Olimpiadi invernali: Sarajevo 1984

Enciclopedia dello Sport (2004)

Olimpiadi invernali: Sarajevo 1984

Gian Paolo Ormezzano

Numero Olimpiade: XIV

Data: 8 febbraio-19 febbraio

Nazioni partecipanti: 49

Numero atleti: 1272 (998 uomini, 274 donne)

Numero atleti italiani: 76 (61 uomini, 15 donne)

Discipline: Biathlon, Bob, Hockey su ghiaccio, Pattinaggio, Pattinaggio artistico, Sci alpino, Sci nordico, Slittino

Numero di gare: 39

Ultimo tedoforo: Sandra Dubravcic

Giuramento olimpico: Bojan Krizaj

Negli anni Novanta Sarajevo, messa sotto assedio dai serbi che volevano evitare la dissoluzione della Iugoslavia, è divenuta un simbolo di guerra e di devastazione. In quegli anni raramente si ricordava che la città era stata sede olimpica, quasi che il fatto di avere ospitato i Giochi fosse cosa minima nella sua storia recente. In effetti, rispetto ai tragici avvenimenti che poi ha vissuto, è così. Ma il mondo dello sport non può farsi carico di questo tipo di classifiche e dunque è possibile ricordare come sede della XIV Olimpiade invernale l'odierna capitale della Bosnia indipendente, che nel 1984 era soltanto parte di una Federazione.

Dei Giochi invernali di Sarajevo 1984 resta un ricordo speciale, legato a tutta la neve che cadde, alimentando la cronaca dei giornali a causa dei disagi che causò, paralizzando uomini e cose, ostacolando anche i trasporti urbani, e, soprattutto, rendendo necessari rinvii e spostamenti nel calendario delle gare previste. La discesa libera maschile, per es., programmata per il 9 febbraio, cioè per il secondo giorno dei Giochi, poté essere disputata soltanto il 16, dopo una settimana di ispezioni e rinvii. Conclusa quell'edizione dei Giochi si continuò a parlare ancora della neve come di un elemento che aveva condizionato pesantemente l'andamento e i risultati delle gare. Infatti era stata interrotta la rete di rifornimenti di farmaci per gli atleti, a causa dell'aeroporto bloccato e dell'entrata in crisi anche del sistema ferroviario, peraltro non eccelso, che legava la città, sita nel cuore della Bosnia, al resto della Iugoslavia. Se a venire meno siano state comuni medicine non rintracciabili sul posto o prodotti per il doping più sofisticato non è dato sapere con certezza, ma si disse subito che certe prestazioni inferiori alle aspettative, certe sorprese dovessero essere ascritte alla neve: non come 'pavimento' bianco su cui camminava tanto mondo olimpico quanto come barriera che ostacolò la fornitura di sostanze speciali e forse proibite. Il fantasma del doping non era ancora vistoso, come sarebbe diventato negli anni immediatamente successivi, ma qualcosa già si sospettava.

Sarajevo può essere rammentata anche come una Olimpiade senza fattore campo, per l'inconsistenza della rappresentativa iugoslava, fortissima abitualmente nei Giochi estivi, e specie negli sport di squadra, insignificante in quelli invernali. Neanche per i giapponesi a Sapporo 1972 c'era stata così poca attesa degli enfants du pays. E quando lo sloveno Jure Franko divenne il primo iugoslavo medaglia d'argento - sci alpino, slalom gigante - in tutta la storia dei Giochi, l'entusiasmo dei locali fu relativo: non era un bosniaco e non era collegabile a qualche campione nazionale del passato. Nessuno allora poteva pronosticare che lo sci alpino indipendente della Croazia e soprattutto della Slovenia sarebbe diventato grande entro pochi anni.

Sarajevo era a poco più di un'ora di volo da Roma, ma la difficile situazione politica e la paura di come potesse improvvisamente evolversi la rendevano agli occhi degli italiani più lontana di Lake Placid e anche di Sapporo. In quei Giochi l'Italia conquistò solo due medaglie, ma entrambe d'oro, e di forte valore emblematico. La prima fu quella dello slittinista altoatesino Paul Hildgartner, che a Sapporo dodici anni prima aveva già conquistato un oro nella prova biposto, in coppia con Walter Plaikner (a Sarajevo responsabile tecnico della preparazione dei materiali di gara) ed ex aequo con un equipaggio tedesco orientale. Hildgartner, trentaduenne (peso piuma, fra l'altro, e la zavorra consentita non lo portava certo alla stazza complessiva dei rivali più forti), fu bravissimo in tutte e quattro le manche, andando in testa sin dalla prima; quando all'ultima discesa la prudenza avrebbe potuto spingerlo a una gara cauta, per ben amministrare il vantaggio, specie dopo il crollo nella terza prova del tedesco orientale Michael Walter, sin lì grande avversario, volle invece tentare tutto, come per onorare la gara al massimo, anche con il rischio e il fascino della temerarietà. Due sovietici salirono sul podio, approfittando della 'disfatta' inflitta da Hildgartner ai tedeschi orientali. Nella prova biposto, quasi per una nemesi innescata dall'italiano, vinse la coppia della Germania Ovest, su una coppia dell'URSS e una della Germania Est.

La Germania Orientale si riprese nella prova delle donne, con tre slittiniste ai primi tre posti. Per l'Italia quella fu la gara di Marie Luise Rainer, che arrivò sesta dando l'addio all'attività agonistica dopo tre edizioni dei Giochi e alla fine di una carriera vissuta con tanti rischi, qualche soddisfazione e tanta dedizione. Nel bob Guerrino Ghedina guidò quello a due al settimo posto e quello a quattro all'ottavo, in gare dominate come sempre dalla Germania Est, essendo i successi di Eugenio Monti un ricordo ormai sempre più lontano.

L'altro oro azzurro fu ottenuto nello slalom speciale femminile, sulla collina di Jahorina, il 17 febbraio, a Giochi avviati quasi alla conclusione, da una giovane italiana nata a Selvino, che decise nella seconda manche di tentare il tutto per tutto, in quella che considerava la prova della sua vita. La ventenne Paola (subito 'Paoletta') Magoni aveva cominciato a gareggiare sugli sci a 9 anni, nei Giochi della Gioventù, incoraggiata dal padre, sciatore accanito e gran cultore delle glorie dello sci alpino. Dopo la prima manche Magoni era terza ex aequo con la francese Perrine Pelen, preceduta da un'altra francese, Christelle Guignard e da Ursula Konzett del Liechtentsein. Erano tutte vicinissime, fra la prima e la seconda c'erano 10 centesimi, fra la prima e l'azzurra appena 14 centesimi. Erano uscite di pista e di gara due favorite, le statunitensi Tamara McKinney e Christin Cooper. Nella seconda manche Paoletta doveva partire per prima, prese i suoi rischi, peraltro non bene documentabili perché la nebbia precluse la ripresa della prova, e segnò un tempo, 47,62″, di cui nessuno seppe sul momento dire se era buono, ottimo o scarso. Bisognò aspettare che arrivassero le altre, almeno le tre chiuse con Paoletta nel fazzoletto di 14 centesimi di secondo. Scese Pelen e il suo tempo fu di un secondo peggiore di quello dell'azzurra. Poi Konzett fece segnare un tempo superiore di 13 centesimi a quello di Pelen, e allora si cominciò a parlare di medaglia d'argento per Paoletta. Doveva ancora scendere Guignard, la leader dopo la prima manche. Ma non comparve, uscita di pista probabilmente a causa della nebbia. Le atlete ancora in gara erano obiettivamente troppo staccate, dopo la loro prima manche, per poter pensare a un recupero che fosse più straordinario ancora del tempo dell'azzurra. Il primo posto di Paoletta Magoni fu senz'altro una grossa sorpresa, considerando che la sua carriera internazionale precedente era priva di grandi successi. Magoni fu anche la prima italiana a conquistare l'oro olimpico nello sci alpino. In seguitò onorò la prodezza di quel giorno a Sarajevo arrivando anche a un bronzo mondiale. In quello stesso slalom Maria Rosa Quario fu settima e Daniela Zini nona. Più Italia del previsto, insomma. I Giochi volgevano alla fine e riuscire a ottenere una seconda vittoria fu importante per gli azzurri, specialmente considerando quanto poco lo sci alpino aveva dato sin lì, e considerando che anche nelle altre specialità, slittino a parte, l'Italia non aveva ottenuto risultati soddisfacenti.

Sarajevo non premiò assolutamente la mediocrità, ma esaltò l'estemporaneità, come quella dello statunitense Bill Johnson, che ottenne nella discesa il primo oro dello sci alpino per il suo paese. Ventiquattrenne californiano di Los Angeles, Johnson beveva alcolici, fumava spavaldamente e non solo tabacco. Inoltre si vantava di avere guidato a lungo l'auto senza patente. Dopo di lui Peter Müller svizzero e Anton Steiner austriaco, poi un altro svizzero, Pirmin Zurbriggen, del quale si sarebbe parlato molto nel futuro. Tra gli italiani Michael Mair, altoatesino, che avrebbe poi avuto una lunga e bella carriera di successi, era atteso a qualcosa di più del quindicesimo posto, e Alberto Ghidoni a qualcosa di meno del sedicesimo.

Max Julen, agiato possidente del Vallese, vinse per la Svizzera lo slalom gigante, davanti a Jure Franko, iugoslavo della Slovenia, e ad Andreas Wenzel del Liechtenstein. Graduatorie degne, ma assenza di nomi storici, dopo l'era di Thoeni e Gros, Stenmark e Klammer. Non aveva ancora ottenuto il permesso di gareggiare per il Lussemburgo Marc Girardelli, austriaco di nonno italiano, un fuoriclasse in dissidio con la sua Federazione e deciso ad approfittare di queste licenze straordinarie che lo sci offriva e offre. Roberto Erlacher e Oswald Toetsch, dodicesimo e quindicesimo, furono gli alfieri, si fa per dire, dell'Italia.

Nello slalom speciale si classificarono primo e secondo Philip e Steven Mahre, due gemelli monozigoti statunitensi del 1957, che fino a quel momento avevano ottenuto 36 vittorie in due nelle prove di Coppa del Mondo, la cui classifica assoluta era stata vinta da Phil, il più forte, per ben tre volte. I due gemelli, dopo il primo successo nella stessa gara, decisero di lasciare lo sci agonistico. Dietro ai due arrivò Didier Bouvet, dando voce alla rinascita della scuola francese. Quinto Oswald Toetsch, italiano di bell'aspetto e di buono stile, mentre fu subito squalificato Paolo De Chiesa, grande eterno piazzato nel resto della sua carriera.

Nella discesa libera va ricordato l'oro della svizzera ticinese Michela Figini, 17 anni, la più giovane sciatrice di quei Giochi. Il secondo posto andò alla sua bellissima connazionale Maria Walliser, e poi, a sorpresa, si piazzò la cecoslovacca Olga Charvatova. Nel gigante furono prima e seconda le due statunitensi Debbie Armstrong e Christin Cooper, indicate come favorite dello speciale che si sarebbe svolto quattro giorni dopo, terza Pelen, donna da piazzamenti, venticinquesima Zini, trentaduesima Magoni, che sarebbe diventata famosa da lì a poco. In complesso, nello sci alpino, si spartirono le medaglie otto paesi, contro i sei di Lake Placid: possibile vedere una diffusione della specialità nelle sue varie discipline, possibile vedere una carenza di fuoriclasse dominatori, di scuole nazionali dominatrici.

Lo sci di fondo, anch'esso con problemi di innevamento eccessivo, diede risalto a un grande protagonista, che sarebbe diventato grandissimo nell'Olimpiade successiva, e a una grandissima campionessa. Il protagonista fu lo svedese Gunde Svan, primo sui 15 km, davanti a due finlandesi, Aki Karvonen e Harri Kirvesniemi, quest'ultimo fidanzato e poi marito di Marja-Liisa Hämäläinen, la fuoriclasse finlandese vittoriosa lì a Sarajevo sui 5, 10 e 20 km, record di ori fra le donne dello sci nordico. Nonostante la sua enorme classe, la staffetta (passata da tre a quattro concorrenti nel 1976 e confermata a quattro per il futuro, dopo le tre edizioni olimpiche di prova) non solo andò alla Norvegia, ma neppure premiò la Finlandia con il secondo posto, che fu della Cecoslovacchia.

Sui 30 km Svan fu terzo, dietro a Nikolay Zimyatov, grandissimo sovietico che concludeva una strepitosa carriera, e ad Aleksandr Zavyalov, sovietico anche lui. Sui 50 km il secondo posto andò a Svan; vinse il norvegese Thomas Wassberg, che invecchiando era diventato maratoneta, da sprinter che era, e fu terzo Karvonen. Svan nella staffetta arrivò al secondo oro, superando nell'ultima frazione proprio Zimyatov e Karvonen. Settima l'Italia di Maurilio De Zolt, Alfred Runggaldier, Giulio Capitanio e Giorgio Vanzetta. De Zolt era arrivato al fondo agonistico in età matura e a ogni prova migliorava. Pompiere cadorino, amante anche del buon vino, lo chiamavano 'Grillo' per la sua agilità e allegria anche nel momento dello sforzo massimo. Il suo medico di fiducia era il professor Francesco Conconi, famoso perché praticava l'autoemoperfusione, all'epoca non ancora vietata. La pratica, mutuata dagli scandinavi e utilizzata in numerose discipline sportive, consisteva nel prelievo di una certa quantità di sangue in un periodo di non intensa attività dell'atleta, nella riduzione di questo sangue ai soli globuli rossi, nella conservazione in emoteca speciale e quindi nella sua reimmissione nell'organismo nei momenti di maggiore sforzo e tensione. De Zolt era arrivato nono sui 15 e sui 30 km, mentre Vanzetta aveva raccolto un quattordicesimo e un ventiquattresimo posto. Sui 50 km Gianfranco Polvara, ventunesimo, aveva preceduto di una posizione De Zolt, al quale comunque si prediceva un grande futuro sulla distanza massima, nonostante ormai avesse superato i 30 anni.

Tra le azzurre, da ricordare i piazzamenti di Manuela Di Centa, la giovane friulana in ascesa che aveva destato clamore rifiutando la pratica dell'autoemoperfusione e rivelando un carattere forte e libero. Ventiquattresima sui 5 km, ventottesima sui 10, ventiseiesima sui 20, sembrava pronta a raccogliere il testimone da una grande pioniera presente lì a Sarajevo, Guidina Dal Sasso. Veneta di Asiago, poi trapiantata in Piemonte, nella Val d'Ossola, Dal Sasso fu ventiquattresima sui 5 km con lo stesso tempo di Di Centa, sedicesima sui 10, decima sui 20. In staffetta le due, con l'aiuto assolutamente non eccezionale di Klara Angerer e di Paola Pozzoni, colsero il nono posto.

Statisticamente importante, restando nello sci nordico, fu il successo del norvegese Tom Sandberg, nella combinata fondo-salto, finalmente tornata agli scandinavi. Anche nel salto dal trampolino di 90 m, dopo vent'anni riapprodava al successo la Finlandia con Matti Nykänen, che vinse pure la medaglia d'argento nel salto dal trampolino di 70 m, dietro al tedesco orientale Jens Weissflog (sedicesimo Massimo Rigoni). Per il biathlon vinsero il norvegese Eirik Kvalfoss sui 10 km, il tedesco occidentale Peter Angerer sui 20 km (nono, per l'Italia, Andreas Zingerle), la Russia nella staffetta davanti ai norvegesi e ai tedeschi occidentali. L'Italia arrivò quinta appena dopo i tedeschi orientali, con Adriano Darioli, Gottlieb Taschler, Johann Passler, Andreas Zingerle.

Anche nel pattinaggio di velocità non ci furono i grandissimi dei Giochi del recente passato, come Eric Heiden o Ard Schenk. Ma ci fu una loro omologa, Karin Enke della Germania Est, medagliata in tutte e quattro le prove: prima sui 100 e sui 1500 m, seconda sui 500 e sui 3000 m. Marzia Peretti, la giovanissima italiana di Lake Placid, tornò ai Giochi e fu diciassettesima sui 500 m e trentatreesima sui 1000 m. Fra gli uomini un tentativo di imitazione di Heiden e Schenk venne eseguito dal canadese Gaétan Boucher, primo sui 1000 e sui 1500 m e terzo sui 500 m. Giorgio Paganin e, anche se in minor misura, Maurizio Marchetto rappresentarono dignitosamente l'Italia.

Nell'artistico, in un Palazzo dello Sport coperto e dunque senza il problema della neve cadente, cominciò con la medaglia d'oro la carriera strepitosa della tedesca dell'Est Katarina Witt. Fra gli uomini vinse Scott Hamilton, statunitense, e fu molto applaudito il canadese Brian Orser che arrivò secondo. La gara a coppie fu vinta dai sovietici Yelena Valova e Oleg Vasilyev, ma l'esperto pubblico di Sarajevo elesse a suoi prediletti i britannici Jayne Torvill e Christopher Dean. Netti dominatori e dopo tre titoli mondiali al loro attivo, Torvill e Dean erano lì per vincere la prova di danza e alla fine furono osannati dal pubblico e anche dai componenti le due coppie sovietiche battute. Si parlò di spettacolo atletico, tecnico e artistico mai visto prima.

L'hockey, infine, fu anch'esso giocato al riparo dalle intemperie. Il podio risultò tutto europeo con URSS, Cecoslovacchia e Svezia, al quarto posto un Canada mutilato dal reclamo statunitense per la posizione decisamente professionistica di alcuni suoi componenti. Fra l'altro l'inchiesta del CIO, innescata appunto dall'iniziativa USA, causò l'esclusione dal torneo di due azzurri, Corsi e Bragnale, acquisiti dall'Italia in virtù del loro doppio passaporto di canadesi oriundi. L'Italia dunque, che rientrava nel torneo olimpico di hockey dopo vent'anni, non poté esprimersi al suo massimo preventivato e finì nona, dopo avere battuto la Polonia e avere perduto contro Svezia e Germania Ovest.

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