Olimpiadi estive: Amsterdam 1928

Enciclopedia dello Sport (2004)

Olimpiadi estive: Amsterdam 1928

Elio Trifari

Numero Olimpiade  IX

Data: 17 maggio-12 agosto

Nazioni partecipanti: 46

Numero atleti: 2883 (2605 uomini, 278 donne)

Numero atleti italiani: 166 (148 uomini, 18 donne)

Discipline: Atletica, Calcio, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallanuoto, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Sollevamento pesi, Tuffi, Vela

Numero di gare: 109

Giuramento olimpico: Henri Denis

La scelta di Amsterdam avvenne sette anni prima della IX Olimpiade, che si svolse dal 17 maggio al 12 agosto 1928. Di Amsterdam si era già parlato a proposito dell'edizione 1920 e il Comitato olimpico nazionale era stato fondato nel 1912. Neutrale nel primo conflitto, l'Olanda si riaffacciò nella battaglia per le selezioni olimpiche nel 1919, sotto la spinta del barone Frederik Willem van Tuyll, membro del CIO, ma comprendendo che Anversa non aveva avversarie, visto il valore simbolico della scelta che si orientava sul martoriato Belgio, approfittò del desiderio di de Coubertin di avere i Giochi a Parigi nel 1924, trent'anni dopo il congresso fondativo della Sorbona, per ottenere il 2 giugno 1921 un'investitura molto anticipata rispetto alle consuetudini.

Da quella data al maggio 1928 l'Olanda dispose di un periodo più che sufficiente per prepararsi. Nel frattempo molte cose erano cambiate. Il quadro internazionale dello sport si era ampliato: nel 1921 Mosca aveva favorito la creazione della RSI, l'Internazionale sportiva rossa, che nel 1928 programmò le Spartachiadi invernali a Oslo e quelle estive a Mosca, subito dopo l'Olimpiade 'borghese' di Amsterdam. Intanto, l'associazione internazionale dei sindacati dei lavoratori aveva allestito la prima Olimpiade del lavoro, dal 25 al 28 luglio 1925 a Francoforte, organizzata dall'Internazionale dello sport di Lucerna (LSI), una sezione dell'Internazionale socialista, con 1100 atleti di 19 paesi e lo slogan "Mai più guerra" e 150.000 spettatori. Concorrenza pesante, anche per il CIO, e tuttavia una situazione complessa, con la RSI e la LSI che si facevano la guerra fra loro. L'intenzione di Amsterdam era di aprire al mondo intero, superando le posizioni di parte, le contrapposizioni con le due associazioni dei lavoratori e l'etichetta borghese. A questo scopo, intanto, gli organizzatori sollecitarono la definitiva riammissione della Germania, poi una ripulitura del pletorico programma olimpico e l'ingresso delle donne negli stadi, con l'atletica femminile.

Pioniera dello sport muliebre, da tempo chiedeva al CIO l'ingresso delle donne dell'atletica ai Giochi la francese Alice Milliat, atleta essa stessa, presidente dal 1920 della Federazione delle società sportive femminili di Francia e organizzatrice di un Festival mondiale dello sport muliebre nel marzo del 1921 a Montecarlo, con squadre di Francia, Italia, Spagna e Svizzera. Quasi contemporaneamente fu fondata la FSFI (Fédération sportive féminine internationale), con Milliat in veste di presidente, cui aderirono sei nazioni: Francia, Gran Bretagna, Italia, Spagna, Cecoslovacchia e Stati Uniti. La FSFI decise di organizzare ogni quattro anni un'Olimpiade femminile e il 20 agosto 1922, allo stadio Pershing di Parigi, si tenne la prima edizione con 65 atlete di cinque paesi, 20.000 spettatori e 18 migliori prestazioni mondiali. Nel 1924 la IAAF (International amateur athletic federation) incluse esplicitamente l'atletica femminile nel suo statuto; l'anno dopo l'Olimpiade dei lavoratori aprì alle donne e lo stesso fece l'Organizzazione internazionale degli studenti nel 1927. Nel maggio del 1926, a Lisbona, il presidente della IAAF, Sigfrid Edström, informò i membri del CIO in sessione che ad Amsterdam si sarebbero svolte cinque gare di atletica femminile. Finalmente de Coubertin dovette cedere. Milliat aveva vinto e poteva rimuovere la parola 'Olimpiade' dalla competizione femminile che aveva istituito, ridenominandola 'Giochi mondiali femminili'. Questi si disputarono altre tre volte, fino al 1934 e poi dal 1938 furono inglobati nei Campionati Europei.

Amsterdam, nel frattempo, aveva risolto il problema dello stadio. L'impianto costruito nel 1914 dall'architetto Harry Elte e che aveva ospitato nel 1916, in piena guerra, i Giochi olimpici olandesi, era inadatto alle esigenze di un'Olimpiade vera. Su un'area di 25 ettari scelta nel 1925, si ricavò lo spazio necessario, dopo aver ampliato il canale dell'Amstel. Il progetto di Jan Wils era così bello da vincere il concorso d'arte e di architettura dei Giochi olandesi nel 1928: ma le sue idee erano troppo ambiziose e si dovette rinunciare sia allo stadio del tennis sia al villaggio olimpico, visto che la città godeva di buona capacità alberghiera a prezzi contenuti. Requisiti alberghi, pensioni, scuole e abitazioni private, si utilizzarono anche le navi alla rada. La President Roosevelt, la Oihonna e la Solunto si divisero la squadra USA e quella finlandese, l'ultima nave ospitò anche la rappresentativa italiana. Le fondamenta del nuovo stadio vennero posate il 18 maggio 1927, alla presenza del principe Hendrik. L'arena aveva una pista in cenere di 400 m per l'atletica, una di 500 m in cemento per il ciclismo, conteneva 21.500 posti a sedere e 12.600 in piedi. Il costo dell'opera fu di 1.250.000 fiorini. Splendido l'ingresso, elegante la Torre di Maratona, alta 42,195 m, come i chilometri della corsa. Nonostante la lotteria nazionale e i contributi statali, il bilancio finale accusò un passivo di circa 2.000.000 di fiorini.

Il programma fu definito nella sessione del CIO a Praga, alla fine di maggio del 1925. Scartati hockey su pista, motonautica e scacchi, si dibatté molto se accogliere calcio, tennis e tiro, discipline ad alto tasso di professionismo. "Noi non distinguiamo dilettanti e professionisti", tuonò Daniel Mérillon, il nemico di de Cou-bertin a Parigi 1900, presidente del tiro: e il tiro restò fuori. Fuori anche il tennis, che sarebbe tornato solo nel 1988. Il calcio restò, ma decimato, senza i britannici, che non aderivano alla FIFA, e i nordici; tuttavia, la finale Uruguay-Argentina sarebbe stata la stessa anche ai Mondiali di due anni dopo.

Il ritorno della Germania lasciò fuori dal consesso olimpico solo l'URSS, che non partecipava alle competizioni internazionali. Un incidente causò l'assenza dei francesi dalla cerimonia d'apertura, dopo che agli atleti era stato impedito di allenarsi sulla pista dello stadio olimpico e ne era nata una baruffa, nella quale venne malmenato anche il segretario della Federazione dell'atletica francese Paul Méricamp. Ma la Francia fu regolarmente presente con 230 atleti. Ridotto il programma (109 gare, e tuttavia ben 15 concorsi d'arte), anche se i paesi salirono a 46, gli atleti furono meno che a Parigi: 2883 (278 donne, un record); la durata dei Giochi esclusi calcio e hockey venne contenuta in 2 settimane, fra il 28 luglio e il 12 agosto (il torneo di hockey su prato iniziò il 17 maggio), per l'ultima volta le premiazioni si svolsero tutte alla fine. Da Los Angeles, anche per le necessità di rientro di molte squadre, sarebbero state più o meno contestuali alle gare.

Le donne in atletica furono dunque l'evento più atteso e significativo di questa edizione. L'onore del primo titolo olimpico femminile di atletica toccò a una studentessa dell'Università di Varsavia, Halina Konopacka, 27 anni, la cui gara, il disco, era la prima del programma delle finali, alle 14 del 31 luglio. Konopacka, che deteneva con 39,18 m la miglior prestazione mondiale e dunque era la favorita, mancò di 1 cm il suo mondiale in qualificazione, ma in finale con 39,62 m segnò il nuovo record del mondo; alle 15.10 era già tutto finito, le 21 lanciatrici avevano concluso e l'americana Lillian Copeland fu seconda, staccata di 2,5 m. Konopacka, che non si avvicinò più al record (toccò alla connazionale Jadwiga Wajs, bronzo a Los Angeles e argento a Berlino, raccoglierne l'eredità arrivando a 44 m) dopo Amsterdam si sposò, lasciò la Polonia nel 1939, andò prima in Francia in seguito negli USA e si stabilì infine a New York con il marito, dedicandosi alla pittura. Tornò spesso a Varsavia, l'ultima volta nell'anno della sua morte, il 1989.

Non molti, nello stadio, però, osservavano il disco, sicché fu la prima finale di corsa, quella dei 100 m, a richiamare l'attenzione generale. Si comprese subito che sarebbe stata una vera battaglia. La favorita, a guardare i primati, era la canadese Myrtle Cook, che ai campionati nazionali di Halifax aveva corso in 12″, record del mondo, omologato però solo due anni dopo; lo stesso tempo era stato attribuito, però, anche all'americana Elizabeth Robinson a Chicago, durante una gara di qualificazione olimpica, anche se questa prestazione non venne riconosciuta. Il giorno precedente una delle tre semifinali aveva opposto proprio Robinson e Cook, e l'americana risultò più veloce. La finale partì alle 16, ma fu falcidiata dalle false partenze: lo starter olandese sostituì l'esperto britannico Moir e colse per due volte in anticipo Cook, che pianse disperata per mezz'ora. Toccò poi alla tedesca Leni Schmidt, che reagì duramente, mostrando il pugno allo starter e minacciandolo. In conclusione, partirono soltanto in quattro, alle 16.35, e sfrecciò prima Robinson, in 12,2″, tempo che venne annunciato come record del mondo. Dietro di lei si piazzarono altre due canadesi. Cook continuò a piangere, ma cinque giorni dopo vinse l'oro della staffetta, davanti agli USA, anche se fu Robinson la stella.

Nata ad Harvey, minuta ‒ la chiamavano 'Babe' ‒, vivace e di piacevole aspetto Robinson, che era nata il 23 agosto 1911, viveva a Riverdale, nell'Illinois, ed era stata notata da Charles B. Price, il professore di biologia del suo liceo, la Thornton high school, che l'aveva vista correre per prendere un treno. Si allenava con la squadra maschile di atletica della scuola e prima del 30 marzo 1928 non aveva mai gareggiato: al debutto finì seconda dietro la primatista USA Helen Fikey, alla seconda gara, il 2 giugno, piazzò il suo 12″ non riconosciuto. Si qualificò poi ai Trials di Newark e dunque Amsterdam era la sua quarta gara in assoluto. New York (a Broadway), Chicago e poi Riverdale le riservarono al ritorno parate trionfali. Tre anni dopo, reduce da due migliori prestazioni mondiali su 60 e 70 yards, fu coinvolta in un incidente aereo a Harvey, vicino Chicago, per la caduta di un biplano a due posti guidato dal cugino, che le procurò un serio trauma cranico, fratture al braccio e alla gamba e richiese tre anni di fermo assoluto. Babe, nel frattempo laureata alla Northwestern University, restò in coma per sette settimane; quando si riprese, i medici le diagnosticarono lesioni che le avrebbero impedito per sempre di camminare (aveva tre viti nell'arto inferiore, più corto dell'altro di 2 cm), ma Babe riuscì a tornare a correre, anche se non poteva piegare il ginocchio per la partenza, e disputò solo staffette. Alle prequalificazioni olimpiche di Chicago del 1936, si presentò comunque e corse in 12″, per finire poi seconda ai Trials. Ai Giochi di Berlino corse la terza frazione della 4 x 100 m che conquistò l'oro dopo la squalifica delle atlete tedesche, le quali avevano stabilito il mondiale in semifinale e persero il bastoncino all'ultimo cambio, quando avevano 8 m di vantaggio sulle americane. Ritornò in patria, in Canada affrontò con le compagne in due gare le canadesi che avevano vinto il bronzo a Berlino nella 4 x 100 m, poi si ritirò e tornò a fare la segretaria per dedicarsi successivamente all'attività di cronometrista. Visse fino all'età di 87 anni e morì ad Aurora, Colorado.

Robinson non era la preferita dei fotografi, che letteralmente perseguitavano la bellissima canadese Lily Catherwood. Né i fotografi si accorsero che negli 800 m, gara drammatica per i cedimenti e i ritiri (per questo motivo fu tolta dal programma olimpico fino a Roma 1960), dietro la tedesca Lina Radke (nata Batschauer) era finita la più grande all-rounder dell'epoca, la giapponese Kinue Hitomi, 22 anni, che correva i 100 m in 12,2″ e saltava 5,98 m in lungo (sarebbe arrivata a 6,16 m), migliori prestazioni mondiali di allora. Hitomi finì fuori dalla finale dei 100 m, ma segnò record in sette discipline fra il 1926 e il 1929, e vinse quattro medaglie ai Giochi Mondiali femminili di Praga del 1930, anno in cui fu prima in sei gare nel confronto con la Polonia e in sette contro le francesi, il giorno dopo averne disputate altre sei nel match contro il Belgio. Morì di tubercolosi l'anno dopo, ad appena 25 anni.

I flash su Robinson ebbero il senso di una piccola rivalsa femminile, dal momento che la velocità maschile segnò ad Amsterdam il punto più basso della storia olimpica dello sprint USA. Sconfitte ce ne erano già state, da Londra 1908 a Parigi quattro anni prima, ma la totale assenza degli USA dal podio non aveva precedenti. Gli anziani facevano il possibile: Charles Paddock andò fuori in semifinale nei 200 m, Jackson Scholz fu appena fuori dal podio sulla stessa distanza; sui 100 m il più atteso, Frank Wykoff, che dicevano ingrassato di 5 kg fra Trials e Giochi, arrivò ancora quarto. Il trionfatore, a maggior disdoro, fu un canadese di appena 20 anni, Percy Williams. Lo allenava uno strano personaggio, Bob Granger, che lo massaggiava con burro di cocco e nelle giornate più fredde lo faceva vestire con tre o quattro tute per evitare di disperdere il calore. Mentre gli americani facevano riscaldamento, Williams restava negli spogliatoi sotto diverse coperte; in giornate atmosfericamente avverse, ottenne 10,8″ e 21,8″, il che gli procurò, al ritorno a Vancouver, il regalo di una fiammante vettura sportiva, mentre Granger, andato in Olanda grazie a una colletta, si accontentò di una borsa di 500 dollari. Un'altra sconfitta per gli USA venne nei 400 m ostacoli, dove vinse sir David Burghley, marchese di Exeter, che sarebbe poi diventato presidente della IAAF e vicepresidente del CIO. In quella stessa gara si rivelò compiutamente il talento dell'italiano Luigi Facelli, un soffiatore di vetro, che arrivò sesto. Negli 800 m si registrò un'altra vittoria degli inglesi con Douglas Lowe. Salvò l'onore USA Raymond Barbuti, che difese strenuamente il primo posto nei 400 m dal canadese James Ball, ma agli americani non bastava, come non poteva soddisfarli il successo nelle due staffette. Scattarono le inchieste, la stampa denunciò gli sprechi sulla President Roosevelt (580 bistecche per pasto, a fronte di 250 atleti sulla nave) e ci si chiedeva a cosa servissero, in atletica, un manager, tre vice, un capoallenatore e dieci assistenti, più un preparatore, cinque aiuti, un sacerdote, tutti dedicati alla squadra di atletica che contava 81 uomini e 17 donne.

Nonostante le sconfitte gli USA comunque prevalsero nel bilancio complessivo dell'atletica. Nel nuoto invece spuntò una nuova, temibile concorrenza: il Giappone. Il primo oro giapponese della storia era stato vinto il 2 agosto, nel triplo, da Mikio Oda, ventitreenne di Hiroshima, che diventò poi giornalista dell'Asahi shimbun e docente di discipline sportive all'università di Tokyo, oltre che membro della IAAF. Ma fu nel nuoto che i giapponesi si dimostrarono avversari davvero terribili. Nel 1920 soltanto due giapponesi avevano partecipato alle gare di nuoto (come due erano stati i tennisti che ad Anversa avevano ottenuto le prime medaglie olimpiche nipponiche, due argenti, nel singolare e nel doppio), a Parigi erano stati sei e avevano sfiorato il bronzo nella staffetta 4 x 200 m. Ad Amsterdam erano undici e la giornata memorabile fu l'8 agosto, quando Yoshiyuki Tsuruta (o Turuta, come si firmava), 25 anni non ancora compiuti, conquistò i 200 m rana, costringendo il direttore della banda ad acquistare in tutta fretta lo spartito dell'inno giapponese in un negozio vicino (Tsuruta si sarebbe ripetuto a Los Angeles). Due giorni dopo Katsuo Takaishi ottenne il bronzo nei 100 m stile libero e poi guidò all'argento i suoi compagni, tutti di età inferiore ai 20 anni, in staffetta. Erano le prime affermazioni della scuola del professor Matsuzawa, un assistente di chimica all'università, che aveva introdotto lunghissime sedute d'allenamento e un particolare movimento della gamba che avrebbe reso famosi i giapponesi in acqua, dando loro numerosissime vittorie, tra cui una clamorosa, ottenuta tre anni dopo a Tokyo, sugli Stati Uniti, sconfitti 40-23. Gli americani affiancarono a Bill Bachrach, l'allenatore ufficiale, Bob Kiphut, considerato una sorta di santone, ma i trionfi della scuola nipponica continuarono a Los Angeles 1932 (tutti i titoli maschili vinti, tranne i 400 m) e a Berlino 1936. Ad Amsterdam alla prima débacle natatoria americana contribuirono lo svedese Arne Borg, che dominò i 1500 m e anche l'argentino Alberto Zorrilla, che viveva e si allenava a New York, e che conquistò i 400 m stile libero lasciati liberi da Johnny Weissmuller, che preferì la pallanuoto. Weissmuller (100 m e 4 x 200 m stile libero) e George Kojac (100 m dorso) salvarono l'onore degli Stati Uniti, insieme ad Albina Osipowich (100 m stile libero) e a Martha Norelius (400 m stile libero) in campo femminile.

Fra le 18 donne che fecero parte della rappresentativa italiana, vi furono le straordinarie Piccole italiane della Ginnastica Pavese, un gruppo di dieci bambine e ragazze, più due riserve, tutte di Pavia, che conquistò l'argento dietro le mature olandesi nella prova a squadre, composta da corpo libero (13-15 minuti), esercizi agli attrezzi (idem) e salti (9-10 minuti). Le piccole pavesi furono accompagnate ad Amsterdam dal professor Gino Greco sulla Solunto, dopo che si erano allenate per un mese a Pallanza, ospiti della villa dei signori Rovelli di Montobbio. Sulla nave ricevettero la visita della principessa Mafalda. La più piccola era Luigina Giavotti, detta 'Popolo', perché abitava in case popolari, che a 11 anni e 302 giorni diventò ‒ escluso il timoniere dell'armo olandese del 1900, di cui si ignora tutto, anche l'età ‒ la più giovane partecipante dell'intera storia olimpica e anche la più giovane medagliata, nonostante fosse una riserva come Clara Marangoni. C'erano anche un paio di dodicenni, Clara Marangoni e Ines Vercesi, la più 'vecchia' era Lavinia Gianoni, di 17 anni e mezzo. La custode della società, 'mamma Maria', le controllava tutte nelle pochissime visite in città. Le olandesi, in gara, puntarono sulle acrobazie, le italiane sulla qualità degli esercizi. Erano terze dopo il primo blocco, poi le ungheresi che erano in testa crollarono negli esercizi. Si decise tutto la mattina del 9 agosto alle 10 con i salti, che si aprirono con le olandesi in vantaggio a 208,50 punti e le italiane a 204,75. I sei giudici olandesi, fra cui due donne, premiarono le rappresentanti di casa, le italiane vinsero la medaglia d'argento, ma si sentirono defraudate. Al ritorno a casa furono molto acclamate, a Milano prima, dove si esibirono nel settembre del 1928 al Teatro Lirico, con un grande afflusso di pubblico, e a Pavia poi. Il Comune diede a ciascuna di loro un libretto di risparmio di 100 lire come riconoscimento e premio. Purtroppo una delle giovani, Bianca Ambrosetti, morì l'anno dopo, a 15 anni. Questa medaglia fu una vera soddisfazione, più rilevante di quella ottenuta dagli uomini con il secondo posto alla sbarra di Romeo Neri che sarebbe stato il miglior ginnasta dell'Olimpiade quattro anni dopo.

Nel ciclismo si registrò il terzo oro consecutivo di un quartetto dell'inseguimento italiano, ancora con una formazione diversa, che comprendeva Cesare Facciani, destinato a prematura morte dieci anni dopo in sanatorio.

Gli animi si calmarono nella scherma, e l'Italia arrivò all'oro del fioretto a squadre con Oreste Puliti, presente nella squadra dopo le risse del 1924 (Giulio Gaudini vinse il bronzo nell'individuale), con un 10-6 contro la Francia di Lucien Gaudin e Philippe Cattiau; anche la squadra di spada vinse l'oro, mentre nell'individuale andò peggio. L'americano George Calnan, ufficiale di marina che nell'edizione successiva a Los Angeles avrebbe letto il giuramento, vinse la medaglia di bronzo. Calnan morì nel 1933 a bordo del dirigibile Akron nel tragico incidente occorso nell'Atlantico al largo di Barnegat nel New Jersey. Nella sciabola vinse l'Ungheria a livello individuale con Ödön Tersztyanszky e l'Italia si distinse con Bino Bini che vinse il bronzo. Ancora Puliti e altri due campioni di Parigi, Bini e Giulio Sarrocchi ottennero l'argento nella sciabola a squadre che, come ai Mondiali del 1926, si concluse prima del tempo, dopo la seconda vittoria ungherese, di nuovo con Tersztyanszky, maturata per 9-7 sull'Italia. L'anno dopo l'Olimpiade di Amsterdam il campione ungherese fu vittima di un incidente mortale in moto.

Il canottaggio diede grande soddisfazione agli azzurri con il trionfo nel 4 con della società istriana Pullino, nel canale di Sloten, a 7 km da Amsterdam. Gli italiani, tutti di Isola d'Istria, Valerio Perentin, Gilliante D'Este, Nicolo Vittori, Giovanni Delise e il timoniere Renato Petronio, dirigente del club, età media di poco superiore ai 19 anni, batterono nel secondo turno i tedeschi. Questi riapparvero nel terzo dai recuperi, per arrendersi ancora, sicché la finale contro gli svizzeri fu per gli italiani una passeggiata. Ci si aspettava grandi cose dai fratelli pisani Renzo e Roberto Vestrini, campioni mondiali l'anno precedente (lo furono anche l'anno dopo), nel due con timonato da Cesare Milani, ma gli azzurri persero un remo nel secondo turno e lasciarono via libera ai due fratelli svizzeri Hans e Karl Schöchlin, classificandosi al quarto posto.

Nel sollevamento pesi si confermarono campioni, anche se vinsero solo l'argento, Pierino Gabetti e Carlo Galimberti. Nella boxe l'Italia ottenne ben tre medaglie d'oro. Qui le giurie non furono molto imparziali, ma gli italiani si comportarono da protagonisti; in finale arrivarono in tre, dopo il bronzo di Carlo Cavagnoli nei mosca, che si arrese al futuro vincitore ungherese Antal Kocsis. Si cominciò con i gallo e Vittorio Tamagnini si sbarazzò di un messicano, mandò al tappeto, con un gancio al mento, il britannico John Garland, per poi affrontare la difficile semifinale contro l'irlandese Edward Traynor. Approdato in finale ai punti, Tamagnini vi trovò John Lawrence Daley, americano, più alto di lui di 10 cm, dichiarato sconfitto in semifinale contro il sudafricano Harry Isaacs, ma poi promosso a furor di pubblico, lo stesso pubblico che inneggiò a Tamagnini dopo la finale, quando fu annunciato il verdetto a favore di Daley. Anche questa decisione sarebbe stata rovesciata, perché Daley non fece più nulla, mentre Tamagnini, diciottenne di Civitavecchia, che combatteva da quando aveva 14 anni, entrò nei professionisti l'anno dopo e ottenne una serie di successi. Batté Saverio Turiello, conquistò il tricolore dei piuma e vinse nel 1932, in un incontro non valido per il titolo, il panamense di colore Al Brown, campione del mondo dei gallo dal 1929 al 1935. Passato fra i leggeri, Tamagnini fu campione d'Europa nel 1936, anno in cui girò un film, Lo smemorato, con Paola Borboni e Lilla Brignone, in cui interpretò sé stesso.

Carlo Orlandi, peso leggero, di due mesi più giovane di Tamagnini, milanese, scuro di pelle ('el negher di Portaromana'), rimasto privo di parola e menomato nell'udito dopo l'aggressione subita, quand'era bambino, da un cane, non era un picchiatore ma danzava elegantemente sul ring. Si rivelò in una tournée della nazionale dilettanti nel Nord Europa, e nello stesso anno di Amsterdam fu campione continentale dilettanti, battendo lo svedese Gunnar Berggren che ad Amsterdam si scontrò in semifinale con l'americano Steve Michael Halaiko e dovette accontentarsi del bronzo. Orlandi, che al terzo turno si era sbarazzato del campione olimpico uscente, il danese Hans Nielsen, trovò dunque in finale Halaiko, un ventenne di Auburn (Alabama), che in carriera da dilettante vinse 115 incontri su 116, prima di passare ai professionisti senza ottenere grandi risultati, nonostante 57 vittorie. Pari dopo le prime due riprese, Orlandi conquistò la terza e l'oro; passò ai professionisti dopo 124 combattimenti da amateur e tanti duelli con Aldo Spoldi e Saverio Turiello. Campione italiano dei leggeri, poi dei welter, fu europeo dei leggeri nel 1934, chiudendo dieci anni dopo con 97 vittorie. Poverissimo, trascorse gli ultimi anni in un ricovero per anziani, aiutato da Turiello, che gli mandava soldi dagli Stati Uniti, ricordando il ballo finale di Amsterdam, al ricevimento a corte che aveva chiuso i Giochi, quando la regina Guglielmina, danzando con lui, gli aveva detto: "Un pugile come voi non lo rivedremo più".

Pietro Toscani, ventiquattrenne milanese, ottenne nei pesi medi un'affermazione assai discussa contro il ceco Jan Hermanek, di tre anni più giovane. Toscani al termine dell'incontro si congratulò con l'avversario, ritenendolo vincitore, ma la giuria gli assegnò il successo. Scoppiò una rissa, intervenne la polizia, e i combattimenti dovettero essere sospesi per un quarto d'ora.

Il bilancio finale italiano fu lusinghiero con sette ori, cinque argenti e sette bronzi. Ma Mussolini non lo ritenne sufficiente. Al ritorno, Lando Ferretti, presidente del CONI, fu convocato dal Duce che poco dopo lo sostituì con il commissario Augusto Turati.

Il medagliere complessivo premiò comunque gli USA con 22 ori, 18 argenti, 16 bronzi, e salutò il ritorno della Germania, seconda. Una curiosità di questi Giochi, fra l'altro, fu l'oro di un principe che sarebbe poi diventato re. Sull'imbarcazione norvegese Norna, classe 6 metri, c'era un famoso costruttore e velista, Johan Anker, già quarto a Londra 1908 e oro nel 1912, realizzatore della barca Bra, che aveva vinto a Parigi 1924. Anker aveva 57 anni, fece da guida preziosa al venticinquenne principe ereditario, Olav, nato in Inghilterra e che aveva studiato a Oxford. Olav, che nel 1922 aveva saltato 33 m dal trampolino di Holmenkollen e 40,5 m l'anno dopo, si era appena fidanzato con la principessa Martha di Svezia, che avrebbe sposato l'anno dopo. Nel 1957 diventò re, come Olav V. Il figlio Harald fu poi tre volte velista ai Giochi.

All'estremo opposto, un modesto operaio algerino della Renault, nato nel 1898 nel villaggio di Ould Djleb, vicino all'oasi di Biskra, arruolato nell'esercito francese, Ahmed Boughéra El Ouafi, campione nazionale francese di maratona nel 1924, e settimo ai Giochi di Parigi, rivinse nel 1928 il titolo nazionale e andò ai Giochi di Amsterdam, dove corse di conserva con il cileno Miguel Plaza, che quattro anni prima era arrivato appena davanti a lui. Stavolta le parti si invertirono, tutti cedettero, ultimo il giapponese Kanematsu Yamada, e El Ouafi trionfò. Morì nell'ottobre del 1959, dopo una sfortunata tournée negli Stati Uniti, ucciso durante una rissa scoppiata in un caffè-albergo di St.-Denis.

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