Olimpiadi estive: Atlanta 1996

Enciclopedia dello Sport (2004)

Olimpiadi estive: Atlanta 1996

Oscar Eleni

Numero Olimpiade  XXVI

Data: 19 luglio-4 agosto

Nazioni partecipanti: 197

Numero atleti: 10.318 (6806 uomini, 3512 donne)

Numero atleti italiani: 346 (242 uomini, 104 donne)

Discipline: Atletica, Badminton, Baseball, Beachvolley, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Judo, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallacanestro, Pallamano, Pallanuoto, Pallavolo, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Softball, Sollevamento pesi, Tennis, Tennis da tavolo, Tiro, Tiro con l'arco, Tuffi, Vela

Numero di gare: 271

Ultimo tedoforo: Muhammad Ali

Giuramento olimpico: Teresa Edwards

Finito l'incanto dell'Olimpiade catalana, in una Barcellona splendida e splendente dopo un'ampia opera di ricostruzione, il movimento sportivo mondiale entrò in una fase tormentata con il rischio che i Giochi venissero divorati dal mercantilismo. L'Olimpiade del Centenario, ventiseiesima edizione dell'era moderna, invece di essere assegnata ad Atene, come sarebbe stato giusto, tornò clamorosamente, soltanto 12 anni dopo Los Angeles, agli Stati Uniti, nella città di Atlanta, capitale della Georgia, la vecchia Terminus o Marthasville, nella zona pedemontana dei monti Appalachi.

Atlanta vinse la corsa all'assegnazione avendo alle spalle i grandi benefattori del CIO, cominciando dalla Coca Cola che dal 1980 accompagnava tutti i progetti più importanti dell'organizzazione olimpica ed era lo sponsor più ascoltato ormai da molto tempo. Le altre città aspiranti, Belgrado e Manchester, considerate dalla commissione del CIO soltanto buone, persero subito la corsa. Avevano invece qualche possibilità Melbourne e soprattutto Toronto, che offrì un progetto speciale per il villaggio atleti. Erano candidate di prima classe e anche per loro la Coca Cola aveva pronto un investimento, ma nella battaglia finale non ebbero quasi speranze. Lo scontro aperto fu fra tradizione e progetto economico. Atene, pur considerata di seconda fascia, aveva in mano la grande carta dei sentimenti, ma per Atlanta garantivano in troppi, a partire dalla catena televisiva CBS che era pronta a coprire con 456 milioni di dollari un budget di 898 milioni. Gli Stati Uniti avevano bisogno di questa grande festa sportiva, la loro economia spingeva per il grande risultato e così nella votazione decisiva 51 voti andarono alla capitale della Georgia, mentre Atene si fermò a 35 voti dei membri del Comitato olimpico. Fu una grande delusione dopo tante promesse e tante feste, come quelle organizzate sotto l'Acropoli dal primo ministro Andreas Papandreu, i balli di Glyfada, la crociera nel golfo di Corinto.

Così l'Olimpiade del Centenario si disputò nella città simbolo della riconciliazione americana fra Nord e Sud, nella città dove nel 1929 era nato Martin Luther King, il pastore battista che aveva un sogno per i neri d'America e il mondo intero, premio Nobel per la pace, ucciso nel 1968 mentre parlava a Memphis, Tennessee.

Ma quella di Atlanta fu piuttosto l'Olimpiade della disorganizzazione, dei volontari non adeguatamente preparati, dell'informatica primordiale, del condizionamento commerciale, dell'esagerazione di un tifo che, stordito da una pubblicità soffocante, stravedeva soltanto per gli atleti statunitensi (ai quali il sostegno del pubblico comunque fece bene: furono i primi nel medagliere con oltre 100 atleti sul podio). Bisogna anche aggiungere che quei Giochi furono i primi a numero chiuso, con possibilità di accedere soltanto dopo aver superato le qualificazioni nelle gare preolimpiche. L'apertura al professionismo, già preannunciata a Barcellona, fu totale. Il primo a sfruttare le nuove regole fu il ciclismo, mentre il calcio, per non appensantire i calendari e proteggere i suoi campionati mondiali, preferì il criterio di utilizzare rappresentative giovanili rafforzate da tre atleti di età maggiore.

Si dice che le Olimpiadi abbiano una forza tale da poter reagire a ogni iniquità e nella città che ha avuto il primo sindaco di colore sono stati proprio i grandi neri a restituire dignità alla manifestazione. Quelli furono infatti i Giochi accesi dalla fiaccola di Muhammad Ali, il più grande pugile della storia, furono le Olimpiadi dove Carl Lewis, a 35 anni, divenne l'atleta del secolo vincendo, 12 anni dopo il primo successo sulla pedana del Coliseum di Los Angeles, la quarta medaglia d'oro nel salto in lungo, dove Michael Johnson, ventinovenne texano di Dallas, e Marie-José Pérec, ventottenne francese nata nella Guadalupa, divennero i personaggi simbolo conquistando la medaglia d'oro nei 200 e 400 m, dove per la prima volta una squadra africana, quella dei calciatori nigeriani, si aggiudicò il titolo olimpico.

L'altra faccia della medaglia fu, nella notte tra il 27 e il 28 luglio, dieci giorni dopo l'inaugurazione dei Giochi ‒ in un clima di grandi tensioni internazionali, non certo mitigato dalle pace di Dayton fra Bosnia, Croazia e Serbia alla fine del 1995 ‒, lo scoppio di una bomba rudimentale nel parco olimpico del Centenario, un giardino di divertimenti con ingresso gratuito allestito su 14 ettari e mezzo di terreno, metà occupato dagli stand delle aziende sponsor, metà riservato allo svago vero e proprio. Il 17 luglio un jumbo della TWA era esploso nei cieli di New York poco dopo il decollo e si era inabissato al largo di Long Island, causando 230 vittime. Si sospettava che si fosse trattato di un'azione terroristica, forse di matrice islamica (soltanto dopo più di due anni fu chiarito che l'esplosione era stata causata da un guasto nel serbatoio) e la 'sindrome dell'attentato' era notevole. Nell'Olimpiade che gli organizzatori avevano propagandato per gli imponenti sistemi di sicurezza, l'ordigno del parco del Centenario esplose all'una e venti del mattino, quando in giro c'erano ancora migliaia di persone, vicino al palco dove era in programma un concerto rock. Soltanto due ore dopo l'FBI ammise che era stata una bomba. Il comunicato ufficiale diramato all'alba precisò che l'ordigno, costruito con tre tubi metallici e contenuto in uno zainetto verde, destinato a colpire il maggior numero di persone con il minimo uso di esplosivo, aveva ucciso un uomo e ferito 110 ospiti del parco olimpico. Ci fu anche un secondo morto, un operatore della televisione turca, stroncato da un infarto. Sui Giochi calò il gelo, molti erano pronti ad abbandonare, chi credeva nelle leggende parlava della 'maledizione ateniese'. Il presidente del CIO Juan Antonio Samaranch riunì l'esecutivo, ma fu l'intervento di Bill Clinton, presidente degli Stati Uniti, che il 19 luglio aveva dichiarato aperta la XXVI Olimpiade, a togliere ogni dubbio: "Siamo tutti d'accordo perché i Giochi continuino e faremo di tutto per proteggere chi vi assiste. Non possiamo far vincere il terrorismo. Deve essere lo spirito olimpico a dominare".

Così si andò avanti, anche se l'atmosfera restò pesante, anzi si fece ancora più pesante. Già dal primo giorno il clima generale infatti era teso a causa di una certa atmosfera di falsità e delle carenze organizzative: la sera dell'inaugurazione dei Giochi a mezz'ora dall'inizio della cerimonia metà del pubblico doveva ancora superare i primi sbarramenti di controllo, tanto che alla fine si decise di aprire le porte a tutti con i rischi conseguenti.

I Giochi di Atlanta furono inaugurati con una trovata piacevole: la sfilata delle nazioni ebbe inizio nella parte alta dello stadio superaffollato, con gli atleti che scesero verso la pista, veri e unici padroni della notte. Erano ben 197 i paesi in parata: fra loro c'era il Sudafrica, che sfilava dietro la nuova bandiera dell'unificazione voluta da Nelson Mandela, il presidente della pace sociale che quella bandiera aveva sventolato il 25 giugno 1995 quando i sudafricani avevano battuto la Nuova Zelanda nella finale del mondiale di rugby; e c'era una rappresentanza della Palestina. Di questi Comitati olimpici 168 presentavano almeno una squadra femminile. Le atlete erano il 34,1% dei partecipanti, la percentuale più alta registrata nella storia olimpica, e prendevano parte a 24 discipline su 30. Fra gli sport beachvolley (la pallavolo sulla sabbia), calcio femminile, canottaggio pesi leggeri, softball e mountain bike figuravano per la prima volta nel programma olimpico. Nei Giochi del Centenario ben 79 paesi avrebbero portato un loro rappresentante sul podio olimpico e 53 nazioni avrebbero potuto onorare un vincitore di medaglia d'oro.

Per capire bene l'atmosfera e la mentalità dell'Olimpiade georgiana aperta dal presidente Clinton bisogna soffermarsi sull'uomo che ebbe il compito di accendere la fiamma nello stadio. La città di Luther King abbracciò con slancio genuino, come del resto tutto il mondo, Muhammad Ali, ultimo tedoforo, un uomo reso debole e tremante dal morbo di Parkinson, un gigante che non ebbe paura di mostrare a miliardi di telespettatori la sua malattia, un combattente che anche in quella notte vinse la battaglia contro il razzismo che aveva segnato e condizionato la sua vita. Ali era entrato sulla scena olimpica come Cassius Clay, mediomassimo di Louisville, Kentucky, nei Giochi di Roma del 1960. A 18 anni vinse l'oro nella categoria al limite degli 81 kg battendo in finale il veterano polacco Zbigniew Pietrzykowski, con alle spalle ben 231 combattimenti. Cassius Clay, che nella conferenza stampa di Roma aveva risposto duramente ai giornalisti dell'Est, curiosi di sapere come avrebbe reagito se gli avessero rifiutato l'ingresso in ristoranti aperti solo per i bianchi, al rientro in patria scoprì che non era proprio vero quello che sognava. Un comitato di milionari bianchi era pronto a sostenere la sua carriera, il sindaco gli aveva promesso assistenza assoluta, pronto a intervenire per ogni problema, ma quando Cassius provò davvero a entrare in un ristorante, insieme al suo amico Ronnie King, la cameriera e il proprietario lo invitarono a uscire. Cercò di spiegare chi era, ma non servì. Quel giorno dovette anche affrontare una banda di razzisti in moto che lo circondò e lo portò alla rissa, dove se la cavò comunque bene. Decise allora che con l'America delle false promesse, della falsa eguaglianza aveva chiuso: prese la medaglia che portava al collo e la buttò nel fiume Ohio. Da quel giorno inseguì la gloria mondiale, raggiunta nei pesi massimi il 25 febbraio 1964 battendo Sonny Liston, difendendo poi la corona per nove volte. Cambiò quello che definì 'il suo nome da schiavo' in Muhammad Ali, in accordo con le nuove regole della sua fede musulmana, si rifiutò di andare in Vietnam, venne destituito, per tre anni e mezzo girò ramingo chiedendo giustizia e quando tornò fece storia perché il 30 ottobre 1974, in Zaire, nel più grande avvenimento pugilistico di ogni epoca, riconquistò il titolo mondiale battendo George Foreman. Quella medaglia buttata nel fiume divenne una grande vergogna americana, anche se i suoi detrattori dissero sempre che l'aveva smarrita e si era inventato una storia per giustificarne la perdita. Il problema si è trascinato per lungo tempo, ma finalmente con le Olimpiadi del Centenario si decise di riparare tutti i torti: fu il grande campione ad accendere il fuoco e fu un'emozione straordinaria. Tuttavia per la restituzione della medaglia prevalse di nuovo la legge commerciale. L'oro di Roma non venne riconsegnato nella naturale arena del pugilato: chi curava la regia dello spettacolo scelse l'intervallo della partita di finale del torneo di basket, quella dove il Dream team, con Shaquille O'Neal, Scottie Pippen, Karl Malone e Charles Barkley, stava andando verso l'oro (dopo la grande paura iniziale perché a metà del primo tempo la Iugoslavia di Dejan Bodiroga, Predrag Danilovic, Sasa Obradovic, Zarko Paspalj, AleksandarDjordjevic, Zeljko Rebraca, Vlade Divac, Zoran Savic era in vantaggio per 23-16).

Quella era la filosofia di un'Olimpiade nata per stupire: spettacolo a ogni costo e su molti campi fu davvero così perché la fortuna dei Giochi Olimpici, e dello sport in generale, dipende dal talento dei protagonisti nell'arena, e ad Atlanta si vide davvero il meglio, cominciando dall'atletica leggera. Nei 100 m per far dimenticare Ben Johnson e il caso doping di Seul ci volle un altro giamaicano naturalizzato canadese, il ventinovenne Donovan Bailey, che il 27 luglio corse per l'oro in 9,84″, nuovo record del mondo, cinque centesimi meno dell'ingegnere namibiano Frankie Fredericks e sei meno di Ato Boldon, ragazzo americano che correva per Trinidad. Fu la gara sui 100 m più veloce mai corsa al mondo. Due giorni dopo aver conosciuto i nuovi principi di quello che era stato il suo regno nella velocità pura Carl Lewis scelse la pedana del salto in lungo per l'addio al grande sport. Nei 100 m aveva avuto l'oro di Los Angeles e quello di Seul, nei 200 m era stato il campione dei Giochi californiani di 12 anni prima, ma gli serviva una medaglia che facesse storia, il nono trofeo olimpico che mai nessuno aveva conquistato e decise di battersi nella gara dove poteva ancora essere competitivo anche se i suoi muscoli non erano più così resistenti e scattanti. Vinse atterrando a 8,50 m, prestazione eccellente per un trentacinquenne. Lewis nella storia olimpica fu il terzo a vincere quattro volte l'oro nella stessa gara.

I Giochi di Atlanta restano indimenticabili per la doppietta in pista di due atleti superbi: le date furono il 29 luglio, gara sui 400 m maschile e femminile, e il 1° agosto, con le finali dei 200 m. Marie-José Pérec, sprinter, artista, modella, guadagnò metro su metro contro l'aborigena australiana Catherine Freeman nei 400 m, vincendo in 48,25″. Michael Johnson, l'uomo che non alzava le ginocchia e divorava le piste, prese il suo premio sul giro di pista in 43,49″. Tre giorni dopo Johnson portò il record dei 200 m da 19,66″ a 19,32″, marchio per una Olimpiade che aveva bisogno di primati. Per Pérec niente record, ma una grande vittoria in 22,15″ su Merlene Ottey (22,24″), la giamaicana che aveva scritto pagine importanti nella storia atletica. Come importante fu la doppietta negli 800 e 1500 m della ventottenne moscovita Svetlana Masterkova, che ad Atlanta ripeté l'impresa compiuta nel 1976 dalla sua connazionale Kazankina. Sulla pagina bianca del medagliere siriano apparve il primo oro, quello di Gadha Shouaa, una ex giocatrice di basket nata nel 1972 a Mahrda, che vinse il titolo olimpico nelle prove multiple.

Nel nuoto il moscovita Alexandr Popov, ex dorsista convertito al nuovo stile dall'allenatore Turetsky, nuotò i 100 m stile libero in 48,74″, ripetendo il successo di Barcellona e ripetendo anche l'impresa che era riuscita soltanto a Johnny Weissmuller. Popov si prese il titolo battendo l'americano Gary Hall junior e sempre su di lui sfogò la sua voglia di vittoria imponendosi tre giorni dopo anche sui 50 m. Un mese dopo venne accoltellato da un venditore di cocomeri in una strada di Mosca: ferita profonda dalla quale però guarì, tanto da poter partecipare anche alle Olimpiadi successive.

Protagonista in piscina, ma anche fuori per tutte le polemiche che seguirono i suoi straordinari risultati, fu l'irlandese Michelle Smith, che soltanto tre anni prima dei Giochi era al novantesimo posto nelle liste mondiali. Nella vasca del soffocante stadio del nuoto georgiano sbalordì tutti vincendo il 20 luglio i 400 m misti e lasciò senza parole i critici due giorni dopo conquistando il titolo dei 400 m stile libero (dove già aveva tolto 17,54″ al suo record personale nelle batterie). Il 24 luglio infine conquistò l'oro nei 200 m misti, alimentando con questa terza impresa qualche inquietudine e lo spettro del doping. Niente da dire, invece, quando dall'acqua uscì in trionfo l'ungherese Krisztina Egerszegi, vincitrice per la terza volta consecutiva della medaglia d'oro nei 200 m dorso. Il primo successo lo aveva ottenuto a 14 anni, in Corea, quando pesava soltanto 45 kg. Il triplo oro nella stessa gara era già abbastanza per rendere Egerszegi una primatista fra le grandi campionesse, perché prima di lei aveva ottenuto lo stesso risultato solo la liberista australiana Dawn Fraser; ma la nuotatrice ungherese fu anche la prima donna a vincere 5 medaglie d'oro in varie specialità perché ai tre successi nei 200 m dorso bisogna aggiungere l'oro nei 100 m dorso e nei 400 misti a Barcellona.

Nelle Olimpiadi aperte ai professionisti il ciclismo mandò in scena uno dei grandi, lo spagnolo originario della Navarra Miguel Indurain. Nel 1984, a 20 anni, da dilettante, si era presentato nella corsa su strada senza riuscire a concluderla. Dopo 12 anni e cinque Tours de France vinti consecutivamente, nel penultimo giorno dell'Olimpiade l'uomo dai 28 battiti cardiaci al minuto si mise alla partenza della cronometro individuale che non si correva più dal 1932 quando a vincerla era stato l'italiano Pavesi. In realtà il campione, dopo un deludente Tour de France (era giunto solo undicesimo), aveva deciso di rinunciare ad Atlanta, cambiando poi idea soltanto per le pressioni di Samaranch. Indurain, l'ultimo a prendere il via, si avvalse anche delle migliorate condizioni atmosferiche (la pioggia aveva complicato la corsa degli altri concorrenti) e la sua marcia diventò una cavalcata straordinaria.

La gloria olimpica esaltò anche una ciclista francese trentasettenne, Jeannie Longo, che dopo tre delusioni a Los Angeles, Seul e Barcellona si guadagnò l'oro nell'individuale raggiungendo l'azzurra Alessandra Cappellotto e poi attaccando Imelda Chiappa, che fu medaglia d'argento. Per la veterana francese ci fu anche il secondo posto a cronometro, premio per la sua dedizione e per il lavoro accurato che aveva fatto in solitudine nell'aria fresca del Colorado dove aveva affittato una casa e si era allenata per due mesi.

Dicevamo delle porte spalancate ai grandi professionisti. Per i tifosi americani fu una meraviglia poter applaudire Andre Agassi, che dopo aver vinto i tornei del Grande Slam si mise al collo anche l'oro olimpico del singolare, vendicando la delusione subita a suo tempo dal padre che, prima di espatriare negli Stati Uniti, era stato per due volte atleta olimpico, nel pugilato, con la maglia dell'Iran, venendo sempre eliminato al primo turno.

Le Olimpiadi del 1996 svelarono definitivamente il grande calcio africano. La Nigeria, con un gol di Babayaro, sconfisse l'Argentina 3-2 in una finale dura, sofferta e seguita da un pubblico molto indifferente, che non trovando posto in altri stadi, per finali considerate più interessanti, aveva ripiegato sul calcio. Molto più entusiasti, invece, i tifosi di due uomini forti che dominarono in sala pesi e al palazzo della lotta. Il pesista entrato nella storia dello sport e della Turchia si chiamava Naim Süleymanoglu, un peso piuma alto 1,52 m, capace di sollevare 335 kg nelle due alzate classiche: quello di Atlanta era il suo terzo oro olimpico, in una carriera tormentata perché questo piccolo grande uomo, nato come Suleimanov sulle montagne della Bulgaria, dove il padre faceva il minatore e dove la comunità musulmana veniva perseguitata, trovò la nuova patria soltanto nel dicembre del 1986 (si dice che il governo di Ankara abbia pagato un milione di dollari pur di averlo nella sua squadra di pesisti). Süleymanoglu ricambiò validamente la nuova patria, quella che lo aveva accolto dopo la fuga da Melbourne, via Londra. Il primo oro fu vinto a Seul e quando il campione rientrò ad Ankara c'era un milione di persone ad aspettarlo lungo le strade che dall'aeroporto andavano verso la città. L'altro personaggio era il siberiano Alexandr Karelin, un lottatore di greco-romana, categoria supermassimi. Anche per lui quello di Atlanta fu il terzo oro della carriera. Lo vinse in una finale contro l'americano Siamak Matt Ghaffari, iraniano d'origine, salvato dal suo allenatore ai tempi delle tensioni politiche fra i due paesi con l'aggiunta di una vocale al cognome che lo faceva passare per italoamericano. Karelin dopo il triplo titolo si dedicò alla politica entrando nel 1999 nella Duma come rappresentante della città di Novosibirsk.

Atlanta accrebbe la collezione di medaglie di Steve Redgrave, vogatore inglese che sarebbe salito sul podio anche a Sydney. Si era messo al collo la prima medaglia d'oro nel 1984 nelle gare disputate sul bacino californiano del lago Casitas come vogatore del 4 con inglese. Nelle Olimpiadi successive si dedicò con successo al 2 senza, una barca classica con la quale si conquistò il primo posto a Seul insieme ad Andy Holmes, mentre quattro anni dopo, a Barcellona, trionfò insieme a Matthew Pinsent, con cui remò per il successo anche nelle acque della Georgia.

L'aria degli Stati Uniti è evidentemente propizia agli atleti azzurri: nelle edizioni americane gli italiani hanno sempre conquistato più di trenta medaglie. A Los Angeles furono 36 nel 1932 (numero di successi eguagliato soltanto nell'edizione di Roma 1960) e 32 nel 1984 (con il massimo numero di primi posti, ben 14). Ad Atlanta la spedizione, composta da 346 atleti, 242 uomini e 104 donne, si fece davvero onore aggiudicandosi 35 medaglie, quasi il doppio rispetto a Barcellona (19), un trionfo considerando le 14 di Seul.

Per cominciare a vincere l'Italia si affidò a Roberto Di Donna, che il 20 luglio, nella prima giornata di gare, si aggiudicò l'oro nel tiro con pistola ad aria compressa dai 10 m. Fu un combattimento aspro, caratterizzato anche dal riaffacciarsi di problemi organizzativi, perché durante il nono turno di colpi saltò l'elettricità. Di Donna superò il campione olimpico uscente Wang Yifu che uscì dalla gara in barella, dopo essere svenuto, per problemi di diabete, alla fine della sua sessione di colpi.

L'uomo dei Giochi fu tuttavia il portabandiera azzurro, il ginnasta toscano, specialista degli anelli, Jury Chechi, che si prese la grande rivincita sulla sfortuna che lo aveva bloccato a pochi giorni dalle Olimpiadi di Barcellona, quando si era rotto il tendine d'Achille del piede destro. Per Chechi, alla ricerca di vittorie già dai Giochi di Seul, dove fu sesto, si trattò di ripartire quasi da zero. Ci vollero talento, orgoglio, forza di volontà. Dopo quattro anni di fatica, trascorsi vincendo anche vari titoli ma sempre inseguendo il grande sogno olimpico, il 28 luglio, giorno della finale degli anelli, Chechi si esibì in una gara perfetta: il pubblico saltò in piedi alla fine del suo esercizio che gli valse l'oro, davanti al rumeno Dan Burinca e all'ungherese Szilveszter Csollany, ottenendo un 9887, la più alta valutazione per un ginnasta negli esercizi di una finale.

Un'Olimpiade con tanti successi vuol dire anche far conoscere una scuola e Antonio Rossi con il suo kayak aprì le finestre su un mondo nuovo. Si guadagnò la medaglia d'oro in singolo sui 500 m e diventò campione olimpico con il K2 sui 1000 m insieme a Daniele Scarpa (che in coppia con Beniamino Bonomi conquistò pure l'argento nei 500 m). In un altro sport acquatico, precisamente nel canottaggio, un oro venne da un Abbagnale: questa volta fu Agostino a trionfare, nel due di coppia, insieme a Davide Tizzano.

Il veterano Silvio Martinello si affermò fra i migliori ciclisti nella corsa a punti sul legno nobile steso nell'impianto di Stone Mountain, scoprendosi maestro della pista e dell'acrobazia dopo tante fatiche su strada. Restando nel ciclismo, Andrea Collinelli il 25 luglio realizzò il suo capolavoro sui 4000 m dell'inseguimento battendo il record mondiale (4′19,699″) in qualificazione, migliorandolo tre ore dopo nei quarti di finale (4′19,153″), raggiungendo nella finale, quando aveva fatto soltanto un chilometro, il francese Philippe Ermenault.

Bella vittoria anche quella di Antonella Bellutti, bolzanina, che sognava di partecipare alle Olimpiadi come ostacolista nel 1992, prima che un incidente al ginocchio la obbligasse a lasciare le corse a piedi per dedicarsi alla bicicletta: l'atleta batté nella finale della prova di inseguimento su pista la francese Marion Clignet, americana di nascita, passata al ciclismo quando aveva 22 anni dopo un incidente d'auto, provocato da un attacco epilettico, che aveva costretto la polizia americana a ritirarle la patente.

Storica la medaglia d'oro di Paola Pezzo nella mountain bike, che per la prima volta veniva ammessa alle Olimpiadi. Sulle colline di Conyers, la mattina del 30 luglio la ciclista veneta vinse, essendo stata capace di recuperare terreno dopo una caduta che le aveva provocato una ferita al ginocchio, sulla canadese Alison Sydor, dominatrice di sei delle sette preolimpiche disputate in preparazione ai Giochi.

Altre soddisfazioni arrivarono dalla scherma. Uscendo quasi dal nulla, nel tormentato torneo di fioretto maschile, Alessandro Puccini trovò la sua medaglia individuale battendo in finale (15-12) il francese Lionel Plumenail, l'unico dei fiorettisti transalpini a essere rimasto calmo nella tremenda rissa scoppiata durante l'eliminatoria diretta a 16, quando il francese Philippe Omnès, prima dell'ultima stoccata, sul 14-14, aveva urlato al cubano Elvis Gregory che non lo considerava un avversario degno. Vinse l'incontro ma scoppiò il pandemonio. Più festoso, ma non meno drammatico il cammino verso l'oro della squadra di fioretto femminile dove l'assenza di Diana Bianchedi, infortunatasi alla caviglia cadendo fuori dalla pedana nel torneo individuale, aveva promosso titolare Francesca Bartolozzi Borella, che ebbe un compito difficile in una squadra tormentata. Giovanna Trillini, campionessa di Barcellona, era uscita dalla finale individuale (accontentandosi poi della medaglia di bronzo) subendo la clamorosa rimonta della rumena Laura Badea (che si era trovata sotto di sei punti): raggiunta e superata (13-14) la fiorettista marchigiana era riuscita a pareggiare, mancando, però, l'ultima stoccata, e lasciando via libera all'avversaria, che poi in finale prevalse, 15-10, anche su Valentina Vezzali. Pur con Trillini in crisi, Vezzali scossa, Bartolozzi da ricaricare, la squadra superò la semifinale con le ungheresi aprendosi la strada per il successo (45-32) sulle rumene. Più importante ancora la vittoria della squadra maschile di spada che mancava da tanto tempo: dopo i trionfi di Anversa 1920 (all'epoca dei fratelli Nadi), Amsterdam 1928, Berlino 1936, Helsinki 1952, Melbourne 1956 e Roma 1960 non si era più festeggiato l'oro in quest'arma. Ad Atlanta Sandro Cuomo e Maurizio Randazzo furono grandi compagni di battaglia per Angelo Mazzoni, medico milanese, che nella finale contro la Russia, sul 44-43 per gli azzurri, fu ferito all'occhio dal veemente attacco di Alexandr Beketov. Dieci minuti dopo essere stato medicato Mazzoni tornò sulla pedana per il colpo decisivo, assestato quando erano passati soltanto tre secondi dalla ripresa della gara.

Nell'atletica leggera, a parte il bronzo di Alessandro Lambruschini nei 3000 m siepi, specialità nella quale primeggiavano i kenyoti, furono le donne a tenere alto il morale della squadra azzurra. La marciatrice Elisabetta Perrone e la saltatrice in lungo Fiona May, giamaicana inglese diventata italiana per matrimonio, si presero l'argento nelle rispettive specialità, mentre sulla pista Roberta Brunet arrivò terza nei 5000 m, vinti dalla cinese Wang Junxia, l'ultima vera affermazione del mezzofondo asiatico, poi investito da pesanti sospetti di doping, perché nessuno poteva credere che certe prestazioni nascessero soltanto dall'aver bevuto del sangue di tartaruga.

Il resoconto sulla spedizione italiana non sarebbe completo se non si parlasse della squadra di pallavolo guidata da Julio Velasco, la più forte formazione del secolo, secondo il giudizio dei critici e dei tecnici, valutando anche le straordinarie affermazioni a livello mondiale. Purtroppo questo eccezionale gruppo non ha mai trovato il premio più desiderato, l'alloro olimpico, cadendo sempre contro gli olandesi: a Barcellona andò fuori nei quarti per una sconfitta 17-16 nell'ultimo set; ad Atlanta perse l'assalto decisivo 17-15 sempre al quinto set.

A proposito di pallavolo bisogna dire che nella prima sfida sulla sabbia (il beachvolley fu ammesso in questa edizione), il successo premiò il più grande giocatore di ogni tempo: il californiano Charles 'Karch' Kiraly, già campione olimpico di pallavolo con la squadra statunitense a Los Angeles e Seul. Kiraly e l'italiano Lollo Bernardi sono stati scelti come numeri uno della pallavolo di ogni epoca. A 35 anni questo incredibile atleta, specializzato nella fase di recupero dei palloni, trovò ancora l'oro, insieme a Kent Steffes, sulla sabbia di Janesboro, in un torneo dove l'apertura al professionismo aveva creato molti problemi nella selezione delle squadre.

Per i tifosi statunitensi la gara più esaltante nell'Olimpiade del Centenario fu la finale a squadre femminile di ginnastica, dove il gruppo guidato da Bela Karolyi sconfisse le favoritissime russe e le rumene. L'impresa venne considerata straordinaria anche perché Kerri Strug, con la caviglia destra fratturata, si presentò comunque in pedana per eseguire la seconda prova al cavallo, una dimostrazione di coraggio che le costò la carriera.

Per concludere sui Giochi del 1996 si possono elencare alcune curiosità. Il giuramento degli atleti fu pronunciato da Teresa Edwards, giocatrice di basket statunitense alla sua quarta Olimpiade: per lei fu una rivincita dopo l'amarezza del terzo posto a Barcellona 1992 dietro alla Russia e alla Cina e il preludio alla terza medaglia d'oro dopo Los Angeles e Seul. Nel torneo di tennis da tavolo la Cina non lasciò nulla agli avversari, conquistando le quattro medaglie d'oro in palio e vincendo anche tre medaglie d'argento e un bronzo. Il velista austriaco Hubert Raudaschl, partecipando alla gara dei Finn, fu il primo atleta a concorrere in ben nove Olimpiadi: la sua prima apparizione avvenne a Tokyo, nelle acque di Fujisawa, mentre la sua unica medaglia fu l'argento conquistato ad Acapulco ai Giochi del 1968. Nelle gare di lotta libera, categoria pesi medi, si affrontarono due fratelli che gareggiavano per nazioni diverse: al secondo turno Elmadi Jabrailov, iscritto dal Kazakistan, sconfisse Tucuman Jabrailov, che era andato in pedana difendendo i colori della Repubblica di Moldova. Nelle gare di kayak femminili la tedesca Birgit Schmidt Fischer vinse la sua quinta medaglia d'oro, a sedici anni di distanza dal primo successo di Mosca. Il vincitore della gara nel tiro con l'arco, l'americano Justin Huish, cinque anni dopo finì in carcere per possesso di marijuana.

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