Occhio

Universo del Corpo (2000)

Occhio

Gabriella Argentin
Luciano Cerulli
Stefano Palma
Vittorio Picardo

L'occhio è l'organo di senso preposto alla ricezione degli stimoli luminosi e delle immagini che, elaborate poi a livello cerebrale, daranno luogo all'esperienza visiva (v. Visione). Rappresenta l'elemento essenziale dell'apparato visivo, nel quale si comprendono abitualmente, nell'uomo, anche le strutture che costituiscono gli annessi oculari (e cioè le palpebre, la congiuntiva, la ghiandola lacrimale e le vie lacrimali di deflusso), la muscolatura estrinseca e l'orbita (v. il capitolo Testa, Occhio).

Evoluzione ed embriogenesi

di Gabriella Argentin

l. Filogenesi

Tutti gli esseri viventi dipendono dalle informazioni relative all'ambiente che li circonda, per la ricerca di cibo, per l'accoppiamento, per la fuga dai predatori, e ognuno deve trovare l'habitat più idoneo e saperne valutare le caratteristiche più importanti. Gran parte delle informazioni sull'ambiente circostante si ricava da organi di senso specializzati e non vi è dubbio che la vista ne fornisca di più dettagliate rispetto a qualunque altro senso. L'importanza evolutiva di questo senso è chiaramente dimostrata dalla complessità dell'organo visivo e dalla grande quantità di tessuto encefalico deputato alla vista. La radiazione solare che raggiunge la superficie del pianeta, fonte primaria di energia della biosfera, è costituita da uno spettro molto ampio di onde elettromagnetiche; l'energia che viene percepita come luce rientra all'interno di una banda di lunghezza d'onda molto ristretta, da 380 a 750 nm, ed è interessante notare che non soltanto gli animali ma anche le piante rispondono alla luce in questo stesso campo. La fotosensibilità non appare tuttavia legata alla presenza di organi da vista specifici e può essere presente anche in organismi unicellulari, per es. in alcuni tipi di alghe, o pluricellulari, per es. nei lombrichi, conferendo loro la capacità di orientarsi verso la luce. Nelle forme più evolute la fotosensibilità si esplica con la visione, che è in grado di fornire, invece, una rappresentazione dettagliata e puntuale dell'ambiente esterno.

Gli organi visivi, salvo alcune eccezioni legate a condizioni di vita sedentaria o parassita, sono presenti nel regno animale con diversi gradi di complessità. Se sono formati da poche cellule sensoriali primarie, essi vengono detti ocelli; se invece le cellule sensoriali diventano numerosissime e complesse, si forma un vero e proprio occhio. La posizione degli occhi può essere varia, soprattutto quando la cefalizzazione è ridotta, come nel caso dei Lamellibranchi, con organi della vista situati tutt'intorno al mantello, o degli Asteroidi, con ocelli all'estremità delle braccia. Nel corso dell'evoluzione, all'aumento della complessità a livello del sistema nervoso centrale (encefalizzazione), conseguenza di una vita di relazione più complessa, si accompagna un perfezionamento degli organi della vista che nei Vertebrati diventano due voluminosi occhi in posizione cefalica. La differenza di capacità funzionale tra un recettore semplice e un'associazione altamente specializzata di recettori e strutture accessorie, organizzata in un organo di senso, può essere illustrata dal fatto che il primo non elabora immagini ma si è evoluto per la fotorecezione, riuscendo così a percepire cambiamenti di intensità luminosa; l'occhio dei Vertebrati, invece, permette la formazione di un'immagine ottica che viene elaborata, dando così origine all'esperienza soggettiva della visione. Animali con organi visivi simili possono comunque avere di un medesimo oggetto una percezione notevolmente differente.

L'evoluzione degli organi visivi ha seguito almeno quattro differenti vie: negli Anellidi; negli Insetti e in altri Artropodi; nei Molluschi (quali pettini, polpi e calamari); nei Vertebrati. L'occhio del polpo mostra una forte somiglianza con quello dei Vertebrati, da cui differisce solo per la posizione degli elementi recettoriali, diretti verso la luce anziché verso il fondo della retina. Il polpo manca tuttavia di visione stereoscopica e usa i movimenti della testa per valutare le distanze: può così fissare un oggetto da due punti di vista. L'organo della vista negli Insetti è costituito, invece, dall'occhio composto, che rappresenta una caratteristica peculiare dello sviluppo evolutivo degli Artropodi. Osservando uno di tali organi si nota la presenza di molte unità strutturali, dette ommatidi, ciascuna delle quali viene stimolata separatamente e ha un campo visivo distinto. Il sistema, costituito da molteplici unità, fornisce a questi animali un'immagine a mosaico del mondo esterno, che, sebbene grossolana (questo tipo di occhio non può variare il fuoco), ha un potere di risoluzione di 1 mm. Nonostante manchi di acuità visiva e offra un'immagine meno dettagliata di quello dei Vertebrati, l'occhio composto percepisce tuttavia meglio il movimento. Un'ape, per es., può vedere chiaramente i contorni di una figura in rapido movimento, capacità estremamente importante per l'insetto in quanto può scorgere gli oggetti mentre vola. Inoltre, gli Insetti, al contrario dei Vertebrati, sono sensibili alle radiazioni ultraviolette; ciò consente a quelli che praticano l'impollinazione di percepire le caratteristiche 'cromatiche' all'ultravioletto di certi fiori.

Studiando comparativamente l'occhio nelle varie classi di Vertebrati non si trovano tanto differenze essenziali nella sua struttura, che fondamentalmente rimane la stessa, quanto variazioni in numerosi particolari che sono, tuttavia, importanti e forniscono esempi di adattamento alle necessità funzionali imposte dall'ambiente. I Vertebrati hanno due occhi, perché hanno due lati e, con un occhio per ciascun lato del capo, la disposizione più frequente, possono guardare pressoché in tutte le direzioni senza muovere il capo. All'inizio della loro storia evolutiva, però, i Vertebrati ancestrali avevano un terzo occhio, situato medialmente sul capo e diretto verso l'alto. Nei primi animali terrestri questo occhio era ancora presente; si riscontra infatti negli Anfibi e nei Rettili estinti, inclusi quelli che avrebbero dato origine ai Mammiferi. Oggi è possibile trovare questa struttura ancestrale solo nelle lamprede e in alcuni Rettili, considerati fossili viventi. Un'interpretazione funzionale dell'evoluzione del terzo occhio può essere formulata considerando le abitudini dei primitivi Vertebrati acquatici filtratori, che forse vivevano strisciando sui fondali. In queste condizioni la presenza di un occhio dorsale che forniva informazioni sull'ambiente sovrastante poteva assumere un'importanza vitale, ma poi, con lo sviluppo di un modo di vita più attivo e con l'instaurarsi della capacità predatoria, la visione verticale perse di importanza. Differenze di struttura si riscontrano soprattutto nella sclera e nella cornea. La prima, nei Mammiferi, e quindi anche nell'uomo, è costituita da connettivo fibroso compatto, mentre in moltissimi altri Vertebrati è rinforzata grazie allo sviluppo di tessuto cartilagineo od osseo. Per quanto riguarda la cornea, nell'ambiente terrestre, quando l'occhio è esposto all'aria, la sua curvatura contribuisce, insieme al cristallino, alla messa a fuoco degli oggetti; nell'acqua, invece, dato che l'indice di rifrazione della cornea è pressoché uguale a quello dell'acqua stessa, essa perde il suo potere rifrattivo, in quanto la luce passa da un elemento fluido a un altro a densità simile; negli animali acquatici quindi non funziona più da lente ed è relativamente appiattita. Curioso è il caso dell'Anableps anableps, un piccolo pesce 'quattr'occhi', abitante dei tropici americani, che possiede due cornee e due retine in ciascun occhio, cosicché, stando a galla, può simultaneamente guardare sopra e sott'acqua. La perdita di capacità di rifrazione dei raggi luminosi da parte della cornea è il motivo per il quale quando si aprono gli occhi sott'acqua, l'immagine che si produce risulta sfocata e confusa.

La coroide di alcuni Vertebrati, tra cui molti Mammiferi, funziona anche da sistema di riflessione della luce. Animali terrestri notturni e alcuni Pesci abissali presentano uno strato coroidale riflettente (tapetum), che aumenta la probabilità che le deboli luci notturne stimolino i fotorecettori. Quando la luce è abbondante, la riflessione interna non solo non è necessaria, ma dannosa, in quanto renderebbe confusa l'immagine; dove invece la luce è scarsa, la riflessione dei raggi rinviati alla retina favorisce la visione. È questo strato riflettente a dare l'impressione che gli occhi dei gatti brillino di notte, quando si dirige verso di loro un fascio di luce. L'iride, con la sua funzione di diaframma dell'occhio, è universalmente presente, ma può essere ridotta a uno stretto lembo negli occhi telescopici che necessitano della maggior quantità possibile di luce. È inoltre sempre pigmentata. La pupilla può avere varia forma: spesso è rotonda, come nell'uomo, oppure può essere ovale e allungata, sia orizzontalmente come nel cavallo, sia verticalmente come nei gatti, gufi o gechi e, in genere, negli animali notturni, per potersi chiudere più prontamente in caso di eccesso di luce. Dato che, come detto in precedenza, nei Vertebrati acquatici la cornea non ha potere rifrattivo, la messa a fuoco delle immagini (processo di accomodazione) viene compiuta unicamente dal cristallino. Di conseguenza, esso aumenta la sua curvatura fino a divenire sferico e si dispone anteriormente nel globo oculare, in modo da fornire la massima distanza per la convergenza dei raggi sulla retina; l'accomodazione viene ottenuta mediante piccoli muscoli che spostano in avanti o indietro il cristallino, a seconda dell'oggetto da focalizzare. Nei Vertebrati terrestri, in cui la cornea collabora alla rifrazione dei raggi luminosi, il cristallino è meno incurvato, quasi piatto nell'uomo, e posizionato posteriormente nel globo oculare; costituiscono eccezione i topi e i ratti, che hanno un cristallino sferico. Nei Vertebrati terrestri, tranne che negli Anfibi, il cristallino è alquanto flessibile e l'accomodazione si attua mediante la modificazione della sua forma. Quando i muscoli ciliari sono rilasciati, le fibre in tensione mantengono il cristallino appiattito, condizione idonea per la visione da lontano; invece, per la visione degli oggetti vicini, i muscoli si contraggono e il cristallino, non più in tensione, aumenta la sua curvatura. Si ritiene che questa varietà nelle strategie di accomodazione possa essere riconducibile a un occhio ancestrale acquatico, completamente privo di ogni sistema di messa a fuoco e che, quindi, nel corso dell'evoluzione, i vari gruppi animali abbiano risolto questo problema indipendentemente, ciascuno a modo proprio. È interessante notare la ricomparsa del cristallino sferico nei Tetrapodi (Vertebrati dotati di arti e quindi terrestri) riadattatisi alla vita acquatica.

La retina di tutti i Vertebrati possiede coni e bastoncelli, facilmente distinguibili nei Mammiferi, difficilmente differenziabili, invece, negli altri gruppi, a causa di una morfologia fortemente variabile. La loro distribuzione negli animali è notevolmente diversa, come è logico aspettarsi vista la differente funzione da essi svolta. I bastoncelli, con la loro sensibilità alle basse intensità luminose, dominano nelle specie crepuscolari e notturne e nei Pesci abissali, mentre i coni, che favoriscono l'acuità della visione e permettono la visione cromatica, sono abbondanti nelle specie attive di giorno. Tra i Pesci, le razze hanno retine provviste solo di bastoncelli; tra i Rettili, le lucertole, animali diurni, presentano quasi esclusivamente coni, i gechi, ad abitudini notturne, hanno quasi solo bastoncelli. Nei Mammiferi notturni, come il riccio e il pipistrello, i coni mancano quasi del tutto. Nei Pesci varia anche il pigmento dei bastoncelli: mentre in quelli marini, come nella maggior parte dei Vertebrati terrestri, il pigmento presente è la rodopsina, quelli d'acqua dolce hanno la porfiropsina. I Pesci che all'epoca della riproduzione migrano dal mare all'acqua dolce, o viceversa, hanno il pigmento corrispondente alla zona di riproduzione. La visione dei colori è diffusa tra i Vertebrati, ma è lungi dall'essere universale. Va sottolineato che la pigmentazione cutanea ha spesso in questi animali un importante significato per la scelta sessuale nell'ambito della propria specie e che la ricchezza dei colori è legata quindi alla capacità di discriminazione cromatica. Proprio per questo, moltissime specie di Pesci e di Uccelli riescono a distinguere i colori, ma tra i Mammiferi ciò avviene più raramente. L'alta sensibilità ai colori dei Primati superiori, uomo compreso, infatti, rappresenta una situazione eccezionale; per un cane o un gatto il mondo è probabilmente grigio o a tinte molto sfumate. Si ritiene che la visione cromatica, presente in tempi remotissimi, sia andata perduta nell'era dei grandi Rettili, quando i piccoli Mammiferi ancestrali avevano abitudini prevalentemente notturne, e che sia poi ricomparsa in poche forme, soprattutto in quelle che, come i Primati e l'uomo, hanno una vita di relazione basata sulla vista e in cui il senso dell'olfatto ha perso di importanza. I coni possono essere presenti in ogni regione della retina, spesso però sono concentrati in una zona centrale in cui la visione è più acuta e la percezione dei dettagli è maggiore. Frequentemente, in quest'area è presente una zona, detta fovea, dove gli elementi sensoriali sono ancora più fitti. In specie differenti la fovea è collocata in parti diverse della retina e non sempre al centro. Per es., sia i conigli sia i ghepardi possiedono una stria visiva altamente sensibile che si allunga orizzontalmente attraversando il centro della retina, permettendo una posizione adatta per scrutare l'orizzonte. Molte specie di Uccelli possiedono due fovee per occhio, una rivolta anteriormente e una lateralmente, in modo tale da consentire un'accurata visione anche nelle zone periferiche del campo visivo. Le aquile, come altre specie di Uccelli predatori, hanno una maggiore densità di fotorecettori nella metà superiore della retina rispetto alla metà inferiore e questa distribuzione permette loro di vedere molto dettagliatamente verso il basso da grandi altezze. Esse, tuttavia, riescono solo in maniera confusa a vedere gli oggetti situati sopra di loro, a meno che non capovolgano la testa; è così che riescono a mettere a fuoco la luce proveniente dall'alto sulla parte di retina più ricca di recettori. Al contrario, alcuni animali che sono preda abituale delle aquile, quali i topi, hanno la maggior parte dei recettori situati nella metà inferiore della retina e, come conseguenza naturale di ciò, riescono a vedere meglio gli oggetti posti sopra di loro. Anche il cavallo presenta un particolare adattamento a livello della fovea, che in questo animale corrisponde a un'area particolarmente allungata. La messa a fuoco degli oggetti distanti avviene infatti su una determinata area della fovea, mentre per gli oggetti vicini, che si trovano in basso, l'animale arretra la testa e si alza sugli arti posteriori, utilizzando così l'area della fovea specializzata per la visione di oggetti vicini e localizzati in basso. Tra i Mammiferi solo i Primati hanno una fovea centrale.

La forma dei globi oculari è generalmente sferica nei Vertebrati, ma vi sono numerose eccezioni; talvolta essi si allungano in senso anteroposteriore, fino a dar luogo ai cosiddetti occhi telescopici, profondi e stretti, dei Pesci abissali e dei Cefalopodi, che vivono fino a circa 2000 m di profondità, e dei gufi. Questo tipo di occhio ha un cristallino enorme, estremamente vantaggioso in ambienti poco illuminati. Nell'occhio telescopico la luce disponibile si concentra in una stretta area della retina, in modo che gli stimoli luminosi raggiungano l'intensità necessaria per la visione. La grandezza dell'occhio varia da gruppo a gruppo, non è correlata con la mole degli organismi ma dipende dall'adattamento ad ambienti diversi: gli Uccelli, che hanno una vita di relazione basata soprattutto sulla vista, hanno occhi grandi, mentre le forme sotterranee o quelle che vivono a grandi profondità hanno occhi più o meno rudimentali. Anche la posizione degli organi della vista varia a seconda dello stile di vita dell'animale: animali predatori, quali le aquile, hanno occhi frontali a visione stereoscopica, mentre animali che vengono predati, come il coniglio, hanno occhi posti ai lati della testa con ampi campi visivi per controllare meglio l'ambiente. Nell'uomo gli occhi sono affiancati sui due lati del piano frontale del capo, retaggio di primitive abitudini arboricole. L'evoluzione dei Primati iniziò, infatti, quando un gruppo di Mammiferi si trovò a colonizzare gli alberi delle foreste tropicali. Gradualmente essi si adattarono alla vita arboricola, manifestando una serie di caratteristiche, tra cui un aumento della capacità visiva e una parallela riduzione dell'olfatto, molto più vantaggiose in questo tipo di ambiente in cui saper valutare con esattezza le distanze e le dimensioni era essenziale per la sopravvivenza. Si perfezionò quindi la sensibilità cromatica e, attraverso la frontalizzazione delle orbite e la sovrapposizione dei campi visivi, venne garantita la visione tridimensionale. In relazione a ciò, si ebbe una ristrutturazione ossea con conseguente accorciamento della faccia e sviluppo di una ricca muscolatura mimica nella regione orbitale e orbicolare, che permetteva una migliore mobilità nell'espressione; un fattore importante, questo, in individui che vivevano in gruppi sociali stabili con interazioni complesse e intense e in cui la posizione del corpo, e in particolar modo le espressioni facciali, comunicavano importanti informazioni.

2.

Ontogenesi

Alla formazione dell'occhio, durante lo sviluppo embrionale, partecipano più tessuti: l'ectoderma, compreso il neuroectoderma, e il mesenchima. Dai primi due si originano la retina e il cristallino; dall'ultimo la sclera, la coroide, parte dell'iride e i vasi della retina. Il primo abbozzo dell'occhio, che compare quando il canale neurale è quasi completo, consiste in due ispessimenti dell'estremo anteriore del tubo neurale, che si trasformano presto in estroflessioni, dette vescicole ottiche. Queste si accrescono in direzione laterodorsale, dando origine, dopo un'introflessione del loro emisfero anteriore, ai calici ottici dai quali derivano le retine, strutture doppie sin dall'inizio. Se, per qualche ragione, questi abbozzi ottici rimangono fusi sulla linea mediana si forma una sola vescicola ottica e l'embrione si sviluppa in un ciclope con un solo occhio mediano.

Man mano che la vescicola ottica si avvicina alla superficie della testa, l'ectoderma si ispessisce formando una struttura sferica dalla quale prende origine il corpo del cristallino, la seconda struttura dell'occhio che compare in ordine di tempo. I vasi della retina rappresentano strutture di origine mesenchimale e di regola proliferano più precocemente e poi si riducono. L'arteria ialoidea, per es., che fornisce una discreta vascolarizzazione al vitreo embrionale, nell'adulto si oblitera e scompare. Nel feto umano gli occhi rimangono chiusi dalle palpebre fino al 7° mese e durante la crescita raggiungono le loro dimensioni definitive prima del resto della testa; è per questo che nei bambini appaiono grandi. Questo precoce sviluppo è dovuto al fatto che nel bambino gli occhi devono formare con il cervello un numero enorme di complessi collegamenti. Se gli occhi crescessero nuovamente dopo la formazione di questi collegamenti, sarebbe necessaria una continua riorganizzazione delle connessioni.

Anatomia umana

di Luciano Cerulli, Stefano Palma

l. Caratteri generali

Noto anche come globo o bulbo oculare, l'occhio è un organo pari che presenta una forma sferica irregolare, con un polo anteriore e un polo posteriore, un equatore, due meridiani principali (verticale e orizzontale), un asse sagittale e uno trasverso a livello equatoriale, le cui rispettive dimensioni sono normalmente pari a 24,5 mm e 23,6 mm. Queste dimensioni possono presentare differenze da individuo a individuo e occorre subito sottolineare che le variazioni dell'asse anteroposteriore del bulbo ne possono condizionare le caratteristiche rifrangenti. I globi sono localizzati all'interno delle orbite, cavità ossee poste ai due lati della linea mediana nella porzione anteriore del cranio, alla cui formazione partecipano diverse ossa del complesso maxillofacciale: la parete superiore o tetto è costituita dalla volta orbitale del frontale e dalla faccia inferiore della piccola ala dello sfenoide; la parete laterale, dalla faccia anteriore della grande ala dello sfenoide, dall'apofisi orbitale dell'osso zigomatico, dalla porzione laterale della volta orbitale dell'osso frontale; la parete inferiore o pavimento, dalla faccia superiore della piramide del mascellare, dall'apofisi orbitale dell'osso zigomatico e dal processo orbitale del palatino; la parete mediale, dalla faccia laterale del corpo dello sfenoide, dall'os planum dell'etmoide, dal lacrimale e dal processo frontale dell'osso mascellare superiore. Lo spazio endorbitario, colmato dal grasso retrobulbare, fornisce anche alloggio ai muscoli extraoculari estrinseci e ai tessuti vascolari e nervosi che sono destinati all'occhio.

La parete del bulbo oculare è strutturalmente costituita da tre tuniche: una esterna di consistenza fibrosa; una vascolare intermedia; infine, una interna nervosa. La tunica esterna ha una consistenza duro-elastica ed è suddivisa in una porzione posteriore che ne rappresenta circa i 2/3, la sclera, e in una anteriore, la cornea: la sclera assicura al globo una certa consistenza e protegge le strutture più interne, mentre la cornea è tipicamente trasparente, per permettere il passaggio dei raggi luminosi; la zona di passaggio tra la sclera e la cornea è nota come limbus sclerocorneale. La tunica intermedia, detta anche uvea, presenta una porzione posteriore, la coroide, prettamente vascolare con funzioni nutritizie per il globo, e una porzione anteriore composta dai corpi ciliari e dall'iride (v. oltre); la tunica nervosa è infine costituita dalla retina, sede dei meccanismi fisiologici che avviano il processo visivo.

Esaminando il bulbo in sezione si osserva che le due tuniche interne non rivestono per tutta la sua estensione la tunica fibrosa: la porzione coroideale dell'uvea aderisce infatti alla sclera fino all'altezza dell'ora serrata e si continua poi anteriormente nei corpi ciliari e nell'iride. A livello circa del limbus l'uvea non segue più la curvatura corneale, ma si introflette a formare un diaframma (iride) che è posto a circa 3-4 mm dalla faccia corneale profonda, in modo tale da delimitare uno spazio, noto come camera anteriore dell'occhio, colmato dall'umore acqueo prodotto dai corpi ciliari. Posteriormente al diaframma irideo si trova il cristallino, o lente, elemento diottrico fondamentale che, unitamente alla cornea, consente la focalizzazione sulla retina dei raggi luminosi. Lo spazio compreso tra la superficie iridea posteriore e la faccia anteriore del cristallino costituisce la camera posteriore dell'occhio. Il cristallino è mantenuto in situ dai legamenti della zonula (o anello) di Zinn che originano a livello dei corpi ciliari: questi formano come un anello concentrico che segue tutta la circonferenza del bulbo, immediatamente al di dietro della base dell'iride, e nel loro ambito si riconosce anche la presenza del muscolo ciliare, preposto fondamentalmente alla funzione accomodativa. Tra la faccia posteriore del cristallino e la retina si delimita a sua volta un ampio spazio, noto come camera vitrea, colmato dall'umore vitreo. La superficie anteriore del globo, protetta verso l'esterno dalle palpebre, è rivestita dalla congiuntiva, membrana mucosa di natura epiteliale che ricopre il segmento anteriore del bulbo fino quasi all'equatore, non aderendo alla sclera se non a livello del limbus sclerocorneale, dove in pratica si inserisce lasciando libera l'area corneale (congiuntiva bulbare): gli strati più esterni della congiuntiva bulbare e della cornea costituiscono insieme al film lacrimale precorneale un insieme morfofunzionale definito come superficie oculare. Raggiunta circa la regione equatoriale, la congiuntiva bulbare si distacca dal bulbo e si flette in avanti formando, superiormente e inferiormente, come un cul de sac (fornice congiuntivale superiore e inferiore), e si continua poi sulla faccia posteriore della palpebra fino al margine, costituendone lo strato più profondo o interno (congiuntiva palpebrale o tarsale). Nell'angolo interno formato dall'incontro delle due palpebre, superiore e inferiore, si riconoscono due formazioni congiuntivali, la plica semilunare e la caruncola, che nell'uomo sono il residuo della membrana nittitante e della terza palpebra di alcune specie animali.

Posteriormente al bulbo si osserva il nervo ottico, costituito dall'insieme delle fibre nervose originate nella retina che si riuniscono dopo aver attraversato la sclera a livello della lamina cribrosa. Il nervo si distacca dalla superficie posteriore della sclera in posizione leggermente decentrata nasalmente (3,9 mm) e in basso (1,5 mm) rispetto al polo posteriore. Segue poi nell'orbita un decorso curvilineo, tale da consentire movimenti di dislocazione del globo oculare, fino al forame ottico. Attraversato il canale ottico, passa nella fossa cranica anteriore dove le fibre ottiche proseguono il proprio cammino nei tratti ottici, nel chiasma e nelle successive vie ottiche fino alla scissura calcarina, sede dell'area cerebrale visiva. I sei muscoli extraoculari estrinseci, responsabili del movimento dell'occhio nelle varie direzioni di sguardo, si inseriscono sulla sclera a diversa distanza dal limbus sclerocorneale: il retto interno, o mediale, è il più vicino (5,5 mm) e ha una linea di inserzione verticale e simmetrica rispetto al meridiano orizzontale, al pari del retto esterno o laterale posto però a 7 mm dal limbus; il retto superiore e il retto inferiore si introducono invece a 7,7 mm e a 6,5 mm e presentano una linea di inserzione obliqua con la porzione mediale più vicina alla cornea rispetto a quella laterale. Tutti i muscoli retti, a eccezione del superiore che origina sul bordo superiore dell'orifizio anteriore del canale ottico, iniziano dalla zonula di Zinn, posta sul fondo dell'orbita che si inserisce sul corpo dello sfenoide in corrispondenza della parte più larga della fessura sfenoidale. Essi decorrono tra le pareti orbitarie e quelle del globo oculare, delimitando tra loro uno spazio conico in cui in pratica è compreso il bulbo. Dall'orifizio anteriore del canale ottico, nella parte nasale superiore, in prossimità del retto superiore, origina anche il muscolo obliquo superiore, o grande obliquo, che va a immettersi sulla sclera nel quadrante temporale superiore dopo aver assunto caratteristiche tendinee e aver attraversato un anello fibroso, la troclea di riflessione, posto sulla parete laterale dell'orbita in corrispondenza dell'apofisi orbitaria interna dell'osso frontale. L'obliquo inferiore, o piccolo obliquo, nasce invece sulla parete mediale dell'orbita e s'inserisce nel quadrante temporale inferiore in zona retroequatoriale dopo essere passato al di sotto del bulbo. Il punto di origine, il decorso e le caratteristiche inserzionali dei singoli muscoli estrinseci condizionano la direzione del movimento del bulbo indotto mediante la contrazione di ciascuno di essi. La contrazione muscolare viene sollecitata da un impulso nervoso trasmesso attraverso i nervi motori: nel caso specifico, si tratta del nervo abducente per il retto laterale, del nervo trocleare per il grande obliquo, del nervo oculomotore comune per i restanti muscoli.

2.

Caratteristiche anatomofisiologiche specifiche

a) Superficie oculare. È formata dagli strati epiteliali esterni della congiuntiva e della cornea e dal film lacrimale. Solo di recente si è delineata l'intima correlazione e l'interdipendenza tra integrità morfofunzionale dell'epitelio corneo congiuntivale e la stabilità del film lacrimale, cui contribuiscono anche le palpebre con l'ammiccamento. La membrana cellulare superficiale dell'epitelio presenta infatti microproiezioni (microvilli e micropliche) alle quali si ancora il muco prodotto dalle stesse cellule epiteliali e, in particolare, da cellule dette caliciformi. Il muco rende bagnabile la superficie epiteliale altrimenti idrofobica e permette la corretta stratificazione dello strato acquoso delle lacrime. Queste contribuiscono a loro volta all'idoneo trofismo dell'epitelio, assicurando il normale apporto di ossigeno e metaboliti. Nel film lacrimale precorneale si distinguono tre componenti: una componente mucosa che costituisce lo strato più profondo adeso, come detto, alla superficie epiteliale; una componente intermedia acquosa, ricca di sostanze, tra cui elettroliti e proteine dotate di proprietà trofiche e protettive, e prodotta dalle ghiandole lacrimali; una componente lipidica superficiale che ostacola l'evaporazione e rende la superficie liscia e regolare, otticamente perfetta. Le funzioni delle lacrime sono molteplici e importanti: ottica; protettiva meccanica; protettiva antibatterica (presenza di lisozima, lattoferrina); pulente; trofica. Una buona stabilità del film lacrimale è fondamentale per la corretta applicazione delle lenti a contatto.

b) Sclera. Costituisce la porzione posteriore della tunica esterna e termina anteriormente a livello del limbus, dove si continua nella cornea, mentre posteriormente fornisce l'origine al nervo ottico. Ha un colorito bianco-bluastro nel bambino e bianco-giallastro nell'adulto. Il suo spessore è minimo posteriormente all'inserzione dei muscoli extraoculari (0,3 mm), medio al limbus (circa 0,7 mm), maggiore al polo posteriore (1 mm). È permeata di sottili canali ricchi di vasi e nervi, e posteriormente all'equatore è attraversata da quattro vene vorticose provenienti dalla coroide; la sua vascolarizzazione è mediata dalle arterie ciliari anteriori e posteriori. È formata da fibre collagene disposte in modo non uniforme e irregolare. In superficie si trova l'episclera, costituita da connettivo denso e vascolare, che si fonde con la soprastante capsula di Tenone, avascolare.

c) Cornea. Costituisce il sesto anteriore della tunica fibrosa. Si continua a becco di flauto con la sclera, sporgendo in avanti rispetto a questa per il suo inferiore raggio di curvatura. È, insieme al cristallino, l'elemento principale del diottro oculare e presenta un indice di rifrazione n=1,3771. Ha forma leggermente ellittica con un diametro orizzontale di circa 12 mm e uno verticale di circa 11 mm. Dal punto di vista strutturale, istologico, è classicamente caratterizzata da cinque strati sovrapposti, che dall'esterno all'interno sono: l'epitelio (squamoso pluristratificato); la membrana di Bowman; lo stroma (90% dello spessore corneale, formato da lamelle collagene e da cellule, principalmente cheratociti); la membrana di Descemet; l'endotelio (singolo strato continuo di circa 400.000-500.000 cellule esagonali). La membrana, riccamente innervata da terminazioni sensoriali libere di origine trigeminale (branca oftalmica), è avascolare, speculare e trasparente. L'avascolarità è in condizioni normali assoluta, con la possibile eccezione di sottilissime arcate ciliari paralimbari formate da capillari originati dai vasi ciliari anteriori, che possono penetrare per 1-2 mm nel tessuto corneale e rivestono scarso rilievo metabolico. La specularità, cioè la capacità di riflettere le immagini (sfruttata in campo semeiologico) dipende dalle caratteristiche strutturali della cornea e, in parte, dal contributo offerto dal film lacrimale, soprattutto dallo strato lipidico. La trasparenza, aspetto fondamentale dal punto di vista ottico, è garantita dalla perfetta e regolare disposizione delle lamelle stromali e dalla costante idratazione del tessuto. Il mantenimento di queste peculiari caratteristiche è assicurato dai meccanismi fisiologici della deturgescenza corneale, che permettono altresì il controllo dello spessore corneale. Un ruolo essenziale viene svolto in tal senso dall'endotelio corneale, che si comporta come una membrana semipermeabile e selettiva nei confronti dell'umore acqueo ed è sede di una pompa ionica attiva ATP-asi dipendente. L'energia necessaria al metabolismo corneale deriva dal metabolismo del glucosio, reperito in massima parte dall'umore acqueo. Scarso è infatti l'apporto dai vasi limbari, il cui contributo è limitato al 15-20% del fabbisogno, e dal film lacrimale, che contiene solo minime quantità di zucchero.

d) Iride e corpi ciliari. Formano la componente anteriore dell'uvea. L'iride rappresenta per l'occhio un vero e proprio diaframma paragonabile a quello di una macchina fotografica, in grado di modulare la quantità di luce che penetra posteriormente e raggiunge la retina. Presenta infatti al centro un'apertura, la pupilla, le cui dimensioni variano in rapporto alla quantità di luce. Il meccanismo di allargamento e restringimento pupillare, controllato dal sistema nervoso autonomo, deriva dalla contrazione e dal rilasciamento dei muscoli sfintere (innervato dal parasimpatico) e dilatatore della pupilla (innervato dal simpatico) che fanno parte della struttura istologica dell'iride. Dal punto di vista macroscopico, si distinguono una porzione periferica o radice, che si inserisce nel corpo ciliare, e una più centrale, che costituisce il collaretto e l'orletto pupillare. La base iridea delimita con la cornea un recesso angolare, o angolo iridocorneale, caratterizzato da alcune entità anatomiche e ultrastrutturali (canale di Schlemm, trabecolato sclerale, trabecolato uveale) che ne fanno la zona di deflusso del liquido endoculare, di grande importanza nella regolazione della pressione interna dell'occhio. Istologicamente, oltre alla componente muscolare si riconoscono nell'iride lo stroma (formato da fasci collageni, sostanza fondamentale e cellule, tra cui i melanociti responsabili del colore irideo) e l'epitelio pigmentato. La vascolarizzazione è molto ricca e origina dalle due arterie ciliari lunghe che a livello della radice dell'iride si anastomizzano, creando il grande cerchio arterioso dell'iride da cui partono rami radiali che si dirigono verso la pupilla, dove formeranno il piccolo cerchio arterioso dell'iride. I corpi ciliari posti dietro alla radice iridea si estendono posteriormente per circa 6 mm fino all'ora serrata e formano come un cercine che per 360° segue il contorno della base dell'iride. Sono divisi in due porzioni: una anteriore, o corona ciliare (pars glicata), contraddistinta dalla presenza dei processi ciliari preposti alla secrezione dell'umore acqueo e dei muscoli ciliari circolari; e una posteriore, od orbicolo ciliare, di aspetto lineare (pars plana), che contiene le fibre meridionali del muscolo ciliare. L'innervazione deriva dai nervi ciliari lunghi e brevi che decorrono con le arterie omonime. Strutturalmente si riconoscono un epitelio non pigmentato più interno (che va dall'epitelio pigmentato irideo alla retina sensoriale), un epitelio pigmentato (che dall'epitelio pigmentato irideo si continua con l'epitelio pigmentato retinico), lo stroma (connettivo, cellule vasi e nervi) e il muscolo ciliare. Quest'ultimo è un muscolo liscio che trae origine sullo sperone sclerale (componente dell'angolo iridocorneale) e si inserisce sull'iride, sui processi ciliari e sulla coroide. È caratterizzato da una componente longitudinale e da una circolare e sopraintende al meccanismo dell'accomodazione.

e) Coroide. Interposta tra la sclera e la retina, è un tessuto vascolare pigmentato che fornisce la necessaria irrorazione sanguigna al globo oculare e, in particolare, all'epitelio pigmentato e agli strati retinici sensoriali esterni. Il flusso ematico, regolato dal sistema nervoso autonomo, è molto elevato, maggiore che in ogni altro tessuto. Dal punto di vista ultrastrutturale, anche nella coroide si distinguono più strati sovrapposti, che dall'esterno all'interno sono: la lamina sopracoroideale, formata da un delicato tessuto connettivo lamellare e da melanociti pigmentati; lo stroma o strato dei grossi vasi; la membrana coriocapillare; la membrana di Bruch. Lo stroma consta di un tessuto connettivo lasso e di elementi cellulari e contiene i vasi coroideali di medio e grosso calibro: i vasi arteriosi, nei quali affluisce il sangue proveniente dalle arterie ciliari posteriori brevi e lunghe e dai rami ricorrenti delle arterie ciliari anteriori, sono più profondi; quelli venosi che confluiscono nelle quattro vene vorticose, che poi fuoriescono dalla sclera poco dietro all'equatore, sono invece più superficiali. La coriocapillare è costituita da una fitta rete di capillari, nella quale affluisce la corrente sanguigna proveniente dai rami arteriosi coroideali di medio e grosso calibro, e che diviene sempre più fitta avvicinandosi alla regione maculare. La lamina di Bruch è costituita da una struttura pluristratificata interposta tra la lamina coriocapillare e l'epitelio pigmentato retinico.

f) Cristallino e zonula di Zinn. Rappresentano la 'lente' dell'occhio e il relativo apparato sospensore. Il cristallino ha l'aspetto di una lente biconvessa, posta immediatamente dietro all'iride. Presenta una superficie anteriore meno curva rispetto a quella posteriore e un margine periferico arrotondato. Ha un diametro equatoriale di circa 9-10 mm nell'adulto e un asse anteroposteriore, cioè uno spessore tra i suoi due poli anteriore e posteriore, di circa 4 mm: questa misura cambia durante l'accomodazione e può variare da individuo a individuo, modificando il potere diottrico della lente. Tale parametro è peraltro condizionato anche dall'indice di rifrazione, il quale varia addirittura da strato a strato e con l'età da n=1,3883 a n=1,4080. Delimitato dalla capsula (suddivisa topograficamente in anteriore e posteriore), mostra una serie di strati concentrici rappresentati, nell'adulto, fondamentalmente dalla porzione corticale (anteriore e posteriore) e dal nucleo. Le fibre della zonula di Zinn si inseriscono a livello equatoriale sulla capsula esterna del cristallino e si dirigono al corpo ciliare. In tal modo, oltre a svolgere la funzione di un legamento sospensore che mantiene in situ nella sua posizione fisiologica la lente, partecipano anche al meccanismo accomodativo: la contrazione del muscolo ciliare avvicina la zonula all'equatore del cristallino, provocando un rilasciamento delle fibre zonulari e una riduzione della tensione da esse esercitata sulla lente che, di conseguenza, tende ad assumere una forma maggiormente sferica con aumento del suo potere diottrico.

g) Retina. La membrana retinica corrisponde, per funzione, alla pellicola di una macchina fotografica. Il suo compito è quello di ricevere l'immagine esterna, di elaborarla e trasmetterla alla corteccia visiva occipitale per tramite del nervo e delle vie ottiche. È la tunica interna, nervosa, dell'occhio, dove lo stimolo luminoso viene trasformato con meccanismi fotochimici (fototrasduzione) in impulso elettrico, poi trasmesso ai centri visivi centrali lungo il nervo ottico. Si presenta come una membrana sottile, trasparente e diafana, che si estende dalla testa del nervo ottico (papilla o disco ottico) fino all'ora serrata, dove continua con l'epitelio non pigmentato ciliare. La retina sensoriale si conforma al sottostante epitelio pigmentato, alla coroide e alla sclera, ma l'aderenza all'epitelio pigmentato è molto salda solo a livello della papilla ottica e dell'ora serrata. Il suo spessore varia tra 0,1 mm all'ora serrata, 0,2 mm all'equatore e 0,56 mm nella zona posteriore intorno alla testa del nervo ottico. Il colorito roseo che si evidenzia all'osservazione clinica del fondo oculare è dovuto al trasparire della sottostante coroide. Macroscopicamente in essa si possono distinguere una regione posteriore, o polo posteriore, una regione equatoriale e una periferica. Il polo posteriore comprende clinicamente la papilla ottica e l'area delimitata dalle arcate vascolari temporali superiori e inferiori, che originano dall'arteria centrale della retina. Al centro della retina spicca in questa zona la macula lutea (o punto giallo), la quale circonda la fovea centralis: struttura altamente specializzata, di diametro pari a circa 1,5 mm, posta sull'asse ottico del globo oculare nel punto in cui convergono i raggi luminosi rifratti dal diottro oculare, che presenta un punto centrale (diametro 0,1 mm) noto come foveola. La fovea, sede della visione centrale e distinta, è caratterizzata dalla massima concentrazione di elementi detti coni (circa 100.000-234.000 mm2), è libera dai capillari retinici (nei 0,40- 0,75 mm centrali) ed è nutrita dalla coriocapillare. I coni costituiscono con i bastoncelli gli elementi recettoriali specifici della retina: la densità dei coni diminuisce drasticamente già nella macula e si riduce sempre più allontanandosi progressivamente da questa, mentre i bastoncelli, del tutto assenti nei 0,25 mm centrali della fovea, aumentano di numero verso la periferia. Dal punto di vista ultrastrutturale, questi elementi fotorecettoriali presentano un segmento esterno, un segmento interno, il nucleo e la regione sinaptica e costuiscono lo strato retinico più esterno immediatamente precedente all'epitelio pigmentato. Classicamente si distinguono nella retina dieci strati, che andando dall'esterno verso l'interno sono: 1) l'epitelio pigmentato; 2) lo strato dei coni e bastoncelli (contenente i segmenti interni ed esterni delle cellule fotorecettrici); 3) la membrana limitante esterna (formata da una fila di zonule aderenti che uniscono le cellule fotorecettrici alle cellule di Müller e queste tra loro); 4) lo strato nucleare esterno (fibre e corpi cellulari delle cellule fotorecettrici); 5) strato plessiforme esterno (sinapsi tra cellule fotorecettrici, cellule orizzontali e cellule bipolari); 6) strato nucleare interno (corpi delle cellule orizzontali e delle cellule bipolari, amacrine e interplessiformi); 7) strato plessiforme interno (sinapsi fra cellule bipolari, amacrine e ganglionari); 8) strato delle cellule ganglionari (corpi cellulari delle cellule ganglionari e cellule amacrine dislocate); 9) strato delle fibre nervose (assoni delle cellule ganglionari decorrenti sulla superficie retinica interna fino alla papilla ottica); 10) membrana limitante interna (lamina basale).

A livello foveale, la superficie retinica interna appare concava e lo spessore della retina è dimezzato rispetto alla zona circostante per la sottigliezza degli strati retinici interni: le cellule ganglionari, le fibre nervose e gli strati plessiformi più interni sono a questo livello assenti. Molto schematicamente si riconoscono nella retina proiezioni nervose orizzontali e verticali: le prime, rappresentate dalle cellule amacrine e da quelle orizzontali, permettono di integrare le informazioni neurosensoriali tra i diversi strati retinici; le seconde, verticali, sono costituite dai primi tre neuroni che connettono la retina sensoriale ai centri visivi (fotorecettori, cellule bipolari, cellule ganglionari). L'impulso nervoso derivato dalla stimolazione dei fotorecettori viene trasmesso alle cellule bipolari, e da queste a quelle ganglionari, il cui assone decorre sulla superficie retinica fino alla papilla ottica e si continua poi nel nervo ottico nel chiasma e nel tratto ottico fino al corpo genicolato laterale. Dal quarto neurone, qui situato, derivano le radiazioni ottiche che terminano nella corteccia visiva. La vascolarizzazione della retina è assicurata dall'arteria centrale della retina che origina dall'arteria oftalmica, primo ramo dell'arteria carotide interna. L'arteria centrale della retina si divide dicotomicamente in rami secondari e terziari (che decorrono superficialmente nello strato delle fibre nervose) e in rami terminali che entrano nella retina e danno origine alla rete capillare. Vengono in tal modo irrorati gli strati retinici più interni rispetto allo strato plessiforme esterno. Gli strati esterni sono invece irrorati dal circolo coroideale.

h) Umore acqueo. È il liquido trasparente e incolore che occupa la camera anteriore e posteriore dell'occhio. Prodotto a livello dei corpi ciliari ha un peso specifico di 1,0036 e un indice di rifrazione n=1,3374, molto vicino a quello della cornea e del cristallino. Tra i componenti dell'umore acqueo ricordiamo l'ascorbato con i suoi isomeri, gli aminoacidi e soprattutto il glucosio, indispensabile al metabolismo corneale. Sono inoltre presenti sali minerali, ossigeno e CO₂, basse percentuali di proteine e altre sostanze organiche e inorganiche. Dopo lo svuotamento della camera anteriore (traumi, interventi chirurgici ecc.) viene generato un acqueo di seconda formazione più ricco di sostanze proteiche.

i) Umore vitreo. Occupa lo spazio compreso tra il cristallino e la retina, alla quale aderisce a livello della papilla ottica, della macula e della sua base in prossimità dell'ora serrata. La sua faccia anteriore presenta una concavità centrale (fossa patellare) occupata dal cristallino, alla cui capsula aderisce, nel giovane, tramite il legamento ialoideo capsulare, ma l'aderenza si riduce con l'età. Costituisce circa i due terzi del volume dell'occhio (4 ml), è composto al 99% di acqua legata a collageno e acido ialuronico; contiene cellule tipiche (ialociti). Ha un indice di rifrazione n=1,33312.

Principali patologie oculari

di Vittorio Picardo

Al pari di qualunque altro organo e apparato del nostro organismo, l'occhio può essere sede di processi malformativi, infiammatori, infettivi, in grado di modificarne in tutto o in parte la struttura e quindi la funzione. La maggior parte di queste patologie, di natura congenita oppure acquisita, è suscettibile di terapia medica o chirurgica per ottenere la restitutio ad integrum. Le malattie più comuni e le relative terapie attualmente utilizzate, sia mediche sia chirurgiche, possono essere analizzate, per semplicità espositiva, a seconda delle singole componenti dell'apparato visivo che interessano.

a) Palpebre, annessi e muscoli extraoculari. Le blefariti sono irritazioni croniche del bordo palpebrale, spesso legate a difetti visivi non corretti; sono curabili con terapie antinfiammatorie locali a base di pomate cortisoniche. Le palpebre possono essere, inoltre, sede di processi infettivi, l'orzaiolo, e infiammatori, il calazio (v. anche Palpebra). La terapia medica, sia per l'orzaiolo sia per il calazio, si fonda su medicazioni locali con pomate a base di antibiotico e cortisone, allo scopo di ridurre ed eliminare sia la componente infettiva sia quella infiammatoria che si associano frequentemente per entrambe le forme. Non va trascurata la correzione di un eventuale difetto visivo, solitamente un astigmatismo, spesso concausa nel produrre le patologie del bordo palpebrale. Quando il processo morboso non risponde più a una terapia medica e quando le dimensioni sono tali da creare un disagio estetico e funzionale, si interviene chirurgicamente. La terapia chirurgica riguarda principalmente il calazio e consiste nell'incisione cutanea e nella rimozione della piccola neoformazione, avendo cura di 'curettare' completamente il fondo della lesione, per evitare di lasciare residui della capsula e tessuto flogistico nel tessuto palpebrale. Altre piccole neoformazioni palpebrali, come le verruche, i molluschi, i fibromi, gli angiomi possono essere asportate con un semplice atto chirurgico ambulatoriale. Egualmente facile è la rimozione delle neoformazioni della cute palpebrale definite xantelasmi, macchie gialle tipicamente presenti in persone con metabolismo alterato del colesterolo e dei grassi in genere, e che possono anche risentire positivamente di attenzioni alimentari e correzioni dietetiche. La tecnica chirurgica prevede una incisione lungo il bordo della placca giallastra cutanea, la rimozione dello xantelasma, un lieve scollamento del piano cutaneo da quello muscolare sottostante, al fine di realizzare la cosiddetta plastica per scorrimento, e la sutura della ferita mediante pochi punti. Più importante è la correzione chirurgica delle anomalie di posizione e di struttura delle palpebre, che per la loro stessa patogenesi non possono risentire beneficio di trattamenti medici e farmacologici: sono infatti quadri congeniti o secondari a traumi e infortuni. Tra le anomalie di posizione, la patologia più eclatante è la ptosi palpebrale; tra quelle di struttura rientrano le alterazioni congenite e quelle secondarie a importanti processi patologici o a traumi o ustioni. La ptosi palpebrale, frequentemente causata da traumi provocati dal forcipe durante le manovre del parto, prevede una correzione chirurgica sul muscolo ipofunzionante (l'elevatore della palpebra) per riportarlo a un'attività motoria accettabile; si tratta in genere di tecniche di accorciamento e rinforzo con accesso chirurgico dall'esterno, per via transcutanea, o dall'interno, per via transcongiuntivale, o con tecnica mista, che di solito ottengono risultati di buon livello sia estetico sia funzionale. Altre tecniche chirurgiche di correzione della ptosi prevedono l'utilizzazione dei cosiddetti muscoli vicari, il retto superiore o il muscolo frontale, che vengono adoperati dal chirurgo come nuovo sistema di sollevamento della palpebra, a integrazione o sostituzione del muscolo principale deficitario. Le malformazioni, così come le patologie post-traumatiche, sono variabili e legate ad anomalie di sviluppo o all'evento accidentale, e producono talora anche quadri complessi, spesso atipici, che possono obbligare il chirurgo a uno o più interventi, da adattare caso per caso.

b) Apparato lacrimale. Le vie lacrimali di deflusso possono essere sede di stenosi, o più comunemente di flogosi, denominate dacriocistiti. Le stenosi sono occlusioni parziali o totali della via di deflusso delle lacrime, piuttosto comuni in età pediatrica, meno nell'età adulta. Manovre di sondaggio o di ricanalizzazione di queste vie, mediante sottili tubicini tutori, in silicone, possono realizzare una pervietà duratura nel tempo. Nel caso di dacriocistiti, con quadri più o meno gravi, è necessario eliminare con opportuna terapia medica il processo infettivo, e intervenire chirurgicamente solo quando questo si è risolto. La terapia medica, a base di antibiotici locali e per via sistemica, ha lo scopo di eliminare l'agente patogeno, bonificando così il sacco lacrimale nel più breve tempo possibile. In questi casi è anche utile effettuare medicazioni con gocce nasali, atte ad accelerare il processo di guarigione ed evitare infezioni cosiddette ascendenti. L'intervento chirurgico assume carattere d'urgenza quando si è in presenza di un'ascessualizzazione: in questa evenienza, l'incisione della cute al di sopra della tumefazione ascessualizzata ha lo scopo di drenare all'esterno il materiale purulento, in modo da favorire la detersione e la bonifica del sacco lacrimale, che potrà essere riportato successivamente a integrità anatomica guidando la cicatrizzazione con opportune medicazioni locali (guarigione per seconda intenzione). La patologia cronica del sacco lacrimale, dacriocistite cronica, impedisce il passaggio regolare e continuo delle lacrime dal sacco verso la fossa nasale. In questi casi, dopo aver effettuato cicli di terapia antibiotica e antinfiammatoria per ridurre la reazione del tessuto del sacco lacrimale, si ricorre alla terapia chirurgica mediante dacriorinointubazione, ripristinando il deflusso per via naturale, ovvero mediante dacriorinocistostomia, realizzando una nuova via, funzionante come un bypass.

c) Muscoli extraoculari. Tutti i movimenti del globo oculare vengono realizzati dall'azione contemporanea dei vari muscoli extraoculari, intesi come un sistema completo e complesso, con attività agoniste e antagoniste tra loro. Quando questi meccanismi subiscono una qualunque alterazione, primaria o secondaria, si realizzano quadri di strabismo più o meno complessi. Le forme più semplici di strabismo sono quelle che si riscontrano in giovani pazienti, di solito in età pediatrica, dovute a una differente validità funzionale dei due occhi, cui consegue una deviazione dell'occhio ipofunzionante, per una sua esclusione da parte della corteccia cerebrale. La terapia chirurgica sui muscoli extraoculari prevede interventi di rinforzo (ovvero di accorciamento, resezione) o di indebolimento (ovvero di spostamento della sede di impianto sulla sclera, recessione). Gli interventi di rinforzo comportano lo sganciamento del muscolo dalla sua inserzione naturale sulla sclera e il reinserimento nella stessa sede tendinea, dopo aver effettuato un'adeguata rimozione di tessuto muscolare, non più rigenerabile nel tempo. Gli interventi di recessione hanno lo scopo di modificare l'attività del muscolo in senso di ipofunzione, e pertanto non comportano riduzioni della sua lunghezza, ma della sua validità d'azione per retroposizione chirurgica: materialmente, il muscolo viene disinserito dalla sclera e riagganciato con tutto il suo tendine in una posizione arretrata di alcuni millimetri. Vi sono altre tecniche sui muscoli extraoculari che ne consentono un rinforzo o un indebolimento mediante duplicature o miotomie parziali; fanno parte di una chirurgia adottata meno frequentemente, riservata ai cosiddetti strabismi verticali. Tutti questi interventi di correzione dello strabismo dovranno sempre essere preceduti da una completa e corretta valutazione clinica e ortottica, per predisporre gli eventuali trattamenti ottici e occlusivi (ginnastica oculare) necessari. Anche i fenomeni di diplopia, cioè di visione doppia, sono legati a un'alterazione nell'attività dei muscoli extraoculari. Le cause più comuni sono fenomeni paretici, specifici di ciascun nervo oculomotore, oppure episodi ischemici o emorragici del sistema nervoso centrale, nella sede corrispondente all'emergenza del nervo cranico dalla corteccia cerebrale. Queste cause di diplopia devono essere trattate con terapia medica che tenda a risolvere l'evento patologico causa del fenomeno funzionale, ma qualche volta, specie nelle situazioni di tipo paretico, alcune correzioni chirurgiche, utilizzando i muscoli suppletivi, possono migliorare il quadro anatomico e funzionale. Recentemente è stata introdotta inoltre una terapia mediante iniezioni locali di tossina botulinica, allo scopo di riattivare l'attività del nervo offeso. I risultati sono piuttosto incoraggianti, anche se le indicazioni sono certamente limitate.

d) Congiuntiva. Essendo la struttura oculare più a diretto contatto con l'ambiente esterno, è quella maggiormente soggetta a fenomeni irritativi e alla comparsa di neoformazioni, generalmente di natura benigna, più di rado di tipo maligno. La sua superficie ospita comunemente germi detti saprofiti, che non producono alterazioni infiammatorie o infettive, in quanto le lacrime effettuano un'azione detergente e disinfettante, in senso sia meccanico sia chimico (lisozima). Le patologie congiuntivali infiammatorie o infettive sono definite congiuntiviti, che si distinguono in batteriche, allergiche, reattive ecc., in relazione alla causa scatenante. Il trattamento prevede la somministrazione di colliri antibiotici, cortisonici o antiallergici, o miscele di essi, a seconda del quadro clinico. La guarigione è di solito piuttosto rapida, con una restitutio ad integrum completa, anche nei casi in cui la patologia si manifesti bilateralmente. Talora la congiuntiva modifica la sua struttura, producendo delle piccole neoformazioni. Tra quelle benigne si ricordano la pinguecola e lo pterigio, facilmente riconoscibili per la caratteristica forma triangolare che assumono e che tende, nel caso dello pterigio, a sopravanzare sul piano corneale. Queste neoformazioni vanno incontro a episodi di tipo irritativo per la semplice esposizione all'aria e alle radiazioni ultraviolette dell'atmosfera. La prescrizione di colliri antinfiammatori o addirittura cortisonici può ridurre o estinguere il processo irritativo, consentendo al paziente di eliminare la fastidiosa sensazione di corpo estraneo. Nel caso in cui la pinguecola o lo pterigio tendano invece a estendersi o a mantenere uno stato di irritazione, la terapia medica potrà non essere più sufficiente e bisognerà ricorrere a una rimozione chirurgica ambulatoriale; questa viene realizzata al microscopio e consiste nell'escissione della neoformazione, con un riaccostamento dei margini congiuntivali, appena mobilizzati rispetto al piano profondo, con pochi punti di sutura, cioè con guarigione per prima intenzione. Le neoformazioni sospette o maligne sono i nevi, i melanomi e il carcinoma congiuntivale: i primi due spiccano sul piano congiuntivale per il caratteristico colorito bruno-marrone; il carcinoma assume di solito un aspetto perlato, con superficie poco rifrangente e irregolare. Anche per queste patologie la terapia è solamente chirurgica, per escissione, ma seguendo un criterio di ampia rimozione tessutale, per realizzare un'asportazione totale, contornata da un ampio anello di tessuto sano di sicurezza. Le plastiche, per la ricostruzione del piano, potranno essere più o meno complesse a seconda dell'estensione del tessuto rimosso. L'esame istologico deve completare l'azione terapeutica, per confermare la diagnosi clinica.

e) Cornea. Essendo la prima superficie trasparente che la luce incontra nel suo percorso dall'esterno verso l'interno dell'occhio, è necessario che il piano corneale non costituisca un ostacolo alla progressione del fascio luminoso. Pertanto, dal momento che le patologie corneali, infettive o infiammatorie, modificano la trasparenza di questa membrana, esse devono essere trattate con assoluta urgenza e tempestività. Per es., piccoli corpi estranei che dovessero poggiarsi o infiltrarsi nel tessuto corneale dovranno essere rimossi tempestivamente, al fine di evitare fenomeni irritativi e cicatriziali con conseguente perdita di trasparenza del tessuto corneale. Le infezioni corneali o cheratiti, le patologie più importanti di questo tessuto, sono di varia natura e conducono tutte a un interessamento della cornea sul piano superficiale o su quello profondo, in relazione al tipo di causa scatenante. Le forme superficiali possono produrre cicatrici più o meno dense, che potranno risultare invalidanti solo se localizzate nella porzione centrale della cornea. La terapia prevede l'uso corretto e appropriato di colliri antibiotici nella prima fase della malattia, cui vanno associati colliri riepitelizzanti o lacrime artificiali per favorire la formazione delle nuove cellule epiteliali corneali. Per queste patologie, batteriche o virali, l'eventuale opacità cicatriziale potrà essere rimossa, ablata, con laser a eccimeri, cioè con una tecnica parachirurgica, che distruggerà elettivamente il tessuto patologico. In alternativa, nel caso di piccole e tenui opacità, l'uso di colliri a base di eparina potrà produrre una dissoluzione più o meno completa dell'opacità corneale. Nelle patologie corneali profonde è interessato tutto il tessuto corneale nelle sue varie componenti: epitelio, stroma ed endotelio. Spesso il trattamento antibiotico, cortisonico e midriatico, effettuato con l'impiego di colliri, risolve il quadro patologico, obbligando però il paziente a lunghi cicli di terapia, che hanno lo scopo di risolvere completamente la noxa patogena e ridurre al minimo la cicatrizzazione del tessuto corneale per non limitarne la trasparenza. Se l'opacità è piuttosto estesa e notevolmente invalidante la terapia sarà costituita dal trapianto di cornea. La sostituzione del tessuto corneale è un intervento chirurgico nel suo insieme tecnicamente semplice: l'asportazione del tessuto malato avviene con un trapano di precisione, manuale o meccanico, che disegna e ritaglia un dischetto di tessuto corneale centrale comprendente l'area patologica, e lo sostituisce con uno di dimensione pressoché identica (di solito maggiore di appena 0,25 mm) proveniente da un donatore e preparato con tecnica similare. La continuità anatomica tra la cornea ospite e il lembo di tessuto del donatore viene assicurata da una o due suture di tipo continuo. Agli inizi del 21° secolo il problema più complesso dei trapianti di cornea in Italia e nel mondo è ancora il reperimento del donatore. Di grande attualità è la correzione chirurgica dei difetti visivi, specie miopia e astigmatismo, mediante tecniche chirurgiche e laser. Il presupposto teorico di queste metodiche è quello di modificare il valore rifrattivo della superficie corneale rispetto al valore totale del difetto visivo di quell'occhio. Sia con le cosiddette incisioni radiali, sia con le fotoablazioni con laser a eccimeri, la cornea viene modificata nella sua struttura anatomofunzionale: con le prime se ne appiattisce l'apice; con le seconde se ne riduce lo spessore, a livello dello stroma, nella quantità necessaria per correggere il difetto presente. La sicurezza di queste metodiche è oramai molto elevata, con percentuali di successo estremamente alte.

f) Uvea. La membrana uveale può essere interessata da patologie relative alle sue tre componenti: l'iride, il corpo ciliare, la coroide. L'iride può essere sede di fenomeni infiammatori (iriti), più o meno gravi, e di processi neoformativi benigni e maligni. I quadri infiammatori vengono trattati con colliri cortisonici e blandi midriatici, cui potrà aggiungersi una terapia generale se il quadro clinico dovesse essere particolarmente grave. La porzione intermedia dell'uvea, il corpo ciliare, come il resto del tessuto uveale può andare incontro agli stessi quadri patologici (cicliti) e il trattamento è praticamente sovrapponibile a quello delle iriti, con eventuali correzioni e modifiche nella posologia in base alla gravità del quadro. Tanto le iriti quanto le cicliti possono essere le manifestazioni oculari di malattie sistemiche, sia comuni, come il diabete, sia più complesse, come i quadri autoimmuni e le malattie del collageno. In questi casi è necessario integrare la terapia del quadro oculare con quella della malattia di base. Anche la coroide, può essere interessata da fenomeni infiammatori e infettivi, semplici o complessi, con le stesse modalità dei quadri precedentemente descritti. Le terapie sono sovrapponibili, quando addirittura non devono diventare più importanti e impegnative se inquadrate in forme generalizzate. La patologia coroideale può produrre un interessamento della retina sovrastante (corioretiniti) o può prendere avvio da un processo morboso retinico che si diffonde negli strati sottostanti (retinocoroiditi). Queste patologie possono risolversi con esiti anatomici e funzionali più o meno gravi e invalidanti a seconda dell'estensione e gravità del quadro morboso iniziale, e possono anche divenire croniche, mantenendo così uno stato infiammatorio subdolo e continuo che può compromettere la vitalità dell'occhio, fino a un'ipotrofia, o addirittura a una tisi bulbare vera e propria, con perdita della funzionalità visiva.

g) Cristallino. Poiché il cristallino ha come caratteristica peculiare quella di essere una lente variabile per potere diottrico, a patto che essa mantenga la sua trasparenza, le patologie a suo carico sono sempre legate ad anomalie di forma, posizione e trasparenza. La patologia più comune, sia in età pediatrica sia in età adulta, è senz'altro la cataratta, opacamento più o meno totale del cristallino. Le cause che producono cataratta sono: in età infantile, patologie infettive in corso di gravidanza (per es. rosolia); in età giovanile e adulta, eventi traumatici o conseguenze di quadri e/o terapie sistemiche per altre malattie; in età senile, la causa più frequente è idiopatica. La terapia, sia in età pediatrica sia nell'adulto, è di tipo chirurgico e consiste nel rimuovere attraverso piccole incisioni di 2-3 mm il cristallino opacato, utilizzando sonde collegate ad apparecchiature computerizzate. La rimozione del cristallino catarattoso produce un difetto visivo definito afachia, che può essere corretto attraverso l'inserzione di un cristallino artificiale all'interno dell'occhio nella stessa sede del cristallino naturale (sacco capsulare). In questo modo la riabilitazione funzionale di un occhio operato di cataratta è pressoché immediata e di buona qualità, e permette al paziente una ripresa delle proprie attività professionali e delle abitudini di vita in tempi estremamente rapidi.

h) Bulbo oculare. Il bulbo oculare è un sistema chiuso e pertanto possiede una pressione interna, esercitata dai liquidi endoculari sulle pareti sclerali, chiamata tono endoculare. L'aumento del tono endoculare produce uno stato patologico importante definito glaucoma, che presenta diversi quadri clinici. Per semplicità si potrebbe paragonare il bulbo oculare a una vasca da bagno in cui il rubinetto dell'acqua è aperto, con una portata costante (produzione dell'umore acqueo); la via di scarico della vasca (anatomicamente il sistema trabecolare e le vie di deflusso interne del bulbo oculare) dovrà smaltire liquido a sufficienza per evitare che esso trabocchi; l'equilibrio di tutto il sistema resterà tale fino a quando la quantità di liquido che entra sarà uguale a quella eliminata, e la vasca pertanto sarà sempre riempita della stessa quantità di liquido (tono endoculare); un'alterazione significativa tra produzione ed eliminazione a vantaggio del primo porterà a uno stato di iper-riempimento, cioè di ipertono. Clinicamente il glaucoma viene suddiviso in congenito, primario, secondario, a seconda della causa che ha prodotto l'ipertono. Tutti i quadri di glaucoma sono abbastanza facilmente riconoscibili nel corso di una visita specialistica oculistica, per l'insieme di segni clinici che ogni forma presenta. La possibilità di influire farmacologicamente sull'evoluzione della malattia è attualmente piuttosto buona, poiché sono a disposizione numerosi farmaci ad azione diversa, spesso sinergica, che agiscono con due differenti meccanismi: riduzione della produzione di umore acqueo e facilitazione del deflusso per le vie principali e per quelle secondarie. Al primo gruppo di farmaci appartengono i betabloccanti e gli α-agonisti, attivi cioè su particolari recettori presenti all'interno del tessuto oculare, nella struttura deputata alla produzione dell'umore acqueo, ossia il corpo ciliare: il decremento di umore acqueo riduce la pressione endoculare e contrasta gli effetti negativi indotti dall'ipertono sulla retina e sul nervo ottico in particolare. I farmaci che facilitano invece il deflusso, la pilocarpina e il latanoprost, hanno un'azione sulle cosiddette vie di deflusso, cioè aumentano la fuoriuscita dell'umore acqueo dallo spazio endoculare attraverso le vie fisiologiche e parafisiologiche, producendo così un effetto ipotensivo. Come già detto, questi farmaci possono essere usati in varia posologia, abbinando anche la somministrazione di alcuni di essi per sfruttare al massimo l'effetto sinergico delle varie molecole. I pazienti dovranno comunque effettuare controlli clinici regolari con misurazione del visus e del tono endoculare, esame del fondo dell'occhio e campimetria. Quando il quadro glaucomatoso diventa non più controllabile con l'impiego di una terapia farmacologica locale e generale più o meno complessa, bisognerà effettuare una correzione chirurgica. Le tecniche variano a seconda che si tratti di forme congenite, primarie o secondarie. Nel caso del glaucoma congenito, denominato anche buftalmo o idroftalmo per il caratteristico ingrandimento oltre misura del bulbo oculare, l'intervento cercherà di ripristinare una circolazione dell'umore acqueo attraverso le normali vie di deflusso interne (goniotomia, trabeculotomia ab interno), o, in caso di insuccesso, attraverso bypass e sistemi pseudovalvolari o valvolari che dreneranno verso l'esterno l'umore acqueo in eccesso. Nelle forme primarie dell'adulto la moderna microchirurgia realizza piccole valvole protette, le quali mettono in comunicazione direttamente l'interno dell'occhio e la camera anteriore, in particolare, con lo spazio sottocongiuntivale. Questo tipo di intervento ha una percentuale di successo di oltre l'85%. Nel caso di glaucomi secondari le tecniche chirurgiche sono molteplici e tutte tendono a ridurre la produzione di umore acqueo mediante una distruzione selettiva dei processi ciliari con criotrattamenti, diatermocoagulazioni oppure trattamenti laser definiti ciclofotocoagulazioni.

i) Retina. Le principali malattie della retina sono affezioni distrofico-degenerative, infiammatorie e infettive. Inoltre, possono verificarsi microangiopatie retiniche per patologie vascolari sistemiche (diabete, ipertensione ecc.) che interessano anche il microcircolo retinico. Questi quadri clinici sono generalmente sensibili alle opportune terapie mediche; inoltre il trattamento della patologia di base migliora il flusso ematico all'interno della circolazione retinica, producendo effetti vantaggiosi sul trofismo retinico. Anche quadri più gravi, come le emorragie e le trombosi, possono essere trattati con opportune terapie mediche, spesso articolate, destinate a un buon successo clinico, soprattutto se instaurate precocemente. In particolare le terapie cercheranno di facilitare la circolazione, agendo sulla coagulazione ematica e sulle resistenze offerte dalle pareti vasali, per eliminare qualunque ostacolo endoluminare ed esoluminare al passaggio del torrente ematico. Farmaci capillaroprotettori, come gli antocianosidi e la stessa vitamina C, trovano un'indicazione elettiva. Le patologie infiammatorie e quelle infettive colpiscono la retina e la coroide, il suo strato nutritivo, in forme localizzate e/o disseminate. La gravità di questi stati morbosi consiste nell'importante danno anatomofunzionale che il tessuto retinico subisce, con conseguenze spesso importanti per quanto riguarda la conservazione di un buon visus e di un buon campo visivo. Questi quadri, definiti retiniti o corioretiniti, necessitano di una pronta diagnosi e ancor più di un rapido intervento terapeutico. La grave diminuzione visiva che il paziente nota all'insorgere della malattia è spesso il sintomo più eclatante che lo conduce dallo specialista, mentre talora, in quadri minori o più leggeri per manifestazione morbosa, la diagnosi scaturisce durante una visita di routine. Di frequente sarà l'importanza della patologia sistemica a suggerire un controllo specialistico dell'apparato visivo, per effettuare una prevenzione o comunque una diagnosi precoce che possa avere così effetti positivi per il paziente. Nel passato i quadri generalizzati erano legati a patologie tipo tubercolosi e sifilide. Oggi sicuramente le malattie da immunodeficienza, e l'AIDS in primo luogo, sono le affezioni che causano le retiniti e le corioretiniti più gravi. La terapia di queste patologie comprende antibiotici o sulfamidici, immunodepressori, cortisonici con dosaggi e posologie variabili caso per caso. Sarà l'esperienza dell'oculista e la stretta collaborazione con l'infettivologo a modulare di volta in volta la terapia. Le rotture retiniche e il distacco di retina sono patologie che risentono esclusivamente di trattamenti chirurgici aventi lo scopo di chiudere e rinforzare la retina nel suo punto di lacerazione, nonché di ricondurre nella sua normale posizione anatomica la porzione di retina sollevata dalla rottura retinica. Questa è la correzione tradizionale del distacco di retina, che si realizza mediante criotrattamenti, piombaggi localizzati e cerchiaggio del bulbo. Nei casi complessi l'intervento correttivo si avvale di una tecnica piuttosto recente denominata vitrectomia, che si realizza mediante l'introduzione di alcune cannuline all'interno del bulbo oculare, che triturano ed eliminano l'umore vitreo dalla sua cavità e lo sostituiscono con apposite soluzioni saline bilanciate, risolvendo così la patologia retinica e rimettendo la retina nuovamente ben adagiata sul piano coroideale. Questa tecnica può, in casi più gravi e complessi, richiedere due o tre procedure chirurgiche da attuarsi in tempi successivi. Anche la rimozione di grosse emorragie endoculari avviene con la stessa metodica. Anche i tumori endoculari producono un quadro denominato distacco di retina. Se la loro estensione è notevolmente ampia, il chirurgo è obbligato a una rimozione totale del bulbo oculare (enucleazione); se invece l'estensione è contenuta si possono attualmente effettuare interventi di escissione della sola massa tumorale, tumorectomia, risparmiando il resto del bulbo oculare e mantenendo in tal modo una certa funzionalità visiva.

l) Orbita. La cavità orbitaria è lo spazio che contiene il bulbo oculare, i muscoli estrinseci, il nervo ottico, la ghiandola lacrimale. L'orbita può essere occupata da neoformazioni di natura benigna o maligna, con partenza dal tessuto palpebrale, dalla ghiandola lacrimale, dal grasso peribulbare, dai muscoli, dalle strutture linfatiche, dall'apparato lacrimale di deflusso. Inoltre è ben conosciuto l'interessamento orbitario in corso di ipertiroidismo (esoftalmo basedowiano). Prima di qualunque manovra chirurgica sull'orbita è bene documentare lo status anatomico con esami radiografici ed ecografici, tomografia computerizzata (TC) o risonanza magnetica (RM), a seconda del tipo di tessuto da esaminare. La rimozione delle eventuali neoplasie, benigne o maligne, o dei cosiddetti pseudotumori, necessita di una specifica competenza e preparazione da parte del chirurgo oculista, che dovrà rimuovere attraverso vie laterali o endocraniche la massa patologica, risparmiando accuratamente le strutture non interessate dal processo espansivo (per es. il nervo ottico). L'ingombro dello spazio orbitale da parte di neoformazioni può produrre compressioni e schiacciamenti sul bulbo oculare o su altre strutture extraoculari, talora con influenze sulla funzione visiva, che può essere ridotta e compromessa in maniera più o meno irreversibile. Pertanto, l'intervento chirurgico deve essere tempestivo, non solo per rimuovere la massa, ma anche per ridare nuovamente alle strutture dell'orbita i reciproci rapporti. Ritardi terapeutici potranno invece, di volta in volta, lasciare reliquati, con limitazioni anatomofunzionali più o meno gravi. L'orbita può essere interessata anche da processi vascolari, come angiomi, fistole ecc., ma soprattutto può essere sede di lesioni tipiche e atipiche, derivanti da piccoli o grossi traumi. In questi casi, molto spesso è necessaria un'azione interdisciplinare, che coinvolga l'oculista, il chirurgo maxillofacciale, il neurochirurgo, il chirurgo plastico. Simile approccio può essere richiesto anche nelle malformazioni congenite, in relazione alla maggiore o minore estensione e gravità dell'anomalia.

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