Olimpiadi estive: Tokyo 1964

Enciclopedia dello Sport (2004)

Olimpiadi estive: Tokyo 1964

Gian Paolo Ormezzano

Numero Olimpiade: XVIII

Data: 10 ottobre-24 ottobre

Nazioni partecipanti: 93

Numero atleti: 5151 (4473 uomini, 678 donne)

Numero atleti italiani: 171 (160 uomini, 11 donne)

Discipline: Atletica, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Judo, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallacanestro, Pallanuoto, Pallavolo, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Sollevamento pesi, Tiro, Tuffi, Vela

Numero di gare: 163

Ultimo tedoforo: Yoshinori Sakai

Giuramento olimpico: Takashi Ono

Tokyo era da tempo in lista d'attesa per organizzare i Giochi Olimpici. Era già stata scelta per il 1940, ma nel 1938 il governo aveva dovuto rinunciare per la pressione internazionale seguita all'invasione della Cina da parte dell'esercito giapponese. La guerra aveva poi rinviato la designazione, il Giappone colpevole di averla perduta era stato escluso dai Giochi di Londra 1948 (come la Germania e non come l'Italia) e soltanto nel 1950 era stato riammesso nel Comitato olimpico internazionale a pieno titolo e aveva così potuto partecipare ai Giochi di Helsinki 1952. La scelta per il 1964 avvenne nel congresso del CIO tenuto in Germania, a Monaco, nel 1955: Tokyo sconfisse Detroit, Vienna e Bruxelles. La Germania, che dopo Roma 1960 e appunto Tokyo 1964 era rimasta l'unica nazione dell'Asse senza Giochi Olimpici, si mise in lista anch'essa puntando proprio sulla città bavarese, ma avrebbe dovuto attendere sino al 1972. Il Giappone fra l'altro godeva di una simpatia 'creditizia', conquistata ai tempi dei Giochi di Londra 1948 grazie ai primati mondiali fatti registrare in esibizioni in patria dal grande nuotatore Hironoshi Furuhashi, con tempi nettamente inferiori a quelli ottenuti contemporaneamente sulle stesse distanze dagli olimpionici.

Agli albori degli anni Sessanta la grande stampa occidentale aveva scoperto il Giappone e aveva compreso che il fascino di quel paese non era più legato all'immagine dei samurai e delle geishe ma dipendeva ora dalla forte ripresa economica, da uno strepitoso boom industriale e dalla proposta al mondo, anzi dall'imposizione, di Tokyo come megalopoli del Duemila. Quando, arrivate nella capitale e recitato il copione della cerimonia dell'alzabandiera, le prime delegazioni di atleti raccontarono nei loro paesi che per far garrire sempre le bandiere erano stati installati potenti ventilatori, in qualche modo si era già preparati all'avanzamento tecnologico giapponese. Tokyo comunque conservava retaggi del passato: le strade senza numeri civici e spesso anche senza nome, un tempietto accanto ai grattacieli. Qualche esperto, non solo di sport, fece notare che il Giappone si apprestava a 'colpire' economicamente tutto il mondo anche con l'arma dell'efficienza. Un giornalista politico italiano molto noto, arrivato per studiare il nuovo Giappone e non lo sport olimpico, scrisse dell'imperatore Hirohito come di un criminale di guerra. Due anni prima, in occasione dei Mondiali di calcio in Cile, rilievi extrasportivi di giornalisti italiani riferiti alla miseria di Santiago ancora ferita da un recente terremoto, avevano causato quasi un incidente diplomatico. Il compito, formalissimo Giappone si limitò invece ad alcune telefonate di minacce e insulti al dissacratore del Mikado, del sovrano che allora era ancora ritenuto un dio in terra.

Quella di Tokyo 1964 fu una bellissima edizione dei Giochi ma allo stesso tempo algida. Gli stadi erano affollati da studenti precettati e impegnati in cori esaltanti le capacità dello sport di affratellare i popoli. Il pubblico, molto caloroso ma del tutto incompetente, applaudiva a comando senza davvero vivere le gare più belle, a differenza di quello di Roma 1960, non così numeroso ma sicuramente più intenso, eccezionale coattore e in fondo anche coautore di una manifestazione trasformata in forte e divertente psicodramma, con recita mista e sincrona di atleti, addetti all'organizzazione e spettatori. In Giappone furono invece superbi gli impianti olimpici ‒ su tutti la piscina ‒ progettati da maestri dell'architettura che da allora furono molto richiesti in Occidente proprio per l'impiantistica sportiva. Bellissimo il villaggio degli atleti, dei tecnici, dei dirigenti, dei giornalisti, formato da villette nel verde, fra le quali ci si poteva muovere utilizzando le tantissime piccole biciclette messe a disposizione di tutti.

L'edizione del 1964 fu segnata anche dalla prima trasmissione televisiva in mondovisione, sulla scia della buona riuscita, soprattutto a livello di diffusione europea, dei precedenti Giochi di Roma 1960. Protagonista specialissimo di questa innovazione del mezzo televisivo fu il marciatore italiano Abdon Pamich il quale, durante la sua vittoriosa gara di marcia sui 50 km, venne ripreso dalle telecamere mobili e da quelle fisse degli operatori giapponesi durante una fermata alla quale era stato costretto per risolvere i problemi fisici determinati da una colica intestinale.

I giapponesi peraltro tennero molto alta la sacralità dei loro Giochi: la fiamma del tripode venne accesa da Yoshinori Sakai, un ragazzo nato a Hiroshima il 6 agosto 1945, un'ora dopo lo scoppio della prima delle due bombe atomiche statunitensi (l'altra fu lasciata cadere su Nagasaki). Durante tutta la durata della manifestazione fu immanente il richiamo alle tradizioni del paese, alla sua severità di costumi e di usanze. Quando un corpulento olandese, Anton Geesink, vinse la medaglia d'oro più importante (nella categoria senza limiti di peso) del judo, sport ammesso nel programma come omaggio al Giappone sua culla, i giapponesi, dai quali quella disciplina chiamata 'arte sottile' è stata sempre considerata una sorta di religione prima ancora che di sport, riuscirono a reggere al dolore, alla disperazione, all'onta senza neanche fare registrare il temuto alto numero di suicidi. Geesink sconfisse Akio Kaminaga, eroe locale, che aveva la 'colpa' di pesare 30 kg di meno (100 contro 130), e a quel punto, con quei numeri e a quei livelli tecnici, non c'è 'arte' che conti. Il judo era, insieme alla pallavolo, sport nuovo per i Giochi, e furono proprio le pallavoliste giapponesi, operaie di una fabbrica di tessuti sottoposte ad allenamenti persino crudeli, a riscattare l'onta della sconfitta del judoka nazionale.

Rispetto a Roma 1960 ci furono meno gastronomia ed enologia, meno sole, meno allegria, meno nostalgia, ma più efficienza e più agevolazioni per chi durante le gare doveva lavorare. Le competizioni furono altrettanto belle e per fortuna non ci fu nessun caso di morte per doping come era avvenuto quattro anni prima.

Il personaggio dei Giochi fu il nuotatore statunitense di origini scandinave Donald 'Don' Arthur Schollander, figlio di una nuotatrice passata dall'agonismo a Hollywood come controfigura nelle scene acquatiche dell'attrice Maureen O'Sullivan, la Jane delle pellicole di Tarzan interpretate dal grande campione olimpionico Johnny Weissmuller. Schollander vinse quattro medaglie d'oro nello stile libero nuotando i 100 e i 400 m, la staffetta 4x100 m e la staffetta 4x200 m. Reso celebre dai risultati, Schollander seppe costruirsi bene il suo personaggio di all-American boy, in una nazione che aveva appena finito di odiare gli statunitensi e cominciava ad ammirarli se non addirittura a copiarli. Anche il nuoto era a priori zona sacra per lo sport giapponese, ma Schollander apparve davvero superiore a tutto e a tutti. Fu lui a firmare la supremazia di medaglie degli USA sull'URSS e ad attrarre più attenzione.

Si misero in luce, anche per la loro avvenenza, alcune atlete. Se Roma aveva avuto come protagonista la gazzella nera Wilma Rudolph, Tokyo ebbe invece la biondissima californiana Donna de Varona, nuotatrice della squadra USA, vincitrice dei 400 m misti e della staffetta 4x100 m stile libero e destinata in seguito a una grande carriera nel giornalismo sportivo come conduttrice di trasmissioni sui maggiori network del suo paese. Nella ginnastica, altro sport molto seguito dai giapponesi, vinse molto ‒ tre medaglie, quella del concorso generale individuale e quelle specifiche del volteggio e della trave ‒ la cecoslovacca Vera Caslavska, che avrebbe dominato dal punto di vista mediatico (anche se allora il termine non esisteva) i Giochi di Città del Messico quattro anni dopo. Già argento di squadra a Roma, Caslavska aveva ventidue anni, era di una bellezza classica, diversa da quella vistosa di de Varona. Altra protagonista di questa edizione dei Giochi fu la rumena Iolanda Balas, che con la medaglia d'oro nel salto in alto replicò il successo di Roma 1960.

Cominciati con qualche inquietudine per complicazioni politiche dell'ultima ora, i Giochi di Tokyo si conclusero con l'idea di un mondo 'pacificato' dallo sport. Mancavano soltanto l'Indonesia e la Corea del Nord a causa di impedimenti diplomatici conseguenti alla squalifica di alcuni loro sportivi nel nuoto e nell'atletica leggera. Il Sudafrica era invece assente perché espulso dal CIO pochi mesi prima, a causa delle regole discriminanti applicate anche nello sport in base all'apartheid. Complessivamente furono presenti 20 nazioni africane fra cui lo Zambia: per questo paese il primo giorno di indipendenza coincise con l'inizio dei Giochi di Tokyo, il 10 ottobre, e i suoi atleti furono i più festosi di tutti durante la sfilata inaugurale, che trasformarono in uno spettacolo di folklore africano. All'opposto vi fu il gelo delle delegazioni femminili britannica e tedesca, quando le atlete si accorsero che la loro divisa ufficiale, color rosa confetto, era identica, come uscita dalla fantasia e dalle mani dello stesso sarto.

Se a Roma 1960 qualcuno aveva creduto di intravedere un calo epocale statunitense nell'atletica leggera, Tokyo 1964 provvide all'immediata smentita. I 100 m furono di Robert Hayes, afroamericano della Florida, vincitore con 10″ netti (misurati con il cronometraggio elettrico) che gli valsero l'investitura ufficiale di Jesse Owens, l'uomo delle quattro medaglie d'oro a Berlino 1936. In tribuna per l'occasione, Owens lo definì infatti il più grande di ogni tempo. La rottura del predomino 'bianco' nella velocità ‒ a Roma 1960 si era avuta la vittoria del tedesco Armin Hary e dell'italiano Livio Berruti ‒ fu completata dal successo di Henry Carr, nero dell'Alabama, sui 200 m. Da notare che Hayes aveva preceduto altri due neri, il cubano Enrique Figuerola e il canadese Harry Jerome, e che la stessa cosa fece Carr nei 200 m, lasciandosi dietro il connazionale Paul Dayton ed Edwin Roberts di Trinidad. Sia Hayes sia Carr passarono poi quasi subito al football americano per guadagnare più di quanto l'atletica era in grado di offrire loro: era ancora ufficialmente proibito palesare progetti o anche soltanto ipotesi di mercificazione del successo olimpico, ma se per prudenza non lo faceva il campione, lo facevano la stampa e l'opinione pubblica.

Berruti sui suoi 200 m fu quinto, primo degli europei e primo dei bianchi, e da gran signore alla de Coubertin non si indignò neanche quando arrivarono a Tokyo i giornali italiani e gli capitò di leggere che la sua prestazione, in un ambito quale quello dello sprint che bruciava e brucia i suoi campioni in pochissimi anni, spesso pochissimi mesi, era stata ritenuta deludente. Nonostante il vantaggio di avere corso la finale nella prima corsia, aveva precisato una grossa firma: senza considerare che le piste erano ancora di terra rossa e la corsia interna, la numero 1, pativa il passaggio dei mezzofondisti, che la rendevano quasi impraticabile.

Le due medaglie d'oro italiane più significative di Tokyo 1964 furono quelle di Pamich nella marcia e del ventitreenne ginnasta romano Franco Menichelli (fratello minore di Giampaolo, calciatore della Roma, della Juventus e della nazionale) nel corpo libero. Già vincitore quattro anni prima del bronzo nella stessa categoria e nella prova a squadre, Menichelli a Tokyo fu anche secondo agli anelli, con un verdetto della giuria che favorì il giapponese Takuji Haytta e che venne contestato dallo stesso pubblico nipponico, nonché terzo alle parallele. Nel corpo libero arrivò al punteggio altissimo di 9,80, superando il sovietico Viktor Lisitskiy e il giapponese Yukio Endo, vincitore della classifica generale. Quattro anni dopo, cercando la stessa medaglia d'oro ai Giochi di Città del Messico, Menichelli si ruppe in piena competizione il tendine di Achille: fine non solo del sogno di un bis, ma della carriera.

In questa edizione quattro furono le nazioni imbattibili (USA, URSS, Germania Ovest ed Est insieme con spietate selezioni interne, e Giappone) e per l'Italia finire al quinto posto fu un gran risultato. Senza poter far ricorso al fattore campo come nei precedenti Giochi, la squadra azzurra disputò una bella serie di gare e vinse 10 ori, 10 argenti, 7 bronzi (contro 16 ori, 5 argenti, 8 bronzi dei padroni di casa), puntando sulle discipline in cui era più forte. Il ciclismo, per esempio, ottenne grandi successi nel velodromo olimpico che si trovava ad alcune ore di treno dalla capitale. Giovanni Pettenella vinse nella velocità in finale su Sergio Bianchetto, il quale si aggiudicò insieme ad Angelo Damiano il titolo del tandem. Soprattutto Mario Zanin trionfò nella corsa individuale su strada, l'unica prova non vinta dagli azzurri quattro anni prima. Coinvolto in una caduta del gruppo di testa a pochi chilometri dal traguardo, si rialzò, tornò fra i primi e vinse una volata lunga sul danese Kjell Åkerstrøm Rodian e sul belga Walter Godefroot. Al dodicesimo posto, intruppato nel plotone, giunse un promettente belga, Eddy Merckx. Zanin fu poi folgorato dalla 'maledizione del dilettante' in vigore allora, quella per cui se si vinceva un titolo mondiale o un titolo olimpico dei dilettanti la carriera finiva praticamente lì, senza speranze di passare al professionismo. Gli unici in grado di sfatare questo tabù furono campioni come Ercole Baldini, vincitore a Melbourne 1956, e Merckx, maglia iridata a Sallanches (Francia) in quello stesso 1964, poco prima di partire per i Giochi in Giappone.

Per quanto riguarda invece l'equitazione, da una località lontana da Tokyo arrivarono notizie positive: Mauro Checcoli, Paolo Angioni e Giuseppe Ravano vinsero infatti la classifica a squadre del completo, e lo stesso Checcoli fu primo nella graduatoria individuale. I fratelli Piero e Raimondo D'Inzeo e Graziano Mancinelli ottennero inoltre il bronzo nel concorso di salto a squadre.

Due successi italiani vennero anche nel pugilato, dove avevamo una scuola di vertice e una buona ricerca di base, con Fernando Atzori nei mosca e Cosimo Pinto nei mediomassimi. Fu eliminato da una ferita al sopracciglio il peso leggero Bruno Arcari, che poi però da professionista sarebbe diventato campione del mondo. La decima medaglia d'oro arrivò grazie a Ennio Mattarelli nel tiro al piattello, fossa olimpica. Mancò l'oro nella scherma, ma annunciò una campionessa il terzo posto nel fioretto di una ragazza padovana, Antonella Ragno, nella gara vinta da una ungherese, Ildiko Ujlaki Rejto, sorda dall'età di tre anni per un incidente stradale.

Da ricordare anche nella Tokyo 'azzurra' il secondo posto nei tuffi dalla piattaforma di un atleta altoatesino, Klaus Dibiasi, figlio di un tuffatore azzurro decimo ai Giochi di Berlino 1936. Su Dibiasi era stato fatto un investimento: portarlo in giro a gareggiare per tutto il mondo, affinché i giurati internazionali imparassero a conoscerlo. Finì secondo a neanche un punto dal favorito, lo statunitense Robert Webster, e diede così inizio alla sua carriera olimpica che lo avrebbe portato all'oro nelle tre Olimpiadi successive.

Gli italiani prevalsero in un particolare confronto olimpico, che già era stato stravinto a Roma 1960: quello con la Francia, da sempre nazione rivale nello sport e con punte di reciproca altissima specializzazione sciovinistica, ovviamente nell'ambito del confronto diretto. A Roma 1960 i francesi non ottennero neanche una medaglia d'oro, a Tokyo ne conquistarono una, l'ultimo giorno, nell'equitazione con Pierre Jonquères d'Oriola il quale vinse il concorso di salto che allora si teneva nello stadio olimpico e faceva parte della cerimonia di chiusura (soltanto quattro anni dopo, a Città del Messico, questa cerimonia avrebbe assunto una sua valenza particolare, diventando una replica di quella d'apertura). Lo schiaffo di Roma era stato troppo forte, in casa poi des italiens, quelli che con Bartali e Coppi avevano preso possesso del loro Tour. I francesi quindi puntavano a rifarsi con molti successi e il governo a tal scopo aveva affidato il Ministero dello Sport al celebre Maurice Herzog, primo alpinista occidentale a scalare gli 8000 m dell'Annapurna. Nonostante la rappresentativa di Francia potesse contare su diversi campioni (Michel Jazy nel mezzofondo, Alain Gottvalles e Christine Caron del nuoto, Jean-Claude Magnan nel fioretto, Pierre Trentin e Daniel Morelon nel ciclismo per la categoria della velocità su pista), per ragioni assortite, non ultima la sfortuna, a Tokyo non vinse quasi nulla.

Abbiamo già accennato alla ripresa USA nell'atletica. In campo maschile, oltre a Hayes e Carr, si distinsero anche il trentatreenne Michael Larrabee nei 400 m e gli outsider Robert Schul e William Mills nei 5000 e nei 10.000 m. Dietro il successo statunitense sulle gare podistiche di lunga distanza si notò l'opera di Mihaly Igloi, un allenatore ungherese fuggito dal suo paese dopo l'invasione sovietica. Fondatore in patria di una scuola di grandi mezzofondisti, riuscì a riproporre con successo l'esperienza anche a Los Angeles, seppure per un breve periodo. Gli statunitensi vinsero anche negli ostacoli alti e bassi (Hayes Jones e Warren 'Rex' Cawley), nel lancio del peso (Dallas Long), in quello del disco (Al Oerter al suo terzo oro olimpico consecutivo nonostante problemi alle ossa che gli impedivano di allenarsi per il dolore), nel salto con l'asta (Fredrick Hansen alla fine di una prova durata 13 ore) e infine nelle staffette.

Poco spazio fu lasciato al resto del mondo, ma grande notorietà ebbe l'impresa del neozelandese Peter Snell, vincitore degli 800 e dei 1500 m, una doppietta ritenuta dai tecnici irrealizzabile. Snell, dominatore in gara, era un 'travet' in patria quando si dedicava al suo lavoro di rappresentante di marche di sigarette (ovviamente lui non era fumatore), andando però in ufficio e dai clienti a passo di corsa. Altro protagonista fu Valery Brumel, saltatore in alto sovietico cresciuto nei freddi della Siberia, atleta di eleganza sublime e di tecnica assoluta, vincitore sul nero statunitense John Thomas a quota 2,18 m per minor numero di errori. Aveva appena 22 anni, l'anno dopo si sarebbe schiantato in motocicletta contro un albero, ponendo inevitabilmente fine alla sua carriera, nonostante i tentativi dei chirurghi di rimetterlo in sesto.

L'etiope Abebe Bikila vinse nuovamente (non più a piedi nudi) la maratona, sensazionalmente conquistata già quattro anni prima a Roma, dimostrando ormai una sicurezza assoluta nei propri mezzi. Vinse e fece un bello show di felicità allo stadio.

L'atletica femminile fu al centro di innumerevoli congetture circa la reale identità sessuale di alcune delle atlete. Nello sprint ci fu un dominio statunitense, con Wyomia Tyus sui 100 m ed Edith McGuire sui 200m, due nere a raccogliere il testimone di Wilma Rudolph: ma il dopo Giochi vide più in vetrina la terza dei 100 m, la polacca Ewa Koblukowska, e la seconda dei 200 m, la sua connazionale Irena Kirszenstein. Koblukowska fu subito sospettata di ambiguità fisiche, sino a quando nel 1967 la Federazione internazionale le proibì la partecipazione alle gare. A Tokyo le due polacche, ben sostenute dalle proprie compagne, riuscirono inoltre a vincere la staffetta sulle statunitensi. Altra atleta molto discussa fu la rumena Balas, ritenuta da molti troppo forte nel salto in alto per non destare sospetti. Ritorno assai gradito fu quello dell'australiana Betty Cuthbert, già protagonista di Melbourne 1956, che si cimentò con successo sui 400 m dopo aver abbandonato lo sprint. Anche le prestazioni delle sorelle sovietiche Press furono circondate da voci insistenti sulla loro identità sessuale; comunque Tamara vinse nel lancio del peso e in quello del disco, mentre Irina primeggiò nel pentathlon.

Nel nuoto ci fu ancora posto glorioso per l'australiana Dawn Fraser, al suo terzo oro consecutivo sui 100 m stile libero, prima dell'arrivo in corsia delle muscolose tedesche dell'Est, potenziate dal doping di Stato. Nella pallanuoto l'Italia non arrivò al podio, superata dalle altre tre grandi nazionali (Ungheria, Iugoslavia, URSS nell'ordine).

Nella pallacanestro prevalse, secondo le aspettative, la squadra USA nella quale giocava Bill Bradley: in seguito, passato al professionismo, si trasferì in Europa per studiare ad Oxford dottrine politiche e giocare nel week-end con la Simmentahl di Milano, poi tornò in patria e si lanciò nella carriera politica, arrivando al seggio di senatore del New Jersey e anche vicino alla nomination da parte del Partito democratico per le elezioni presidenziali.

Su tutti i giapponesi si mise in luce il grande lottatore Osamu Watanabe, peso piuma, che vinse il titolo olimpico della libera alla sua vittoria consecutiva numero 186, e fu scelto come eroe nazionale dall'opinione pubblica giapponese davanti ai tre atleti del judo che avevano sì vinto, ma non nella sola categoria che per la tradizione e l'orgoglio nipponico contava davvero, quella dei senza limite di peso, dominata come si è detto da Geesink.

Fra gli uomini forti del sollevamento pesi ottenne la medaglia d'argento, categoria pesi massimi, Yuriy Vlasov, l'ingegnere sovietico che aveva vinto a Roma (in Giappone lo superò invece il connazionale Leonid Zhabotinskiy) e che da portabandiera della sua squadra nella sfilata inaugurale aveva fatto il giro dello stadio a passo marziale sostenendo asta e vessillo con un solo braccio fieramente e rigidamente proteso in avanti, in una posa da Ercole moderno.

Nel canottaggio il sovietico Vyacheslav Ivanov arrivò nel singolo alla sua terza medaglia d'oro, ma dovette patire, sul piano spettacolare, la concorrenza di quelli dell'otto, la cui finale vide gli statunitensi prevalere sui tedeschi mentre il bacino di gara ‒ ormai a tarda sera ‒ veniva illuminato da razzi sparati dall'esercito. L'equipaggio americano era stato allestito ricorrendo alla tradizione più classica, nel senso che per mandare in acqua una formazione sicuramente competitiva, la federazione USA si era rivolta al Vesper Boat Club di Filadelfia, gloriosa società remiera che aveva vinto ai Giochi di Parigi 1900 e che, quando si decideva a varare l'armo sovrano, non perdeva mai una gara.

Fu molto intenso anche il torneo di pugilato, e come già a Roma 1960 la scelta del personaggio fu semplice, automatica: Joe Frazier, che vinse per gli Stati Uniti la medaglia d'oro dei pesi massimi e che venne subito presentato come il rivale di Cassius Clay, passato intanto al professionismo. In effetti poi per lunghi anni i guantoni e i destini dei due si sarebbero incrociati, e ognuno ebbe bisogno dell'altro per affermarsi a intermittenza come il migliore del mondo (ma alla fine Cassius Clay, assunto il nome di Muhammad Ali, vinse la grande partita). Nel 1971 Frazier sarebbe diventato, nella maestosa cornice del Madison Square Garden di New York, il primo pugile al mondo capace di mandare al tappeto Clay, sia pure senza ottenere (era la quindicesima e ultima ripresa) il k.o., e limitandosi a togliere al rivale cintura e corona di campione del mondo con una vittoria ai punti.

Alla fine dei Giochi di Tokyo lo statunitense Avery Brundage venne rieletto presidente del CIO per la quarta volta. Brundage aveva mantenuto la carica di padrone dello sport mondiale per due tornate di quattro anni e poi aveva ottenuto la terza elezione sulla base del regolamento che permetteva un'ulteriore permanenza di quattro anni. Per la quarta elezione venne utilizzato invece un escamotage molto particolare: lo statuto del CIO recitava in francese che dopo due elezioni si poteva ancora rimanere eccezionalmente in carica solo per un ulteriore periodo di quattro anni, ma il testo inglese si limitava a parlare di rieleggibilità per periodi di quattro anni. Sebbene la regola dicesse che, in caso di contrasto fra le due versioni, quella in francese (la lingua di de Coubertin, comunque fortemente anglofilo) doveva prevalere, per Brundage venne imposta la versione inglese, fra l'altro con votazione all'unanimità sul suo nome, nonostante si parlasse del suo scarso impegno nella lotta al razzismo dentro lo sport e si ricordassero persino sue antiche simpatie hitleriane. Nessuno ne tenne conto e in quel 1964 il CIO non solo preferì l'inglese al francese del suo fondatore ma si avviò a farne la sua lingua ufficiale, senza peraltro che i francesi, impegnati nel loro inutile tifo per gli atleti, protestassero.

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