Obbligo di segnalazione [cd. Whistleblowing]

Diritto on line (2017)

Giovanna Amato

Abstract

Il cd. Whistleblowing, o «obbligo di segnalazione», è un concetto che nasce nella letteratura e legislazione americana. Introdotto anche in Italia, l’obbligo di segnalazione esplica la sua funzione nella prevenzione della criminalità all’interno dei contesti organizzati. Di esso si offrono una definizione e un excursus tra le fonti normative interessate al tema.

Il whistleblowing: definizione e concetti chiave

Il concetto di whistleblowing è privo di definizione sul piano normativo. Nell’ambito della legislazione italiana, le disposizioni che di esso si occupano si riferiscono genericamente alla denuncia e/o segnalazione di illeciti.

Nella letteratura americana, ove il concetto origina, il whistleblowing consiste nella condotta di chi rivela l’esistenza all’interno di un’organizzazione di pratiche, attive od omissive, percepite come illegali o, comunque, immorali (cd. wrongdoing), al fine di ottenere efficaci azioni di risposta. Controversa è l’ammissibilità di forme di incentivazione economica della segnalazione (Miceli, M.P.-Near, J.P.-Dworkin, T.M., Whistle-Blowing in Organizations, New York, 2008, 5; Rauhofer, J., Blowing the Whistle on Sarbanes-Oxley: Anonymous Hotlines and Historical Stigma of Denunciation in Modern Germany, in International Review of Law Computers & Technology, 2007, 365; nella dottrina italiana si veda per tutti Forti, G., Il crimine dei colletti bianchi come dislocazione dei confini normativi. «Doppio standard» e «doppio vincolo» nella decisione di delinquere o di blow the whistle, in Impresa e giustizia penale: tra passato e futuro. Convegni di studio «Enrico de Nicola. Problemi attuali di diritto e procedura penale», Milano, 2009, 176 ss.).

Le principali questioni teorico-pratiche concernono la distinzione dei profili di disciplina attinenti l’autore della segnalazione, a seconda che si tratti di un dipendente pubblico o privato; l’oggetto della segnalazione, in particolare sotto il profilo del grado di rilevanza del “wrongdoing”, dello stadio di realizzazione e della potenziale partecipazione a esso del whistleblower; nonché la natura interna o esterna del destinatario della segnalazione e i profili concernenti le modalità della stessa, con particolare riferimento alla ricevibilità della segnalazione anonima (Rotsch, T., Criminal Compliance, Baden Baden, 2015, 1314 ss.).

Un profilo decisivo, nella legislazione e nel dibattito dottrinale straniero, è quello della tutela del whistleblower all’interno dell’organizzazione contro possibili forme di retaliation. La letteratura definisce come retaliation ogni azione indesiderabile, sia essa attiva od omissiva, adottata nei confronti della persona che ha effettuato la denuncia/segnalazione (ad es. licenziamento, demansionamento, sospensione, minaccia, molestie e qualsiasi forma di discriminazione incidente sulle condizioni e i termini dell’impiego (Luhrs, J., Encouraging litigation: why Dodd-Frank goes too far in eliminating the procedural difficulties in Sarbanes-Oxley, in Hasting Bus. L.J., 2012, 175 ss.). Il concetto si distingue da quelli di organizational retaliatory behavior e revenge, poiché autore della rappresaglia è l’organizzazione nel suo complesso, ancorché tramite un soggetto che agisce nell’interesse della stessa, il cui intento principale è quello di scoraggiare future segnalazioni, affinché l’assetto organizzativo non muti (Miceli, M.P.-Near, J.P.-Dworkin, T. M., Whistle-Blowing in Organizations, cit., 11).

Whistleblowing e prevenzione dell’illegalità nella p.a.

La prima forma di tutela espressa del whistleblower in Italia si ha con la l. 6.11.2012, n. 190, contenente «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione», che introduce nel d.lgs. 30.3.2001, n. 165, l’art. 54 bis rubricato «Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti» (sul testo legislativo si veda Cingari, F., Repressione e prevenzione della corruzione pubblica. Verso un modello di contrasto «integrato», Torino, 2012). Articolo successivamente modificato dal d.l. 24.6.2014, n. 90, recante «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari», convertito nella l. 11.8.2014, n. 114, con l’introduzione dell’Autorità nazionale anticorruzione tra i soggetti destinatari della denuncia.

La disposizione prevede che il dipendente pubblico che denunci all’autorità giudiziaria, alla Corte dei conti o all’Autorità nazionale anticorruzione, ovvero segnali al proprio superiore gerarchico l’esistenza di condotte illecite, di cui esso sia a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non possa essere sanzionato, licenziato o sottoposto a misure discriminatorie dirette o indirette che producano effetti sulle condizioni di lavoro (art. 54 bis, co. 1, d. lgs. n. 165/2001). Si tratta di una protezione riferita a ogni forma di ritorsione, che si ponga quale conseguenza diretta o indiretta della denuncia o della segnalazione.

L’adozione di misure discriminatorie, inoltre, è segnalata dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere, al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza (art. 54 bis, co. 3, d. lgs. n. 165/2001).

La tutela offerta dall’art. 54 bis opera in presenza di due distinte condotte: la denuncia e la segnalazione. La definizione di «denuncia» e le conseguenze della sua eventuale omissione o del suo ritardo trovano un referente normativo diretto nella disciplina penalistica, agli artt. 331 c.p.p., 361 e 362 c.p., con riferimento a fatti di reato perseguibili d’ufficio di cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abbia avuto notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni o del suo servizio. Altrettanto non può dirsi per la definizione della «segnalazione al superiore gerarchico», la sua possibile natura di obbligo giuridico e le conseguenze derivanti da una sua eventuale omissione.

Indicazioni utili al riguardo provengono dalla stessa l. n. 190/2012, la quale dispone che le pubbliche amministrazioni centrali definiscano su base triennale il «piano di prevenzione della corruzione», contenente la valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione e gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio, nonché «obblighi di informazione» nei confronti del responsabile chiamato a vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dello stesso (art. 1, co. 5, l. n. 190/2012). A questi strumenti si aggiungono i «codici di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni», precipuamente volti a garantire il «rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità» e alla «prevenzione dei fenomeni di corruzione» (art. 54 d.lgs. n. 165/2001, come modificata dal comma 44 dell’art. 1 l. n. 190/2012). Il tratto differenziale di tali codici è rappresentato dal carattere della vincolatività delle prescrizioni in essi contenute: il comma 59 dell’art. 1 della l. n. 190 stabilisce, infatti, che le disposizioni di prevenzione della corruzione di cui ai commi dall’1 al 57 dell’art. 1, rappresentano norme di diretta attuazione del principio di imparzialità di cui all’articolo 97 della Costituzione: «principio che fonda, insieme a quello del buon andamento, la normazione che è alla base dell’azione della pubblica amministrazione e che (…) contribuisce a definirne i doveri rilevanti anche sul piano penalistico» (Amato, G., Profili penalistici del Whistleblowing. Una lettura comparatistica dei possibili strumenti di prevenzione della corruzione, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2014, 569).

Il «Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» specifica ulteriormente tali previsioni, stabilendo il rispetto da parte del dipendente pubblico delle misure necessarie alla prevenzione degli illeciti nell’amministrazione: in particolare, il rispetto delle prescrizioni contenute nel piano per la prevenzione della corruzione, la collaborazione con il responsabile della prevenzione della corruzione e, fermo restando l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria, l’obbligo di segnalare al proprio superiore gerarchico l’esistenza di eventuali «situazioni di illiceità» nell’amministrazione di cui sia venuto a conoscenza (art. 8 d.P.R. 16.4.2013, n. 62). Previsioni che trovano ulteriore specificazione e integrazione nei codici di comportamento che ciascuna pubblica amministrazione è tenuta a definire (art. 1, co. 2, d.P.R. n. 62/2013).

Sul rispetto dei doveri posti sono chiamati a vigilare i dirigenti responsabili di ciascuna struttura, le strutture di controllo interno e gli uffici di disciplina (art. 54, co. 6, d.lgs. n. 165/2001). L’inosservanza di tali doveri può essere fonte di responsabilità sul piano disciplinare, penale, civile, amministrativo e contabile (Benussi, C., Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici ha ora natura regolamentare. Commento al D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, pubblicato in G.U. 4 giugno 2013, n. 129, in www.penalecontemporaneo.it, 18.6.2013.

Autore, oggetto e destinatari della segnalazione

L’ambito di applicazione dell’art. 54 bis è definito dall’art. 1, co. 59, l. n. 190/2012, in virtù del quale le disposizioni concernenti la prevenzione della corruzione sono applicate in tutte le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001. Ne consegue, dal punto di vista soggettivo, che la tutela è limitata ai soli dipendenti delle pubbliche amministrazioni, come individuate dalla disposizione contenuta nel Testo unico sul pubblico impiego. L’Autorità nazionale anticorruzione specifica che, in considerazione del rilievo delle segnalazioni ai fini della prevenzione della corruzione, nella nozione di pubblico dipendente sono compresi tanto i dipendenti con rapporto di lavoro di diritto privato di cui all’art. 2, co. 2, t.u. pubblico impiego, quanto, compatibilmente con la peculiarità dei rispettivi ordinamenti, i dipendenti con rapporto di lavoro di diritto pubblico di cui all’art. 3 t.u. pubblico impiego (Determinazione 28.4.2015, n. 6, contenente le «Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti»).

Restano, in ogni caso, privi di tutela i Whistleblowers chiamati a rispondere a titolo di calunnia o diffamazione ovvero per responsabilità extracontrattuale derivante dal medesimo titolo, per la denuncia e/o segnalazione effettuata. L’Autorità nazionale anticorruzione chiarisce la portata della disposizione, affermando che «la tutela non trova applicazione nei casi in cui la segnalazione riporti informazioni false rese con dolo o colpa» (Determinazione n. 6/2015).

Quanto alla definizione del momento in cui la tutela offerta al whistleblower mendace debba cessare, non vi sono indicazioni espresse ulteriori rispetto al generico riferimento a una responsabilità penale che sia stata accertata. In prospettiva de iure condito, il dato normativo non pare interpretabile nel senso di derogare alla presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, co. 2, Cost.

Oggetto di segnalazione sono le condotte illecite di cui il whistleblower sia a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro che lo lega all’amministrazione pubblica. Vi rientrano le situazioni la cui apprensione è riconducibile alla titolarità dell’ufficio o del servizio rivestito, così come le informazioni apprese in modo casuale, in occasione degli stessi. Non sono ammesse, invece, «le segnalazioni fondate su meri sospetti o voci»: sebbene non si richieda la certezza in ordine all’effettivo avvenimento dei fatti denunciati e dell’autore degli stessi, si reputa quantomeno necessario «che il dipendente, in base alle proprie conoscenze, ritenga altamente probabile che si sia verificato un fatto illecito». A tal fine si richiede che il whistleblower effettui una segnalazione il più possibile circostanziata, offrendo il maggior numero di elementi possibili, tali da consentire all’amministrazione le opportune verifiche (Determinazione n. 6/2015).

La definizione di whistleblowing consente di estendere lo spettro dei possibili wrongdoing oltre i delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione di cui al libro II, titolo II, capo I c.p., siano essi consumati o tentati. La segnalazione può, infatti, avere a oggetto «situazioni in cui, nel corso dell’attività amministrativa, si riscontri l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati, nonché i fatti in cui – a prescindere dalla rilevanza penale – venga in evidenza un mal funzionamento dell’amministrazione a causa dell’uso a fini privati delle funzioni attribuite, ivi compreso l’inquinamento dell’azione amministrativa ab externo» (Determinazione n. 6/2015).

Nessuna indicazione normativa consente, infine, di escludere la natura di potenziale partecipe nel wrongdoing del whistleblower. Incerta appare la tenuta del principio di garanzia nemo tenetur se detegere (Manacorda, S.-Centonze, F.-Forti, G., Preventing Corporate Corruption. The Anti-Bribery Compliance Model, Heidelberg, 2014, 82 ss.).

Il dettato normativo sembra escludere dal suo ambito operativo la segnalazione anonima: il quarto comma della disposizione, nel prevedere che nell’ambito del procedimento disciplinare a carico del segnalato l’identità del whistleblower non possa essere rivelata senza il suo consenso, presuppone che il dipendente pubblico, nell’inoltrare la segnalazione, si renda conoscibile. In assenza di consenso, il soggetto segnalato potrà conoscere l’identità del segnalante, nell’ambito del procedimento disciplinare a suo carico, solo se la contestazione è fondata «su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione» e, in ogni caso, solo «ove essa sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato» (art. 54 bis, co. 4, d. lgs. n. 165/2001). La disposizione accorda una chiara preferenza alla tutela della riservatezza dell’identità del segnalante, piuttosto che al diritto di difesa del segnalato: l’opzione legislativa, benché legittima, non sembra tuttavia offrire al segnalato garanzie adeguate contro il pericolo di processi di stigmatizzazione e vittimizzazione all’interno dell’organizzazione, non essendo egli messo nella condizione di conoscere l’origine delle accuse mosse nei propri confronti, difendersi dalle stesse e tutelare, se del caso, la propria onorabilità e professionalità (Rauhofer, J., Blowing the Whistle on Sarbanes-Oxley: Anonymous Hotlines and Historical Stigma of Denunciation in Modern Germany, in International Review of Law Computers & Technology, 2007, 367 ss.; Lattanzi R., Prime riflessioni sul c.d. Whistleblowing: un modello da replicare “ad occhi chiusi”?, in Riv. it. dir. lav., 2010, 335 ss.).

Le segnalazioni anonime, inammissibili in linea di principio, possono condurre a un accertamento interno, «ove queste siano adeguatamente circostanziate e rese con dovizia di particolari, ove cioè siano in grado di far emergere fatti e situazioni relazionandoli a contesti determinati» (Determinazione n. 6/2015).

L’art. 54 bis distingue infine tra whistleblowing interno ed esterno, a seconda del canale prescelto, ossia denuncia o segnalazione. La prima è rivolta ad autorità esterne, quali l’autorità giudiziaria, la Corte dei conti e l’Autorità nazionale anticorruzione. La seconda è rivolta agli organi interni, quali il superiore gerarchico e il Responsabile per la prevenzione della corruzione. A essi si aggiunge, come già anticipato, l’Autorità nazionale anticorruzione, qualora la segnalazione provenga da un dipendente della propria struttura organizzativa. Sulla base del disposto dell’art. 19, co. 5, l. n. 114/2014, e come chiarito dalla stessa Autorità, essa è infatti chiamata a gestire, oltre alle segnalazioni provenienti dai propri dipendenti per fatti illeciti avvenuti all’interno della propria struttura, anche le segnalazioni che i dipendenti di altre amministrazioni possono indirizzarle ai sensi del richiamato articolo 54 bis (Determinazione n. 6/2015). Sono escluse dalla tutela forme ulteriori di whistleblowing esterno, quali ad esempio la divulgazione al pubblico tramite mezzi informativi di massa.

Il quinto comma sottrae, infine, la denuncia all’accesso previsto dagli articoli 22 e ss. della l. 7.8.1990, n. 241, in materia di «Nuove norme sul procedimento amministrativo».

Whistleblowing e responsabilità da reato degli enti

A partire dall’entrata in vigore del d.lgs. 8.6.2001, n. 231, recante la «Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica», l’obbligo di segnalazione si estende anche al settore privato. Anche in questo ambito normativo, analogamente a quello pubblico, obiettivo precipuo del legislatore è quello di prevenire la commissione di reati all’interno dell’organizzazione, per il tramite di modelli organizzativi e gestionali volti a definire il cd. rischio-reato ovvero «individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati», e gestirlo attraverso la previsione di: «specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente», «modalità di gestione delle risorse finanziarie», un «sistema disciplinare», e «obblighi di informazione» (art. 6, co. 2, d.lgs. n. 231/2001). Si tratta di elementi necessari nella struttura del modello, attraverso i quali si attua quel meccanismo normativo di inversione dell’onere probatorio che chiama l’organizzazione a dimostrare l’idoneità del modello a prevenire il rischio di commissione dei reati (Bascelli, M., Possibile ruolo dei Whistleblowing Schemes nel contesto della Corporate e della Control Governance. Profili di compatibilità con l’ordinamento italiano e, in particolare, con la disciplina in materia di protezione dei dati personali, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2008, 126).

In particolare, l’art. 6, co. 2, lett. d), d. lgs. n. 231/2001 dispone che tali modelli, per essere considerati idonei a prevenire il rischio-reato, debbano prevedere, con riferimento ai soggetti apicali, «obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza del modello» e, all’art. 7, co. 3, in relazione al rischio di commissione di reati da parte dei dipendenti, che i modelli prevedano «misure idonee» a «scoprire tempestivamente» le «situazioni di rischio» (Amato, G., Profili penalistici del Whistleblowing, cit., 564; Ghini, P., L’utilizzo di un sistema di Whistleblowing quale ausilio nella prevenzione delle frodi e dei reati, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2010, 207).

Ciò che manca nell’ambito di questa disciplina è la previsione di una forma di tutela per il whistleblower contro eventuali azioni ritorsive, nonché regole volte a individuare le modalità attraverso le quali effettuare la segnalazione e parametri di bilanciamento dell’interesse del whistleblower alla riservatezza con l’interesse del segnalato al rispetto del proprio diritto di difesa. In assenza di ulteriori indicazioni normative è necessario definire quale sia l’oggetto del whistleblowing, se si tratti di whistleblowing interno o esterno, quali membri od organi aziendali possano rivestire il ruolo di whistleblower, nonché se siano individuabili conseguenze penalmente rilevanti derivanti dalla omessa segnalazione.

In primo luogo, l’obbligo di segnalazione sembra riguardare non solo reati consumati o in corso di realizzazione, quanto piuttosto, nella logica preventiva che è propria dei modelli organizzativi e gestionali, ogni situazione a rischio che sia prodromica alla commissione di uno dei reati presupposto tassativamente indicati dal dettato legislativo. La responsabilità degli enti si presenta infatti, sul piano oggettivo, come una responsabilità per un difetto organizzativo, ancorché dipendente dalla realizzazione del reato presupposto (Amato, G., Profili penalistici del Whistleblowing, cit., 565).

Quanto agli autori della segnalazione, in forza degli artt. 6, co. 2, lett. d) e 7, co. 3, d.lgs. n. 231/2001, soggetti in posizione apicale e soggetti sottoposti sono tenuti a un obbligo di segnalazione diretto all’organismo di vigilanza, ovvero quell’«organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo», investito del «compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza» del modello. Tale obbligo, tuttavia, e a differenza che nel settore pubblico, non è assistito da una sanzione diretta: le uniche conseguenze che gli apicali possono subire sono quelle disciplinari, anche nell’ipotesi in cui l’ente risponda per la commissione di un reato realizzato nel proprio interesse o vantaggio e il difetto organizzativo sia ascrivibile alla violazione dell’obbligo di segnalazione.

Tale quadro diviene più complesso con riferimento alla figura dell’organismo di vigilanza, ridisegnata dall’art. 52 d.lgs. 21.11.2007, n. 231. Tale organismo dell’ente si presenta allora come un “soggetto” ibrido. Da un lato, destinatario delle segnalazioni provenienti dal contesto aziendale; dall’altro lato, esso stesso whistleblower tenuto a una duplice segnalazione: quella nei confronti dell’organo dirigente, affinché questo, in veste di soggetto responsabile ex art. 6, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 231/2001, provveda ai controlli e all’adozione delle misure ritenute opportune, compresa l’eventuale segnalazione o denuncia all’autorità competente di pratiche illecite. Quella nei confronti delle autorità nelle ipotesi normativamente previste, nelle quali la prevenzione è basata su obblighi di collaborazione attiva e la segnalazione assume i caratteri di un dovere penalmente rilevante. In particolare, la disciplina contenuta nel d.lgs. n. 231/2007, agli artt. 52, co. 2 e 55, co. 5, poneva in capo ai componenti dell’organismo di vigilanza molteplici obblighi di comunicazione, sanzionandone l’omissione con la reclusione fino a un anno e con la multa da 100 a 1.000 euro. Con riferimento alla prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, l’impresa privata conosceva dunque due forme di whistleblowing, interno ed esterno.

Obblighi di segnalazione in specifici settori dell’impresa privata

Le considerazioni svolte si intrecciano, in alcuni settori dell’impresa privata, con le previsioni in materia di «segnalazione delle violazioni» previste da altre fonti normative, tra cui il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia; il testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria; le già richiamate disposizioni concernenti la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo (Jannone, A., Il whistleblowing e la policy antifrode e anticorruzione: il quadro normativo e le soluzioni operative, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2016, 217 ss.).

Con riferimento al settore bancario e creditizio, il d.lgs. 12.5.2015, n. 72 modifica il d.lgs. 1.9.1993, n. 385, inserendovi gli articoli 52 bis e 52 ter, dedicati rispettivamente ai «sistemi interni di segnalazione delle violazioni» e alla «segnalazione di violazioni alla Banca d’Italia». Le previsioni ricalcano, per la quasi generalità degli aspetti, la disciplina del whistleblowing analizzata per il settore pubblico, distinguendosi per la definizione già sul piano legislativo di alcuni profili concernenti le «procedure specifiche per la segnalazione» che le banche sono chiamate ad adottare, come la previsione di canali specifici, indipendenti e autonomi a tal fine (art. 52 bis, co. 2, lett. c), t.u.b.), in modo da assicurare che il soggetto preposto alla ricezione, all’esame e alla valutazione della segnalazione (c.d. responsabile dei sistemi interni di segnalazione), non sia gerarchicamente o funzionalmente subordinato all’eventuale soggetto segnalato, non sia esso stesso il presunto responsabile della violazione e non abbia un potenziale interesse correlato alla segnalazione, tale da comprometterne l’imparzialità e l’indipendenza di giudizio (Banca d’Italia, Circolare 17.12.2013, n. 285 recante «Disposizioni di vigilanza per le banche», aggiornamento del 21.7.2015).

Autore della segnalazione può essere qualsiasi dipendente delle banche e «tutti coloro che comunque operano sulla base di rapporti che ne determinano l’inserimento nell’organizzazione aziendale, anche in forma diversa dal rapporto di lavoro subordinato» (art. 1, co. 2, lett. h-novies, t.u.b.). Oggetto di segnalazione sono «atti o fatti che possono costituire una violazione delle norme disciplinanti l’attività bancaria» (art. 52 bis, co. 1, t.u.b.), e, per quanto concerne le segnalazioni alla Banca d’Italia, le violazioni riguardanti «le norme contenute nei titoli secondo e terzo del T.U.B. e le disposizioni dell’Unione europea direttamente applicabili» (art. 52 ter, co. 1, t.u.b.). Destinatari della segnalazione, come anticipato, sono il responsabile dei sistemi interni di segnalazione, gli organi aziendali e la Banca d’Italia.

Oltre alla previsione di una «tutela adeguata» del segnalante contro «condotte ritorsive, discriminatorie o comunque sleali conseguenti la segnalazione», il comma terzo specifica che «la presentazione di una segnalazione non costituisce di per sé violazione degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro», prendendo posizione rispetto all’accezione estensiva che l’obbligo di fedeltà del lavoratore incontra nella giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., 4.4.2005, n. 6957). Per espressa previsione della Circolare n. 285/2013, il whistleblower può anche essere concorrente nella violazione: in tal caso, la norma riconosce un generico, e non altrimenti definito, «trattamento privilegiato rispetto agli altri corresponsabili».

Disposizioni pressoché analoghe si ritrovano agli articoli 8 bis e 8 ter del d.lgs. 24.2.1998, n. 58, contenente il «Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria», come modificato dall’art. 4 del d.lgs. 12.5.2015, n. 72. Tale corpo normativo si distingueva già, all’art. 187 novies, per la previsione di obblighi di segnalazione di «operazioni sospette»: secondo tale disposizione ogni soggetto abilitato, gli agenti di cambio iscritti nel ruolo unico nazionale e le società di gestione del mercato «devono segnalare senza indugio» alla Consob le operazioni che essi ritengono configurare, sulla base di ragionevoli motivi, una violazione delle disposizioni in materia di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione di mercato, di cui al titolo 1 bis del testo unico. Ulteriori specificazioni in merito ai soggetti tenuti alla segnalazione, all’identificazione delle operazioni sospette, ai tempi, al contenuto e alle modalità della segnalazione, all’obbligo di riservatezza e al segreto d’ufficio sono state fatte oggetto del «Regolamento mercati», adottato con delibera del 29.10.2007, n. 16191 e successive modifiche.

Infine, gli articoli 35 e seguenti del d.lgs. 25.5.2017, n. 90, in materia di prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, dispongono un’articolata disciplina concernente l’obbligo di segnalazione di operazioni sospette, le modalità della segnalazione e la tutela della riservatezza del soggetto segnalante, assistendo tale dovere con la previsione della sanzione amministrativa pecuniaria (art. 58 d.lgs. n. 231/2007).

Obblighi di segnalazione nell’impresa privata partecipata

A completare lo scenario delle previsioni in materia di whistleblowing interviene la Determinazione dell’Autorità nazionale anticorruzione del 17.6.2015, n. 8, recante le «Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici». A essa si affiancano le considerazioni in merito all’opportunità, recentemente accolta dal legislatore italiano, di predisporre obblighi e forme di tutela comuni al settore pubblico e al settore privato (d.d.l. n. 2208, contenente «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato»).

Per quanto concerne il settore della partecipazione o controllo pubblico dell’impresa privata, le difficoltà che si incontrano derivano dalla definizione della normativa applicabile in materia di obblighi di segnalazione.

Queste società risultano, infatti, soggette all’ambito operativo della legge n. 190/2012 e del d.lgs. n. 231/2001 (Fondaroli, D.-Pezzi, C.-Poli, U., La proliferazione delle posizioni di responsabilità nelle società e negli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni: dal d. lgs. 231/2001 alla Determinazione n. 8/2015 dell’A.N.A.C., in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2015, 229 ss.). Si tratta, dunque, di trovare un punto di congiunzione tra piani di prevenzione della corruzione e modelli organizzativi e gestionali, i relativi controlli e le conseguenti responsabilità (Determinazione n. 8/2015). A tale riguardo, come è stato chiarito dalla stessa Autorità nazionale anticorruzione, nonostante entrambi i sistemi siano finalizzati a prevenire la commissione di fatti di reato e a esonerare da responsabilità gli organi preposti all’adozione di misure interne, qualora queste risultino adeguate allo scopo, l’ambito di applicazione dei due testi normativi non coincide. Con particolare riferimento alle fattispecie di reato da prevenire, dunque all’oggetto dell’obbligo di segnalazione, il d.lgs. n. 231/2001 si riferisce alle fattispecie tipiche di corruzione, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità e alla corruzione tra privati, fattispecie commesse «nell’interesse o a vantaggio» dell’ente perché questo possa essere chiamato a risponderne. Diversamente, la l. n. 190/2012 farebbe riferimento a un concetto più ampio di corruzione, in cui rilevano non solo le fattispecie disciplinate dal titolo II del libro II del codice penale, ma anche quelle situazioni di «cattiva amministrazione», cui sono riconducibili «tutti i casi di deviazione significativa dei comportamenti e delle decisioni, dalla cura imparziale dell’interesse pubblico, cioè le situazioni nelle quali interessi privati condizionino impropriamente l’azione delle amministrazioni o degli enti, sia che tale condizionamento abbia avuto successo, sia nel caso in cui rimanga a livello di tentativo» (Determinazione n. 8/2015). Analoghe incertezze si riscontrano nell’individuazione dei destinatari della segnalazione. Le società controllate o partecipate da un ente pubblico sono chiamate, infatti, a integrare le previsioni del modello di organizzazione e gestione ex d.lgs. n. 231/2001 con misure idonee a prevenire anche i fenomeni di corruzione e di illegalità all’interno delle società in coerenza con le finalità della l. n. 190/2012, dando vita a un documento unitario che tiene luogo del piano di prevenzione della corruzione, le cui previsioni sono soggette al controllo del responsabile della prevenzione della corruzione e dell’organismo di vigilanza, anche per i profili attinenti il rispetto degli obblighi di segnalazione. Non sono dunque chiare le conseguenze derivanti dalla violazione di tale obbligo, se quelle proprie del settore pubblico o viceversa quelle proprie del settore privato.

Maggiore chiarezza potrebbe derivare dal d.d.l. n. 2208, recante «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato», il quale estende il concetto di whistleblower al «dipendente di un ente privato sottoposto a controllo pubblico» (art. 1, co. 2), e ad apicali e sottoposti di cui all’art. 5 d.lgs. n. 231/2001, introducendo per essi «l’obbligo di presentare segnalazioni circostanziate di condotte illecite» (art. 2, co. 1).

Fonti normative

Art. 27 Cost.; art. 331 c.p.p.; artt. 361, 362 c.p.; art. 1 l. 6.11.2012, n. 190; artt. 1, 2, 54, 54 bis d.lgs. 30.3.2001, n. 165; art. 22-30 l. 7.8.1990, n. 241; artt. 6, 7 d. lgs. 8.6.2001, n. 231; artt. 35-38, 48, 58-59, d.lgs. 25.5.2017, n. 90; artt. 1, 52 bis, 52 ter d. lgs. 1.9.1993, n. 385; artt. 8 bis, 8 ter, 187 novies del d.lgs. 24.2.1998, n. 58; Determinazione A.N.A.C., 17.6.2015, n. 8; Determinazione A.N.A.C., 28.4.2015, n. 6; Circolare Banca d’Italia, 17.12.2013, n. 285; d.d.l. n. 2208.

Bibliografia essenziale

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