Olimpiadi estive: Roma 1960

Enciclopedia dello Sport (2004)

Olimpiadi estive: Roma 1960

Giorgio Reineri

Numero Olimpiade: XVII

Data: 25 agosto-11 settembre

Nazioni partecipanti: 83

Numero atleti: 5338 (4727 uomini, 611 donne)

Numero atleti italiani: 275 (241 uomini, 34 donne)

Discipline: Atletica, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Lotta greco-romana, Nuoto, Pallacanestro, Pallanuoto, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Sollevamento pesi, Tiro, Tuffi, Vela

Numero di gare: 150

Ultimo tedoforo: Giancarlo Peris

Giuramento olimpico: Adolfo Consolini

I Giochi della XVII Olimpiade si tennero a Roma, dal 25 agosto all'11 settembre 1960. Già all'inizio del secolo, e più esattamente per l'edizione del 1904, l'Italia aveva avanzato la candidatura della sua capitale. Battuta dall'americana St. Louis, Roma si era vista affidare l'organizzazione per il 1908, ma una catastrofe nazionale, l'eruzione del Vesuvio, obbligò il governo a rinunciare all'impegno, dirottando i fondi olimpici alla ricostruzione di Napoli. Roma era infine stata designata ospite dei Giochi del 1944 che il fascismo intendeva utilizzare, sull'esempio della Germania nazista nel 1936, per la propria glorificazione. Alcune opere, difatti, erano già state costruite, e tra queste lo stadio Olimpico, quando scoppiò la guerra. Nel 1940, l'Italia si accodò a Hitler nell'illusione di poter fruire d'un posto privilegiato sul carro dei (presunti) vincitori. A combattimenti conclusi, il fascismo era stato spazzato via e l'Italia avrebbe dovuto fronteggiare, oltre alla fatica enorme di rimettere in piedi il paese distrutto, la diffidenza riservata agli ex alleati del nazismo.

In un lasso di tempo abbastanza breve, tuttavia, lo sport italiano riuscì a riconquistare fiducia e credito negli ambienti internazionali. Fu, questa, la conseguenza della politica seguita dai governi dell'epoca, in particolare dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e da un suo giovanissimo sottosegretario, Giulio Andreotti. Contrariamente alle prime intenzioni, difatti, venne evitata la liquidazione del Comitato olimpico nazionale (CONI) fornendo, anzi, di nuovi mezzi Giulio Onesti, nominato prima 'commissario' quindi eletto presidente dello stesso CONI. Proprio l'acquisita indipendenza economica, garantendo un affrancamento dell'ente dalle pressioni politiche e partitiche (il CONI era stato trasformato, dal vecchio regime, nel braccio 'muscolare' del Partito nazionale fascista), permise a Onesti di sviluppare, sul piano tanto nazionale (di ricostruzione dell'organizzazione sportiva) quanto internazionale un'azione che diede rapidi e positivi frutti. Tra questi vi fu l'assegnazione a Cortina dei Giochi invernali 1956 e, riconoscimento ben più importante, il successo nella votazione tenutasi alla sessione CIO del 1955 in cui Roma batté Losanna 35-24 come sede dell'Olimpiade estiva 1960.

Naturalmente l'importanza e il fascino di Roma non potevano essere paragonati a quelli della città svizzera che, tuttavia, ospitava pur sempre la sede del CIO. Inoltre, contro Roma potevano ancora giocare vecchi risentimenti così come il fatto che i dirigenti sportivi italiani ‒ a parte, forse, il conte Eugenio Brunetta d'Usseaux ‒ avevano contato assai poco nel consesso olimpico. Al contrario, Giulio Onesti ‒ che sarebbe però entrato nel CIO soltanto nel 1964 ‒ subito si era imposto come figura di primo piano della dirigenza sportiva mondiale, sviluppando una politica di amicizia specialmente con i paesi emergenti e dell'area del Mediterraneo.

Il ritorno dell'Olimpiade a Roma aveva, poi, un forte valore simbolico. Proprio Roma aveva, difatti, raccolto la fiaccola dello sport greco e nella capitale dell'Impero si erano tenuti per secoli Giochi. La tradizione fu interrotta dall'imperatore Teodosio, con il celebre editto del 393 d.C. Ma se la ricchezza architettonica, monumentale, storica di Roma si collegava e coniugava perfettamente con la tradizione antica, agli organizzatori si poneva tuttavia il grande problema di attrezzare la città ai Giochi moderni. La capitale italiana era, difatti, povera d'impianti. Gli unici esistenti erano un lascito del fascismo e anche quelli, pur essendo in alcuni casi di notevole valore, dovevano essere ammodernati, essendo le esigenze del 1960 del tutto diverse dai bisogni e dalle sensibilità d'anteguerra.

Il Comitato organizzatore dei Giochi riuscì in questa opera assai costosa grazie alla relativa ricchezza del CONI. L'ente, al quale lo Stato aveva dato in concessione il monopolio delle scommesse calcistiche, poteva difatti disporre di notevoli entrate. Furono proprio gli introiti del Totocalcio a permettere la realizzazione di opere importanti e a garantire una perfetta riuscita dei Giochi, pesando, infine, assai poco sul bilancio dello Stato, cioè in ultima analisi sulle tasche dei contribuenti. Non meno di 50 milioni di dollari, una cifra non indifferente, vennero investiti nella costruzione e nel rifacimento degli impianti e nell'edificazione di altre infrastrutture. Trattandosi di Roma, e della grande vetrina dell'Olimpiade, si fece naturalmente ricorso, nel predisporre i lavori, ai più noti architetti e ingegneri dell'epoca. Inoltre, non va dimenticato che Giulio Onesti era un raffinato cultore d'arte: ovvio che chiamasse a collaborare il meglio che l'Italia poteva offrire.

L'ingegner Pier Luigi Nervi, uno dei più quotati progettisti del tempo, ebbe l'incarico di sovrintendere a molti lavori, tra i quali quelli di ammodernamento del vecchio Stadio Olimpico, costruito negli anni di Benito Mussolini sul modello di quello di Berlino per contenere 100.000 spettatori. La capienza venne un poco ridotta, la struttura alleggerita e il rinnovato stadio ‒ collegato con sottopasso al vicino Stadio dei Marmi ‒ fu il cuore dei Giochi, ospitando le cerimonie d'apertura e chiusura, oltre alle gare di atletica. Con qualche ritocco, ma mantenendo intatta la vecchia costruzione fascista, l'attiguo Foro Italico costituì una sorta di centro olimpico, con la piscina per le gare di nuoto e di tuffi, e alcuni impianti di allenamento e per il riscaldamento degli atleti.

Tra le nuove opere si realizzarono il velodromo, per 20.000 spettatori, il Palazzetto dello Sport, per le gare di basket, con una capacità di 5000 spettatori, e il villaggio olimpico, a distanza di passeggiata dal complesso del Foro Italico e a pochissimi passi dal Palazzetto dello Sport. Il villaggio olimpico, nel quale lavorarono durante i Giochi quasi 300 cuochi, ospitò 5338 atleti, tra cui 611 donne (11% del totale), in rappresentanza di 83 paesi. La sua collocazione vicino ai principali impianti ‒ resi più facilmente raggiungibili dalla costruzione di un nuovo ponte sul Tevere ‒ e appena a un paio di chilometri dal centro di Roma, rappresentava un magnifico esempio di integrazione degli atleti con gli abitanti della città. In effetti fu questa una delle caratteristiche più apprezzate da quanti si trovarono a vivere quei Giochi, sia da protagonisti sia da spettatori. Non esisteva isolamento, gli atleti non erano reclusi in una città isolata ma potevano, nel poco tempo libero dagli impegni agonistici e di allenamento, rilassarsi andando incontro alla vita cittadina. Quel villaggio ‒ che al termine dei Giochi venne trasformato in quartiere abitativo per le crescenti esigenze della città ‒ va specialmente ricordato per queste caratteristiche di centro urbano. In seguito, per via del crescente gigantismo ma soprattutto per i timori relativi alla sicurezza, l'atmosfera sarebbe totalmente cambiata: la serenità olimpica visse a Roma la sua ultima stagione.

Una delle sfide che gli organizzatori, e in particolare gli architetti Nervi e Annibale Vitellozzi, si trovarono di fronte fu rappresentata dal desiderio di integrare la modernità delle competizioni nella suggestione architettonica e storica dell'antichità. Ai tempi dei greci e dei romani esistevano i gymnasia, per la pratica dello sport e delle collaterali attività igieniche. Richiamandosi a ciò, le Terme di Caracalla furono adattate e utilizzate per le prove di ginnastica, un teatro davvero eccezionale per un evento eccezionale. Non meno suggestiva era la Basilica di Massenzio, sotto le antiche volte della quale si batterono i campioni della lotta, libera e greco-romana. Per le prove di remo fu allestito il campo di gara del lago di Albano, sui colli romani: a breve distanza da Castelgandolfo, residenza estiva del papa. Le competizioni di vela furono, invece, programmate nel golfo di Napoli. Per quanto riguarda le infrastrutture venne costruita la via Olimpica, una sorta di circonvallazione che collegava vari impianti olimpici; infine, fu aperto il primo tronco della metropolitana tra la stazione Termini e Ostia.

È indubitabile che Roma ottenne, dall'organizzazione dei Giochi Olimpici, una prima, moderna, programmazione urbanistica anche se furono compiuti molti errori. Per es., soltanto molti anni dopo si pensò di collegare l'aeroporto di Fiumicino alla città con un regolare servizio di metropolitana. Non mancarono neppure gli scandali, secondo un deprecabile costume nazionale ogni qual volta si eseguono importanti lavori pubblici. Ma, nel complesso, Roma fu arricchita di una serie di servizi, specie per quanto riguarda lo sport, che avrebbero costituito per molti anni, e ancora costituiscono, l'infrastruttura cittadina.

Non ci fu soltanto sport agonistico, però, ai Giochi di Roma. Il Comitato organizzatore affiancò difatti alle competizioni una serie di rassegne culturali e storiche. Di grande interesse fu, in particolar modo, l'esposizione Lo sport nella storia e nell'arte, che fu allestita nel nuovo Palazzo delle Scienze all'EUR. A capo di questa iniziativa fu nominato il professor Guglielmo De Angelis d'Ossat: in tre anni, il professore e i suoi assistenti misero in piedi una mostra di altissimo valore, che illustrava ‒ attraverso la raccolta di libri, pitture, sculture, mosaici, poesie ‒ il ruolo dello sport nella cultura e nella vita italiana dagli etruschi sino al 20° secolo.

Mentre l'organizzazione dei Giochi procedeva sul piano logistico, il CIO doveva affrontare e risolvere le questioni più squisitamente politiche che in verità non furono molte. Vi era innanzitutto la questione tedesca. La divisione della Germania in due Stati autonomi era ormai un fatto, ma la Repubblica democratica tedesca non era ancora stata riconosciuta a pieno titolo dal CIO. Tanto bastava all'organismo olimpico per insistere sul mantenimento dello status quo: le due Germanie avrebbero dovuto presentare una sola squadra sotto la stessa bandiera, come era avvenuto nei Giochi di Melbourne. Pur con qualche mugugno la Germania Est accettò e i tedeschi fecero il loro ingresso nello Stadio Olimpico durante la cerimonia d'apertura dei Giochi come un team unito. Vedendoli sfilare dietro una sola bandiera, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi commentò con il presidente del CIO, Avery Brundage, che gli sedeva al fianco: "Ma questo è un miracolo". Al che Brundage rispose: "Talvolta, nello sport, ci riesce di fare cose del genere".

Più complicata, invece, la questione cinese. Taiwan pretendeva di rappresentare la Cina mentre la Repubblica popolare di Cina, governando su centinaia di milioni di cinesi, riteneva di averne diritto in esclusiva. Ciò che appariva sensato e realista a molti era, in quegli anni di rampante guerra fredda, contrastato dalla politica estera degli Stati Uniti, sempre schierati, ostinatamente, a fianco della Cina nazionalista. Quando il CIO pressato dall'evidenza delle cose applicò la regola olimpica secondo la quale "un comitato può, al suo interno, chiamarsi come desidera ma nelle competizioni internazionali deve assumere il nome consistente al territorio che rappresenta" (dunque l'isola di Taiwan o Formosa non può definirsi il continente Cina), si inalberarono non poco tacciando Avery Brundage, peraltro un americano ultraconservatore, di voler cacciare la Cina nazionalista dal consesso olimpico, per far posto alla Cina popolare. In realtà questa non era l'intenzione di Brundage. In ogni caso, anche la decisione del CIO che consentiva ai cinesi di Mao di gareggiare come soli rappresentanti della Cina non fu giudicata sufficiente dai dirigenti di quel paese, che reclamavano l'espulsione di Formosa, e perciò si rifiutarono di partecipare ai Giochi di Roma (da notare che soltanto l'anno prima, in occasione dell'Universiade di Torino, la Cina comunista aveva gareggiato: fu un piccolo capolavoro di astuzie diplomatiche, andato a buon fine per l'ostinazione del presidente della Federazione internazionale sport universitari, Primo Nebiolo, e per la cooperazione offerta dal ministro degli Esteri italiano dell'epoca, il biellese Giuseppe Pella).

Altra questione che, alla vigilia dell'Olimpiade romana, andava caricandosi di forti significati politici ed etici era quella della presenza del Sudafrica. Il regime di apartheid era calato da tempo come un maglio su decine di milioni di sudafricani neri, tenuti separati dai bianchi e segregati nella vita come nello sport. Tuttavia, nonostante molti paesi avessero protestato contro la politica sudafricana in fatto di sport ‒ ai calciatori brasiliani di colore, per es., era stato rifiutato l'ingresso nel paese ‒ esistevano forti resistenze ad applicare con serietà la Carta olimpica, che prescrive che nessun atleta può esser discriminato per ragioni razziali, ideologiche o religiose. La Nuova Zelanda, per bocca di sir Arthur Porritt, fece propria la posizione espressa dal membro sudafricano del CIO, Reginald Honey, secondo cui "non esisteva discriminazione contro gli atleti di colore nel suo paese. E se il Sudafrica presentava una squadra di soli bianchi era perché gli atleti neri non avevano alcun interesse nello sport e, dunque, non si erano guadagnati la selezione". Un tale ribaltamento della verità, che poneva la colpa sugli oppressi invece che sugli oppressori, fu accettato da Brundage, da molti sospettato di razzismo più o meno strisciante, "in attesa di procedere, dopo i Giochi di Roma, a un più attento esame della questione". A Roma, dunque, il Sudafrica razzista fece la sua ultima comparsa. Dopo di allora sarebbe stato riaccolto nel consesso olimpico nel 1992, con l'avvento del primo governo d'integrazione razziale.

Nel complesso la XVII Olimpiade, oltre a essere tra le più affascinanti, coinvolgenti e spettacolari del 20° secolo, fu la più pacifica, giacché nessuna protesta (fatto salvo un minuscolo cartello sollevato per pochi secondi dal portabandiera di Formosa con la scritta under protest, "sotto protesta") la turbò, prima, durante e dopo il suo svolgimento. Ciò è da ascrivere, almeno in piccola parte, a merito dell'Italia, e della politica di amicizia che il nostro paese seguiva ‒ pur essendo membro fedele dell'Alleanza Atlantica e legato agli Stati Uniti ‒ con tutti i paesi, tanto dell'area comunista come del terzo mondo. La particolare situazione di Roma, poi, come sede del Vaticano e la presenza del Papa aggiunsero qualcosa di unico ai Giochi: Giovanni XXIII dette udienza a tutti gli atleti nella sua residenza vaticana.

Gli organizzatori di Roma 1960, e in particolare il presidente del CONI Giulio Onesti, ebbero anche un altro merito: quello di 'vendere' i Giochi al rampante mercato televisivo. Nel 1956, a Melbourne, le catene TV si erano opposte al pagamento di diritti di ritrasmissione. A Roma, invece, si stipularono per la prima volta contratti di ottimo valore economico: il Comitato organizzatore vendette i diritti alla CBS (Columbia broadcasting system ) per 660.000 dollari e alla Eurovisione per 540.000 dollari. Brundage guardò con sdegnata sufficienza a quel mercato. Ma le casse del Comitato olimpico erano desolatamente vuote ‒ nel 1959, lord Burghley, marchese di Exeter e presidente della IAAF, aveva proposto una sovratassa del 5% sui biglietti d'ingresso alle gare olimpiche, da dividere tra gli organizzatori (3%) e CIO (2%) ‒ cosicché proprio i soldi della televisione, che il CONI offrì a Brundage come contributo nella misura del 5% dei diritti incassati, permisero la sopravvivenza organizzativa del CIO e furono l'inizio delle sue future fortune economiche.

La fiaccola olimpica arrivò a Roma portata da una staffetta di migliaia di atleti di tutti i paesi. Era sbarcata in Sicilia, proveniente da Olimpia, risalendo lentamente la penisola, accolta dalla curiosità e dall'entusiasmo della gente. L'onore di accendere il tripode nello Stadio Olimpico, toccò a uno studente di Civitavecchia ‒ Giancarlo Peris ‒ che in quell'anno aveva vinto i campionati nazionali studenteschi nei 1000 m. La scelta di questo giovane atleta sottolineava come la ricostruzione dello sport italiano fosse partita dalla scuola, proprio attraverso l'istituzione dei campionati studenteschi. Questa innovazione, che coinvolgeva la popolazione scolastica soprattutto tra i 14 e i 18 anni, era stata fortemente voluta da un personaggio di notevole valore, il segretario generale del CONI Bruno Zauli, e avrebbe portato importanti frutti proprio in coincidenza coi Giochi di Roma. Alla scelta di Peris come tedoforo il CONI aveva affiancato quella del leggendario e ormai quarantenne discobolo Adolfo Consolini per pronunciare il giuramento olimpico. Una simbologia: storia e futuro del nostro sport uniti per celebrare il presente.

Dei 150 eventi che si disputarono a Roma, alcuni sono entrati a pieno titolo nella storia dello sport sia per il valore tecnico della prestazione sia per il carisma del vincitore. Inoltre, proprio a Roma un continente ‒ l'Afri- ca ‒ fece irruzione sul palcoscenico sportivo, imponendosi per la prima volta all'attenzione del mondo come protagonista. I campioni africani dimostravano dunque che, a pari condizioni, non erano inferiori a nessuno. Inutilmente i teorici del razzismo e della superiorità della 'razza bianca' avrebbero cercato, per anni ancora, di contestare questa elementare verità che, proprio sotto il romano Arco di Costantino, era apparsa trionfare ‒ prima ancora di trovar conferma nei laboratori di ricerca ‒ per merito di un oscuro soldato etiope.

La maratona di Abebe Bikila è stata un evento la cui importanza trascende i confini dell'atletica e delle competizioni olimpiche. La vittoria, al termine di 42,195 km attraverso alcuni dei luoghi più solenni della storia del mondo, l'agile correre a piedi nudi sulle pietre dell'Appia Antica, l''intelligenza' tattica nel dominare gli avversari, la capacità di controllare il proprio corpo e le proprie emozioni, l'arrivo solitario sotto l'Arco di Costantino illuminato dai riflettori e il piegarsi per far ginnastica quando qualunque altro sarebbe stato piegato dalla fatica: tutto ciò fece di Abebe Bikila non soltanto il primo campione olimpico dell'Africa nera ma, soprattutto, l'ambasciatore di un continente giovane, capace di sconfiggere, in pacifiche competizioni, i più o meno antichi colonizzatori.

La maratona olimpica di Roma fu la prima a svolgersi di notte, con partenza e arrivo fuori dello stadio. Essa fu anche la prima a essere dominata da due africani: alle spalle di Bikila si piazzò il marocchino Rhadi Ben Abdesselam, quando il favorito era il russo Sergei Popov, detentore della miglior prestazione mondiale. Ma Bikila, fidando sull'istinto di corridore di lunga lena (e sull'allenamento sotto la supervisione del finlandese Onni Niskanen), non ebbe difficoltà a migliorare quel primato, trionfando in 2h15′16,2″, nonostante per prudenza non avesse lanciato il suo démarrage che a un miglio dal traguardo, avendo per punto di riferimento dell'attacco il passaggio a fianco dell'Obelisco di Axum che, ironia della storia, era stato portato sin là dall'Etiopia dalle truppe d'occupazione italiana.

Se in maratona ci fu sorpresa grande, altrettanto può dirsi delle prove di sprint. La velocità era stata sempre dominio degli americani o, in alternativa, di rapidissimi inglesi, agli inizi di secolo; o ancora di canadesi e sudafricani bianchi (d'origine britannica). In ogni caso, tutta gente di lingua inglese. A Roma, invece, trionfò un giovane, biondo tedesco occidentale: Armin Hary. Invero, la sua vittoria non poteva dirsi una sorpresa. Appena due mesi prima dell'Olimpiade, in un meeting atletico a Zurigo, era stato cronometrato in 10,00″, primato del mondo. Ma attorno a quella prestazione ci furono molti sospetti, avendo alcuni accusato Hary di aver anticipato il colpo di pistola dello starter. La gara era stata ripetuta proprio per quell'incertezza: il primo 10,00″ Hary l'aveva ottenuto con un taking a flyer, ovvero una partenza volante? Vero o no, rimessosi sui blocchi, Hary ripeté la performance e i dubbi svanirono. Nonostante ciò, la maggior parte dei critici aveva puntato su Ray Norton, un solido e imbattibile americano almeno sino ai Giochi. Ma a Roma Norton si presentò fuori forma: in finale, fu ultimo. A insidiare la vittoria del tedesco ci fu invece David Sime, un possente americano bianco. Ma Hary provò, in quella finale, di non essere soltanto uno straordinario partente, dotato di riflessi e tecnica straordinaria, ma anche un velocista capace di accelerazione e resistenza: in 10,2″ riuscì, difatti, a resistere al ritorno di Sime diventando il primo campione olimpico dei 100 m non di lingua inglese.

Nell'Olimpiade romana occorreva una grande vittoria italiana in atletica. L'Italia stentava a trovare campioni e ad allenarli ma il programma di Zauli ‒ che andava a pescare tra i giovani studenti ‒ qualche buon talento l'aveva scovato, qua e là per il paese. Uno di questi talenti era Livio Berruti, un magro e brillante allievo di uno più severi licei classici di Torino, il Cavour. Dalle vittorie nei campionati scolastici Berruti, che amava il tennis, aveva appreso di possedere una non comune qualità di sprinter: dove gli altri prendevano ad arrancare, lui cominciava a volare. La Federazione italiana di atletica lo convocò a Formia, dove aveva organizzato un college per studenti-atleti di particolare valore. Il ragazzo progrediva in maniera sensazionale, quasi senza allenarsi. Era sprinter di razza, ma ‒ per via della mancanza di potenza muscolare ‒ eccelleva sui 200 m piuttosto che sui 100 m, dove la forza ha spesso la meglio sulla leggerezza. Alla vigilia dei Giochi, Berruti, che intanto svolgeva il servizio militare presso il Gruppo sportivo delle Fiamme Oro a Padova, era l'unica speranza italiana per una medaglia in atletica. L'anno precedente i Giochi, all'Arena di Milano (pista, però, di 500 m, dunque risultato non omologabile) aveva corso i 200 m in 20,7″ e, seguito ora dal professor Giuseppe Russo, prometteva qualche buona sorpresa.

Gli avversari mettevano tuttavia paura. C'erano gli americani, con Stonewall Johnson, Ray Norton e Lester Carney; c'era l'inglese Peter Radford, che il 28 maggio di quell'anno aveva eguagliato il record del mondo di Norton e Johnson in 20,5″; c'era il francese di natali senegalesi Abdoulaye Seye e il polacco Marian Foik. Arrivare alla finale significava superare qualcuno di questi campioni. Quando fu annunciata la composizione della seconda semifinale le speranze italiane sembrarono svanire: Johnson, Norton e Radford erano assieme a Berruti e soltanto i primi tre avrebbero avuto accesso alla finale. Fu a quel punto che la classe straordinaria di Berruti si rivelò. Atleta di rara freddezza, poggiava il suo talento sulle reazioni nervose: la sua progressione in curva e l'accelerazione all'uscita in rettilineo lasciarono gli avversari attoniti. In 20,5″, record del mondo eguagliato, Berruti era il vincitore della semifinale. Peter Radford, invece, ne era escluso.

Due ore più tardi gli atleti entrarono in pista per disputarsi il titolo olimpico. Berruti aveva trascorso quell'intervallo nel sottopasso tra lo Stadio dei Marmi e lo Stadio Olimpico: il posto più fresco di Roma, cercando di recuperare energie. Gli altri erano andati trotterellando su e giù per il prato dello Stadio dei Marmi, per scaldare muscoli e spirito. La finale fu uno spettacoloso volo di Livio Berruti. La terra rossa della pista pareva appena sfiorata dalle scarpette bianche dell'italiano. Non ci fu lotta per 180 m, poi Berruti ‒ che fidava esclusivamente sulla sua leggerezza, sull'agilità ed eleganza, sulle reazioni nervose ‒ cominciò a sentire il peso della fatica. Alle sue spalle, infuriava la battaglia: mentre Norton cedeva, avanzavano Carney e Seye. Ma Berruti aveva in corpo tanta adrenalina da reggere sino al traguardo, che tagliò in 20,5″: in due ore, aveva eguagliato due volte il record del mondo, portando all'Italia una medaglia delle più prestigiose. Per la prima volta, un europeo era campione olimpico dei 200 m. Nel prosieguo dei Giochi, nella staffetta 4 x 100 m, con Armando Sardi, Pier Giorgio Cazzola e Salvatore Giannone, Berruti operò una straordinaria rimonta eguagliando, nel tempo di 40,2″, la Gran Bretagna; l'Italia si classificò quarta.

Non vi fu gara atletica senza bellezza. I 400 m proposero il dramma dell'incertezza tra il tedesco Carl Kaufmann e l'americano Otis Davis: i due finirono nello stesso tempo, 44,9″, record del mondo. La vittoria andò, al photofinish, a Davis che aveva avuto una straordinaria accelerazione nell'ultima curva, coprendo quei 100 m in 10,8″. La finale era stata condotta nella prima parte dall'indiano Milkha Singh e dal sudafricano Malcolm Spence. Il sudafricano avrebbe poi preceduto l'indiano per la medaglia di bronzo. Singh, che aveva vissuto da fanciullo una storia orribile ‒ durante la guerra indo-pakistana i genitori erano stati massacrati davanti ai suoi occhi ed era sfuggito all'uccisione nascondendosi in una fossa e poi scappando in treno in una toilette per donne ‒ aveva ottenuto il record nazionale in 45,6″, rimasto per oltre quarant'anni primato indiano.

Il neozelandese Peter Snell dominò gli 800 m, ma un altro campione del continente Oceania ‒ Herb Elliott ‒ fu la meraviglia dei Giochi. A 21 anni soltanto, questo atleta che viene considerato, ancor oggi, il più grande specialista del mezzofondo veloce di ogni tempo, vinse i 1500 in 3′35,6″, migliorando il primato del mondo che già gli apparteneva. La vittoria dell'australiano fu quella della classe pura e del talento lavorato da un allenamento d'avanguardia, sotto il controllo del 'guru' dell'epoca, Percy Cerutty. Nulla poterono il francese Michel Jazy e l'ungherese Istvan Rozsavölgyi che Elliott staccò dopo 800 m di corsa per andare solitario alla conquista del titolo olimpico. Quella fu la anche la sua ultima gara, dopodiché si dedicò agli studi all'Università di Cambridge e quindi alla professione di manager, in campo petrolifero, in Australia.

L'universalità dell'atletica si mostrò in tutta la sua bellezza ai Giochi romani: un altro neozelandese, Murray Halberg, che aveva patito da giovane un grave incidente in una partita di rugby, rimanendo con il braccio sinistro paralizzato, fu il vincitore dei 5000 m; il russo Pyotr Bolotnikov dei 10.000 m; mentre il decathlon ‒ forse il più spettacolare della storia di questa specialità ‒ vide la fiera lotta tra l'americano Rafer Johnson e il cinese di Formosa Yang Chuan-Kwang. I due erano compagni di scuola e di sport all'Università della California a Los Angeles (UCLA) e dividevano i consigli dello stesso allenatore, Ducky Drake. Dopo dura lotta, vinse Johnson. Un italiano, Franco Sar, ottenne in questa gara il sesto posto: piazzamento mai più eguagliato da un decatleta nostrano.

Alfred Oerter, nel disco, vinse il suo secondo (di quattro) titolo olimpico: l'anziano Adolfo Consolini non riuscì, invece, a raggiungere la finale nella quale il piemontese Carmelo Rado fu settimo. Nel salto in alto, venne la sorpresa della sconfitta dell'americano John Thomas, superato dallo sconosciuto georgiano Robert Shavlakadze. Si annunciava, con la medaglia d'argento, la grandezza di Valery Brumel.

Ma la stella più ammirata dell'Olimpiade romana fu una giovane afroamericana: Wilma Rudolph. Vincitrice dei 100 m e dei 200 m e della staffetta 4 x 100 m, eguagliò le tre medaglie d'oro di Betty Cuthbert a Melbourne. La grazia e l'eleganza di Rudolph ‒ la ventesima di 22 figli di un modesto agricoltore del Tennessee che, da bambina, era stata colpita dalla poliomielite sino a perdere l'uso della gamba sinistra ‒ conquistarono non soltanto i romani, ma il mondo intero attraverso le immagine televisive.

Un'italiana, la torinese Giuseppina Leone, ottenne a Roma qualcosa mai più raggiunto da un'atleta azzurra: la medaglia di bronzo sui 100 m. La staffetta veloce ‒ composta da Letizia Bertoni, Sandra Valenti, Piera Tizzoni e Leone ‒ fu quinta: anche questo il miglior piazzamento nella storia olimpica per l'Italia.

L'Italia dominò il pugilato e nessuno poté sollevare il minimo dubbio sulla preparazione e sulle qualità di quei pugili. Non ci furono trucchi o inghippi di arbitri. Soltanto ammirazione generale per la vittoria nei pesi welter di Giovanni 'Nino' Benvenuti, uno dei pugili più eleganti e certamente il più grande nella storia della boxe italiana, come avrebbe confermato con il suo passaggio al professionismo e i titoli mondiali conquistati nella categoria dei pesi medi. Assieme a Benvenuti, divennero campioni olimpici Francesco Musso nella categoria piuma e nei pesi massimi Franco De Piccoli che pareva avviato ‒ almeno ciò pensavano in molti ‒ a rinnovare il mito di Primo Carnera. A completare il trionfo della scuola italiana contribuirono le medaglie d'argento di Primo Zamparini tra i pesi gallo, di Sandro Lopopolo nella categoria pesi leggeri e di Carmelo Bossi tra i medi leggeri.

Ma il pugilato celebrò proprio a Roma la nascita di un campione che, col tempo, avrebbe rivoluzionato l'arte della boxe e offerto al mondo un'immagine completamente nuova di questo sport: Cassius Marcellus Clay. Cassius Clay, che anni dopo avrebbe cambiato il suo nome in Muhammad Ali, aveva appena 18 anni, era nato a Louisville nel Kentucky, uno Stato nel cuore del continente americano, e faceva in occasione dell'Olimpiade il suo primo viaggio oltreoceano. A Roma conquistò tutti non soltanto per l'arte che dispiegava sul ring ma per la grazia, la simpatia, la disponibilità che dimostrava nei confronti del pubblico e dei giornalisti. Sul ring, Cassius Clay non aveva avversari. Più che un pugile, appariva uno schermitore. In un batter d'occhio si liberò, nella categoria dei pesi mediomassimi, del belga Yan Becaus e poi del campione olimpico in carica, il sovietico Gennady Shatkov. Quindi sconfisse l'australiano Tony Madigan prima di umiliare il polacco Zbigniew Pietrzykowski, un pugile che aveva conquistato tre titoli europei e combattuto per ben 231 volte. Cassius Clay scherzò col polacco per i primi due round, evitando accuratamente ogni suo colpo. Quindi, nel terzo, gli dette una lezione di velocità, tecnica e potenza. Nella storia della boxe olimpica, la vittoria di Cassius Clay fu la più bella che si fosse mai vista.

I ciclisti italiani furono protagonisti dell'Olimpiade. Sante Gaiardoni, il possente sprinter, compì qualcosa d'inusuale: si aggiudicò la prova di velocità, battendo il belga Leo Sterckx e il connazionale Valentino Gasparella, dopo aver già trionfato nella prova a cronometro in pista sui 1000 m. Gaiardoni rimane l'unico ciclista ad aver compiuto questa impresa. I trionfi degli atleti italiani in pista furono completati dalla medaglia d'oro a squadre (Luigi Arienti, Franco Testa, Mario Vallotto, Mario Vigna) nella prova d'inseguimento sui 4 km e dalla vittoria di Giuseppe Beghetto e Sergio Bianchetto nei 2000 m tandem.

Nella gara su strada Livio Trapé fu medaglia d'argento, battuto allo sprint dal sovietico Viktor Kapitonov. Ma nella prova a cronometro a squadre ‒ per la prima volta disputatasi a Roma in quanto, in precedenza, il titolo veniva assegnato sulla base dei tempi della prova individuale ‒ Trapé assieme ad Antonio Bailetti, Ottavio Cogliati, Giacomo Fornoni, vinse la medaglia d'oro. In quella stessa gara il ciclista danese Knut Jensen patì un collasso, probabilmente dovuto alla fatica e alla disidratazione ‒ temperatura di oltre 35 gradi e forte umidità ‒ cadde e si fratturò il cranio. Ricoverato in ospedale, morì poco dopo: era, e rimane, il secondo atleta a essere deceduto durante un'Olimpiade, dopo il maratoneta Francisco Lázaro, a Stoccolma nel 1912. L'esame autoptico determinò anche che, prima della gara, il danese era ricorso all'utilizzo di Ronicol, uno stimolante della circolazione del sangue.

Nelle gare in piscina va ricordato il successo della tuffatrice tedesca (di Dresda) Ingrid Krämer che, oltre a essere la quarta atleta a conquistare il titolo sia dal trampolino sia dalla piattaforma, interruppe un record di ben otto vittorie consecutive americane: difatti da quando la gara dal trampolino era stata introdotta, nel 1920, le atlete statunitensi erano risultate imbattibili.

Nel nuoto, la gara più emozionate furono i 100 m stile libero uomini con l'arrivo contemporaneo dell'australiano John Devitt e dell'americano Lance Larson (grande assente dalla competizione l'americano Jeff Farrell che, operato di appendicite sei giorni prima delle qualificazioni statunitensi, era riuscito a ottenere un posto soltanto nella staffetta). Dopo infinite discussioni, mancando allora un apparecchio elettronico che potesse determinare con esattezza chi avesse toccato per primo il bordo delle piscina, i giudici capovolsero un primo verdetto che aveva dato vincitore Larson: la medaglia d'oro andò così all'australiano Devitt. Nessuna incertezza, invece, nella corrispondente prova femminile dove la celebre, anticonformista nuotatrice australiana Dawn Fraser conquistò il secondo dei suoi tre titoli consecutivi. In totale, a fine carriera, Fraser avrebbe vinto quattro medaglie d'oro e quattro d'argento.

Una grande vittoria fu ottenuta dall'Italia nella pallanuoto: il secondo oro, dopo quello conquistato nel 1948 a Londra. In finale, i pallanuotisti italiani ‒ Dante Rossi, Giuseppe D'Altrui, Eraldo Pizzo, Gianni Lonzi, Franco Lavoratori, Rosario Parmegiani, Danio Bardi, Brunello Spinelli, Salvatore Gionta, Amadeo Ambron, Giancarlo Guerrini ‒ superarono l'Unione Sovietica.

L'equitazione ebbe, in Italia, in quel 1960 un momento di notorietà e sollevò entusiasmi: i nomi dei fratelli Raimondo e Piero D'Inzeo, medaglie d'oro e d'argento nella prova di salto individuale, divennero famosi tanto da esser ancor oggi associati, nella memoria popolare, a tutto ciò che è equitazione. Raimondo D'Inzeo montava Posillipo; Piero The rock. Nella prova a squadre, sempre di salto, i due fratelli, assieme a Antonio Oppes, ottennero la medaglia di bronzo.

Le gare di scherma furono, secondo tradizione, uno dei campi di battaglia più favorevoli ai colori italiani. Tuttavia la scherma azzurra si trovava in un momento di cambio generazionale, essendo alcuni campioni (come Edoardo Mangiarotti) ormai d'età. Tuttavia ancora Mangiarotti contribuì alla conquista della medaglia d'argento nella gara di fioretto a squadre, assieme ad Alberto Pellegrino, Luigi Carpaneda, Mario Curletto e Aldo Aureggio. Il titolo andò all'Unione Sovietica, che fu così la prima squadra a rompere il dominio italo-francese in questa specialità (un atleta sovietico, Viktor Zhdanovich aveva vinto il titolo individuale). La medaglia d'oro arrivò dallo spadista Giuseppe Delfino, uno schermitore di grande abilità tattica che soleva costringere l'avversario al barrage, per poi batterlo nella stoccata di sudden death, o 'morte improvvisa'. Delfino aveva affinato questa sua tattica, frutto di esperienza e freddezza, e a Roma ottenne il trionfo contro l'inglese Allan Jay. Sempre Delfino guidò la squadra italiana, formata anche da Alberto Pellegrino, Carlo Pavesi, Edoardo Mangiarotti, Fiorenzo Marini e Gianluigi Saccaro al titolo olimpico. Da notare che in squadra erano i tre campioni individuali di spada del 1952 (Mangiarotti), 1956 (Pavesi) e Delfino (1960), tutti ormai anziani, e un giovane ventunenne, Saccaro.

Nella ginnastica, diedero vita a superbi duelli il sovietico-ucraino Boris Shakhlin e il giapponese Takashi Ono: il primo vinse il concorso generale, ma Takashi Ono guidò il Giappone al titolo a squadre. In questa prova l'Italia fu medaglia di bronzo con Franco Menichelli (che nell'esercizio al tappeto era già stato terzo), leader del team composto anche da Giovanni Carminucci, Angelo Vicardi, Pasquale Carminucci, Orlando Polmonari, Gianfranco Marzolla.

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