Opinione pubblica

Enciclopedia del Novecento (1979)

Opinione pubblica

Giovanni Sartori

di Giovanni Sartori

Opinione pubblica

sommario: 1. Inquadramento storico. 2. Pubblica opinione e democrazia. 3. La formazione dell'opinione. 4. Policentrismo e requisiti dell'autonomia dell'opinione. 5. La propaganda totalitaria. 6. Elementi e caratteristiche della pubblica opinione. 7. Propaganda e pubblicità. 8. Opinione pubblica e comportamenti di voto. 9. Democrazia eleggente, democrazia partecipante e referendum. □ Bibliografia.

1. Inquadramento storico

La dizione ‛opinione pubblica' è di conio relativamente recente: risale ai decenni che precedono la Rivoluzione francese del 1789. La coincidenza non è fortuita. Non si tratta solo del fatto che gli illuministi si assegnavano il compito di ‛diffondere i lumi' e pertanto, implicitamente, di formare le opinioni di un più ampio pubblico; ma anche che la Rivoluzione francese preparava una democrazia in grande - ben diversa dalla democrazia in piccolo di Rousseau - che a sua volta presupponeva e generava un pubblico che manifesta opinioni. Il fatto che l'opinione pubblica emerge - sia come dizione, sia come forza operante - in concomitanza con la Rivoluzione del 1789 sta anche a indicare che l'associazione primaria del concetto è un'associazione politica. È di per sé evidente che un'opinione generalizzata (diffusa tra un largo pubblico) può esistere, e di fatto esiste, in qualsiasi materia. Nondimeno gli studi sulla pubblica opinione e il significato che potremmo dire tecnico della dizione vertono, in primissima istanza, su un pubblico interessato alla ‛cosa pubblica'. Il pubblico in questione è soprattutto un pubblico di cittadini, un pubblico che ha un'opinione sulla gestione degli affari pubblici, e dunque sugli affari della città politica. In sintesi: ‛pubblico' non è solo il soggetto ma anche l'oggetto dell'espressione. Una opinione viene detta pubblica non solo perché è del pubblico (diffusa tra i molti, o tra i più), ma anche perchè investe oggetti o materie che sono di natura pubblica: l'interesse generale, il bene comune e, in sostanza, la res publica.

Anche se il nome viene coniato alla metà del sec. XVIII, è lecito sostenere che la cosa è sempre esistita, seppur sotto altri nomi: la vox populi del tardo Impero romano, il consensus della dottrina medievale, la ‟pubblica voce" e ‟pubblica fama" di Machiavelli. Locke in particolare introduceva, accanto alle leggi divina e civile, una ‟legge di opinione o di reputazione". Si è anche ritenuto che il concetto di opinione pubblica sia prefigurato nello ‟spirito" di Montesquieu e nella ‟volontà generale" di Rousseau; e taluno ha anche trovato affinità tra il concetto di pubblica opinione e quello di Volksseele o Volksgeist, l'anima o spirito del popolo dei romantici (per tutti questi precedenti v. Bauer, 1914). Tutte le surricordate dizioni si richiamano e in parte si sovrappongono. Nondimeno un nome nuovo denota di regola una cosa nuova, o comunque evidenzia nuovi aspetti del proprio referente. Dicendo vox populi, spirito generale, volontà generale, e più ancora Volksgeist, evochiamo un'entità che non vuole essere scomposta e tantomeno contabilizzata pro capite. Anche la dottrina medievale del consenso appartiene alla stessa famiglia, dal momento che designa un consenso presuntivo, non sottoposto ad accertamento e tantomeno alla possibilità di prova contraria. D'altra parte la ‟pubblica voce" o ‟fama" di Machiavelli è semplicemente la fama, fama popularis o anche i rumores dei romani: una reputazione, ovvero una serie di ‛voci' che circolano os ad aurem, da bocca a orecchio, in un aggregato sociale. Più che ogni altro è semmai Locke che ha in mente l'opinione pubblica cosi come verrà concepita nella più matura dottrina liberalcostituzionale, e cioè come fonte non solo di legittimità ma anche di conduzione di un retto governo.

Un'opinione viene detta ‛pubblica', dunque, quando se ne predicano congiuntamente due caratteristiche: la diffusione tra pubblici, e il riferimento alla cosa pubblica. Resta da precisare perché diciamo opinione, e cioè perché non diciamo più vox, spirito o volontà. Qual è, quantomeno in chiave semantica, la differenza? Vox sta a indicare soltanto un'esteriorizzazione, una manifestazione verbale il cui retroterra resta imprecisato. Pertanto ‛voce' può esprimere soltanto immediati desideri o bisogni, e cioè non presuppone stati di informazione e ancor meno stati di cognizione. La differenza tra ‛opinione' e ‛spirito' è ancora più evidente. Quando Montesquieu tratta dello spirito delle leggi, o quando diciamo ‛lo spirito della costituzione', alludiamo a un senso profondo, a un animo; mentre lo ‛spirito del popolo' dei romantici è un'essenza metafisica, sia pure storicizzata, e cioè riportata a uno ‛spirito del tempo'. Piuttosto, perché dire opinione pubblica invece che, con Rousseau, ‛volontà generale'? In parte la dizione rousseauiana è stata sconfitta dal suo sapore metafisico, in parte dalla sua monoliticità e in parte dalla sua ambiguità o anche indecifrabilità. Inoltre tra ‛opinione', che è stato mentale, e ‛volontà', che è energia attivante e sostegno di azione, la differenza è almeno per noi grandissima. Lo era meno per Rousseau, visto che la sua era una volontà razionale, intellettualizzata, e non certo la ‛volontà volontaristica' (antirazionale, o comunque a-razionale) celebrata da molte filosofie successive. Resta il fatto che la volontà generale di Rousseau era sintonizzata al contesto di piccole democrazie dirette e partecipanti, laddove il concetto di opinione pubblica si situa nel contesto della democrazia rappresentativa e si pone il problema di istituire la democrazia su larga scala.

Infine, ‛opinione' è doxa, non è - per rifarsi alla classica distinzione platonica - episteme, non è sapere o scienza. Anche per questa via si arriva a intendere in qual modo la democrazia dei moderni sia approdata al concetto di opinione pubblica, e come quest'ultimo concetto si presti meglio di tutti i suoi antenati e cugini a fondare la liberaldemocrazia. La maggiore obiezione contro la democrazia è, infatti, che il popolo ‛non sa'. Platone ne argomentava che il compito di governare doveva spettare ai depositari dell'episteme, e cioè ai filosofi. Non occorre seguire le molteplici variazioni del tema del filosofo-re, del governo dei sapienti. Il punto è che la democrazia rappresentativa si caratterizza non come ‛governo del sapere' ma, appunto, come ‛governo dell'opinione'; il che equivale a dire che alla democrazia basta la doxa, che il pubblico abbia opinioni: niente di più, ma anche - sottolineiamolo subito - niente di meno.

Questo sommario inquadramento storico circoscrive l'analisi che andremo facendo e consente una definizione preliminare della fattispecie. Per il primo rispetto, non ci occuperemo di qualsiasi opinione che si trovi a essere disseminata, individuo per individuo, tra vasti pubblici, ma solo di quelle opinioni che assumono una qualche rilevanza politica, che ci coinvolgono non soltanto come privati ma anche come cittadini. Per il secondo rispetto, ‛pubblica opinione' può essere definita, in prima istanza, così: un pubblico, o una molteplicità di pubblici, i cui stati mentali diffusi (opinioni) interagiscono con flussi di informazione sullo stato della cosa pubblica.

Questa definizione può sembrare troppo vaga o fluida; ma la sua fluidità rispecchia la natura del fenomeno sotto osservazione. D'altra parte, pur nella sua vaghezza la definizione proposta contiene una specificazione che consente di cogliere la novità della fattispecie. Stati mentali indotti da ‛flussi di informazione sullo stato della cosa pubblica' non sono gli stati di opinione che troviamo anche nelle società premoderne e tradizionalistiche, o comunque dove i flussi di informazione non sono propriamente ‛flussi', o non concernono la res publica. Beninteso la pubblica opinione come qui definita contiene, come propri ingredienti, bisogni, desideri, valori e atteggiamenti, e cioè gli ingredienti di qualsiasi stato mentale; ma contiene in più, e come fattore caratterizzante, notizie su come la cosa pubblica viene gestita. È in quest'ultimo riferimento, e per questo motivo, che la teoria dell'opinione pubblica diventa parte costitutiva della teoria della democrazia.

2. Pubblica opinione e democrazia

Il nesso costitutivo tra pubblica opinione e democrazia è di solare evidenza: la prima è il fondamento sostantivo e operativo della seconda. Quando asseriamo che la democrazia si fonda sulla sovranità popolare ne indichiamo soltanto, o comunque soprattutto, il principio di legittimazione. Resta che un sovrano vuoto, un sovrano che non sa e non dice, è un sovrano da nulla, un re di coppe. Per essere in qualche modo sovrano il popolo deve dunque possedere ed esprimere un ‛contenuto': e l'opinione pubblica è appunto il contenuto che dà sostanza e operatività alla sovranità popolare. Da questa considerazione discendono due classiche definizioni della democrazia: che la democrazia è ‛governo di opinione' (v. Dicey, 1914), e che la democrazia è ‛governo consentito', governo fondato sul consenso. Il collegamento tra le due definizioni è facile da vedere: un governo di opinione è un governo che cerca e chiede, appunto, il ‛consenso' dell'opinione pubblica; e un governo consentito è, appunto, un governo sostenuto dalla ‛pubblica opinione'.

Di recente si è molto disputato se sia vero che la democrazia si fonda sul consenso, e taluni autori hanno soste- nuto che invece la democrazia presuppone il dissenso. A patto che non vengano esagerate, entrambe le tesi sono vere nei diversi contesti e significati in cui vengono espresse. Chi sottolinea il dissenso e la conflittualità ha in mente la natura pluralistica della democrazia e quel dissenso che si esprime primariamente nei meccanismi dell'opposizione e dell'alternanza dei governi. Il dissenso in questione è dunque dissenso a livello di governo, nei confronti di un personale di governo che vorremmo cambiare. Invece chi sottolinea l'importanza del consenso si riferisce al cosiddetto consenso sulle fondamenta, sui valori di fondo e sulle regole del gioco del sistema politico. Senza consenso, per esempio, sulle regole che disciplinano i conflitti, resta soltanto un conflitto mirante a imporre, con la violenza, quelle regole.

Il punto che più interessa in questa sede è, peraltro, che i concetti di opinione pubblica e di consenso non solo si richiamano l'un l'altro, ma sono combacianti: sono entrambi, cioè, concetti che designano stati diffusi. È arduo dimostrare che il consenso di una pubblica opinione consiste di una molteplicità di precisi consensi su una molteplicità di precise questioni. Ma, appunto, il demonstrandum non è questo. Analogamente, il consenso dell'opinione è un idem sentire generalizzato, uno stato di sintonia o altrimenti di dissintonia.

Fino all'avvento degli strumenti audiovisivi di comunicazione di massa - radio e televisione - la teoria della de- mocrazia si poteva fermare a questo punto. Una pubblica opinione c'era perché c'erano i giornali. Più esattamente, il requisito del ‛flusso di informazioni' era soddisfatto dal- l'esistenza di una stampa che fosse molteplice e libera. Ne conseguiva, infatti, che il pubblico veniva alimentato di notizie che a loro volta alimentavano un'opinione che era davvero ‛del' pubblico, e cioè che il pubblico si faceva da sé. In altri termini, la pubblica opinione che fa da architrave alla democrazia è un'opinione ‛autonoma'. L'opinione pubblica non è tale perché ubicata ‛nel' pubblico, ma perché fatta ‛dal' pubblico. Beninteso, nei processi di opinione che dipendono da flussi di informazione il pubblico è un termine di arrivo il quale ‛riceve' i messaggi. Ma sino all'avvento dei media per antonomasia i processi di formazione dell'opinione erano - si riteneva - in equilibrio, o meglio controbilancianti, e cioè tali da consentire l'autoformarsi dell'opinione dei pubblici.

L'autonomia dell'opinione pubblica è stata messa in crisi, o comunque in dubbio, dalla propaganda totalitaria e anche dalla nuova tecnologia delle comunicazioni di massa. È un punto sul quale ci soffermeremo in seguito. Al momento basta notare questa possibilità: che l'opinione ‛nel' pubblico non sia per niente un'opinione ‛del' pubblico. Non sta scritto in nessuna legge di natura che una opinione pubblica sia autonoma; può essere, o essere resa, eteronoma. In entrambi i casi è un'opinione che si colloca materialmente nel pubblico; ma la prima sta alla seconda come un originale sta a un falso. Anzi, un'opinione pubblica prefabbricata, eteronoma, è non soltanto la contraffazione ma anche la negazione di una pubblica opinione autonoma. La distinzione tra opinione ‛nel' e ‛del' pubblico è dunque una distinzione cruciale.

Va da sé che un'opinione pubblica puramente autonoma o puramente eteronoma costituiscono tipi ideali che non esistono, come tali, nel mondo reale. La distinzione fissa i poli opposti di un continuo, lungo il quale troveremo, in concreto, una distribuzione di prevalenze, vale a dire stati di opinione prevalentemente autonomi o prevalentemente eteronomi, più vicini a un polo ovvero più vicini all'altro. Un'ultima avvertenza preliminare è che quando asseriamo che la democrazia si fonda sulla pubblica opinione, l'asserzione vale tanto per la democrazia rappresentativa quanto per la democrazia diretta e, al limite, autogovernante. La differenza tra le due fattispecie è grandissima; ma su questo punto esse si ricongiungono. Anzi, in una democrazia diretta l'opinione dei pubblici è il porro unum. Nella democrazia diretta il popolo esercita il potere in proprio. A tanto maggior ragione, dunque, se il popolo non ha un'opinione propria quell' asserito autogoverno è truffaldino; e se la qualità di quell'opinione è scadente, se il popolo vuole senza sapere, avremo un autogoverno che si autodistrugge.

3. La formazione dell'opinione

Le opinioni non sono innate e non zampillano dal nulla; sono il frutto di processi di formazione. In che modo, allora, le opinioni vengono a formarsi, o vengono formate?

Una prima raffigurazione dei processi di opinione è quella del bubble-up, della pubblica opinione come un ‛ribollire' del corpo sociale che sale verso l'alto. A questa immagine Deutsch (v., 1968) contrappone il cascade model, e cioè una serie di processi discendenti ‛a cascata' i cui salti sono intervallati da vasche nelle quali le acque si rimescolano ogni volta. Nel modello di Deutsch i livelli o serbatoi della cascata sono cinque. In alto sta la vasca nella quale circolano le idee delle élites economiche e sociali, seguita da quella nella quale si incontrano e scontrano le élites politiche e di governo. Il terzo livello è costituito dalla rete delle comunicazioni di massa, e in buona sostanza dal personale che trasmette e diffonde i messaggi. Un quarto livello è dato dai 'leaders d'opinione' a livello locale, e cioè da quel 5-10 per cento della popolazione che davvero si interessa di politica, che è attento ai messaggi dei media, e che è determinante nel plasmare le opinioni dei gruppi con i quali i leaders di opinione interagiscono. Infine, il tutto confluisce nel demos, nel serbatoio dei pubblici di massa. Approfondiremo in seguito i processi che avvengono a quest'ultimo livello. Al momento basta notare che il grosso della più recente letteratura nega la passività delle cosiddette masse, e anzi sottolinea come il ricevente dei messaggi sia, nel riceverli, assai più attivo che passivo.

Tornando allo schema d'insieme di Deutsch, è opportuno evidenziarne tre aspetti. Il primo è l'importanza del livello dei leaders di opinione locale: un punto di passaggio e di intermediazione che è stato per lungo tempo sottovalutato. Il secondo aspetto è che nessuno dei livelli è monolitico e nemmeno, di solito, solidale: all'interno di ogni serbatoio le opinioni e gli interessi sono discordi, i canali di comunicazione molteplici e polifonici. Il che equivale a dire che a ogni livello troviamo un ciclo completo di dialettica di opinioni, un crogiolo a sé stante di formazione dell'opinione. Il terzo aspetto è che, per quanto l'andamento di una cascata sia discendente, tuttavia Deutsch sottolinea la continua presenza di feedbacks, di retroazioni di risalita. Per quest'ultimo rispetto si potrebbe sostenere che il modello della cascata incorpora, come proprio elemento interno, quello del ribollimento, del bubble-up. Ma sembra più esatto vedere i due tipi di processo come fenomeni alternativi che possono benissimo coesistere, ma che di solito si rimpiazzano l'uno con l'altro.

Il fatto è che Deutsch elabora il suo modello in riferimento alla politica estera, e cioè a un settore troppo remoto per interessare davvero larghi pubblici, quantomeno finché non esplodono crisi ravvicinate; Deutsch si riferisce, insomma, a quel pubblico che più di quarant'anni prima veniva icasticamente descritto da Lippmann (v., 1925) come un ‟pubblico fantasma", un pubblico che non c'è perché non ha opinione. Ma se in sede di affari esteri il cascade model può riassorbire (finché non capita, per esempio, la guerra del Vietnam) il bubble-up, il caso è diverso quando passiamo a considerare settori e problemi che toccano il pubblico da vicino, in persona o cosa propria. Qui il fenomeno di brontolii, ribollimenti e magari getti di opinione - e pertanto di un'opinione pubblica che autenticamente emerge e si impone dal basso non si pone affatto come una sottospecie dell'andamento a cascata. Di tanto in tanto il pubblico si impunta e reagisce in modo inaspettato, non previsto e certo non desiderato da chi sta nei bacini superiori. Dunque, si danno ‛maree di opinione' che fanno davvero risalire il corso delle acque. Ciò chiarito, e solo dopo che sia ben chiarito, si può consentire con la tesi che i processi normali, o più frequenti, di genesi dell'opinione pubblica sono a cascata.

La dottrina ha sempre sottinteso che la pubblica opinione doveva la propria autonomia a complessi processi di riequilibramento e di reciproca neutralizzazione. Il pregio del modello di Deutsch sta nel trasformare questo sottinteso che restava largamente tale in uno schema analitico. Nel mondo reale ‛autonomia' è concetto relativo. Quando asseriamo che nelle democrazie il pubblico si fa una opinione propria della cosa pubblica, non asseriamo che il pubblico fa tutto da sé e da solo. Sappiamo benissimo, cioè, che ci sono ‛influenti' e ‛influenzati', che i processi di opinione vanno dai primi ai secondi, e che alle origini delle opinioni diffuse stanno sempre piccoli nuclei di diffusori. Il punto è che il diffondersi delle influenze formatrici di opinione non è da configurare come una serie di onde concentriche che si espandono, come quando gettiamo un sasso in uno stagno. Anche se prescindiamo dalle maree di risalita, il modello a cascata ci fa vedere il pro- cesso di formazione-diffusione delle opinioni in modo del tutto diverso.

In primo luogo, ogni serbatoio non solo sviluppa un ciclo completo, ma all'interno di ogni vasca i processi di interazione sono orizzontali: influenti contro influenti, emittenti contro emittenti, risorse contro risorse. In secondo luogo, a ogni passaggio da un livello all'altro intervengono fattori nuovi: ogni volta ricomincia un ciclo completo che rimescola tutto, e che nel rimescolare modifica quel che arriva dagli altri serbatoi. A questo effetto l'immagine del ‛salto' è calzante non tanto e soltanto perché denota una discesa, ma perché evoca una discontinuità, uno stacco. Partiamo, per semplificare, dal livello della classe politica; non perché questa sia la vera e primaria fucina delle opinioni, ma perché la pubblica opinione si caratterizza come tale ricordiamolo - in relazione a quel che dicono e fanno i politici. La classe politica esemplifica assai bene tutte le caratteristiche di un serbatoio a ciclo completo: è un microcosmo altamente competitivo nel quale i partiti manovrano per rubarsi gli elettori e i politici guerreggiano tra loro, anche, e spesso soprattutto, all'interno dei rispettivi partiti, per soffiarsi i posti. E se i partiti come tali sono estroversi nel senso che tengono l'occhio sull'elettorato, i politici come singoli sono invece introversi, e cioè tutti intenti a manovrare l'un contro l'altro all'interno di un mondo chiuso di giochi di potere. Dalla molteplicità dei partiti, e ancor più dalla conflittualità intrapartitica, partono dunque pressoché infinite e certo contrastanti voci, che arrivano in prima istanza al personale dei media. Questo personale non le ritrasmette tal quali. Come minimo, ciascun canale di comunicazione stabilisce che cosa costituisce, o non costituisce, notizia. Ogni canale seleziona, semplifica, magari distorce, certo interpreta, e sovente è fonte autoctona di messaggi. D'altra parte, anche a questo livello valgono le regole della competizione, e quindi si ripropongono quei processi di interazione orizzontale che rifanno un nuovo calderone.

I leaders di opinione locale giocano, al livello successivo, un ruolo non meno decisivo. Gli strumenti di comunicazione di massa sono, pur nella loro possanza, strumenti anonimi che non possono surrogare il rapporto personale, faccia a faccia, con un interlocutore in carne e ossa (v. Katz e Lazarsfeld, 1955). Inoltre i media parlano con voci diverse, presentano ‛verità' diverse. A chi credere? I leaders di opinione sono pertanto le ‛autorità cognitive', coloro ai quali chiediamo a chi prestar fede e a che cosa credere. Ovviamente, anche a questo livello le opinioni e le autorità cognitive sono diversificate; ma a tanto maggior ragione ogni gruppo ascolta un qualche leader.

I leaders di opinione locale fanno dunque da filtro e anche da prisma alle comunicazioni di massa: ne possono rinforzare, ritrasmettendoli capillarmente, i messaggi; ma li possono anche deflettere o bloccare dichiarandoli poco credibili, distorti o comunque irrilevanti. Si è già notato che per lungo tempo l'importanza di questo passaggio è stata sottovalutata. Vale ora la pena di notare che il modello a cascata di Deutsch prende ispirazione proprio dalle ricerche sul cosiddetto two-step flow, sul flusso a due gradini, delle comunicazioni (v. Lazarsfeld e altri, 19482; v. Berelson e altri, 1954; v. Katz, 1957). In queste ricerche veniva in evidenza che il messaggio non trovava un pubblico ‛atomizzato' e non arrivava in linea retta, ma invece arrivava ‛a gradino', e cioè facendo pernio sul gradino del leader di opinione. L'intuizione di Deutsch è stata di mettere su gradini, o in gradini, tutto il processo da cima a fondo.

Resta da mettere a fuoco il ruolo e la collocazione, ai vari livelli della cascata, degli intellettuali in senso lato. Il punto sfugge anche a Deutsch, forse perché la sovrapproduzione e conseguente massificazione degli intellettuali è uno sviluppo degli ultimi decenni che caratterizza, per dirla con Daniel Bell, la società postindustriale. La popolazione fornita di ‛diplomi per pensare' e cresciuta a dismisura e, con la sua crescita, è aumentato anche il suo peso specifico. Se non altro per ragioni quantitative il fermento dell'intelletto, o del pseudointelletto, si distribuisce a tutti i livelli. Se fino a una ventina di anni fa il grosso degli intellettuali trovava un impiego relativamente appartato e remoto nelle università, oggi una ‛nuova classe' ingorga i media e, non trovando più posto nemmeno lì, si orienta anche e soprattutto in altre direzioni. L'espansione della professione intellettuale e la sua diffusione più o meno irrequieta in tutto il corpo sociale porta dunque acqua al modello del bubbling-up e intensifica il fermentare di opinioni che non cascano affatto dall'alto ma che, all'opposto, pullulano e germogliano, sia pur in piccoli nuclei di intellighenzie, a livello di massa.

Fin qui ci siamo soffermati, in sostanza, su come i pubblici si rapportano alle informazioni e recepiscono i messaggi relativi, i ‛messaggi informanti'. A questo punto importa sottolineare - per riequilibrare il quadro complessivo - che le opinioni di ogni singolo derivano anche, e in non piccola parte, da ‛gruppi di riferimento': la famiglia, gruppi di coetanei, il gruppo di lavoro, ed eventuali identificazioni partitiche, religiose, di classe, etniche, e altre ancora. L'io è un io-in-gruppo che si integra nei gruppi, e con i gruppi, che istituiscono i suoi punti di riferimento. Diciamo, allora, che le opinioni attingono da due fonti: da messaggi informanti, ma anche da identificazioni. Nel primo contesto ci imbattiamo in opinioni che interagiscono con informazioni: il che non le rende, s'intende, opinioni informate ma le caratterizza come opinioni esposte, e in qualche modo influenzate da flussi di notizie. Nel contesto dei gruppi di riferimento è facile imbattersi, invece, in ‛opinioni senza informazione'. Con il che non si intende che in questo opinare l'informazione sia del tutto assente, ma che le opinioni sono precostituite rispetto alle informazioni. L'opinione senza informazione è dunque un'opinione che si difende contro l'informazione, e che tende a sussistere a dispetto dell'evidenza contraria.

Chi fa, in conclusione, l'opinione che diventa pubblica? Dopo aver seguito i mille rivoli del modello a cascata, evidenziato i ribollimenti dal basso, e ricordato che le opinioni provengono anche da identificazioni di gruppo, da molteplici gruppi di riferimento, la risposta d'insieme non può essere che questa: tutti e nessuno. Beninteso, ‛tutti' non sono proprio tutti: sono però molti, e molti in luoghi e modi diversi. Del pari, ‛nessuno' non è proprio nessuno ma, nell'aggregato, nessuno in particolare o, se si vuole, qualcuno che è sempre diverso. Anche se risultasse possibile assegnare a ogni singolo opinante una specifica ‛autorità' che lo guida, una sola fonte fededegna di ispirazione, resta vero che l'insieme risulta da un crogiolo di influenze e contro-influenze. Ecco, dunque, un'opinione pubblica che può ben essere detta autentica: autentica perché autonoma, e certo autonoma per quel tanto che basta a fondare la democrazia come governo di opinione.

4. Policentrismo e requisiti dell'autonomia dell'opinione

È bene sottolineare che i processi di formazione dell'opinione che abbiamo testé descritto si applicano soltanto alle liberaldemocrazie, e questo perché un'opinione che sia autenticamente ‛del' pubblico presuppone tutta una serie di condizioni. Queste condizioni vengono riassunte nei principi della libertà di pensiero, libertà di espressione e libertà di organizzazione. I principi sono noti; ma non tutti ne colgono le concrete e più profonde implicazioni.

La libertà di pensiero non è, tanto per cominciare, un valore che tutti sentono. È un valore occidentale, un valore scoperto e affermato dal pensiero greco; ed è un valore nella misura in cui è sostanziato da un'ansia di verità e, ancor più fondamentalmente, dal ‛rispetto per la verità': la verità di quel che è davvero successo, di quel che è davvero stato detto. Se manca il sottofondo del rispetto e desiderio di verità, la libertà di pensiero non significa più nulla, e non c'è più motivo di agitarsi in pro della libertà di espressione. Inoltre la libertà di pensiero non è soltanto la libertà di pensare in silenzio, nel chiuso dell'animo, quel che ci aggrada: presuppone che l'individuo possa attingere liberamente a tutte le fonti del pensare; e presuppone anche che ciascuno sia libero di accertare e controllare quel che trova scritto o sente detto, e quindi presuppone, tra l'altro, mondi aperti, mondi attraversabili che consentano di andare a vedere di persona.

A sua volta la libertà di espressione, la libertà di scrivere o dire in pubblico quel che si pensa in privato, presuppone un'‛atmosfera di sicurezza'. Per quanto la libertà di espressione sia tutelata da una carta costituzionale, là dove esistono intimidazioni, dove temiamo le conseguenze di quel che diciamo e, insomma, dove aleggia la paura, la libertà di espressione diventa subito una libertà cartacea, e di riflesso la stessa libertà di pensiero viene anchilosata e deformata. Eccezion fatta per pochi solitari eroi, chi teme di dire quello che pensa, finisce per non pensare quel che non può dire. Infine, la libertà di espressione è anche, nel suo naturale proseguimento, la libertà di organizzarsi per propagare quel che abbiamo da dire. I moderni partiti politici, la cui matrice è nei clubs di opinione e di diffusione delle opinioni del Settecento, costituiscono la prima concreta illustrazione di come la libertà di espressione si converta in ‛organizzazione dell'opinione'. A noi interessa di più, peraltro, la libertà di organizzare le comunicazioni, e più precisamente la struttura delle comunicazioni di massa che è, ad un tempo, il prodotto e il promotore della libertà di espressione.

La struttura delle comunicazioni di massa che caratterizza le liberaldemocrazie è una struttura di tipo policentrico, anche se il grado di policentrismo varia di parecchio da paese a paese. Negli Stati Uniti non esiste alcun monopolio statale nè della radio nè della televisione: il policentrismo è massimo. In Inghilterra la radiotelevisione di Stato si attiene a regole di imparzialità che correggono efficacemente quella concentrazione. In paesi come l'Italia il policentrismo è relativamente basso, o comunque mal congegnato ai fini che dichiara di voler servire. Vero è che la struttura delle comunicazioni di tutte le democrazie è ampiamente sotto accusa. Ma è difficile negarne, quantomeno con dati alla mano, il policentrismo. Infatti le accuse vertono, in genere, su una insufficiente ‛democraticità' delle comunicazioni di massa, ed escono dal generico quando rilevano che i costi di avviamento di un organo di stampa, di una stazione radio, o di antenne televisive, sono costi proibitivi e tali da privilegiare il potere del denaro. In verità il potere del denaro coincide sempre meno con il potere del capitalista; ma è ben certo che la libertà di espressione non è nella sua proiezione nei media - eguale per tutti. A tanto maggior ragione è bene stabilire che il requisito necessario e sufficiente ai fini dell'autonomia di una pubblica opinione è il requisito policentrico.

Precisiamo meglio. Per essere sufficiente il policentrismo dei media dev'essere un policentrismo in un qualche equilibrio, e specificamente un policentrismo non dominato da una voce schiacciante. Pertanto un colosso attorniato da una miriade di pigmei non costituisce uno stato di policentrismo soddisfacente. E se poniamo mente a quanto sia già difficile soddisfare la condizione di un ‛policentrismo riequilibrante', occorre stare attenti a non confondere il problema del pluralismo dei media con il problema dell'eguaglianza nei media. Anche in economia si può sostenere che il produttore non è uguale al consumatore, e che un sistema economico giusto vorrebbe che tutti fossero, singolarmente ed egualmente, produttori-consumatori; ma questo sarebbe un perfezionamento egualitario che distruggerebbe i nostri sistemi economici e che riporterebbe i superstiti alla poco appetitosa economia curtense del Medioevo. Analogamente, una qualsiasi analisi di costi-benefici, e ancor più di rischi-benefici, mette in evidenza costi e rischi - nel perseguire obiettivi di egualizzazione nei media e dei media - del tutto sproporzionati ai benefici. Posto, dunque, che il policentrismo è già condizione sufficiente, è bene rendersi contestualmente conto di quanto già sia, di per sè, una conquista fragile e precaria. Al qual fine basta allungare lo sguardo e volgerlo in giro, come ora ci accingiamo a fare.

5. La propaganda totalitaria

Si è già detto di passata che la fede nell'opinione pubblica, o meglio nella sua autonomia, è stata scossa da due fatti nuovi: la potenza intrinseca delle comunicazioni di massa e la propaganda totalitaria. Cominciamo dalla prima.

Finora abbiamo considerato un sistema di comunicazioni di massa a struttura policentrica e controbilanciante. In tal caso la potenza, diciamo tecnica, dello strumento viene neutralizzata dalla sua dispersione, dal fatto che emette messaggi diversi che arrivano a pubblici diversi, e che ogni voce viene contrastata da controvoci. In tal caso, dunque, vale la regola generale che qualsiasi forza risulta domabile se suddivisa in controforze. Ma, nel mondo contemporaneo, di sistemi policentrici di questo tipo ne esistono una trentina o poco più. Mettiamo pure da parte tutti quei paesi in via di sviluppo il cui sistema di comunicazioni di massa è davvero sottosviluppato, e quindi conta ancora poco o nulla. Resta un nutrito gruppo di paesi ad alta, o quantomeno sufficiente, tecnologia di comunicazioni, il quale non soddisfa le condizioni del policentrismo ed è, invece, a struttura unicentrica. Ed è qui, nel caso della sua concentrazione monopolistica e monistica, che davvero si misura la potenza dello strumento, se ne afferra cioè la potenzialità.

Nella prospettiva dei rapporti di forza tutta l'evoluzione storica può essere vista come un succedersi di mezzi di offesa che prevalgono sui mezzi di difesa, e viceversa. La cavalleria travolge il soldato a piedi, ma il fucile dell'uomo appiedato distrugge l'uomo a cavallo; il fortilizio ferma chi ha soltanto la bombarda, ma viene eliminato dal cannone. Analogamente per l'opinione pubblica. Finché è bersagliata da una miriade di frecce è una corazza che regge; ma se alle frecce sottentra il cannone la corazza ha fatto il suo tempo.

L'autonomia della pubblica opinione viene dimostrata dai suoi casi ottimali: le democrazie funzionanti ad alta strutturazione pluralistica e policentrica. Una corretta procedura euristica richiede lo stesso trattamento per l'eteronomia, o sudditanza, dell'opinione pubblica, e cioè che venga illustrata dal caso ottimale opposto: le dittature totalitarie. Gli esempi per antonomasia sono il regime di Hitler, l'Unione Sovietica, i paesi dell'Est, il regime comunista in Cina. S'intende che, come nessuna democrazia reale è una pura democrazia, così nessuno dei totalitarismi esistenti è un totalitarismo senza crepe, completo o perfetto (se commisurato, per esempio, al mondo ipotizzato da Orwell). Del pari, come le liberaldemocrazie sono più o meno democratiche, così i paesi a dittatura comunista sono più o meno totalitari, e il grado del loro ‛totalismo' varia non solo tra l'uno e l'altro ma anche nel tempo. Resta il fatto che, sino ad oggi, forse soltanto la Iugoslavia si è allontanata dal modello totalitario a tal punto da poter essere riclassificata come una dittatura autoritaria.

Nell'ottica che ci compete, un sistema totalitario è definito dalle seguenti caratteristiche. Primo, la struttura di tutte le comunicazioni di massa è rigidamente unicentrica e monocolore, e cioè parla con una voce sola: quella del regime. Secondo, e forse ancora più importante, tutti gli strumenti di socializzazione, e precipuamente la scuola, sono egualmente strumenti di una sola propaganda di Stato: la distinzione tra propaganda ed educazione è cancellata. Terzo, il mondo totalitario si preserva come un mondo chiuso che non vuole parametri esterni, che impedisce l'uscita della grandissima maggioranza dei propri sudditi, e che censura tutti i messaggi del mondo circostante. Quarto, il mondo totalitario è capillarmente e incessantemente mobilitato, e in questa perenne mobilitazione i leaders di opinione locale a emergenza spontanea vengono stritolati, ancor più che dal controllo poliziesco, dalla morsa degli attivisti di partito. Infine, e riassuntivamente, il totalitarismo si caratterizza nell'essere, o voler essere, l'invasione ultima e la distruzione della ‛sfera privata'.

In queste condizioni il cittadino è esposto, pressoché dalla culla alla bara, a una propaganda ossessiva e indottrinante che fa quadrare tutto perché tutto è falso, e che fa sembrare tutto vero impedendo l'accertamento del vero. È possibile che in siffatte circostanze l'opinione ‛nel' pubblico sia anche ‛del' pubblico? Se è vero che la formazione di un'opinione pubblica autonoma dipende dai fattori descritti in precedenza, allora è sicuro che, venendo a mancare o venendo addirittura rovesciati tutti quei fattori, il prodotto non può essere lo stesso. Lo possiamo chiamare pubblica opinione; ma una stessa dizione non sta, in questo caso, per una stessa realtà. Da un totalismo onnipervadente può risultare solo una pubblica opinione prefabbricata in blocco, una pubblica opinione eteronoma.

Ciò premesso, cerchiamo di cogliere più da vicino la differenza che passa tra l'opinione ‛del' pubblico che caratterizza le democrazie, e l'opinione ‛nel' pubblico che troviamo nei totalitarismi. Notavamo all'inizio che la pubblica opinione si caratterizza come tale in quanto alimentata da un flusso di informazioni sulla cosa pubblica. Non era stato detto - ma importa esplicitarlo ora - che questo flusso di informazioni si caratterizza a sua volta come tale, come ‛informazione', in quanto mirante, nei limiti dell'imperfezione umana, alla completezza e all'obiettività. Non si pretende, ovviamente, che questi requisiti vengano soddisfatti da ciascuna voce. È la polifonia che dà relativa completezza; ed è il policentrismo che corregge, nell'insieme, la soggettività, unilateralità o anche falsità dei messaggi di ogni singola fonte.

Importa altresì ricordare che la libertà di pensiero ci è cara in quanto ci è caro, diciamo pure, il miraggio della Verità (con la maiuscola). Questo miraggio alimenta, tra l'altro, un'etica professionale dei trasmettitori di informazione. Solo piccoli gruppi intensamente ideologizzati coltivano, nell'Occidente, il culto della menzogna: nei più vige un'intima ripugnanza per il messaggio patentemente falso, patentemente distorto. E dunque si può legittimamente parlare di un'informazione che è, nelle democrazie occidentali, relativamente completa e relativamente obiettiva.

È questo l'elemento che viene del tutto a mancare nei regimi a propaganda totale, quando tutto è indottrinamento e al culto della Verità sottentra il culto della Causa. Si noti: un totalitarismo non è (non riesce a essere) tale, se non è sorretto da credenti, da una fede nell' ‛uomo nuovo', in una rigenerazione ab imis dell'umanità (v. Inkeles, 1951; v. Bauer, 1952; v. Lifton, 1961). In siffatta escatologia i viventi diventano animali da vivisezione (v. Biderman e Zimmer, 1961) e il fine giustifica qualsiasi mezzo, ivi includendo la menzogna pura, la distorsione sistematica (anche se l'ideologo fanatizzato non la percepisce più come tale). Così un flusso di informazioni si capovolge nel suo opposto, in un flusso di disinformazione e mistificazione.

Rispetto al modello a cascata, la cascata c'è sempre; ma ha un solo rivolo, e ogni serbatoio è soltanto una cassa di risonanza, una tappa di rinforzo. Il passaggio da un livello all'altro non interrompe e modifica, ma invece moltiplica l'irradiazione dell'unico verbo. La docile sottomissione del sotto al sopra non richiede nemmeno un occhiuto controllo: basta una ‛volta di paura'. I ‛fenomeni di volta' sono semplici, tanto in architettura che in politica. Una volta tiene perché tutti i tasselli dell'arco stanno al loro posto, ma casca se un solo tassello cade. In una volta di paura può darsi, al limite, che tutti i tasselli umani che la sostengono ne auspichino, nel chiuso del cuore, il crollo; ma, avendo paura, sperano che sia un altro a uscire di volta. In attesa continuano a passare la patata che scotta, e così la volta tiene. Potremmo dire, allora, che la cascata (con retroazioni) di Deutsch si trasforma in una cascata di paura, nella quale basta la paura per assicurare lungo tutta la linea una trasmissione ortodossa (senza retroazioni).

In definitiva, all'opinione eteronoma viene a mancare tutto il positivo dell'opinione autonoma, e cioè la possibilità stessa di ‛opinioni informate'. La sola possibile somiglianza tra le due fattispecie è al negativo, e cioè in eventuali reazioni di rigetto. Se la propaganda totalitaria impedisce a limine la formulazione al positivo di sistemi di opinione diversi da quello che propaga, alla lunga può nondimeno fallire. Il pubblico, sazio di bombardamento e saturo di monotonia, sfugge alla presa non credendo, oppure non interessandosi: si chiude in se stesso, si difende con l'apatia, e finisce eventualmente per reagire con un'ostilità generalizzata. È probabilmente vero che, al livello di massa, vi sono oggi più credenti nei radiosi destini del comunismo nei paesi occidentali che non nei paesi dell'Est europeo. Alla lunga, si diceva, anche la propaganda totalitaria può fallire. Ma questa è una prognosi da capire bene e sulla quale ci dobbiamo intendere.

In primo luogo, anche se fallimento c'è, non è mai fallimento in tutto. Un totalitarismo non fallisce in quel che distrugge ed elimina, e cioè in quel che non fa arrivare al suo pubblico; può fallire solo in quel che smercia ed elogia, e cioè nel vendere le menzogne che vende. In ogni caso, dunque, un totalitarismo produce una pubblica opinione anchilosata e dimezzata, l'opinione che abbiamo detto al negativo. In secondo luogo, anche se un totalitarismo fallisce nella parte in cui fallisce, non dobbiamo credere che il riflusso di rigetto sia facile e tantomeno rapido. L'obiettivo con il quale i totalitarismi esordiscono è, ricordiamolo, la distruzione della sfera privata, l'invasione dell'animo. Per risalire la china di quell'invasione dobbiamo attendere che un totalitarismo invecchi e, con l'avvento delle generazioni postrivoluzionarie, imputridisca. Più esattamente, per risalire la china occorre che la sfera privata ricuperi vitalità e sia in grado di ricostituire ‛gruppi di riferimento' spontanei, e cioè, in concreto, gruppi di controriferimento.

In terzo luogo, e conclusivamente, il fallimento è ‛possibile', non certo. La tesi secondo la quale una propaganda totalitaria necessariamente e inevitabilmente perde la sua guerra è plausibile se proiettata nei secoli e argomentata in chiave di inesorabili cicli storici di decadenza; ma è una tesi che resta largamente indimostrata a breve o medio termine. Nella Germania hitleriana e nella Russia staliniana l'indottrinamento dei crani ha funzionato benissimo e la distruzione dei gruppi di controriferimento è effettivamente avvenuta; né si può dubitare che l'opinione inculcata ‛in' quei pubblici fosse un'opinione fortemente credente e autenticamente persuasa. Inoltre, in punto di logica, non è sulla base di fallimenti avvenuti (se già sono avvenuti) che si può dimostrare che il potenziale non c'è, e cioè che una tecnologia delle comunicazioni di massa strumentalizzata da un regime totalitario (e pertanto estesa a tutte le sedi di socializzazione) non possa essere irresistibile. Come ricordava Gaetano Mosca, non è vero che le persecuzioni non riescano; è vero, invece, che non riescono le persecuzioni che non perseguitano sino all'ultimo uomo, che non perseguitano sino in fondo.

Nell'ultimo ventennio l'indirizzo prevalente della letteratura specializzata è stato di sdrammatizzare l'impatto delle comunicazioni di massa, soprattutto rivalutando i processi di retroazione, di feedback, e il ‛ruolo attivo' dei riceventi dei messaggi. Di riflesso, l'indirizzo prevalente è anche stato di attribuire alla propaganda una relativa innocuità. Questa letteratura è fondata su ricerche, e ne ha la forza probante. Il suo limite è di dimenticare, quando generalizza, che le ricerche accertano soltanto quel che osservano dove l'osservano. Per esempio, uno dei più autorevoli esponenti della letteratura sui media, W. Schramm, denunzia una paura quasi patologica della propaganda" negli studi degli anni trenta-cinquanta, osserva che le ricerche degli ultimi trent'anni ‟hanno demolito questa visione delle cose", e per il resto (il non ricercato) si limita a osservare in forma ipotetica che se ‟un particolare punto di vista monopolizzerà i canali costituiti dai media [...] l'influsso della propaganda sarà verosimilmente assai maggiore" (v. Schramm, 1975, p. 913).

In sede di metodo la letteratura esemplificata da questi passi soffre di due vizi: non avverte la propria parrocchialità, e resta intrappolata nel circolo vizioso di tutto il behaviorismo. Per il primo punto basterà notare che il grosso della letteratura di ricerca dell'ultimo ventennio conosce solo gli Stati Uniti. Ne conosce, se si vuole, ogni piega e meandro; ma più scava in profondità, più il suo orizzonte visivo si restringe. Fin qui nulla da eccepire: siamo nella logica di tutti gli specialismi. Il vizio è che questa letteratura conosce solo l'America ma parla, implicitamente, anche di quel che non conosce; e così facendo cade nell'errore metodologico di generalizzare sulla base di un caso ottimale, estrapolando da una situazione limite. Per il secondo punto - il circolo vizioso - occorre ricordare che per le scienze sociali di osservanza behavioristica non c'è conoscenza scientifica se non c'è ricerca. È difficile negare la scientificità di questo precetto. Il che non toglie che restiamo con un quesito che resta inevaso: cosa dire sui paesi in cui la ricerca è carente o addirittura vietata?

Il quesito non solo resta senza risposta ma il più delle volte non è nemmeno sollevato. Ne consegue, nel fatto, che sul non ricercabile cade una cortina che non è tanto di silenzio ma soprattutto di miopia. Di silenzio non può essere, dal momento che i tre quarti del genere umano non possono essere ignorati. Sottentra così una miopia, che spesso è vera e propria cecità, il cui procedimento euristico è di proiettare i dati del mondo che consente di reperirli - con aggiustamenti in più o in meno, di gradazione - sul mondo nel quale la ricerca non può entrare. Alla fine tutto si somiglia, salvo differenze di grado: la propaganda totalitaria è ‛meno' innocua; una dittatura è ‛meno' policentrica; l'opinione pubblica è ‛meno' tale. In virtù delle sue premesse, e se si vuole del proprio rigore, il behaviorismo atrofizza l'immaginazione, e in tal modo si intrappola. L'ironia è che questa ‛scientificità' premia chi la impedisce, e cioè chi impedisce la ricerca.

Eppure la faccia nascosta della luna esiste. Se non si lascia esplorare, va messa quantomeno in conto in sede di impostazione. È per questo che al caso limite di un'opinione che è veramente ‛del' pubblico, abbiamo contrapposto in questo scritto il caso egualmente limite di un'opinione che sia soltanto ‛nel' pubblico. A questo punto l'orizzonte è tutto dispiegato, e non c'è più danno nel restringerlo. In quanto segue, quindi, ci limiteremo ad approfondire il ruolo e i limiti della pubblica opinione nelle democrazie liberali.

6. Elementi e caratteristiche della pubblica opinione

Passiamo a scomporre la pubblica opinione - in democrazia - nei suoi vari ingredienti, quali risultano dalle indagini empiriche. La prima ovvia osservazione è che il ricercatore non trova, quando comincia a scavare, ‛una' opinione pubblica, ma opinioni di ‛molti pubblici'. Quando parliamo di ‛una' opinione intendiamo semplicemente dire che rispetto a un determinato problema troviamo una curva di distribuzione di opinioni unimodale, a campana, e quindi che esiste un'opinione dei più che è l'opinione modale di quella distribuzione. I molti pubblici vengono invece in evidenza quando la distribuzione è bimodale o plurimodale: il che sta a indicare che una questione è controversa (con ogni pubblico individuato dalla sua moda).

A questo punto ci occorre anche una definizione tecnica di ‛opinione', quale quella proposta da Lane e Sears: ‟una opinione è una ‛risposta' fornita a una ‛domanda' in una situazione data" (v. Lane e Sears, 1964, p. 13). Ovviamente questa definizione vale per opinioni singole. Ogni individuo possiede anche un insieme di opinioni che può essere - come insieme - del tutto sconnesso, relativamente congruente, o anche altamente coerente. Vedremo come e perché. Qui importa notare che la definizione di cui sopra consente di separare l'individuo che davvero cambia opinione (poco sicuro, poco intenso, o che risponde a caso), dall'individuo che ogni volta adatta la propria risposta al contesto in cui è data (e che dunque non cambia affatto, in sostanza, la propria opinione). La precisazione è importante perché quando accusiamo qualcuno di incoerenza spesso confondiamo due cose: il contraddire la stessa specifica opinione espressa in precedenza, ovvero una contraddittorietà delle varie opinioni tra di loro. Il primo caso è molto meno frequente del secondo. Alla domanda ‟sposeresti un cinese?" la risposta può essere no; alla domanda ami i cinesi?" la risposta può essere sì; il che non rivela, di per sé, alcuna intima contraddizione, se ricordiamo che ogni risposta viene adattata al contesto in cui concretamente si situa.

Poste queste precisazioni preliminari, i quesiti di fondo sono due. Primo: qual è la struttura e quali le componenti di ciò che viene detto, riassuntivamente e globalmente, opinione? Secondo: qual è l'effettivo grado o livello di informazione che sostanzia le opinioni disseminate nei pubblici di massa?

Gli studi e ricerche che investono questi quesiti sono soprattutto le indagini sui comportamenti elettorali. È facile capire perché se ricordiamo che quel che più importa, nell'ambito delle opinioni del pubblico, è l'opinare sulla res publica. Orbene, questa è proprio l'opinione che il cittadino manifesta sub specie di elettore. Nell'ottica complessiva della teoria della democrazia il discorso si imposta così: che il popolo è davvero sovrano, e cioè esercita il potere di cui è titolare, quando vota; e che, per converso, senza libere elezioni l'opinione resta disarmata e il consenso dell'opinione presuntivo. Per tutte queste buone ragioni esiste oramai una nutritissima letteratura che viene raggruppata sotto il titolo ‛pubblica opinione e comportamenti elettorali'. Nel passarla in attenta rassegna Converse (v., 1975) distingue tra: 1) la base d'informazione; 2) la singola opinione, specialmente nel suo grado di cristallizzazione; 3) la struttura che collega le opinioni (o strutture di atteggiamento); 4) l'intelaiatura di credenze o ideologica che organizza il tutto entro insiemi di concetti astratti.

Alla base di informazione arriveremo tra poco. Della singola opinione si è già detto. Per il resto, la scomposizione analitica di Converse porta in evidenza due punti: che l'informazione non è, di per sè, opinione; e il problema di come le opinioni ‛stanno assieme'. In ordine al primo punto sappiamo già che esistono opinioni senza informazione; Converse si sofferma, invece, sulla differenza tra messaggio-come-emesso e messaggio-come-ricevuto. Il punto che qui interessa svolgere è, peraltro, il secondo: come le opinioni, nell'interagire con la base di informazione, si collegano tra loro. Saltando le strutture di atteggiamento arriviamo subito, per dovere di brevità, al livello nel quale le opinioni sono agglutinate e magari anche organizzate da un'intelaiatura più astratta (di concetti astratti), e cioè dal sistema di credenze ovvero da una specifica e ben definita ideologia.

Un sistema di credenze è indicato da dizioni del tipo ‛la visione liberale della vita' e si caratterizza, pertanto, come una rete concettuale a maglie larghe e sfumate. Di conseguenza un sistema di credenze predispone alla ‛mente aperta', o quantomeno non la ostacola, nel senso che il ricevente dei messaggi ascolta anche i messaggi dissonanti, informazioni e opinioni che disturbano e vanno a contraddire le proprie credenze. Un'ideologia - si pensi al marxismo - è invece un ‛sistema' davvero sistematizzato e caratterizzato dalla propria sistematicità. Un'ideologia è dunque una dottrina ben esplicitata che fa circolo e si salda con se stessa: il che rende la rete concettuale a maglie strette e chiuse. In questo senso un'ideologia predispone non alla mente aperta, ma alla ‛mente chiusa': il ricevente dei messaggi ascolta soltanto i messaggi rinforzanti e rifiuta i messaggi dissonanti. In questa chiusura sta, a un tempo, il limite ma anche la forza dell'ideologizzato: è lui che non solo possiede le opinioni più salde e sicure, ma anche le opinioni più coerenti, meglio concatenate. Per converso, chi è poco o punto ideologizzato si trova spesso in difficoltà a dare un senso agli accadimenti, ed è non solo molto meno coerente ma anche assai meno destro dell'ideologo nel maneggio dei concetti astratti. I pregi della mente aperta ne costituiscono, a un tempo, la debolezza.

Veniamo al secondo quesito di fondo, e per esso all'accertamento di quanto l'opinione pubblica sa, mal sa, o non sa. In merito alla base di informazione soccorrono non soltanto le ricerche sul comportamento elettorale, ma anche i sondaggi di opinione. Sul punto siamo dunque documentatissimi (v. per un'esemplificazione sistematica Erskine, 1962 e 1963). E il responso è costantemente, salvo differenze di enfasi, di questo tenore: lo stato di disattenzione, sottoinformazione, distorsione percettiva e, infine, totale ignoranza dei pubblici di massa è scoraggiante. Solo un dieci-venti per cento della popolazione adulta merita la qualifica di informata, o sufficientemente informata, e cioè supera l'esame di un seguire gli eventi che è anche, in qualche modesta misura, capirli; il resto non finisce mai di stupire anche l'osservatore più disincantato.

Per esempio, è risultato più di una volta che meno della metà dell'elettorato sa - negli Stati Uniti - qual è il partito che detiene la maggioranza al Congresso; dove è da sottolineare non solo che i partiti sono soltanto due; ma anche che quella maggioranza, la maggioranza del partito democratico, non è cambiata da decenni. Altro esempio: il caso di Berlino. Non c'è ombra di dubbio sul fatto che la più pericolosa crisi internazionale di tutto il dopoguerra è stata provocata dal blocco di Berlino del 1949. Orbene, nel 1961, al momento dell'erezione del famigerato muro di Berlino, un sondaggio ha rivelato che più della metà degli americani non sapevano che Berlino era una città isolata, circondata dal territorio della Germania di Pankow. Ma illustriamo con un esempio particolareggiato nel quale l'abbaglio dell'elettorato è così grosso da riflettersi, di ritorno, in un abbaglio dei suoi interpreti. Nel 1968 la guerra del Vietnam era ormai, è ben certo, al centro dell'opinione pubblica americana, e ne costituiva il punto più dolente e controverso. In quell'anno McCarthy si presentò alle primarie democratiche per candidarsi alla presidenza contro l'allora presidente Johnson. La prima di dette primarie, quella che dà tradizionalmente il la, è quella del New Hampshire: e tra la sorpresa generale McCarthy vi ottenne il 42 per cento dei voti contro un magro 48 per cento del presidente in carica. Gli osservatori ne ricavarono che il movimento pacifista (McCarthy si presentava, senza ombra di ambiguità, come una ‛colomba' a oltranza) stava oramai dilagando nel paese ; e il presidente Johnson fu il primo a capire il segnale in questo modo. Solo successivamente un sondaggio accertò che il grosso dei votanti per McCarthy era costituito da ‛falchi' irritati dalla irrisolutezza con la quale Johnson perseguiva la guerra, e ignari del fatto, pur reclamizzatissimo, che McCarthy ne chiedeva la fine a qualsiasi prezzo. L'esempio illustra anche la differenza tra messaggio-emesso e messaggio-ricevuto, sia all'andata che al ritorno. Nella direzione che va da McCarthy all'elettorato del New Hampshire si sbriciola la difesa dell'elettorato fatta da Key (v., 1966), e cioè la tesi del ‟pubblico ingannato", del pubblico al quale non si fa sapere o si fa sapere ambiguamente. Nel caso in esame, il messaggio di McCarthy era di una semplicità lampante, e i media l'avevano diffuso con altrettanta chiarezza e profusione. Pertanto siamo al cospetto di un caso patente di sottoinformazione e distorsione percettiva da parte, si badi, di un elettorato di primarie, e dunque di un elettorato che votava perché interessato. Nella direzione di ritorno, dai votanti ai media, l'interesse del caso non sta soltanto nel fraintendimento del messaggio-ricevuto, ma altrettanto nel testimoniare che la pubblica opinione pesa, e quanto pesa. Perché si può ben ritenere che l'inizio della fine della guerra del Vietnam risale a quel segnale.

7. Propaganda e pubblicità

Se non lo si è già implicitamente capito, occorre dirlo subito: il quadro di cui sopra, che è il quadro disegnato dal politologo, non coincide con il quadro tratteggiato dallo specialista di comunicazioni di massa; anzi, il contrasto è abbastanza stridente. Il quadro offerto dalla scienza politica è, nel complesso, poco esaltante, per non dire che è sconfortante; mentre il quadro proposto dal secondo è progressivamente diventato un quadro non diciamo radioso, ma di belle speranze (v. McLuhan, 1964). Prima di entrare nel merito importa stabilire che le due categorie di specialisti non osservano esattamente lo stesso fenomeno, e per di più che lo osservano in funzione di problemi e parametri ben diversi. Il referente del politologo è precipuamente costituito dagli effetti, o non effetti, della propaganda politica; laddove lo studioso di comunicazioni di massa guarda assai più alla pubblicità, e cioè alla propaganda commerciale. Non sono per nulla la stessa cosa.

Il telespettatore più inondato al mondo dalla pubblicità, dai commercials, è senza dubbio quello americano, che passa in media due ore al giorno di fronte al video. Persuasione occulta? In questo contesto di occulto c'è ben poco. Non solo la pubblicità gli arriva per quel che è, ma la réclame di una marca è immancabilmente seguita dalle contro-réclame delle marche concorrenti. Si dirà che il caso non è diverso quando sul video arriva un repubblicano al quale subito, o poco dopo, risponde un democratico. Difatti, fin qui la differenza non è apprezzabile, il che aiuta a spiegare come mai per lo specialista di comunicazioni americano - che fa anche da battistrada ai suoi colleghi europei - la distinzione tra pubblicità e propaganda finisce per sfuggire. Ma allunghiamo lo sguardo e prendiamo il propagandista autentico, che non è un agente pubblicitario noleggiato per una campagna elettorale ma un ‛credente' che si dedica a propagare la propria fede politica.

Intanto, e per cominciare, chi vuol convertire a una fede politica punta in primo luogo sulla socializzazione, e in concreto sulla scuola, sui libri di testo, sugli addetti alla trasmissione del sapere. Per questo rispetto il propagandista arriva assai prima dell'agente pubblicitario, e lavora in profondità su un terreno che l'altro a malapena sfiora. In secondo luogo, alla propaganda politica è consentito un margine di inganno incommensurabilmente maggiore di quello consentito alla pubblicità. Lasciamo pure da parte il fatto che il sistema legale punisce la frode in commercio mentre non può che tutelare - dovendo tutelare la libertà di pensiero e di espressione - la frode di falso politico. La differenza è che la pubblicità si indirizza a un consumatore il quale, consumando, controlla (per quanto imbrogliabile, si accorge se quel che compra per vino è soltanto acqua colorata), laddove la propaganda politica può smerciare colossali menzogne che nessun normale cittadino è in condizioni di controllare. Infine, e tornando al caso specifico della televisione, il paragone tra pubblicità e propaganda non è da istituire come si è fatto innanzi, ma è da spostare dietro le quinte. Vale a dire, la propaganda efficace non è quella che si esibisce come tale, quella che parla di un uomo politico o lo fa parlare. Il vero gioco avviene tutto al buio, e la sua efficacia persuasiva è data dalla sua invisibilità. Il gioco si fa eliminando le notizie dissonanti; quando non è possibile, commentandole in modo minimizzante o mistificante; e scegliendo ad hoc, nei dibattiti, chi è da presentare sul video e chi è da lasciare a casa in modo da precostituire quale tesi vincerà. Vero è che la ‟persuasione occulta" c'è anche in pubblicità (v. Packard, 1957): ma persegue, tutto sommato, il consumismo, e cioè il suo obiettivo e la sua colpa è di indurre a sovraconsumare. La persuasione occulta che si dispiega in politica è di tutt'altra portata: investe la vita nella sua totalità, e quindi arriva, o può anche arrivare, sino a venderci un inferno sotto le mentite spoglie di un paradiso.

Avendo portato le caratteristiche differenzianti al limite, precisiamo subito che la manipolazione o persuasione occulta che si dà in politica varia grandemente, in concreto, da paese a paese. Dove il personale dei media è altamente professionale e permeato dall'etica professionale del rispetto della verità, le differenze tra pubblicità e propaganda possono risultare minime. Per contro, il propagandista entra anche nella scuola, e riesce a trasformare l'educazione in indottrinamento soprattutto nelle democrazie ad alta intensità e conflittualità ideologica. La regola generale, o di massima, sembra essere che la manipolazione propagandistica cresce con il crescere della ideologizzazione. È di entità modesta e più che altro di natura subconscia nei paesi caratterizzati da pragmatismo politico, mentre diventa pervadente, deliberata e pressoché senza remore interiorizzate nei paesi caratterizzati da guerra ideologica: e questo perché una fede ideologica non solo richiede, ma legittima, una propaganda fidei.

Stabilita la differenza tra propaganda e pubblicità, ne viene come ovvia inferenza che il politologo fa bene a circoscrivere la propria attenzione alla propaganda politica, così come è giusto che lo specialista in comunicazioni si interessi a qualsiasi tipo di messaggio. Il secondo è in errore, peraltro, quando fa di ogni erba un fascio - sia perché confonde le due fattispecie, sia perché nega la distinzione - il che lo induce, al tirar delle somme, a rivestire e travestire la propaganda nelle sembianze della pubblicità. L'errore è spiegabile in chi osserva paesi a modestissima slealtà e intensità ideologica. Ma, pur se spiegabile, l'errore resta tale.

Si diceva anche che il politologo e lo studioso di comunicazioni si pongono problemi del tutto diversi. Il primo cerca di capire quanto la pubblica opinione possa fondare la democrazia e come si traduca nei comportamenti di voto. Il secondo si preoccupa soprattutto di stabilire - almeno nella fase presente della sua disciplina - che il ricevente dei messaggi non è né passivo né indifeso. Se le conclusioni dell'uno sono ragguagliate a quelle dell'altro alla luce delle rispettive prospettive, molte discrasie si rivelano apparenti. Nondimeno la differenza di problema attribuisce un ben diverso significato a una stessa rilevazione. Il ricevente viene caratterizzato da Schramm, e dalla maggioranza della sua specializzazione, come ‟attivo non meno dell'emittente" (v. Schramm, 1975, p. 904). Ma nell'analisi del politologo la grandissima maggioranza di questi riceventi effigiati come ‛attivi' risultano tali nell'attività di non ascoltare, o di ascoltare male. Così la consolazione del primo fa la desolazione del secondo.

Chi ha più ragione? In tema di opinione pubblica dovrebbe aver ragione chi si occupa della res publica, e cioè il politologo. Lo studioso di comunicazioni include l'opinione pubblica nelle sue rilevazioni; ma la sua messa a fuoco è su emittenti, messaggi e riceventi, non sulla pubblica opinione. Pertanto la distintività di questa fattispecie - che non è affatto una sottospecie - gli sfugge. Meglio restare, allora, alla diagnosi dello studioso di politica, e per essa all'accertamento che dichiara l'‛autonomia' dell'opinione dei pubblici. È ripartendo da qui che possiamo precisare se, in quale senso, e quando, nell'autonomia ci sia anche ‛attività'.

8. Opinione pubblica e comportamenti di voto

Berelson, in un passo classico, assimila ai gusti le opinioni che si esprimono nel voto. Egli scrive: ‟Per molti elettori le preferenze politiche sono qualcosa di molto simile ai gusti culturali [...] Entrambi hanno la loro origine in tradizioni etniche, di mestiere, di classe, e di famiglia. Entrambi dispiegano stabilità e resistenza al cambiamento nei singoli individui, ma flessibilità e aggiustamento generazionale nella società nel suo insieme. Entrambi investono sentimenti e disposizioni più che preferenze ragionate" (v. Berelson e altri, 1954, p. 311). In questo passo l'opinione pubblica viene implicitamente dotata di formidabile autonomia; ma non sottintende in alcun modo attori ‛attivi'. Si capisce, Berelson non negherebbe che i suoi elettori incessantemente decodificano e ricodificano dei messaggi; ma tutta questa attività non lo scuote perché non sposta di un ette il fatto che l'insieme è soprattutto un insieme vischioso caratterizzato, appunto, dalla sua vischiosità. D'altra parte, è altrettanto chiaro che Berelson non allude in alcun modo a protagonisti ‛passivi', se per passività si intende - come i più intendono - una cera molle che si lascia facilmente plasmare. Dal che si evince, in conclusione, che i termini attività e passività non sono appropriati al caso. Non solo si prestano male a descrivere la fatti- specie, ma inducono in equivoco: ché dichiarare l'elettore ‛non passivo' non equivale in nessun modo a dichiarano attivo.

Meglio rifarsi, allora, a una distinzione diversa, quale la distinzione accennata in precedenza tra opinione pubblica ‛al negativo' e opinione pubblica ‛al positivo'. Questa distinzione dispone la pubblica opinione su due versanti. Berelson, nel passo citato, caratteristicamente raffigura il versante al negativo, e cioè il versante nel quale le opinioni si ancorano soprattutto ai ‛gruppi di riferimento'. Nella sua raffigurazione, infatti, i messaggi dei media hanno ben poco peso. Ma potremmo dire che hanno poco peso appunto perché l'elettore è ‛attivo' nel bloccarli, nel respingerli o nel ricodificarli a propria immagine e convenienza. Questa attività non toglie, dunque, che l'opinione pubblica in questione sia al negativo, e cioè fortissima nel dire no, o altrimenti tenace nel volere e preferire ‛senza informazione', prescindendo dal flusso dei messaggi informanti. Di conseguenza possiamo dire che lo stato al negativo dell'opinione dei pubblici si traduce, caratteristicamente, in un ‛chiedere-resistere'. Per converso, lo stato al positivo è quello che risulta dalle ‛opinioni informate', o comunque dalle opinioni che interagiscono con le informazioni, e pertanto è lo stato che si converte, caratteristicamente, in un ‛proporre-pilotare'.

Si capisce, in entrambi i casi - il chiedere-resistere o il proporre-pilotare - esiste un ‛chiedere'; ma non è lo stesso chiedere. La prima dizione richiama la democrazia governata; la seconda prefigura una democrazia che si autogoverna. Su questo punto ci spiegheremo da ultimo. Intanto restiamo alla conclusione che segue. Il fatto che il ricevente dei messaggi non sia - finché ascolta in un habitat pluralistico e polifonico - facilmente plasmabile va a confermare la consistenza dell'opinione pubblica al negativo, dell'opinione che impedisce ai governanti di ‛mal fare'. Peraltro, la massiccia evidenza sullo stato di disinformazione, o peggio, dei pubblici di massa lascia sul tappeto il problema di quanto fa, e può fare, l'opinione pubblica al positivo, l'opinione che indica il ‛ben fare'.

Veniamo alla domanda: perché l'elettore vota come vota? È una domanda centrale perché è nel voto che il cittadino finisce per esprimere concretamente la propria opinione. Occorre dunque stabilire in che modo la pubblica opinione si manifesta nel votare, e più esattamente nell'eleggere. Siccome nelle democrazie esistenti il cittadino vota scegliendo tra candidati e tra partiti (il caso del referendum verrà trattato come un caso a sé stante), la domanda diventa: in qual modo il votante sceglie tra un candidato e l'altro, e tra un partito e l'altro?

È superfluo soffermarsi sul candidato nella sua indipendenza dal partito. Il candidato indipendente, o che si fa eleggere in virtù dei propri meriti, è diventato un caso abbastanza marginale che postula piccoli elettorati, oppure sistemi a collegio uninominale (ma anche qui solo quando un collegio è insicuro). Certo, in un'elezione presidenziale di tipo americano o francese il candidato conta; ma si tratta pur sempre di candidati portati dai partiti e che beneficiano del loro sostegno. Pertanto ci limiteremo alla scelta che l'elettore compie primariamente tra partiti.

A questo effetto gli elettori vengono divisi tra ‛identificati' e no, tra issue voters (che votano in ragione delle posizioni dei partiti su singole questioni) e no, tra elettori stabili e instabili. L'idea generale è che l'elettore identificato (immedesimato con il ‛suo' partito) è un elettore stabile che è poco o punto influenzato dalle issues, dalle singole questioni; e buona parte della letteratura considera questo elettore irrazionale o a-razionale, e cioè di minor pregio. L'elettore dichiarato razionale, o comunque considerato di miglior livello, è l'elettore che vota in funzione delle questioni, e che quindi cambia voto per punire un partito che lo delude ovvero per premiare il partito che lo soddisfa. Ma non è così semplice. Tanto per cominciare, gli elettori identificati (immedesimati) costituiscono tutta una gamma che va dagli intensamente ai debolmente identificati: e questi ultimi cambiano il voto. Inoltre, non è vero che un elettore è stabile perché identificato: può risultare stabile perché vota con conoscenza di causa, contro o per il meno peggio. Viceversa, un elettore fluttuante può essere un elettore che davvero non sa quel che vota. Infine, visto che anche il cosiddetto issue voter è sovente male informato, che la sua percezione delle issues è solitamente parziale e distorta, per quale ragione mai dovrebbe essere insignito del titolo di votante ‛razionale', o comunque più razionale?

Converse (v., 1975, pp. 118-125) svolge molto bene questa critica. In primo luogo, egli osserva, nella letteratura sui comportamenti elettorali la razionalità non è definita, oppure viene definita come ‟la scelta che massimizza la utilità percepita". A questa stregua è chiaro che ogni elettore è per definizione razionale, e cioè segue la propria percezione del proprio interesse. In secondo luogo, una razionalità così intesa è a cortissimo raggio e si converte facilmente, nei tempi più lunghi, in una irrazionalità catastrofica per l'insieme. Per esempio l'individuo che vota per essere pagato senza lavorare è - per il suddetto parametro - razionalissimo; ma totalmente e stupidamente irrazionale per altri parametri e a più lunga scadenza. L'invito di Converse di capire il voto lasciando da parte gli apprezzamenti di razionalità sembra dunque da accogliere.

Per capire davvero il voto occorre una spiegazione di tipo causale, o quantomeno una sequenza. Un possibile tipo di sequenza è: 1) preferenze di issue; 2) percezioni di issue; 3) voto per il partito ‛vicino' in soluzioni di issue. In effetti questa sequenza si dà, e viene in evidenza, quando una o due questioni acquistano una particolare visibilità e spaccano un'opinione pubblica. Nondimeno è una sequenza relativamente rara anche nei paesi dove l'issue voting, il votare in funzione dei problemi, è facilitato da due condizioni : un sistema bipartitico, e dunque a massima semplicità di scelta, e un basso grado di ideologizzazione, il che vuol dire che l'elettore non si regola con criteri del tipo ‛destra-sinistra'. Ma nella gran maggioranza dei paesi la sequenza di gran lunga prevalente è una sequenza invertita, che va dalle ‛immagini di partito' a un elettore che ne predilige uno e vi si attacca. Inoltre, man mano che il sistema partitico si complica (è complicato dal suo stato di frammentazione), e man mano che dalla politica pragmatica si passa alla politica ideologica, d'altrettanto queste immagini di partito si traducono in immagini di ‛collo- cazione spaziale', e cioè di tipo destra-sinistra. Detto in parole povere, un partito viene scelto, dai più, perché considerato di destra, centro o sinistra e, inversamente, rifiutato perché troppo di destra o troppo di sinistra. Insomma, l'elettore medio è un grandissimo semplificatore. Non accade quasi mai che un elettorato sia, nel complesso, abbastanza attento e abbastanza articolato da giudicare sulle questioni, e cioè da esprimere, con un issue voting, le proprie preferenze e percezioni di issue. E se così è, allora dobbiamo insistere nel chiedere quale sia, e possa essere, il ruolo, nella gestione del sistema politico, dell'opinione che si esprime votando. In succo: cosa è che questo tipo di pubblico fa e, viceversa, non può o non sa fare?

9. Democrazia eleggente, democrazia partecipante e referendum

Ripercorriamo in due punti il filo di tutto l'argomento. Primo, la democrazia postula una pubblica opinione che a sua volta fonda un governo consentito, e cioè governi che sono condizionati dal consenso di quella opinione. Secondo, per essere autentico questo consenso deve fare capo a pubblici che possiedono opinioni autonome; e per essere efficace deve essere accertato ed espresso mediante libere elezioni. Domanda: questo edificio - che è poi la teoria della democrazia rappresentativa - regge o non regge alla riprova dei fatti? La risposta è che regge nei termini suesposti, e cioè nell'ambito della democrazia di tipo rappresentativo. Infatti in questo ambito tutto quel che la teoria richiede dalla pratica è che la pubblica opinione si costituisca come opinione autonoma. Non è davvero poco, come abbiamo visto; ma non è nemmeno, come passeremo a vedere, pretendere troppo.

Il punto che appare più debole e dolente è - lo sappiamo - il punto di partenza: la base di informazione. Nessuno contesta che si debba in ogni modo tentare di curare lo stato di disinformazione dei grandi pubblici. Ma per trovare una terapia occorre prima capire la natura del problema.

In passato le colpe sono state variamente attribuite ai bassi livelli di istruzione, all'insufficiente varietà o completezza dei canali d'informazione, alla scarsa intelligibilità e chiarezza del gioco politico, o anche alla pochezza della posta in gioco, e cioè delle alternative proposte all'elettore. Ma quando, in un paese o l'altro, queste condizioni ostacolanti sono venute meno, gli effetti sullo stato dell'opinione sono stati di gran lunga inferiori alle aspettative. Il fatto che più colpisce è che la percentuale dei cittadini relativamente attenti e informati di politica non varia in modo sensibile anche quando le suesposte condizioni variano. Alla fine siamo stati costretti a ripiegare su questa ovvia generalizzazione: che la fascia dei relativamente informati è costituita, in prevalenza, dai settori dei più istruiti. Dunque, si conclude, il livello di informazione è una funzione del livello di istruzione. Ma, attenzione, questa conclusione - che è largamente tautologica - vale per l'informazione in generale, cioè si applica a un tutto costituito da una molteplicità di settori particolari. Regge male, o assai meno bene, se riferita specificamente all'informazione politica. Chi è più istruito è, per definizione, più informato; ma non è detto che una crescita generalizzata dei livelli d'istruzione si rifletta in un aumento dei pubblici informati politicamente.

Anche l'informazione è un ‛costo'. Pertanto, chi si tiene informato in un settore lo fa, per forza, a scapito di altri. In secondo luogo, il costo dell'informarsi diventa redditizio - lieve, e al tempo stesso gratificante - solo dopo che l'informazione immagazzinata raggiunge una determinata soglia. Per godere la musica bisogna sapere di musica. Un gioco che entusiasma lo sportivo non dice nulla a chi non lo capisce. In politica, chi ha superato la soglia legge senza fatica le notizie del giorno e le capisce a volo; ma chi resta al di sotto della soglia, chi non ha fatto l'immagazzinamento, fa uno sforzo, non afferra lo stesso, e in definitiva si annoia a morte. Per chi non è informato, dunque, il costo di capire e digerire l'informazione politica si ripropone ogni giorno e non diventa mai gratificante. Il che spiega due cose. Primo, spiega perché troviamo il salto riscontrato tra chi è informato e chi non lo è, e cioè una distribuzione discontinua. Secondo, spiega perché i confini tra le varie zone o specialità d'informazione sono davvero dei confini, e quindi anche perché la quota di una specialità può diventare massiccia e la quota di un'altra restare esigua. Poniamo una popolazione tutta di laureati: resta ancora da spiegare perché quella popolazione debba trovare l'interesse politico più appetitoso di altri interessi.

Chiarito perché il livello d'istruzione può crescere senza alcuna necessaria crescita, o riflusso, nel settore dei politicamente informati, importa ribadire che, anche se la base di informazione dei pubblici di massa resta quella che è, si tratta pur sempre di un punto debole digerito - o comunque digeribile - finché restiamo alla ‛democrazia elettorale', vale a dire finché la pubblica opinione si esprime eleggendo. Quando votiamo per eleggere, non decidiamo singole questioni di governo. Il vero potere dell'elettorato è il potere di scegliere chi lo governerà. Dunque, le elezioni non decidono le questioni, ma decidono chi sarà a deciderle. La differenza è grossa. E spiega perché l'autonomia dell'opinione può bastare. In chiave di autonomia non ci preoccupiamo di quanta parte della pubblica opinione sia al negativo e di quanta al positivo, e nemmeno postuliamo che debba essere informata. Tutto quel che presupponiamo è che l'opinione pubblica si costituisce come un protagonista a sé stante, con il quale i governanti devono fare i conti e al quale devono rendere conto. La buona o cattiva qualità di questa opinione non è dunque in questione. Meglio, certo, se la qualità è buona; ma il sistema politico può funzionare anche se non lo è. Ma se la democrazia elettorale non ci basta, e se chiediamo, come oggi si dice, una ‛democrazia partecipante', allora il discorso è tutto da rifare.

Intendiamoci su quest'ultima nozione, invero nebulosa. L'unico punto chiaro è che una democrazia partecipante non si accontenta della ‛partecipazione elettorale', e nemmeno si può accontentare del referendum finché resta uno strumento interno, subordinato, di una democrazia che rimane di tipo indiretto e rappresentativo. Georges Burdeau ( v., 1956 e 19702) distingue tra una democrazia governata e una democrazia governante; ma questa distinzione vale soprattutto a rendere l'idea di un passaggio, o di un crescendo, e non si presta a chiarire qual è il punto di svolta tra democrazia rappresentativa e no. Beninteso, la democrazia rappresentativa è una democrazia governata (dai rappresentanti); ma per Burdeau una democrazia è già governante quando le assemblee rappresentative si piegano alla volontà popolare, quando diventano etero-dirette. In questo sviluppo possiamo sì vedere una massimizzazione della sovranità del demos; ma possiamo altrettanto bene vedere quel governare demagogico e irresponsabile che già Aristotile denunziava come l'inizio di una fine, come uno sviluppo degenerativo. Comunque sia, il punto è che l'ottica di Burdeau non aiuta a trovare il confine tra la democrazia elettorale e una democrazia di diversa fondazione. Dopotutto, anche la democrazia rappresentativa auspica la partecipazione e richiede ‛più partecipazione'. Quando accade, dunque, che i pesi si invertono, che la partecipazione subordina a sé la rappresentanza e, nei disegni più ambiziosi, la sostituisce sino a eliminarla?

In concreto, lo spartiacque deve essere strutturale e tra- dursi in strutture. Difatti, lo possiamo trovare nell'istituto del referendum. Sia chiaro; tanto nella democrazia rappresentativa quanto nella democrazia che diremo, per intenderci, referendaria, il cittadino si limita a votare; e siccome nel referendum l'opzione si riduce a un sì-no, è lecito ritenere che l'opinione che si esprime nel referendum sia ancora più cruda, o più elementare, dell'opinione che si esprime in un'elezione (nei sistemi pluripartitici con voto di preferenza). La differenza è che, quando elegge, il cittadino decide su chi deciderà per lui; laddove con il referendum il cittadino decide in proprio, e cioè decide una questione. Il referendum fa dunque da spartiacque per questo rispetto: che sostituisce al decidere dei rappresentanti il decidere dei rappresentati. Ne consegue che quante più questioni vengono decise referendariamente, tanto più una democrazia rappresentativa si trasforma in una democrazia diretta, variamente da denominare - in crescendo - partecipante, davvero governante, o letteralmente autogovernante.

Forse si obietterà che i propugnatori della democrazia partecipante non pensano affatto, o comunque non primariamente, a una democrazia referendaria. Ma anche se il loro cuore batte per l'assemblearismo e per l'attivizzazione di piccoli gruppi, la loro ragione non può non capire che una democrazia il cui demos si conta in diecine o anche centinaia di milioni non può che approdare alla tecnica del referendum: altro strumento di attuazione non c'è. E dunque chi vuole superare la democrazia rappresentativa deve volere comunque la chiami - una democrazia referendaria, una democrazia imperniata e sostanziata dal rimettere le singole questioni da decidere alla decisione del popolo.

Se questa è, come è, la sostanza di una democrazia più avanzata della democrazia rappresentativa è subito chiaro perché il problema della pubblica opinione sia tutto da riproporre. Nella democrazia referendaria la pubblica opinione diventa il sine qua non di tutto, e tutto ne dipende. Pertanto non basta che l'opinione dei pubblici sia autonoma; importa poco che sia temibile al negativo; importa, invece, che sia ‛di qualità' al positivo. Quel ricevente che è attivo nell'eliminare quel che lo disturba e nel ricodificare i messaggi a modo suo, e cioè infedelmente, non solo non ci serve più, ma diventa pericoloso, per non dire esiziale. Chi decide da sé - non per sé, si badi, ma per tutti - deve sapere su cosa decide, e deve anche padroneggiare il problema sul quale decide.

Finora abbiamo parlato sempre e soltanto di ‛informazione', magari sottintendendo che l'informazione comporta ‛cognizioni', ma senza mai mettere i puntini sulle i. Soprattutto, sinora abbiamo sorvolato sulla differenza, l'enorme differenza, che passa tra ‛informazione' e ‛conoscenza'. La distinzione non è essenziale in riferimento a un elettorato eleggente; ma diventa cruciale in riferimento a un demos decidente. Anche se una persona memorizza un'enciclopedia, e dunque è informatissima su tutto, non ne consegue in alcun modo che sappia mettere assieme e a frutto quell'arsenale di nozioni. Certo, la padronanza conoscitiva presuppone informazione, e cioè un insieme di notizie, di dati. Ma non è vero l'inverso: l'informazione non dà, di per sé, episteme, quel sapere che è comprensione del problema nel quale una decisione si situa, e anche delle conseguenze della decisione che andiamo a prendere. E se alla democrazia eleggente basta la trasformazione dell'informazione in opinione, alla democrazia referendaria occorre la trasformazione dell'informazione in sapere, in conoscenza.

A tutt'oggi la letteratura sulla democrazia partecipante fa leva sulla formula ‛partecipando si impara' e lascia intendere, o sottintende, che la ‛vera partecipazione' porta con sé un salto di qualità. Purtroppo non è così; e semmai quel discorso è da sviluppare al contrario, a ritroso. La partecipazione in questione non è più, ricordiamolo, quella che c e già; vuol essere una partecipazione attiva, generalizzata (al limite, di tutti), che sostituisce il cittadino che ‛prende parte' in prima persona al rappresentante che ne fa le veci. Orbene, per questo tipo di salto in avanti non soccorre il livello d'istruzione (che rischia di generare, tra l'altro, l'uomo contemplativo più che l'uomo attivo) ma occorre la politicizzazione: cioè il fattore in gioco è la ‛intensità'. In sostanza, la teoria della democrazia partecipante ipotizza che le caratteristiche di piccoli gruppi intensi - che sentono intensamente i problemi della città politica - si diffondano e pervadano tutto il corpo sociale. E qui sta il nodo di Gordio.

L'intensità stimola, è vero, l'attenzione; ma quella particolare attenzione che attivizza, che attizza l'azione. L'impegnato - è ben di lui che stiamo trattando - non vede, non vuol vedere, i pro e i contro; vede solo in bianco e nero, con tutto il bene da una parte e tutto il male dall'altra. In politica l'altamente ‛intenso' è dunque - nove su dieci - il dogmatico, il settario, il fanatico. Quel che risulta da tutte le indagini è un'altissima correlazione tra intensità ed estremismo: chi prende posizioni estreme è altamente intenso, e viceversa (v. Lane e Sears, 1964, pp. 105- 106). L'estremista sa già tutto, ha già la risposta per tutto; essendo altamente intenso, semplicemente e fortissimamente ‛vuole'. Il punto è, dunque, che l'intensità che produce il cittadino politicizzato, altamente partecipante, sta agli antipodi della padronanza conoscitiva, e ne erode le stesse premesse. Non è che intensità attenzione informazione cognizione padronanza conoscitiva covarino positivamente; piuttosto la serie tende a covariare negativamente. Quel che vorremmo fosse un crescendo ‛virtuoso' si rivela, invece, un boomerang: il trionfo della mente chiusa sulla mente aperta (v. Rokeach, 1960).

È giocoforza concludere, allora, che mentre la democrazia rappresentativa si fonda su una pubblica opinione sufficiente - sia in teoria che in pratica - a sostenerla, tutti i richiesti superamenti dell'istituto della rappresentanza devono ancora cominciare a fare i conti con il problema della pubblica opinione: un'omissione che è tanto macroscopica quanto sorprendente. Si notava in esordio che quando è stata coniata la dizione pubblica opinione, il sostantivo non era scelto a caso: si è detto ‛opinione' perché si intendeva proprio un opinare. Ma ai fini di una democrazia referendaria non basta l'opinione, occorrerebbe - è bene ripeterlo - il sapere, la competenza conoscitiva. Il salto dev'essere davvero di qualità; è davvero un salto grossissimo; e tutto il nostro sapere ne contraddice la fattibilità. Si avverta: dal punto di vista tecnologico una democrazia referendaria integrale - e cioè un popolo che si autogoverna quotidianamente - è oramai cosa fattibilissima. Basta installare in ogni casa un terminale da quattro soldi collegato a un elaboratore centrale, di fronte al quale ogni sera i cittadini rispondono sì o no ai quesiti che passano sul video. La cosa è fattibilissima; ma è da fare? Per rispondere occorre cominciare con l'avere chiaro che cosa l'opinione pubblica sia e possa essere.

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