze di nuove ‘credenze’, come un insieme di idee che derivano da reinterpretazioni di religioni occidentali e orientali antiche e contemporanee. Non esistendo più verità assolute, ognuno può creare un proprio mondo rivendicando il diritto all’eclettismo. Un sincretismo senza confini e un relativismo volontaristico sembrano i tratti più caratteristici di questo fenomeno culturale che concilia le tradizioni arcaiche con le nuove frontiere del possibile, ipotizzandone la realizzazione, da un lato, con le nuove tecnologie, dall’altro, rivalutando superstizioni e riti tribali.

Permangono tuttavia due strategie di comprensione del reale: da una parte, l’uomo moderno, quello legato alla cultura delle grandi ideologie, della fede, che risponde all’alterazione degli ordini conoscitivi riproponendo un concetto di separatezza tra la realtà e il suo doppio; dall’altra parte, l’uomo postmoderno che abita la società della comunicazione, sentendosene parte, consapevole della progressiva egemonia che la rappresentazione si conquista sul fatto oggettivo. Supera il dualismo soggetto-oggetto e finisce per ammettere il carattere circolare della conoscenza, rinunciando al rinvenimento di una verità oggettiva.

L’immaginario infantile

L’universo delle fiabe che evoca le storie tradizionali di Charles Perrault, dei fratelli Jacob e Wilhem Grimm e di Hans C. Andersen, si è arricchito di storie moderne: Peter Pan in Kensington gardens (Peter Pan), Alice’s adventures in wonderland (Alice nel paese delle meraviglie), The wonderful wizard of Oz (Il meraviglioso mago di Oz) e più recentemente le storie di John R.R.Tolkien: The lord of the rings (Il signore degli anelli) e The hobbit (L’hobbit) – fino ai contemporanei, con le vicende di Henry Potter scritto da Joanne K. Bowling, assumendo nuovi connotati.

Mentre nelle fiabe si trovavano gli stessi tipi di personaggi distinti in due grandi categorie, i buoni e i cattivi, le novità del fantastico contemporaneo consistono soprattutto nell’evoluzione continua degli eroi che, con magie (Harry Potter), o stratagemmi (Pokémon o Digimon) si trasformano continuamente. Tuttavia, nella loro infinita eterogeneità, le nuove storie seriali per bambini e per ragazzi hanno un nucleo centrale costituito da un elemento essenziale, ciò che i logici chiamano phras di azione. Gli elementi costitutivi dell’azione corrispondono alle questioni che ci poniamo normalmente per identificare e situare un atto, questioni alle quali i giornalisti ricorrono per descrivere un evento a ogni inizio di articolo. Si tratta delle famose cinque W (who, what, when, where, why): chi, che cosa, quando, dove e perché.

L’azione umana non è quindi soltanto definita da circostanze esterne, ma possiede anche un versante interiore: la personalità dell’attore sociale e le ragioni dei suoi atti, elementi che consentono un giudizio morale. Lo schema di azione rappresenta quindi una scena che mette in evidenza un intero mondo sintetizzandolo, nel quale si ritrovano le categorie fondamentali dell’esistenza centrate intorno all’attore sociale: categorie dell’azione, del ruolo, del tempo, dello spazio, della causalità, della motivazione. Il problema diventa quindi quello di definire lo statuto di questo microcosmo e ciò pone la questione delle relazioni tra il reale e il fantastico. Abitualmente si dividono i mondi di tutti i racconti in due sfere chiaramente separate: il mondo reale descritto dalle scienze e i mondi fittizi creati dall’arbitrarietà della fantasia. Invece, la mondializzazione dell’universo fantastico implica molteplici rinvii tra il reale e l’immaginario, fino a confonderli. Appare evidente nella società dell’immagine che il racconto non può identificarsi con una sequenza linguistica, sia essa scritta o orale; tuttavia la rappresentazione dell’azione umana si fonda su competenze cognitive ben più ampie. Il racconto non può quindi essere considerato come il polo opposto alla tecnica e alla scienza, poiché da un punto di vista sociologico esiste una razionalità in ogni storia che governa le relazioni interindividuali e che parafrasa il tema centrale della sociologia, ma anche della scienza politica e dell’economia. Per comprendere il significato di qualunque storia è indispensabile rifarsi alle condizioni in cui nascono e si sviluppano le società umane in esse rappresentate. L’individuo vive in rapporto a due mondi: quello delle cose e quello degli altri individui. Lo sviluppo tecnologico e quello scientifico hanno diffuso la tendenza a privilegiare il rapporto con le cose a scapito dei rapporti con gli altri. Si tratta di una caratteristica della postmodernità che i mezzi di comunicazione di massa hanno amplificato. Questa preferenza attribuita al mondo degli oggetti si manifesta in ogni ambito sociologico, ma anche psicologico se pensiamo che Jean Piaget (1896-1980) sostiene che i rapporti con il mondo sociale accompagnano lo sviluppo dell’intelligenza sensomotoria.

Esiste dunque un’intelligenza rivolta agli oggetti di tipo tecnico-scientifico e una narrativa rivolta verso gli altri. Le caratteristiche di quest’ultima mirano a cogliere gli stati d’animo e le intenzioni degli individui, che hanno a che fare con ciò che non appare né dai gesti, né dalle espressioni mimiche, ma con qualcosa di subliminale ed essenziale: l’immaginario.

Dalla parola all’immagine

La televisione può essere ancora intesa, in riferimento all’infanzia, con la logica che è stata introdotta da Marshall McLuhan (1911-1980), un’estensione specializzata delle funzioni psichiche e mentali? Tutti i media fanno appello all’uno o all’altro dei sensi per potere operare. La vista favorisce l’esperienza intellettuale e l’analisi, mentre l’orecchio e il tatto sono più legati alla percezione emotiva e all’intuizione. Per questo motivo la condizione predominante della relazione dei sensi in seno a ogni cultura assume un’influenza determinante sul tono e sull’orientamento generale rispetto al pensiero, ai pregiudizi, ai valori, ai miti e ai modelli di comportamento che la definiscono.

Da questo punto di vista, lo studio degli effetti rivela l’impatto psicofisico dei media sul legame dei sensi e il contenuto del messaggio ha molta meno importanza di quanto generalmente si suppone. L’influenza reale dei media non si manifesta infatti solo a livello di concetti o di opinioni, ma molto più profondamente nelle strutture generative dei processi di formazione e ricezione dei concetti e delle opinioni. Conformemente a questa ipotesi, di conseguenza, la caratteristica più importante di un medium è la modalità del suo impatto sensoriale.

La capacità dell’uomo di esprimere graficamente e visivamente il pensiero ha profondamente modificato il modo di pensare il mondo. La stampa ha accelerato questo processo; essa infatti ha privilegiato la lettura all’ascolto. Tuttavia nella nostra epoca la diffusione e lo sviluppo del telefono, della radio, della televisione, del cinema, del computer e della telematica hanno modificato sostanzialmente le categorie di spazio e di tempo, riaffermando la supremazia dell’immagine sulla parola, della vista sull’udito. La televisione in questo senso ha un ruolo egemone.

I nuovi eroi

Gli eroi erano per i Greci uomini che per le loro grandi capacità frequentavano anche il mondo degli dei: Ercole, Giasone, Orfeo. Spesso erano semidei, figli cioè di una divinità e di un mortale: è questo il caso di Teseo, ma anche di Achille ed Enea. Erano venerati per avere fondato una città o come progenitori di un popolo, come autori di gesta gloriose, comunque sempre capaci di entrare nella leggenda perché sintesi di virtù e di valori di tutta la comunità. Ciò che appare, osservando i nuovi paradigmi dell’immaginario collettivo, è soprattutto un nuovo ‘eroismo’ che sembra confermare in questo inizio di secolo la profezia di Herbert Marcuse (1898-1979): «L’appiattirsi dell’antagonismo tra cultura e realtà sociale, tramite la distruzione dei nuclei di opposizione di trascendenza, di estraneità, contenuti nell’alta cultura, in virtù dei quali essa costituiva un’altra dimensione della realtà» (One dimensional man, 1964; trad. it. L’uomo a una dimensione: l’ideologia della società industriale, 1967, p. 46). È evidente infatti la trasformazione della cultura mediante l’inserimento dei valori nell’ordine stabilito: come strumenti di coesione sociale. Nella letteratura solitamente la dimensione eroica è stata rappresentata da personaggi sovversivi, quali l’artista, l’adultera, il criminale, il guerriero, il poeta ribelle, l’idiota: personaggi non scomparsi ma trasformati dai serial, dai cartoni animati, dai videogiochi perché non sono più rappresentativi di un altro modo di vita, ma sono piuttosto ibridi, utili ad affermare l’ordine costituito. Il nuovo mondo fantastico è popolato da ragazzi, uomini e donne, bambini, legati agli stilemi della tradizione: i maschi sono il triplo delle femmine, prevalentemente statunitensi, appartengono alla classe media, dominatori, gestiscono un potere che non si discute né che è stato loro conferito. I teleroi sono leader carismatici della quotidianità. Il loro ruolo prevalente è quello di difendere attaccando, la loro strategia esistenziale è sempre imperniata sull’amicizia e sull’intraprendenza e continuamente uguali a sé stessi infondono sicurezza per la loro prevedibilità più che per il coraggio dimostrato nelle loro imprese. Il successo è garantito perché a ogni sussulto di paura corrisponde l’assunto che tutto resta invariato, perciò sono funzionali a tutti i sistemi. I nuovi eroi non agiscono in funzione di un’unica morale perché rispondono almeno a tre macroaree etiche: all’etica protestante e allo spirito del capitalismo così ben descritto da Weber, ma anche alla morale narcisista che presiede le azioni e i comportamenti degli ultimi anni del secolo con una evoluzione recente al cinismo.

I personaggi dei cartoni animati giapponesi, siano essi fantastico-fiabeschi, fantascientifici, sportivi, storici, sentimentali, hanno un elemento che li accomuna tutti: la religiosità scintoista. Sebbene naturalmente diversi per le trame dei racconti, tutti i personaggi di queste storie sono alla ricerca dell’assoluto e lo fanno attraverso la competizione, ma soprattutto attraverso il costante sforzo di vincersi allo scopo di vincere, oppure mediante azioni rituali che non rappresentano un mezzo per qualcosa, ma sono ispirate dagli antenati o imposte dalla natura. I modelli di comportamento dei protagonisti nipponici sono basati su codici che considerano la vergogna e il ‘perdere la faccia’ come gravi forme di disturbo dell’armonia sociale, come una colpa commessa da parte dell’individuo nei confronti del gruppo di appartenenza. Ogni comportamento individuale è infatti valutato in base ai suoi effetti sulla collettività; per questo continuo richiamo alla dimensione sociale si riscontra un primato attribuito alla questione dell’identità nazionale in ogni episodio di ogni storia.

Miti contingenti

Una delle caratteristiche salienti della globalizzazione mitologica è da ricercarsi nella contingenza e nella durata dei miti proposti. A ben guardare si tratta di un ‘credo’ ben diffuso nel mondo adulto che viene mediato ai giovanissimi attraverso eroi che personificano i valori più condivisi sintetizzandoli ed enfatizzandoli. Un’analisi retrospettiva dell’‘eroismo’ dei protagonisti della nuova fantasia consente di cogliere una straordinaria sinergia tra i miti del mondo adulto e gli eroi inventati per i bambini.

Verso la fine degli anni Sessanta e fino alla metà dei Settanta del 20° sec., la mitologia degli adulti era incentrata sulle possibilità sconfinate delle nuove tecnologie, vale a dire sulla capacità allora impensabile delle ‘macchine pensanti’. La trasposizione di questo credo collettivo adulto per i bambini e per i ragazzi è stata l’antropomorfizzazione del computer. All’inizio degli anni Ottanta, quando l’ecologia ottenne ampia e diffusa rilevanza, per i bambini apparvero sugli schemi personaggi che popolavano sottoboschi e fondali marini: Memole, gli Schtroumpfs (i Puffi), gli Snorkies. Abbiamo assistito poi, verso la fine degli anni Ottanta, al trionfo del narcisismo, condiviso da una cultura del benessere personale come attività e come fine ultimo. In quegli anni si diffusero le palestre e si assistette al boom della pratica psicoterapeutica: indicatori diversi, ma rilevanti del ripiegamento sul proprio Io. A questo ha corrisposto una mitologia per i giovanissimi orientata su valori personalistici, intimisti e sentimentali: chi ha dimenticato Kiss me Licia? Alla caduta delle grandi ideologie, l’Occidente ha cominciato a cercare un nuovo assetto fatto di alleanze politiche e di democrazie fondate su nuovi equilibri. Il disorientamento del mondo adulto si è, così, proiettato sull’immaginario predisposto per i bambini, da un lato con la costruzione di storie politicamente corrette (per es., in Pocahontas), dall’altro con serial in cui si esprime il desiderio di impadronirsi del potere piuttosto che di gestirlo (per es., nel caso dei Power rangers).

Attualmente è l’ambiguità l’elemento che caratterizza maggiormente la complessità che viviamo, quello che più permea la circostanza sociale nella quale siamo immersi politicamente e socialmente. Non è un caso che i personaggi con doppio ruolo e doppio status dei cartoni animati giapponesi come Ramna Saotome (ragazzo e ragazza) riscuotano molto successo. Si tratta di una doppia identità che si esprime con due potenzialità diverse. Ambiguità come indefinizione e, quindi, partecipazione fusionale con il tutto. L’ambiguità di questa doppia identità è dovuta alla commistione culturale che si instaura tra quella cultura (nipponica, cinese ecc.) e la nostra. Ma paradossalmente è proprio per questo motivo che la rappresenta di più. In molti modi oggi l’ambiguità è la sintesi della cultura postmoderna che viviamo.

Le nuove storie

Le fiabe, considerate come ‘esplorazioni spirituali’ e quindi realistiche, rivelano, come scrive Gilbert K. Chesterton (1874-1936), «la vita umana come è vista o sentita o intuita dall’intimo» (Orthodoxy, 1908; trad. it. 1995, p. 39). Esse, a differenza di ogni altra forma di letteratura, indirizzano il bambino verso la scoperta della propria identità e della propria vocazione e suggeriscono quali esperienze sono necessarie per sviluppare il suo carattere.

Il significato profondo offerto dalle fiabe occidentali, per es., è che una vita gratificante e positiva è alla portata di tutti, nonostante le avversità del quotidiano, e che solo attraverso la lotta contro le difficoltà si può raggiungere una vera identità. La fiaba fa sì che i processi interiori siano esteriorizzati e divengano comprensibili perché rappresentati dai personaggi della storia e dai suoi eventi. Le fiabe, storicamente e da sempre, non hanno mai descritto il mondo come appare, né hanno mai consigliato il da farsi. Nella maggior parte delle culture, però, non c’è una demarcazione precisa che separi il mito dalla novella popolare o dalla fiaba.

L’universalità del racconto rispondeva a un’esigenza generale, a un bisogno primordiale e ultimo; quale, se non quello di trovare il significato della vita? La fiaba per secoli ha offerto questa risposta. Ma le fiabe, attualmente, in questa epoca determinata dai media, dove sono andate a finire? Riprese come universali catalizzatori di pubblico sono state ampiamente utilizzate da sceneggiatori e cineasti; esistono le versioni classiche di Walt Disney, quelle più complesse di Steven Spielberg, quelle più dinamiche elaborate dai computer giapponesi. Da tutto questo, e nonostante tutto, si arguisce come il racconto fiabesco sia universale.

Come per i piccoli anche per gli adulti la fiaba in quanto ‘universale’ parla all’inconscio, e i processi non razionali dell’Io possono chiarirsi soltanto attraverso immagini che parlano direttamente, ed è noto che le immagini evocate dalle fiabe hanno questo effetto. Le storie televisive per l’infanzia somigliano alle fiabe per una serie di analogie mitiche. Innanzitutto l’elemento che le accomuna maggiormente è dato dall’inizio della storia o comunque dal suo scenario di riferimento psicologico emotivo: l’assenza di un genitore se non addirittura di entrambi. Nell’auto-analisi indotta dalla fiaba questo processo esorcizza un timore perché ognuno trova in essa le proprie soluzioni, meditando su quanto la storia sembra implicare nei suoi riguardi e circa i suoi conflitti interiori in quel momento della vita. Nelle storie televisive di solito il genitore non muore, ma non c’è. O se c’è, ce n’è uno solo, o è un patrigno o una matrigna (in analogia con le fiabe). Il bambino esorcizza forse la stessa paura? O forse proietta su questa situazione di solitudine la sua stessa condizione?

L’assenza di un contesto spazio-temporale è l’altro elemento che accomuna le storie teletrasmesse alle fiabe. Tutto è qui, ora, in un tempo ciclico e non lineare. Il filo della storia si svolge lungo uno schema che è sempre uguale a sé stesso, riassumibile in: presentazione dei personaggi, azione catartica, prevaricazione di altri o di eventi soprannaturali, risposta all’azione, soluzione dell’evento.

Anche l’iteratività del racconto orale fiabesco appare simile a quella della storia televisiva in cui la ripetitività di scene, di espressioni e immagini dello schermo può essere paragonata alle parole usate obbligatoriamente dal narratore, sempre nello stesso momento e nelle stesse circostanze. La percezione delle storie e delle fiabe è analoga: esse sono narrate o proposte visivamente in un solo modo, sempre lo stesso, ma vengono recepite in molti modi a seconda del pubblico coinvolto. Gli eroi e gli antieroi sono portatori di valori limitati, sempre gli stessi, sempre antitetici, sia nelle fiabe sia nelle storie del teleschermo. Nei cartoni, soprattutto, ma anche nei film, come nelle fiabe, c’è sempre la trasposizione metaforica di un problema che il bambino fruitore deve in qualche modo affrontare e superare.

La fiaba è unica e irripetibile, ha sempre un inizio e una fine, scandita da una morte (del male) e dall’inizio di una nuova realtà. La storia televisiva invece è un serial dove tutto ricomincia e scorre in un flusso continuo. Il contesto culturale (nazionale) di appartenenza e produzione delle storie televisive definisce i valori, i simboli, i modelli di comportamento in modo predominante, mentre l’universalità della fiaba con i suoi riferimenti quasi esclusivi al significato ultimo della vita e delle cose non dà un così marcato adito al relativismo culturale. Il carattere televisivo è fisiognomico (l’interiorità è rappresentata dall’esteriorità), quello delle fiabe è fantastico. I personaggi principali intorno ai quali la storia si svolge e per i quali si conclude appartengono a una mitologia diversa da quella del mondo fantastico. Hanno una grande funzione: quella di razionalizzare attraverso i comportamenti i modelli cui fare riferimento, stili di vita da proporre, credenze intorno ai quali ruota l’azione.

Dal senso morale che cercava di ribellarsi al fato, nacque il senso eroico dell’immane forza dell’uomo che sconfigge sia la violenza sia il caso: l’aspirazione verso il destino, verso le forme superiori dell’essere, verso il superamento della mortalità: sono esemplari, a questo proposito, alcuni personaggi di cartoni come Pokémon o Digimon e gli ormai classici He-man, She-ra e l’intramontabile Majingā Z (Mazinga). Ma, a differenza dei miti, a cui pure spesso fanno riferimento, le fiabe sono state sempre elementi pregnanti in grado di aiutare i bambini ad affrontare soprattutto i problemi psicologici dello sviluppo e dell’integrazione della loro personalità. Le nuove storie invece non hanno la funzione di progettare, attraverso esemplificazioni, modelli pedagogici, filosofici, politici di riferimento se non in modo latente e, a ben guardare, subliminale. Lo iato tra la modernità e la postmodernità sembra consistere nell’accettazione dello specchio del reale come diverso dalla realtà (modernità) o nell’accettazione dello specchio/racconto del reale come identica a essa.

Il tempo

La prima caratteristica comune a tutte le trasmissioni televisive è la concezione del tempo. Si tratta di un tempo che possiamo definire rituale, che ci riporta immediatamente alla dimensione della fiaba sia nel caso dei cartoni sia in quello dei telefilm. Alla concezione dinamica dominante nelle strutture del racconto contemporaneo si oppone totalmente la dimensione temporale ciclica e statica presente sia nei cartoni fantascientifici, sentimentali, fantastico-fiabeschi, avventuroso-storici e di vita quotidiana, sia nei telefilm avventurosi o nelle situation comedies. A ogni episodio l’azione ricomincia dall’inizio, si svolge sempre, immancabilmente, con le stesse dinamiche e si interrompe solo per riproporsi in un’altra puntata con le stesse cause che la determinano. L’idea è che il tempo della TV dei ragazzi sia quello dell’inizio dei tempi, quello delle civiltà preletterate, quello definito antropologicamente come ciclico, in cui non è prevista la logica. Il tempo della televisione per ragazzi non ha fini, non è orientato secondo una successione di causa-effetto. Accade infatti che mentre il tempo delle fiabe è il tempo del mito, in quanto racconta le origini del mondo, del genere umano, dei tratti tipici di ogni cultura, quello delle storie televisive è il tempo del vissuto ordinario e del rito.

È regola costante nella programmazione per l’infanzia che ogni storia si svolga secondo i ritmi della vita quotidiana, cioè secondo un ciclo sempre uguale. Il tempo ciclico è infatti connesso alle esperienze esistenziali immediate, è il tempo suddiviso e ordinato secondo ritmi istituzionali, sociali, individuali. Certamente questa impostazione fa uscire l’universo televisivo (di fronte al quale si pongono i bambini) dalla tradizione moderna, che ha descritto la dimensione del tempo in modo evolutivo, lineare, dinamico.

Nella rievocazione e nella drammatizzazione dei contenuti dei miti d’origine il rito serve a ripetere, a rappresentare, a rievocare, in termini simbolici, il momento d’inizio. Le storie televisive per l’infanzia si ripropongono infatti a ogni episodio, con scadenze perlopiù quotidiane sempre dall’inizio. Le storie seriali che durano ormai da più di un decennio, nel caso dei cartoni animati e da più di un ventennio nel caso dei telefilm, non presuppongono mai a ogni episodio la conoscenza di un dato. Ogni episodio si collega a una puntata, e poi a un ciclo, alla stregua di anelli di una stessa catena. In qualche modo questo ritmo contiene anche precisi valori culturali; ma al di sopra di tutto colpisce, nel rito dell’eterno ritorno, la dimensione temporale, perché è specificamente questa che dà nuova forza alle storie che descrive – sia nel caso di quelle fantastico-fiabesche dei vecchi Schtroumpfs, oppure dei nuovi Pokémon, sia di quelle sentimentali di Eight is enough (La famiglia Bradford) e di Little house on the prairie (La casa nella prateria) o di quelle di vita quotidiana di Diff’rent strokes (Il mio amico Arnold) e di Happy days oppure di Webster. Di fatto, è solamente nel momento della cerimonia che i miti antichi, come quelli moderni, hanno la loro ragione d’essere: il loro valore, soprattutto come mezzo di produzione e riproduzione di una data cultura, si manifesta esattamente nel momento in cui questi miti vengono narrati. È lì che si costruisce il fondamentale rapporto fra la generazione degli anziani e quella dei giovani che devono essere iniziati. Ai nostri giorni è la televisione a svolgere questo compito di ‘maestra di cerimonie’: è nella televisione – uno dei mezzi di comunicazione più ‘connaturale’ all’infanzia – che avviene forse questa trasmissione di valori sociali, ideologici, culturali e psicologici.

L’immagine e la parola

La dimensione tribale, ciclica, mitica del tempo presente nelle trasmissioni per l’infanzia è l’elemento più evidente, ma non l’unico, che definisce le nuove coordinate del pensiero televisivo.

Le parole, intese come forme di riappropriazione di informazioni, come sistemi di metafore e di simboli capaci di tradurre l’esperienza in sensazioni, sono infatti sempre più sopraffatte dall’uso delle immagini fino a divenire superflue. Nelle società occidentali avanzate, come già sottolineato, le giovani generazioni non ricevono più i ‘significati ultimi’ della loro esistenza dalle fiabe, perché sono venute a mancare le condizioni strutturali proprie del racconto orale, come le giornate scandite solo dai ritmi naturali. Dunque i significati ultimi, i valori di base, i modelli di comportamento non vengono più detti e raccontati, ma vengono espressi soprattutto dall’immagine televisiva. Le stesse trame delle storie, sempre uguali, facilitano questo processo di comprensione che non si serve dell’espressione verbale se non in modo secondario. Questo è evidente soprattutto nei cartoni animati, dove l’immagine del volto, ormai quasi sempre elaborata con il computer, esprime gli stati d’animo, le intenzioni, e anche le emozioni attraverso tratti grafici comuni. Infatti, a ben guardare, i volti dei protagonisti sono molto poco differenziati, e complessivamente si possono catalogare poco più di una decina di tipi. La decodifica comportamentale di questi segni è immediata e il messaggio viene trasmesso in modo inequivocabile, come se i piccoli spettatori possedessero un codice di interpretazione comune e infallibile. In realtà questo codice esiste. Esso si fonda su una scienza antica che risale agli albori delle prime dottrine psicologiche, secondo cui era possibile conoscere le essenze spirituali dell’individuo attraverso lo studio delle sue manifestazioni fisiche: la fisiognomica.

Gli elementi fondamentali della fisiognomica sembra siano stati ripresi dai cartoonists, soprattutto giapponesi. Per essi la percezione della realtà, trasmessa dalla televisione, deve passare quasi tutta attraverso le espressioni dei personaggi. I loro tratti fisici sono infatti molto più rilevanti ai fini della comprensione, delle loro interazioni, del contesto storico-sociale, del comportamento stesso. Esiste solo ciò che appare.

La fantasia in vendita

Prima della televisione non sarebbe stato possibile pensare di comprare il proprio eroe per identificarsi con esso. La generazione che è cresciuta davanti allo schermo ha invece introiettato la possibilità, se non addirittura la necessità, di acquistare il personaggio della storia insieme ai giochi che lo accompagnano.

Il vasto movimento economico sorto intorno al giocattolo e la conseguente pubblicità televisiva sono un fenomeno relativamente recente. Sebbene il primo giocattolo lanciato attraverso la pubblicità in televisione pare sia stato, nel 1952, una creazione dal nome singolare: Signor Testa di patata (Mr. Potato head), la prima vera rivoluzione nella pubblicità televisiva dei giocattoli fu quella del 1969, quando i manager di una nota fabbrica idearono un cartone animato che aveva come protagonisti proprio quei modellini di automobili che essa stava lanciando allora sul mercato (gli Hot wheels). Il programma televisivo, prodotto in collaborazione con quella ditta, fu denunciato alla FCC (Federal Communications Commission): Hot wheels fu accusato di violare le norme che impedivano allora la commistione tra programmazione e pubblicità. Fu un argine breve perché nel 1980 venne messo in onda il primo special televisivo, dal titolo The world of strawberry shortcake, in cui si realizzavano tutte le nuove acquisizioni della pubblicità: si lanciava una linea di prodotti e la commistione tra programmazione e advertising fu completa. In pratica la TV dei ragazzi diventò da allora la longa manus promozionale dell’industria del giocattolo.

Se negli anni Ottanta i cartoni animati basati su giocattoli erano circa una trentina (Bots, Wuzzels, Snorkies, Mask, Popples ecc.), oggi la maggior parte dei programmi viene solitamente finanziata dai produttori di giochi o dai proprietari dei marchi che controllano anche i testi. Siamo entrati, in effetti, in una nuova era. Non solo l’industria, a differenza di quanto era accaduto negli anni Settanta, quando si rivolgeva più ai genitori che ai figli, dà l’assalto, per così dire, direttamente al bambino, ma la confusione tra programma e spot diviene, deliberatamente, totale e totalizzante. Le storie seriali dei cartoni animati che durano anni si concludono in realtà a ogni episodio con l’acquisto dei personaggi principali della storia stessa. Così l’unica vera fine di ogni storia è l’acquisto del suo eroe. Avviene così l’unificazione tra il messaggio pubblicitario e il programma.

Bibliografia

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