GILIBERTO, Onofrio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 54 (2000)

GILIBERTO (Gilberto), Onofrio

Lucinda Spera

Nacque a Solofra, presso Avellino, probabilmente nel primo ventennio del XVII secolo. Nel 1643 risulta laureato in giurisprudenza.

Il G. trascorse molto probabilmente la sua vita nella città natia. Coltivò costantemente interessi letterari, legandosi a qualche adunanza locale (fu forse membro all'Accademia degli Incauti di Napoli). Attivo per quasi un trentennio, fu principalmente autore di commedie e sacre rappresentazioni. Esordì, a quanto sembra, con la commedia in versi La vana gelosia (Napoli 1635). Sempre a Napoli, nel 1643, pubblicò la tragicommedia La stravaganza d'amore e d'amicizia, che definì "rozzo parto della mia gioventù" nella dedica a Ferdinando Orsini, conte di Muro, principe di Solofra e ottavo duca di Gravina.

L'opera, in cinque atti, è, come il G. chiarisce inizialmente, una favola. Tra i numerosi personaggi si distinguono i due amici Giliberto e Alessandro; le loro avventure si intrecciano a quelle che coinvolgono le tre sorelle di Giliberto e i loro amanti. La trama procede tra scambi di persona, morti apparenti, travestimenti e disquisizioni sull'amore che appesantiscono lo sviluppo narrativo. Nell'epilogo il mago Zoroastro svela a sorpresa, tra la gioia degli astanti, che tutte le traversie dei personaggi sono state frutto di un incantesimo da lui operato per salvaguardare gli amici da un momentaneo influsso maligno degli astri.

Impegnato nella produzione religiosa, il G. compose i drammi sacri in versi Il vinto inferno da Maria (Trani 1644), dedicato al concittadino e pittore Francesco Guarini, e Le meraviglie del s. angelo custode, o vero Lo schiavo del demonio, di cui non è noto l'anno di apparizione, ma che fu riproposta dallo stampatore napoletano Novello de Bonis nel 1662. Un episodio decisivo nell'ambito della produzione teatrale del G. è rappresentato dalla pubblicazione dell'oggi perduta tragicommedia in prosa Il convitato di pietra (Napoli 1652).

Il soggetto dell'opera era molto noto negli ambienti teatrali del primo Seicento: si tratta infatti di una traduzione-rifacimento del Burlador de Sevilla, opera drammatica spagnola di Tirso de Molina (1630), più volte rappresentata in quegli anni nei teatri partenopei. Carlo Goldoni, nella prefazione al suo Don Giovanni Tenorio o sia Il dissoluto (1736), scrisse di aver letto l'opera e di non avere notato rilevanti differenze tra la versione del G. e quella eseguita nel 1671 da Giacinto Andrea Cicognini (che Croce, p. 129, definiva "pseudo-Cicognini", rifiutandone l'attribuzione).

Particolarmente significative le trasposizioni francesi del Convitato. In primo luogo, pare abbiano tratto spunti dalla tragicommedia del G. sia il Dorimond (Nicolas Drouin) sia il Villiers (Claude Deschamps) nelle opere (rispettivamente, del 1658 e 1659) che entrambi intitolarono Le festin de pierre; ma sembra attendibile l'ipotesi di un utilizzo dell'opera del G. addirittura da parte di Molière, che se ne servì, quale prototipo al posto dell'originale spagnolo, per la composizione del suo Don Giovanni (1665).

Nel 1660 il G. pubblicò a Napoli la prima edizione del romanzo Il cavalier della rosa, ristampato a Venezia nel 1663. L'opera è proposta sin dal frontespizio come la continuazione delle Gare de' disperati, fortunato romanzo del genovese Giovanni Ambrogio Marini, che lo aveva composto nel 1644 e rivisto nel 1653. Non sono chiari i motivi di tale ripresa in un ambito geografico periferico per il romanzo, quale l'area napoletana: centri propulsori del genere nella prima metà del Seicento erano state infatti Venezia e Genova. Può avere influito sulla scelta l'attesa di una qualche notorietà derivata dal successo conseguito dall'opera del Marini, e tuttavia il legame contenutistico con le Gare de' disperati è praticamente inesistente.

L'opera del G. si attarda nell'utilizzo di meccanismi già ampiamente sfruttati dal romanzo cavalleresco del primo Seicento (e di cui si trova traccia anche nella produzione teatrale del G.), proprio in anni in cui la produzione narrativa italiana si avviava verso una maggiore commistione con il genere storico e cronachistico. Iterazioni speculari, scambi di persona, equivoci e travestimenti, presenza di generi intercalari (l'epistola) costituiscono le tecniche narrative attraverso le quali si snodano le avventure dell'eroico "cavalier della rosa", che si scoprirà infine essere il principe di Persia. In uno sfondo geografico irreale, nonostante il tentativo di ambientazione in Perù, Messico e Brasile, si tessono insidie suscitate da problemi dinastici, frequentemente interrotte da prolisse moralità sul potere, che rendono piuttosto impacciata la già complessa macchina narrativa. Immancabile il lieto fine, con agnizioni che conducono al ritrovamento di eredi al trono rapiti quando erano fanciulli e creduti morti e alla celebrazione di una serie di matrimoni regali.

Accanto agli interessi letterari il G. coltivò quelli di astronomia. Scrisse le Ruote dell'universo (Napoli 1646), compendio in cui descrive con fervore religioso la struttura dell'oltretomba e che al Croce (p. 132) sembrò "uno dei più sciocchi [libri] che si possano leggere".

Non è noto l'anno di morte del Giliberto. Forse è da prendere come termine ante quem il 1678, anno di pubblicazione della Biblioteca napoletana del Toppi, il quale, nel fornire l'elenco delle sue opere (p. 132), conclude riferendo che "molte altre cose manoscritte si ritrovano in potere de' suoi parenti".

Fonti e Bibl.: N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, pp. 132, 334; A. Moretti, pref. a G.B. Molière, Commedie scelte, I, Milano 1880, pp. XXXVI s.; B. Croce, Di O. G. e del suo "Convitato di pietra", in Id., Aneddoti di varia letteratura, II, Bari 1953, pp. 129-133; G. Macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni, Torino 1978, p. 12; C. Jannaco - M. Capucci, Il Seicento, Milano 1986, pp. 649, 660; L. Dolfi, Il "Convitato di pietra" di Cicognini e la sua fonte spagnola, in Studi secenteschi, XXXVII (1996), p. 136.

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