Olimpiadi estive: Barcellona 1992

Enciclopedia dello Sport (2004)

Olimpiadi estive: Barcellona 1992

Giorgio Reineri

Numero Olimpiade  XXV

Data: 25 luglio-9 agosto

Nazioni partecipanti: 169

Numero atleti: 9356 (6652 uomini, 2704 donne)

Numero atleti italiani: 318 (240 uomini, 78 donne)

Discipline: Atletica, Badminton, Baseball, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Judo, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallacanestro, Pallamano, Pallanuoto, Pallavolo, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Sollevamento pesi, Tennis, Tennis da tavolo, Tiro, Tiro con l'arco, Tuffi, Vela

Numero di gare: 257

Ultimo tedoforo: Antonio Rebollo

Giuramento olimpico: Luis Doreste Blanco

Barcellona ottenne l'onore e gli oneri di organizzare i Giochi della XXV Olimpiade nel 1986, nella sessione del CIO tenuta a Losanna, che aveva anche scelto Albertville come sede dell'Olimpiade invernale. Alla vigilia della votazione pochi, in verità, pensavano che la città catalana potesse essere sconfitta nonostante tra le candidate vi fosse una città prestigiosa come Parigi e lo stesso Jacques Chirac, allora sindaco della capitale francese, fosse personalmente sceso in campo per sostenerne le possibilità di successo. Le altre aspiranti erano Amsterdam, Brisbane, Belgrado e Birmingham.

In verità, il tentativo di Barcellona di aggiudicarsi l'Olimpiade era di antica data. Nel 1924, infatti, la capitale catalana aveva a lungo cercato di contrastare la candidatura di Parigi dovendo poi soccombere al fascino della ville lumière e soprattutto all'influenza che il barone Pierre de Coubertin, cittadino di Parigi, esercitava sui suoi pari nel Comitato olimpico. Battuta nel 1924, Barcellona era tornata alla carica in vista dei Giochi del 1936 ma in quella occasione si era vista sbarrata la strada da Berlino. Eppure la città si era presentata ai membri del CIO con tutti i migliori requisiti: la costruzione del nuovo stadio del Montjuic, su di una collina che era allora alla periferia del centro urbano, rappresentava in maniera concreta il desiderio organizzativo dei catalani. Come consolazione per la scelta di Berlino, il CIO aveva promesso a Barcellona i Giochi del 1940 ma nei giorni in cui l'Olimpiade avrebbe dovuto aver luogo la Seconda guerra mondiale stava già martoriando l'Europa. Ancora in pieno regime franchista, i catalani avevano rinnovato la loro domanda di ospitare l'Olimpiade del 1972. Purtroppo per loro, anche Madrid aveva avuto la stessa idea. Date la nota inclinazione di Franco per Madrid e la sua avversione al desiderio d'indipendenza della Catalogna, le possibilità di successo di Barcellona furono scarse: infatti fra polemiche e rinvii per il dualismo tra Madrid e Barcellona, i Giochi furono assegnati a Monaco di Baviera.

Il 1992, invece, sembrò a tutti il momento giusto per la candidatura della città catalana. Il regime fascista di Franco era terminato da qualche anno e una Spagna democratica, ringiovanita e vogliosa di riprendere l'antico ruolo di potenza internazionale, anche sul piano economico, emergeva con sempre maggiore prepotenza. Il suo ingresso nella Comunità Europea era la dimostrazione di questa volontà spagnola e nel caso specifico del governo, guidato dal socialista Felipe González, di procedere rapidamente nell'integrazione con le altre grandi nazioni europee. Di valore non soltanto simbolico era, poi, la ricorrenza dello storico viaggio di Cristoforo Colombo dalla costa meridionale della Spagna verso il continente che sarebbe stato chiamato America.

A tutti questi buoni motivi, Barcellona univa un realistico piano di sviluppo e ammodernamento dei suoi impianti sportivi, avendo presentato un budget minimo per l'organizzazione dell'Olimpiade di 667 milioni di dollari. Inoltre, a differenza di quanto era accaduto per il 1972, tutta la Spagna era unita dietro la candidatura di Barcellona: lo era il governo centrale, lo era quello della regione autonoma, lo erano i cittadini. Alla sessione di Losanna del CIO, i promotori catalani potevano presentare già le domande di volontariato di 65.000 giovani spagnoli, pronti ad accorrere a Barcellona per contribuire all'organizzazione dei Giochi. Importante, anche, il massiccio supporto della potente comunità d'affari catalana: in pochi mesi erano stati raccolti 10 milioni di dollari, offerti al comitato promotore per il sostegno della candidatura. Infine, particolare tutt'altro che trascurabile, alla presidenza del CIO sedeva, circondato da sempre maggior rispetto per i risultati raggiunti, Juan Antonio Samaranch, cittadino di Barcellona.

La città catalana vinse alla terza votazione con 47 voti contro i 23 di Parigi, i 10 di Brisbane, i 5 di Belgrado. Si malignò a lungo sul fatto che Barcellona non avesse raccolto la maggioranza già alla prima votazione. Probabilmente non è lontana dalla realtà l'ipotesi che Samaranch non volesse dare l'impressione di essere personalmente sceso in lizza per la sua città: così avrebbe pianificato una tattica, distribuendo nelle prime due votazioni una parte di voti su Belgrado, Amsterdam e Birmingham, per farli poi convergere su Barcellona al terzo turno.

L'Olimpiade conquistata servì a promuovere la più straordinaria trasformazione di una città europea, forse l'unica che abbia avuto luogo nel secolo scorso in conseguenza di una pacifica scelta, e non per l'obbligo di risistemare le rovine della guerra. Un critico d'arte tutt'altro che partigiano, l'americano di origini australiane Robert Hughes, scrivendo di Barcellona, sulla rivista Art in America, nel febbraio del 1991, sosteneva trattarsi del "più ambizioso progetto di questo tipo che sia stato mai intentato dal governo di una città nel XX secolo". A quei tempi sindaco di Barcellona era il socialista Pascual Maragall, figlio di un poeta catalano notissimo nonché grande cultore d'arte. Uomo di notevole spessore culturale egli stesso, con visioni illuministiche sul futuro della città nell'ambito non soltanto della Spagna ma, in particolare, di un'Europa unita e di un Mediterraneo di nuovo centrale per lo sviluppo del continente, Maragall, in qualità anche di presidente del Comitato organizzatore dell'Olimpiade di Barcellona (COOB), varò un progetto di risistemazione della città e della vita dei suoi cittadini non limitato alla contingenza olimpica, ma proiettato nel 21° secolo. In quest'ambito dovevano inserirsi i lavori e i progetti specifici per i Giochi.

Il governo spagnolo approvò il progetto e sostenne la visione di Maragall non a parole ma con un finanziamento cospicuo: 8 miliardi di dollari furono messi a disposizione della regione Catalogna che, per legge, era titolata a ricevere i fondi, prima di trasmetterli alla città. Si trattava di un impegno enorme, anche giudicandolo a molti anni di distanza: si può facilmente immaginare quale fosse, in realtà, il costo per l'amministrazione pubblica del tempo. Trecento progetti erano nell'elenco delle spese da finanziare e uno dei primi era la costruzione di un gigantesco anello che, circondando la città, permettesse lo scorrimento del traffico da un punto all'altro senza che questo si incanalasse all'interno di Barcellona. Una serie di sottopassi e sovrapassi, mascherati con fiori e alberi, erano previsti là dove l'anello di scorrimento incrociava le zone più popolate. Ma gli investimenti non erano soltanto sull'estetica: l'intero sistema fognario di Barcellona, vecchio di 110 anni, venne rifatto.

Un'altra parte fondamentale nel rifacimento cittadino fu la riconquista del mare. Prima dei Giochi del 1992, il turista che si fosse recato a Barcellona avrebbe faticato a credersi in una delle più importanti città del Mediterraneo. Infatti, Barcellona era cresciuta nei secoli, e soprattutto nell'Ottocento, costruendo una serie di barriere edilizie, di cantieri, di attività industriali e di passaggi ferroviari in prossimità del mare, precludendone la vista e l'accesso. La pianificazione olimpica previde invece la riqualificazione di tutta quella zona, con l'abbattimento e lo spostamento delle vecchie strutture e la loro sostituzione con un porto turistico ‒ che durante i Giochi sarebbe stato la base delle gare veliche ‒ e la nascita del villaggio olimpico, poi diventato un quartiere residenziale, ridando finalmente ai catalani l'accesso alle spiagge.

Non mancarono le voci di critica a questi progetti. Un'opposizione di tipo intellettuale fu espressa dallo scrittore Manuel Vázquez Montalbán, contrario a una sostanziale modificazione dell'antico centro storico, che rischiava di snaturarne l'aspetto e il contesto sociale degli abitanti. Poi c'era l'opposizione della Generalitat de Catalunya, il governo della Regione, di cui era presidente Jordi Pujol, leader del conservatore partito autonomista. Pujol aveva in mente una differente linea di sviluppo per Barcellona: investire i denari dello Stato per fare della capitale catalana un centro tecnologico d'avanguardia dell'economia spagnola ed europea.

I due progetti, in qualche maniera, potevano convivere: Maragall, nel proporre una città che fosse un luogo nel quale gli abitanti si riappropriavano del territorio, di certo non pensava a limitarne le potenzialità di sviluppo, anzi riteneva che economia, tecnologia, progresso dovessero garantire un livello di vita più elevato a chi contribuiva alla creazione di questa ricchezza, dunque ai cittadini di Barcellona. Ma la rivalità politica tra il socialista Maragall e il conservatore-autonomista Pujol non favoriva certo un accordo. Così la Regione ritardò enormemente l'esecuzione dei progetti, con il diritto che le discendeva dall'essere intestataria dei finanziamenti del governo centrale. La costruzione dell'anello stradale così come quella di una metropolitana per gli impianti del Montjuic subirono rallentamenti e un conseguente aumento dei costi.

Tutti questi ritardi portarono a disfunzioni, che furono evidenti nel settembre 1989 quando Barcellona ospitò, come auspicato del presidente della IAAF, Primo Nebiolo, la Coppa del Mondo di atletica. Quella doveva essere l'occasione per l'inaugurazione dello stadio del Montjuic (rinnovato per un costo di 80 milioni di dollari, su progetto di Vittorio Gregotti), alla quale avrebbe presenziato il re Juan Carlos.

Il primo problema fu il maltempo. Un gran tempesta si scatenò e lo stadio del Montjuic venne completamente allagato. Le strutture non tennero sotto l'infuriare della pioggia e i giornalisti dovettero difendersi, in sala stampa, dall'acqua che precipitava da ogni parte; venne anche meno l'energia elettrica; a ciò si aggiunse il ritardo con il quale il re arrivò allo stadio, alimentando qualche polemica e sollevando anche fischi da parte del pubblico. Fu a quel punto che Samaranch decise di intervenire chiedendo al governo di González di mettere fine alle diatribe tra Maragall e Pujol. Questo intervento provocò la creazione di un organismo, composto da rappresentanti della città, della Regione, dello Stato, del Comitato organizzatore e del CIO, incaricato di sovrintendere ai lavori che ancora dovevano esser terminati.

Grazie anche a questa iniziativa tutte le opere si conclusero in tempo, la città divenne un modello da mostrare al mondo tanto da guadagnarsi, nel 1991, il premio per il miglior disegno urbano della Harvard University. Tra le opere più notevoli figurano le strutture olimpiche del Montjuic: accanto allo stadio, il Palazzo dello sport Sant Jordi, opera del giapponese Arata Isozaki, che costituisce un magnifico esempio d'architettura integrata nel territorio; inoltre, il Comitato organizzatore dei Giochi finanziò opere di vari artisti, che appartengono ormai alle bellezze della città.

Certamente il peso finanziario complessivo fu alto, assai più di quanto programmato: esso crebbe del 300% fino a 2,37 miliardi di dollari (al valore del 1992, rispetto ai 667 milioni del budget iniziale). Ma la città fu completamente rifatta e alla fine i cittadini ‒ che avevano dovuto sopportare il fardello delle spese e i conseguenti aumenti delle tasse ‒ capirono che ne era valsa la pena. Oggi, Barcellona è universalmente riconosciuta come una delle più belle e sviluppate città del mondo. E se è vero che il COOB chiuse i suoi conti con un surplus di soli 3,8 milioni di dollari, su un attivo previsto di 350, è altrettanto vero che i contratti televisivi procurarono al CIO entrate totali per 638 milioni di dollari, di cui 401 milioni dalla NBC.

Sistemata la parte ricostruttiva e architettonica di Barcellona, diversi problemi dovevano essere ancora risolti da parte del CIO. Se soltanto si pensa a quanto accadde nel mondo tra il 1988, Giochi di Seul, e il 1992, Giochi di Barcellona, si possono immaginare le tensioni che attraversavano il governo dello sport. Nel 1989 crollò il muro di Berlino; nel 1990 nella Repubblica Sudafricana Nelson Mandela veniva liberato dopo decenni di prigionia e il regime di apartheid si avviava a scomparire; nel 1991 sia l'URSS sia la Iugoslavia cessavano di esistere come Stati unitari. Un nuovo mondo, dunque, si sarebbe presentato per la prima volta ai Giochi Olimpici di Barcellona, a patto di saper cogliere le opportunità e adattare gli inviti olimpici alla rinnovata realtà geopolitica. La Germania, per es., era stata riunificata: occorreva procedere alla riunificazione anche sportiva, e infatti a Barcellona, per la prima volta dal 1964, gli atleti dell'Est e dell'Ovest sfilarono sotto un'unica bandiera, raccolti in un'unica squadra. I problemi più gravi, in questo caso, li dovette affrontare il Comitato olimpico tedesco, cercando di colmare le grosse distanze esistenti tra le due parti del paese. Il moltiplicarsi delle accuse ai sistemi utilizzati sotto il regime comunista per favorire i successi sportivi del paese rese ancora più dolorosa questa transizione.

Poco dopo la riunificazione tedesca le repubbliche baltiche ‒ Lettonia, Estonia, Lituania ‒ che erano state inglobate a forza nell'URSS se ne distaccarono proclamando l'indipendenza. Il CIO riconobbe rapidamente i loro comitati olimpici nazionali, e questi tre paesi ritornarono a inviare le loro squadre ai Giochi: per Estonia e Lettonia non accadeva più dal 1936, per la Lituania addirittura dal 1928. Il problema più grosso, tuttavia, riguardava l'Unione Sovietica o, meglio, quel che ne rimaneva. Il susseguirsi degli eventi politici del 1991 (il fallito tentativo di colpo di Stato, in agosto, contro Gorbaciov, lo scioglimento del Partito comunista sovietico da parte dello stesso leader, le sue dimissioni nel giorno di Natale e l'assunzione dei poteri da parte di Boris Eltsin) aveva portato alla dissoluzione di quello che era stato l'impero sovietico. L'organismo che aveva governato lo sport nei decenni precedenti ‒ il Gossport ‒ non aveva più i fondi per affrontare le spese di un'Olimpiade e formare una squadra. Le diverse ex repubbliche sovietiche che avevano aderito alla Comunità degli Stati Indipendenti non avevano né dollari né rubli in cassa, e quindi era illusorio pensare che potessero finanziare il Gossport, al quale servivano almeno 5 milioni di dollari. Samaranch intervenne con prontezza per impedire che centinaia di atleti fossero privati della possibilità di competere. Il CIO, attraverso i contatti con sponsor e varie compagnie multinazionali interessati al futuro mercato dell'ex URSS, riuscì a raccogliere i mezzi necessari alla spedizione olimpica. A Barcellona, la 'Squadra unita' (o United team) della Comunità degli Stati Indipendenti fece il suo ingresso nello stadio sotto una nuova, comune bandiera: ma i vincitori di medaglie, sul podio, a differenza di quanto era accaduto ad Albertville, poterono ascoltare l'inno e veder sventolare la bandiera della loro repubblica di appartenenza.

Il cambiamento politico dell'Est Europa era completato dalla Iugoslavia, a sua volta in dissoluzione. La Slovenia era stata la prima repubblica a proclamare la propria indipendenza; poi, dopo una dolorosa guerra, lo aveva fatto la Croazia. Il CIO aveva subito riconosciuto i Comitati olimpici di questi due nuovi Stati. Ma il problema grave era costituito dalla Bosnia-Erzegovina, dove una guerra rovinosa ancora infuriava e la città di Sarajevo era sotto costante attacco serbo. Il CIO riconobbe il Comitato olimpico di Bosnia-Erzegovina, cosicché alcuni atleti di quel nuovo Stato poterono sfilare, con la loro bandiera, nello stadio olimpico di Barcellona. La partecipazione della Federazione iugoslava fu proibita, per l'accordo tra ONU e CIO, come sanzione per la guerra in corso nei Balcani, ma furono autorizzati a gareggiare, a titolo individuale, alcuni atleti serbi e il CIO provvide al loro trasporto a Barcellona. Infine sorse il problema della Macedonia, i cui atleti non poterono gareggiare sotto la loro bandiera, per l'opposizione della Grecia all'uso del nome Macedonia da parte della nuova nazione.

Assai meno complicata, invece, fu la soluzione del problema legato alla Repubblica Sudafricana. La fine dell'apartheid era ormai stata dichiarata dal governo di Frederik Willem de Klerk e la liberazione di Nelson Mandela aveva spalancato le porte a un nuovo corso. Importante, in questo campo, fu l'attività svolta, a fianco di Samaranch, dal presidente della IAAF Primo Nebiolo. Infatti, se la federazione di atletica non avesse riammesso la federazione sudafricana, tutto il lavoro del CIO sarebbe stato inutile. Invece, nella primavera del 1992 la pacificazione tra Repubblica Sudafricana e il resto del continente veniva sancita in due meeting atletici: il primo a Dakar, in Senegal, seguito subito da un altro a Johannesburg. La presenza di Nelson Mandela all'incontro sudafricano era il via libera alla riammissione, da parte della IAAF, della Repubblica Sudafricana nelle sue fila: la strada per il ritorno all'Olimpiade, da cui il paese africano era stato escluso nel 1964, non presentava ormai più alcun ostacolo.

Risolte le grandi questioni politiche di livello internazionale, rimanevano ancora alcuni problemi legati alla particolare situazione spagnola. Il primo discendeva dalla presenza del terrorismo basco e dal timore di eventuali attentati: i servizi segreti di Spagna e di Francia, Stati Uniti e Israele lavorarono per mesi in stretta collaborazione per intercettare ogni segnale di pericolo. In particolare, la Francia effettuò molti arresti colpendo la rete dell'eversione basca che aveva forti propaggini in territorio francese. All'opera di intelligence venne affiancata una massiccia sorveglianza sul territorio: 45.000 uomini dei reparti di sicurezza tennero Barcellona e gli insediamenti olimpici sotto stretto controllo.

Il secondo problema era rappresentato dal forte spirito indipendentista catalano. La Catalogna si considera, storicamente, una regione indipendente con una propria lingua: la richiesta al CIO fu che il catalano fosse adottato come quarta lingua ufficiale dei Giochi accanto a francese, inglese e spagnolo. E ciò avvenne, procurando anche qualche fastidio negli annunci negli stadi, che dovevano essere effettuati in quattro lingue. La bandiera della Catalogna sventolò per tutti i Giochi accanto a quelle della Spagna e del CIO. Infine, il re Juan Carlos nel dichiarare aperti i Giochi della XXV Olimpiade parlò in catalano: i fischi di tre anni prima si tramutarono in applausi.

La cerimonia d'apertura nel rinnovato stadio del Montjuic fu di grande intensità e bellezza. Una suggestiva coreografia con centinaia di ballerine e ballerini sul prato del Montjuic rappresentò la storia della nascita di Barcellona, con il passaggio della 'Barca Nona' attraverso lo stretto di Gibilterra aperto da Ercole e il suo viaggio avventuroso sino allo sbarco sulle coste spagnole là dove sarebbe stata fondata la città designata, in quel 1992, a ospitare i Giochi Olimpici. Le musiche del giapponese Ryuichi Sakamoto fecero da supporto sonoro al racconto mitologico. Un arciere paraplegico spagnolo, Antonio Rebollo, accese il fuoco lanciando, dal suo arco, un freccia infuocata: nel buio, essa percorse un centinaio di metri prima di colpire il disco di titanio che accese la fiamma olimpica.

Le competizioni furono, anch'esse, di grande bellezza, circondate da un'atmosfera di gioia, di profonda partecipazione ed emozione. Chi ebbe la ventura di assistere ai Giochi di Barcellona non potrà forse mai più dimenticare le performance atletiche ‒ in 257 gare che per la prima volta compresero ufficialmente il baseball, il badminton e il judo femminile ‒ e lo splendore della città. Tutto si fondeva armoniosamente in un godimento estetico che, davvero, esaltava l'Olimpiade ai livelli immaginati da Pierre de Coubertin.

Il Dream team, cioè la squadra statunitense di basket, composta dai migliori professionisti della NBA, la National basket association, fu una delle meraviglie dei Giochi. Avendo aperto definitivamente le porte ai professionisti, Samaranch aveva fortemente voluto che il meglio fosse rappresentato a Barcellona e il meglio erano gli uomini della NBA: la International amateur basket association aveva votato (56-13) nel 1989 per autorizzarne la partecipazione. Uno dei giocatori più famosi era Ervin 'Magic' Johnson, non soltanto per il suo valore di cestista e per i risultati raggiunti nei Lakers di Los Angeles, ma anche perché nell'anno precedente i Giochi aveva rivelato di essere sieropositivo al virus dell'AIDS. Johnson volle, tuttavia, prendere lo stesso parte all'Olimpiade e sebbene un dirigente australiano, Brian Sando, avesse sollevato obiezioni sulla sua partecipazione, sostenendo che dovevano essere tutelati i giocatori avversari dal rischio di infezione ‒ obiezioni che la stessa Australia si rifiutò di sostenere, sconfessando immediatamente quel suo dirigente ‒ la presenza dell'asso americano aggiunse un tocco di grande umanità all'avvenimento.

Nel torneo di basket non ci fu storia: Larry Bird, Magic Johnson, David Robinson, Patrick Ewing, Scottie Pippen, Michael Jordan, Clyde Drexler, Karl Malone, John Stockton, Chris Mullin, Charles Barkley, Christian Laettner, allenati da Chuck Daly, rappresentavano senza dubbio la più grande squadra di pallacanestro che, storicamente fosse mai stata messa assieme. Essa dominò vincendo otto partite su otto, realizzando 938 punti (con una media-record di 117,5 punti a partita), subendone 588, battendo in finale (117-85) un avversario agonisticamente forte e molto orgoglioso, la Croazia, che presentava atleti del valore di Drazen Petrovic, Dino Radja, Toni Kukoc.

Un altro momento di intenso significato, superiore al valore tecnico della prestazione agonistica, si ebbe nella gara dei 10.000 m femminili. Due ragazze rimasero sole a disputarsi il titolo olimpico, quando mancavano meno di 4 km alla conclusione. L'attacco che aveva provocato la selezione era stato propiziato da Elana Meyer, una sudafricana bianca di Stellenbosh, e soltanto l'etiope Derartu Tulu era stata in grado di resistere alla sua accelerazione. Meyer e Tulu si presentarono così all'ultimo giro, con i 60.000 spettatori dello stadio del Montjuic affascinati da una battaglia agonistica che aveva, anche, un profondo significato politico-sociale. Fu una lotta, come si conviene alle competizioni, aspra e senza sconti, ma leale: Derartu Tulu, infine, prevalse allo sprint con i 400 m finali all'ultimo respiro, percorsi in 65,9″: fu la prima atleta africana nera a conquistare la medaglia d'oro olimpica (una ragazza marocchina di etnia araba, Nawal El Moutawakel, era stata la prima africana in assoluto, nonché la prima donna islamica, a vincere il titolo olimpico, sui 400 m ostacoli, nel 1984 a Los Angeles). Trenta metri dietro di lei Elana Meyer conquistava la medaglia d'argento. Passato il traguardo le due ragazze africane si abbracciarono percorrendo insieme il giro d'onore: quale miglior simbolo, e miglior incitamento, alla riconciliazione tra bianchi e neri che allora era appena iniziata?

Nei 100 m le donne dettero vita a una battaglia agonistica incerta che soltanto un attento esame del photofinish poté decifrare. Gail Devers, la californiana che pochi mesi prima dell'Olimpiade sembrava dover abbandonare lo sport a causa di una grave malattia alla tiroide, il morbo di Graves, il cui decorso e la pesantezza delle iniziali terapie le avevano fatto rischiare l'amputazione di un piede, riuscì a prevalere grazie a una partenza esplosiva e alla sua raffinata tecnica di tuffo sul traguardo. In 10,82″ precedette di un centesimo la giamaicana Juliet Cuthbert mentre altre tre atlete ‒ Irina Privalova, russa, Gwen Torrence, americana, Merlene Ottey, giamaicana, erano raccolte in uno spazio ristrettissimo: quattro centesimi di secondo (tra 10,84″ e 10,88″). Se è vero che non esisteva più una dominatrice come Florence Griffith, è altrettanto certo che lo spettacolo ‒ e il livello medio della gara ‒ non ne soffrì.

Gail Devers era, in verità, più ostacolista che velocista pura. Sino a Barcellona (si sarebbe ripetuta ad Atlanta 1996) aveva infatti raccolto maggiori successi su questa specialità tecnica. Tuttavia per i Giochi del 1992 aveva ottenuto la qualificazione su entrambe le gare (100 m piani e 100 ostacoli) e si apprestava, dunque, a compiere un'impresa storica: vincerle tutte e due, cosa mai fatta da alcun atleta, né uomo né donna. Incredibilmente, invece, quando ormai era davanti a tutte nella finale (la sua avversaria più accreditata, la russa Lyudmila Narozhilenko, si era infortunata in semifinale, ed era stata costretta al ritiro) commise un errore all'ultima barriera, attaccandola pur trovandosi, ormai, troppo vicina all'ostacolo: il violento impatto del piede sulla barriera le fece perdere l'equilibrio, cadde sul tartan, ma si rialzò prontamente riuscendo ancora a concludere al quinto posto. Il titolo andò alla greca Paraskevi Voula Patoulidou, che davvero aveva corso la gara della vita migliorando il suo primato personale di più di tre decimi.

Un'atleta di un paese islamico, l'Algeria, insanguinato da un'infinita guerra civile tra gli integralisti e i militari laici al governo, vinse la gara dei 1500 m: Hassiba Boulmerka. Donna di grande fierezza, aveva combattuto contro le imposizioni degli imam che deprecavano che una donna islamica corresse con le gambe nude in pubblico, non lasciandosi intimidire dalle minacce delle frange estremiste del suo paese. La sua vittoria della volontà contro la russa Lyudmilla Rogachova e la cinese Qu Yunxia, ne fecero un'eroina dei diritti femminili nel mondo arabo e islamico. Nella stessa finale, la medaglia di bronzo ottenuta dalla diciannovenne e semisconosciuta Qu Yunxia anticipò i successi che l'anno seguente, in occasione dei Campionati del Mondo di Stoccarda, avrebbe ottenuto la 'armata di Ma', così chiamata dal nome del discusso tecnico cinese Ma Junren.

La vittoria del britannico Linford Christie nei 100 m uomini servì a modificare una credenza a lungo considerata come verità scientifica, cioè che dopo una certa età si debba registrare un'inesorabile perdita di fibre veloci, o bianche, nelle cellule muscolari, tanto da rendere impossibili miglioramenti o grandi prestazioni sulle prove di sprint. Christie, diventando campione olimpico in 9,96″, provò che anche a 32 anni un atleta può essere competitivo nella gara più esplosiva dello sport. In realtà già l'anno prima, in occasione dei Mondiali di Tokyo, Christie era stato uno dei protagonisti della finale forse più bella di tutta la storia dei 100 m, quella che vide Carl Lewis vincitore in 9,86″, seguito da Leroy Burrell (9,88″), Dennis Mitchell (9,91″), Christie (9,92″, suo primato personale), il namibiano Frank Fredericks (9,95″) e il giamaicano Raymond Stewart (9,96″). Da notare che Christie era di origine giamaicane, come Ben Johnson.

Tra le competizioni più appassionanti vi furono i 400 m piani e i 400 m ostacoli. Quincy Watts, un atleta d'imponente struttura fisica, allenato all'UCLA da John Smith, vinse in 43,50″, secondo tempo di sempre dopo il primato mondiale di 43,29″ appartenente a Butch Reynolds (quest'ultimo non partecipò alle Olimpiadi 1992 a seguito di una lunga, travagliata controversa con la IAAF per un caso di doping). Watts precedette Steve Lewis, il campione olimpico in carica, di 7-8 metri, distacco considerato enorme a tali livelli.

Nel corso delle semifinali dei 400 m si verificò un episodio che commosse gli spettatori, e fu immortalato dalla televisione e dai fotografi. L'inglese Derek Redmond, considerato una speranza della specialità, subì un infortunio muscolare all'ingresso dell'ultima curva e cadde a terra per il dolore. Tuttavia ritenne di dover finire la gara, perché tutti i sacrifici fatti ‒ da lui e dalla sua famiglia, per arrivare ai Giochi ‒ avessero un senso. Ma nel tempo occorsogli per rialzarsi, mentre i barellieri tardavano ad arrivare, il padre ‒ che era in tribuna ‒ evitando gli addetti alla sicurezza saltò in pista per soccorrere il figlio. I due ebbero un breve dialogo finché, appoggiandosi al padre, Redmond percorse l'ultimo tratto di rettilineo, seppure a fatica. A pochi metri dal traguardo, il padre lo lasciò perché, infine, tagliasse da solo il traguardo. Un'interminabile ovazione venne dedicata dai 60.000 spettatori del Montjuic all'atleta ferito ma non sconfitto.

Quincy Watts, con Michael Johnson, Andrew Valmon e Steve Lewis, compì un'altra impresa nella staffetta 4 x 400 m, gareggiando più per migliorare il record del mondo che contro gli avversari, lasciati a quasi 40 m. Il primato ‒ vecchio di 32 anni e uguagliato, sempre dagli USA, a Seul nel 1988 ‒ fu portato a 2′55,74″.

Un'altra ovazione, nei 400 m ostacoli, salutò la superba prestazione, con il record del mondo di 46,78″, di Kevin Young, atleta americano dalla falcata amplissima, che fu il primo a coprire la distanza tra una barriera e l'altra effettuando soltanto dodici passi, o appoggi. Purtroppo, nonostante l'eccezionale talento Young ‒ che era allenato da John Smith ‒ si smarrì presto, vittima di problemi psicologici e ricorrenti depressioni.

Il pubblico spagnolo ebbe il suo momento di delirio con la finale dei 1500 m. Da sempre una delle più godibili e appassionanti gare del programma atletico, era da qualche tempo, cioè dal ritiro degli ultimi grandi corridori britannici Coe, Ovett e Cram, dominio degli africani. Anche a Barcellona il favorito sembrava l'algerino Noureddine Morceli, che però, reduce da un problema fisico al bacino, era stato costretto al riposo e a un lavoro ridotto, tanto da fargli perdere fiducia nelle proprie possibilità: pensò che, non avendo grande lavoro di resistenza alle spalle, dovesse limitarsi a controllare gli avversari per lanciare, poi, una progressione negli ultimi 300-400 m. Il ritmo della finale fu lentissimo e tutti gli atleti si presentarono raggruppati alla volata. Lo spagnolo Fermín Cacho fu svelto a superare il kenyota Joseph Chesire a 200 m dal traguardo e, sfruttando il suo ottimo finale di gara dovuto alla potente muscolatura, non fu più raggiunto da nessuno. I suoi ultimi 400 m vennero percorsi in 50,4″, un parziale davvero eccezionale, mentre il tempo totale di 3′40,12″ fu il più lento dai Giochi del 1956.

Le gare dei 5000 e 10.000 m furono segnate anch'esse da eventi particolari. Nei 5000 m vinse il tedesco Dieter Baumann davanti all'etiope Paul Bitok e al kenyota Fita Bayisa, corridori appartenenti a due paesi che, storicamente, primeggiavano nelle gare di fondo. Nei 10.000 m ci fu una lunga controversia tra la giuria e il marocchino Khalid Skah, vincitore in pista, poi squalificato a vantaggio di Richard Chelimo (Kenya), quindi definitivamente riammesso il giorno dopo come vincitore. La corsa tra i due era stata molto dura, Chelimo dettava il ritmo e l'altro lo seguiva, finché, a meno di 1 km dall'arrivo, il marocchino Hammou Boutayeb dopo essere stato doppiato si accodò ai due leader nell'evidente intento di aiutare il connazionale. A un certo punto Boutayeb e Skah chiusero 'a sandwich' Chelimo che, quasi intimidito, rinunciò a forzare il ritmo. Secondo il regolamento, un atleta doppiato può al limite accodarsi, ma non interferire nella corsa dei leader: proprio per questo, un delegato IAAF cercò di fermare Boutayeb, ma questi riuscì a evitare lo stop per saltare fuori pista a 200 m dal traguardo, quando Skah piazzò lo sprint vincente. Il Kenya sostenne che tra Skah e Boutayeb ci fosse stato un accordo e che il secondo si fosse volutamente fatto doppiare per poter aiutare il collega più famoso. Skah negò tutto. Ci vollero quasi 24 ore perché la questione fosse risolta dalla giuria d'appello, in base all'interpretazione della regola 143.2, non ancora emendata. Per procedere a una squalifica si doveva, infatti, accertare un 'fisico' impedimento portato all'avversario. Questo non c'era stato e dunque Skah doveva esser giudicato legittimo vincitore. La premiazione del marocchino fu duramente contestata dal pubblico.

L'Olimpiade italiana non fu particolarmente brillante in atletica, con una sola medaglia di bronzo ottenuta sui 20 km di marcia (vinti dallo spagnolo Daniel Plaza) grazie a Giovanni De Benedictis, che precedette il veterano Maurizio Damilano: quest'ultimo chiuse così una magnifica carriera olimpica.

Al contrario, l'Italia compì un'impresa nella pallanuoto. In questa competizione la squadra più agguerrita era considerata la Iugoslavia, paese escluso tuttavia dai Giochi. L'Italia e la Spagna (con nove giocatori di Barcellona) arrivarono così alla finale. Come già successo in una precedente partita, terminata 9-9, l'equilibrio tra le due squadre era grande. La finale lo confermò. L'Italia fu a lungo al comando della gara, prima conducendo 4-1 nel secondo tempo e poi 6-3 nel terzo tempo con due minuti da giocare. A 34″ dalla fine l'Italia era ancora in vantaggio per 7-6, ma Miguel Orca pareggiò. Nel tempo supplementare per cinque minuti la situazione rimase in parità poi la Spagna segnò su rigore quando mancavano 42″, ma nel corso degli ultimi 20″ Massimiliano Ferretti riuscì a pareggiare grazie anche alla superiorità numerica dovuta all'espulsione di Jordi Sans. Nella pausa precedente il secondo prolungamento, ci fu una rissa tra italiani e spagnoli, con il pubblico naturalmente, e ferocemente, a sostegno dei propri giocatori. Il risultatò si sbloccò solo nel sesto periodo di overtime, a 32″ dalla fine, quando dopo uno scambio con Massimiliano Ferretti, Ferdinando Gandolfi realizzò il gol della vittoria. Dopo quell'incredibile battaglia di 46 minuti, Francesco Attolico, Alessandro Bovo, Alessandro Campagna, Paolo Caldarella, Mario Fiorillo, Francesco Porzio, Ferretti, Marco d'Altrui, Gandolfi, Amedeo Pomilio, Giuseppe Porzio, Carlo Silipo e Giovanni Averaimo rinnovavano, con il più sofferto dei trionfi, la grande tradizione della pallanuoto italiana.

Negli sport acquatici, il nuoto ebbe come sempre la parte preminente. Una stella prese a brillare, offuscando i campioni americani del 1988, Matt Biondi e Thomas Jagher: quella di Aleksandr Popov, giovane russo dal fisico longilineo e dalla nuotata fluida, elegante e regolare, che dominò i 100 m e i 50 m. Altro russo che impressionò fu Yevgeniy Sadovyi, vincitore dei 200 e 400 m stile libero: in quest'ultima gara stabilì anche il nuovo record del mondo, superando l'australiano Kieren Perkins che ne era fin lì il detentore. L'ungherese Tamas Darnyi rivinse a Barcellona i 200 e 400 m misti, confermandosi uno dei più grandi nuotatori di tutti i tempi. L'Italia salvò il suo onore di paese marittimo con il terzo posto di Stefano Battistelli nei 200 m dorso e quello di Luca Sacchi nei 400 m misti.

In un altro sport da disputarsi sull'acqua, e tradizionalmente tra i più competitivi del programma sportivo, il canottaggio, i fratelli Abbagnale subirono la prima sconfitta dal 1986, dopo aver vinto sette Campionati del Mondo consecutivi e due medaglie d'oro, nel 1984 e 1988, alle Olimpiadi. A batterli furono, nel due con, i fratelli inglesi Jonathan e Gregory Searle, con il timoniere Garry Herbert. Carmine e Giuseppe Abbagnale, con il timoniere Giuseppe Di Capua, si aggiudicarono la medaglia d'argento.

Nel programma olimpico di Barcellona 1992 figurava anche lo slalom kayak, specialità già sperimentata a Monaco 1972 e poi accantonata, consistente nel compiere in canoa, nelle acque di un torrente, un percorso che alle difficoltà naturali associa l'obbligo di superare regolarmente alcune 'porte', ricordando così lo sci. Vinse l'italiano Pierpaolo Ferrazzi, in maniera così inaspettata che alla finale non era presente alcun giornalista italiano.

Due medaglie d'oro arrivarono all'Italia dal ciclismo. Una fu vinta Giovanni Lombardi, nella gara a punti che era stata reintrodotta nel 1984, dopo una prima edizione tenutasi nel 1904. Fabio Casartelli, invece, divenne campione olimpico nella prova più prestigiosa, la gara su strada. Per trovare un altro italiano campione olimpico di questa specialità bisognava risalire alla vittoria di Pierfranco Vianelli, nel 1968, e soprattutto a quella di Ercole Baldini nel 1956. Quella di Casartelli fu una vittoria allo sprint, dopo che, insieme all'olandese Erik Dekker, si era liberato della concorrenza a pochi chilometri dal traguardo. Casartelli, con un rush di 250 m, si impose alla fine anche su Dekker. Il successo olimpico portò a Casartelli, atleta lombardo serio e generoso, dei buoni contratti. Professionista ormai affermato, mentre partecipava al Tour de France del 1995, ebbe un terribile incidente nel corso di una tappa pirenaica: dopo una caduta lungo una discesa difficile e pericolosa, finì contro un pilone e morì poco dopo. Era il 18 luglio, meno di tre anni erano passati dal suo trionfo olimpico.

Le prove olimpiche di Barcellona furono dominate da un fattore in parte tecnico in parte umano: l'inglese Chris Boardman si presentò con un bicicletta rivoluzionaria, leggerissima (9 kg di peso), disegnata da Mike Burrows e realizzata dalla Lotus secondo principi aerodinamici nuovissimi. Nella prova a cronometro individuale sui 4 km in pista, Boardman fece quel che nessuno aveva mai fatto: doppiò l'avversario. Per la Gran Bretagna quella fu la prima medaglia d'oro nel ciclismo dal 1920.

La scherma italiana fu salvata dalle donne: Giovanna Trillini vinse il fioretto femminile individuale e con Diana Bianchedi, Francesca Bortolozzi, Dorina Vaccaroni e Margherita Zalaffi ottenne una seconda medaglia d'oro nella prova a squadre. Delusione, invece, per la scherma maschile che raccolse soltanto un argento con il padovano Marco Marin nella sciabola.

Non fu una sorpresa che un atleta di scuola russo-sovietica, Vitaliy Sherbo, dello United team ma in realtà bielorusso, dominasse le prove di ginnastica, dai concorsi generali a diverse singole specialità. Fu invece inaspettata per il pubblico italiano, che è solito ignorare nel quadriennio olimpico qualunque atleta che non pratichi il calcio, la medaglia nel judo femminile ‒ pesi medi ‒ di Emanuela Pierantozzi, che in realtà era già stata due volte campionessa del mondo. Pierantozzi fu capace, infine, di conquistare l'argento olimpico proprio contro una sua avversaria di sempre, la cubana Odalys Revé.

Medagliere
CATEGORIE
TAG

Comunità degli stati indipendenti

Frederik willem de klerk

Manuel vázquez montalbán

Amministrazione pubblica

Seconda guerra mondiale