COSTA, Orazio

Dizionario Biografico degli Italiani (2020)

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COSTA, Orazio

Paolo Puppa

Nacque a Roma il 6 agosto 1911 da Giovanni, professore di lettere e studioso di storia, di origini dalmate, direttore della rivista protestante Bilychnis, e da Caterina Giovangigli (di cui Orazio assunse il cognome da adulto, nella forma «Costa Giovangigli», in suo omaggio), nata in Corsica e appassionata di letteratura teatrale (sapeva tutto Racine a memoria, nei ricordi del figlio).

Fu primogenito di una famiglia molto unita, rimanendo legato alla sorella, Valeria (n. 1912), e ai fratelli Livio (n. 1914, divenuto poi ingegnere) e Tullio (n. 1916). La prima collaborò agli allestimenti del fratello specie come costumista, già nel saggio di diploma di Orazio, almeno fino al 1963, prima di darsi alla pittura con esiti sorprendenti, in particolare verso l’espressionismo astratto; così anche Tullio, a sua volta scenografo, poi trapiantato nel 1950 in Brasile per continuare l’attività artistica.

Un giovane vecchio

Nell’esistenza di Costa, scorta da una prospettiva privata, i soli sentimenti professati appaiono la tenerezza ammirativa per la madre e la complicità solidale coi fratelli. Ad avvicinarlo, si dimostrava in effetti algido e autocontrollato, sorta di "giovane vecchio" dall’aria ascetica e trasognata, gli occhiali, l’erre moscia, e con gli anni la gran chioma canuta: un insieme da cui affiorava un carisma naturale, una fascinazione quasi ipnotica da guru severo, innanzitutto con sé stesso ma anche una freddezza e un distacco compatibili, tuttavia, con l’invasamento che sapeva trasmettere ai suoi giovani attori. In cambio, riversava su di loro un’autentica passione pedagogica, invitandoli a sublimare la giovinezza in una totale dedizione alla scena, apprezzando nondimeno estro e creatività, cosicché il groviglio interiore e il gusto della reticenza si traducevano nell’uso del teatro in quanto terapia, come «una delle poche strade rimaste all’uomo per salvarsi» (Boggio, 2008, p. 198).

Dopo gli studi liceali, dal 1927 Costa seguì i corsi di recitazione tenuti da Franco Liberati allo Studio Eleonora Duse, divenuto nel 1935 Accademia nazionale d’arte drammatica per opera di Silvio d’Amico. Si laureò in lettere all’Università di Roma, dove si era iscritto, una volta rimossa l’iniziale inclinazione per la matematica, e perso un anno per crisi nervose, discutendo con Vittorio Rossi una tesi su Teatralità del dialogo nei «Promessi sposi», (poi edita in Rivista italiana del dramma, 1937, 3, pp. 315-343; 4, pp. 97-111). In Accademia, si diplomò con In portineria di Giovanni Verga, quale saggio di regia nel 1937, nel corso tenuto dalla russa esule Tatiana Pavlova, in fama di contiguità con Stanislavskji, e autorevole altresì in quanto moglie di un gerarca importante. Cooptato subito quale docente, a partire dal 1944 sostituì Guido Salvini e conservò l'impiego sino al 1976, divenendo un maestro per intere generazioni di registi e di attori; tra costoro, capaci di utilizzare i suoi suggerimenti, magari in una clamorosa carriera cinematografica, vi furono Nino Manfredi, Gianmaria Volontè, Giancarlo Giannini e Roberto Herlitzka. La vocazione pedagogica venne in seguito confermata dal suo spendersi in reiterati corsi tenuti nei più vari istituti, dal Centro sperimentale di cinematografia (1957-67), al Conservatorio di Santa Cecilia (1964-72).

Apprendistato mistico

L’esordio assoluto di Costa avvenne nel 1935-36 con Il pianto di Maria di Jacopone da Todi, con due star del tempo, Irma Gramatica e Gualtiero Tumiati, e la compagnia dell’Accademia. Poco dopo, nel 1939, ottenne un successo clamoroso, quasi introduzione esemplare a tutto il lavoro successivo, allorché poco più che ventenne diresse Donna del Paradiso. Mistero della Natività. Passione e Resurrezione di Nostro Signore, silloge di laudi dei secoli XIII e XIV raccolte da Silvio d’Amico con l’aiuto dello storico del teatro Paolo Toschi, due anni prima allestito a Padova, durante le celebrazioni giottesche, da Tatiana Pavlova, in cui aveva recitato il ruolo di Simone il lebbroso.

Sulla scena nuda, da lui spesso privilegiata per un innato pauperismo giansenista, davanti a un velario dorato, gli attori stavano raccolti a semicerchio nell’attesa dell’evento numinoso, mentre ai lati avanzavano i due angeli che pregavano gli astanti di onorare la Vergine Madre. Intanto, al di là del tendaggio, si intravedeva il mistero dell’Annunciazione, e un’aura incantatoria, ricavata dalla memoria pittorica delle icone dorate di Beato Angelico, col suggestivo Coro degli Angeli, si spargeva intorno, tra inni gioiosi e pudichi bisbigli. Il palco pareva così trasformarsi in tempio e la litania spingeva l’estetico verso l’estatico. Lo spettacolo venne ripreso ben otto volte, sino al 1965. Sempre d’Amico spinse Costa a recarsi a Parigi subito dopo il diploma e a proporsi in uno stage di perfezionamento e insieme come assistente di Jacques Copeau, scelto da entrambi quale modello di riferimento. Dal regista francese assimilò sia l’utopia di una condivisione comunitaria tra scena e pubblico, la cui interruzione avrebbe determinato la crisi del senso del teatro nel moderno, sia la centralità dell’attore da educare come uomo prima che come artista, da qui la vicinanza tra scena e scuola. Nel 1938, così, fu suo aiuto nella fiorentina messinscena al Giardino dei Boboli dello shakespeariano Come vi garba, dopo aver fatto da assistente a Pietro Sharoff, altro esule russo, nella compagnia del teatro Eliseo. Quale omaggio al suo maestro, Costa portò nel 1950 il Poverello di Copeau, con un palco a piani sovrapposti, nella piazza del Duomo a San Miniato, per l’Istituto del dramma popolare, e dedicato alla vita di San Francesco. Qui, intese ripresentare un’analoga atmosfera maliosa e un intatto fervore già esibiti nel precedente Mistero della Natività, grazie alla combinatoria scultorea dei corpi, autentica danza per gli occhi. Sconvolgente nel ricordo dei presenti fu la chiusura del primo tempo, nel momento in cui Tonino Pierfederici, nei panni del protagonista, liberatosi degli abiti della ricchezza, scalzo e col saio di juta, spezzava il bastone e si lanciava in un urlo improvviso di pienezza di vita, così come tutti furono colpiti dalla sequenza finale, con la morte del santo, quando i fraticelli mimavano il volo e il suono degli amati uccelli accorsi ad assistere all’agonia del loro amico, facendo vedere l’invisibile. Sempre nel 1939, Costa risultava uno dei tre registi assieme a Wanda Fabro e Alessandro Brissoni, che collaboravano con d’Amico alla Compagnia dell’Accademia, esperienza che terminò nel 1940 all’arrivo di Corrado Pavolini – fratello di Alessandro, fra i volti più noti del regime fascista –, con cui i rapporti furono sempre tesi e difficili.

L’8 agosto del 1943, in pieno marasma della guerra tragicamente compromessa e nell’imminenza delle lacerazioni che portarono alla Resistenza, firmò assieme a Gerardo Guerrieri, Diego Fabbri, Vito Pandolfi e Tullio Pinelli un manifesto su Teatro e popolo uscito in vari quotidiani romani, dove si riprendeva il concetto utopico di comunità sociale per cui «la scena» avrebbe dovuto impegnarsi da protagonista.

Regista senza fissa dimora

Lungo tutta la sua lunga carriera Costa si prestò in regie occasionali offertegli da ditte primarie anche prestigiose, che lo vollero coinvolgere per la sua autorevolezza crescente. Così nel 1942 la compagnia Zacconi-Bagni-Stival-Cortese per Le case del vedovo di George Bernard Shaw, nel 1945 la Borboni-Randone-Carnabuci-Cei per Giorni senza fine di Eugene O’Neill e la Magnani-Ruffini-Pilotto per Maya di Simon Gantillon, nel 1946 la Pagnani-Cervi-Cortese, compagnia del teatro Eliseo, per Amarsi male di François Mauriac e la compagnia del teatro Quirino con Sarah Ferrati per il cechoviano Giardino dei ciliegi, nel 1947 al Piccolo Teatro di Milano per Don Giovanni di Molière con Gianni Santuccio, Camillo Pilotto e Lilla Brignone. Proprio in risposta a Strehler-Grassi, di cui tuttavia non poteva vantare gli appoggi politici e locali o nazionali, nel 1948 fondò il Piccolo teatro della città di Roma, privo financo di un consiglio di amministrazione e di una sua sede (all’inizio presso lo Studio Eleonora Duse che ospitava i corsi dell’Accademia, poi al Teatro delle Arti). Il debutto avvenne con I giorni della vita di William Saroyan il 4 gennaio del 1949. Questa compagnia stabile con interpreti non di grande richiamo, almeno nei primi tempi, durò sei stagioni producendo tra le sue 38 produzioni alcuni tra i più importanti spettacoli nel secondo dopoguerra, con costi irrisori rispetto alle regole del mercato. Basti citare un Edipo re nel 1950, in cui il messaggero di Giorgio De Lullo raccontava la scena di Giocasta impiccata con voce roca e balbettante, e soprattutto i Dialoghi delle Carmelitane di Georges Bernanos, in cartellone dal 27 novembre 1952 al 24 febbraio del ’53, con un casting smisurato, in una piazza distratta e umorale come Roma. La chiusura fu inevitabile per la cessazione dei finanziamenti da parte degli Enti locali e l’impossibilità di pagare gli attori, alcuni di loro tra l’altro in fuga, e l’ostilità spietata da parte degli avversari di d’Amico, tra cui la rivista Il Dramma con in testa Lucio Ridenti e Anton Giulio Bragaglia. L’epilogo, pur avendo ottenuto il riconoscimento di «teatro stabile», fu suggellato dallo sfortunato Le donne dell’uomo di Gennaro Pistilli nel 1954, interrotto dopo pochi giorni. Finita l’esperienza romana, Costa partecipò al tentativo di istituire uno «stabile» in Laguna, tra il 1955 e il 1956, con la compagnia del Teatro di Venezia, e qui diresse nel 1956 il goldoniano La famegia de l’Antiquario, in cui uno straripante Pantalone di Cesco Baseggio (già col regista nel 1941 ne Il poeta fanatico del commediografo veneziano allestito ai Giardini della Biennale) fronteggiava la sconsiderata prodigalità in anticaglie del conte Anselmo di Marcello Moretti.

Un uomo solo per fedeltà

Attaccato dalla cultura di sinistra perché tacciato di conservatorismo nell’estrema fedeltà al testo scritto ma anche sul piano ideologico oltre che per la tendenza indubbia a repertori spesso religiosi, rafforzato dai viaggi in Oriente, come in India dove lo condusse l’interesse per lo yoga, Costa fu allo stesso tempo anche contestato dalla destra cattolica in quanto considerato poco ortodosso e portato a una scontrosa autonomia nella propria ricerca. Inclinazione testimoniata nel 1965 con la costituzione del teatro Romeo a Roma, orientato a coniugare palcoscenico moderno e spiritualità cattolica, destinato però a durare solo tre anni. Ma la citata sottomissione al copione, ereditata da d’Amico, specie se classico, lo rese per lo più perplesso e insofferente contro lo strapotere rivendicato dai suoi colleghi registi demiurghi nel secondo dopoguerra, inclini alla manipolazione dei testi a suo parere per «libidine di licenza» (Antonucci, 1978, p. 85). D’altra parte, questa figura professionale, arrivata in Italia tardi rispetto all’Europa per la resistenza del teatro capocomicale basato sul mattatorismo dei divi della ribalta, decollava con Costa in uno stadio ancora aurorale. Di qui nasceva il paradosso che un regista prolifico come lui (quasi duecento allestimenti nell’arco di una lunga carriera, con una settantina da poter annoverare già nel 1955), giunse nel 1974 nel cartellone delle Tre sorelle cechoviane allestite dalla sua Compagnia degli Ultimi, fondata in quell’anno, a firmarsi semplice «coordinatore» per la sua avversione verso ogni prevaricazione. In altri momenti arrivò a servirsi della formula “a cura di”, sempre in antitesi polemica al dispotismo registico. Non mancava di contraddizioni, però, se nel 1939 dichiarò solennemente con accenti gentiliani che «il regista è colui che crea alla rappresentazione una coscienza spirituale, che ne fa una cosa viva ed attuale» (Costa, 1939, p. 12). E aggiungeva che si trattava di uno strumento sorto in tempi di secolarizzazione e caduta del sacro, di dispersione di valori, e pertanto da ridimensionarsi a mera edizione del play, senza superfetazioni intellettualistiche: al massimo una scrupolosa lettura finalizzata a stanare il genere della scrittura, a individuarne il modulo recitativo adatto alla successione degli snodi drammaturgici nell’alternanza strutturale tra colpi di scena e pause di tensione, essendo incongruo e limitativo ridurre un testo solo a uno dei tanti aspetti che lo caratterizzano. Allo stesso tempo, Costa ipotizzava che, nel confronto sistematico con la parola del poeta, l’attore realizzasse sé stesso, l’autore e lo spettatore nella condivisione del linguaggio verbale. In rare occasioni, fu pure disponibile a recitare coi suoi ex allievi, come Luca Ronconi che lo volle nel personaggio di Atlante nella serie televisiva del suo Orlando Furioso (1975), dove fu ieratico e monumentale con qualche sottolineatura auto-ironica.

Teatro come mimesi

In realtà, più che il testo era l’attore lo scopo del suo teatro, nella misura in cui quest’ultimo lo incarna, così come la regia per lui era «recitativa» non «decorativa» (Saturno, 2001, p. 78), cioè sempre basata sulla violenza coreografica dell’allestitore. Infatti, sin dagli anni ’40, sulla scia dell’esperienza accumulata con Copeau, e della lezione che il maestro francese aveva elaborato attraverso la scuola in Borgogna dei suoi allievi, i Copiaus, ideò il metodo mimetico, basato sull’istanza peculiare, insita in ogni creatura, anche in certi animali, dell’impulso al movimento e all’imitazione, resa col corpo, colle mani o colla faccia, di ciò che sta al di fuori di noi, vedi anche l’apprendimento della lingua.

Il metodo in questione venne certo sviluppandosi e rafforzandosi man mano lungo i corsi impartiti all’Accademia, scandito il primo anno come realtà corale, il secondo nell’appuntamento con la poesia (indispensabile il momento della lettura mimetica della poesia stessa, sviluppando al massimo la ricchezza espressiva della sintesi vocale), il terzo aperto alla drammaturgia. Era sulla voce, intanto, organo decisivo dell’interprete, che si concentrava il lavoro maieutico di Costa, nell’attenzione estrema all’amalgama fonetico tra consonanti e vocali, e nella precisa distinzione tra timbro, estensione, volume, tono, ritmo, inflessione. Di qui i continui esercizi, le battute acquistando ai suoi occhi maggior rilievo dei personaggi stessi, del resto ignari di come va a finire la vicenda, a differenza dell’attore, e pertanto da pronunciarsi con tutta l’intensità del momento. Il metodo mimetico esigeva per la verità non un’imitazione dall’esterno ma un’immedesimazione nell’intimo con ogni realtà al di fuori di sé, sollecitando non a «fare» ma a «essere» tutto, qualsiasi ente, visibile e invisibile, concreto e astratto, compresi i colori delle vocali (e si partiva dai fenomeni naturali: albero, erba, foglia, nuvola, vento, cielo, e via enumerando). Si arrivava a casi esasperati, col rischio del ridicolo, come quando Manfredi rievocava il maieuta che gli imponeva di mimare il fuoco di paglia umido e il fuoco di paglia secco. Costa usava il termine mimazione (Colli, 1996, p. 110), meccanismo da cui si snoderebbero sia il pensiero logico sia il processo creativo, grazie a un lavoro continuo di metaforizzazione che rinnova in sé il concepimento poetico rendendo l’attore in qualche modo autore. Ed era la figura dell’analogia tra corpo e mondo alla base della pulsione poetica e dell’arte in generale. In tal modo, oltre a riappropriarsi integralmente della propria capacità espressiva, recuperata dall’infanzia, nella connessione tra gioco e rappresentazione, l’allievo era stimolato a servirsi di tale apprendistato nella dinamica delle battute, imbevute di una fisicità palpitante e senza limiti. In questa maniera, pur conferendo tutto il suo significato al volto umano, tra «effigie umana» ed «effigie di Cristo» (Boggio, 2001, p. 116), quale massimo segno dell’identità, non ci si sottraeva alla perdita momentanea della coscienza, viaggiando fuori dal sé. In questo orizzonte, un’importanza crescente veniva assegnata al coro, sempre più al centro dei laboratori preparatori, nel suo costituirsi come cospirativo, nel senso di respirare assieme (Boggio, 2007, p. 248), anche su suggestioni venute da Mario Apollonio.

Tutto ciò si evinse compiutamente in spettacoli quali l’Aminta del Tasso (1950), l’Ippolito di Euripide (1956), e l’Ifigenia in Tauride e in Aulide (1957 e 1974), così come nelle due edizioni de l’Assassinio nella cattedrale di Thomas Stearns Eliot nel 1957 e (per il piccolo schermo) nel 1966, Commedia. Episodi e personaggi del Poema Dantesco (e Vita Nuova nel 1981) sempre nel 1966, l’Adelchi manzoniano televisivo nel 1973. Soluzioni molto ardite, come il Sogno di una notte di mezza estate allestito nel 1968 in una scena omologata a palestra, sciorinando tutto il lavoro laboratoriale, in anticipo sulle trasgressioni poi operate da Peter Brook su questo stesso testo nel 1971. La sua metodologia, in Accademia, doveva purtroppo convivere con gli altri insegnamenti centrati su modelli recitativi tradizionali, riproposti nella previsione che il mercato al di fuori, unito alle istanze di carriera, avrebbe presto riassorbito e in parte marginalizzato una didattica eccentrica. Del resto, le tecniche adottate nelle infinite e maniacali prove risultavano singolarmente affini a certi eccessi fisici della scena grotowskiana, pur così lontana dalla venerazione professata in Costa per Sire le mot, secondo i canoni postulati da Copeau. Ma con lui davvero il verbo si faceva carne. Una pratica poi condensata in modo esemplare ne L’uomo ignoto, florilegio di motivi tragici tra Prometeo di Eschilo, i sofoclei Edipo reEdipo a Colono e Aiace, l’euripideo Ippolito intrecciati con frammenti dei Dialoghi platonici nell’estate del 1989 a Rimini.

Costa non indietreggiò mai, anche in tarda età, davanti a frequenti escursioni all’estero per propagandare il proprio metodo, a partire dai seminari tenuti nel 1963 e nel 1965-67 all’Institut des arts de diffusion di Bruxelles, con relative regie, nonché a Bucarest, Essen e Stoccolma. Nel 1979, appoggiandosi all’Assessorato alla cultura, istituì a Firenze il MIM - Centro di avviamento all’espressione, destinato a durare 15 anni, poi bruscamente chiuso per il venir meno del sostegno economico da parte degli Enti locali. Qui, rielaborò le proprie premesse teoriche in una strategia extra-teatrale, ovvero aperta anche a non attori, inclusi anziani e disabili, in sinergia con la ricerca medica più avanzata. Nel 1985 fondò a Bari la Scuola di espressione e interpretazione scenica, sempre basata sul metodo mimico. Il progetto, certo ambizioso, durò nei fatti solo un triennio, in quanto la Regione, pur a fronte di numerosi spettacoli allestiti, non mantenne le promesse e tolse il supporto economico.

Biblioteca eclettica

Tra i tanti titoli proposti da Costa, ricorrono in particolare alcuni autori. Innanzitutto Vittorio Alfieri, occasione esaltante di dizione del verso, e insieme riscoperta di una teatralità sorprendente, di là dai pregiudizi che l’avevano sino allora etichettato come inadatto alla ribalta. Sin dal 1948 in vista delle ricorrenze e delle rappresentazioni astigiane, diresse in una chiave sorprendentemente intimista Filippo, con un ritmo spezzato che in questo caso quasi non faceva sentire i versi stessi, spettacolo poi portato al Piccolo di Milano; l’anno dopo fu la volta dell’Oreste, con Rossella Falk, Tino Buazzelli e Antonio Crast, dai costumi bizzarramente napoleonici e derive melodrammatiche, nonché della Mirra dove ottenne dalla giovane Anna Proclemer, travolta emotivamente da prove interminabili, grida laceranti nella confessione finale. In seguito, rappresentò pure Agamennone (1952) con le maschere del coro rese da grandi piume d’uccello, e Il divorzio (1962). La dimestichezza colla drammaturgia lirica annovera filoni alti, dalla tragedia antica alla scrittura dannunziana, come la Francesca da Rimini al Vittoriale (1960), e i reiterati incroci coll’amico Mario Luzi, da Ipazia e Il Messaggero con Ilaria Occhini (1979) a Rosales con Albertazzi, Elisabetta Pozzi ed Edmonda Albini (1983). Ma senza dubbio grande spazio venne dato a Pirandello, di cui Costa intese recuperare la globalità della partitura nel concertato delle voci e nella tensione delle argomentazioni, non tralasciando alcun passaggio sillogistico né trascurando alcun personaggio di contorno, diversamente dalle 'edizioni' precedenti, molto più disinvolte e selettive. Si possono citare i suoi Sei personaggi (1946 e 1948), in cui si metteva in evidenza il dramma del vissuto reale, spiazzante in quanto Costa veniva etichettato quale freddo e intellettualistico filologo. Non fantasmi, dunque, ma creature di sangue, a partire dai costumi differenziati dalla Grande Guerra, quello degli attori datati 1910, quello dei personaggi anni ’20, ovvero coevi al debutto storico. E pur nel rispetto abituale professato per il testo, scelto però nella versione del 1921 e non quella revisionata, meta-teatrale, del 1925, di solito recuperata dalle altre messinscene, pertanto tutto contenuto nel palco senza escursioni in sala, Costa non esitò a mutarne il finale, col Padre che avanza verso il proscenio con il ragazzino morto tra le braccia, sopprimendo la battute del capocomico. Questo anche per la sua svalutazione di opere come Questa sera si recita a soggetto. A trionfare, in particolare, nel ’48 fu la Figliastra sarcastica e fiammeggiante di Rossella Falk, facendo decollare l’avventura della Stabile romana. Seguirono nel 1952 Così è (se vi pare), con Evi Maltagliati e Tino Carraro. Nel 1956, per il ventennale dell’Accademia romana, portò Liolà alla Fenice di Venezia. Nel 1957, su committenza del Piccolo di Milano allestì La favola del figlio cambiato. Qui, nel 1961, diresse altresì Tino Carraro in Enrico IV, sempre privilegiando la concretezza sanguigna del dolore. Al teatro Nazionale di Bruxelles nel 1963 allestì I giganti della montagna, con gli attori che nel finale interrotto cantavano le parole scritte dal figlio Stefano. Ma il corpo di Ilse uccisa veniva issata su una teleferica verso cime lontane, per poi risorgere e avvoltolarsi tra le pieghe del lacerato sipario, alludendo a residue speranze sulla presenza della poesia nel mondo. Dello scrittore agrigentino sembrò sottovalutare la perdita semantica della comunicazione interpersonale. Nella biblioteca del suo cuore vanno pure menzionati Ibsen (Il piccolo Eyolf, 1943; Le colonne della società, 1951; l’Anitra selvatica, 1963), Cechov (Ivanov e Il gabbiano per la tv, entrambi nel 1969; Tre sorelle, 1974) e soprattutto Shakespeare, a volte con apporti personali nella traduzione. Ecco allora un’applauditissima Dodicesima notte (1950), con un’alternanza contagiosa tra momenti lirici e siparietti grotteschi e il personaggio di Malvolio invano offerto a Totò; un controverso Macbeth (1953), dove colpirono le trasfigurazioni coreutiche nel vapore e nel fuoco per le scene delle streghe moltiplicate con enfasi a una quindicina dalle tre originarie; Le allegre comari di Windsor (1976); Romeo e Giulietta (1977); Il mercante di Venezia (1986). Ma la sintonia maggiore si accese forse colle ambiguità e le nevrosi di Ugo Betti, magistrato commediografo in auge negli anni ’50, col suo palcoscenico-tribunale, a valorizzarne il messaggio febbrile, tra inferni famigliari e colpe da confessare. Quasi incontri necessari apparvero le messinscene coronate da puntuale successo, come il Cacciatore di anitre (1940), Vento notturno (1945), Lotta fino all’alba (1949), Spiritismo nell’antica casa (1950) e L’aiuola bruciata (1953). In questo clima depressivo e in un’analoga tensione laicamente religiosa Costa fece debuttare nel 1955 Processo a Gesù di Diego Fabbri, colla parola sospesa tra pianto/canto e preghiera. Nel 1980 realizzò una lettura integrale radiofonica degli amati Promessi sposi con 38 attori, tra cui sé stesso.

Non mancarono, anche se minoritari, allestimenti nel territorio "musicale", per la sua spiccata attenzione  all’accompagnamento sonoro, come  nel 1958 il rossiniano Conte d’Ory e la Favorita di Donizetti. Nel medesimo anno, infastidirono le insistite sottolineature elettroniche, firmate da Roman Vlad in Requiem per una monaca da William Faulkner su adattamento di Albert Camus per la compagnia Albertazzi-Proclemer.

Congedo all’ombra di Amleto

Nel 1991, richiamato dal direttore di quel tempo Luigi M. Musati, rientrò all’Accademia di Roma, per un corso biennale sul metodo mimico, finalizzato a uno work in progress su Amleto, da lui rielaborato e tradotto. Nel secondo anno tenne tre giornate di prove sul capolavoro shakespeariano ad allievi molto coinvolti, poi in qualche caso divenuti famosi, come Alessio Boni, Fabrizio Gifuni e Luigi Lo Cascio, in cui dispiegò i capisaldi del proprio metodo. Ospitato a Taormina nell’estate del 1992 su invito dell’allievo Gabriele Lavia, Costa elaborò intuizioni folgoranti come le componenti yorichesche del protagonista, vale a dire gli influssi giocosi del fool Yorick sulla sua infanzia, o Polonio quale proiezione della vecchiaia virtuale di Amleto stesso. Inoltre spalmava le battute dei vari personaggi in più attori, con rotazioni coreutiche per ogni ruolo, e punti di vista in tal modo costantemente differenziati. Nel passaggio dei becchini, all’ultimo atto, chiedeva ai giovani interpreti di tradurre le battute nel dialetto della regione di provenienza. La passione per il testo risaliva del resto al 1946, testimoniata anche dalla sequenza fatta recitare in Vaticano nel 1964 davanti a Paolo VI.

Nel 1995 Costa si impegnò col ministero della Pubblica Istruzione per l’inserimento del teatro nella Scuola pubblica. Negli ultimi anni si trasferì in un appartamento sopra il teatro della Pergola, sede di tante sue prime, grazie a un accordo siglato nel 1996 con l’Ente teatrale italiano (ETI) cui lasciò in cambio la biblioteca e l’archivio delle sue carte teatrali, tra le quali i 49 Quaderni, ancora inediti, di continuo integrati e revisionati, appunti di regie mescolati a lezione di vita e a riflessioni pedagogiche. Tenne inoltre corsi divulgativi ed esemplificativi, come alla «Sapienza» di Roma nel 1986 e nel 1997 alla Cattolica di Milano. Nel medesimo anno, ultimo suo allestimento, diresse Abelardo Eloisa Eloim di Maricla Boggio, regista e commediografa cólta, molto legata al maestro.

Morì, a Firenze, il 14 novembre del 1999 per una grave malattia ai polmoni.

Da qualche anno soffriva per un disturbo alle corde vocali che gli rendeva tremolante la bella voce e un po’ lo umiliava. I funerali si svolsero nella chiesa di San Michele Arcangelo Visdomini, vicina alla Pergola. Venne sepolto nella tomba di famiglia ad Assisi, ov' era solito trascorrere alcune giornate di riposo, nelle rare pause del suo incessante lavoro.

Fonti e bibliografia

L’Archivio Costa è conservato presso la Fondazione Teatro di Toscana, istituita nel 2015, che ingloba il teatro della Pergola, direzione generale di Marco Giorgetti, mentre dal 2015 è ripartito il Centro di avviamento all’espressione, (ovvero la «Scuola Orazio Costa»), diretto da Pier Paolo Pacini.

Sul piano autoriale, sono da considerare la riduzione drammatica dei Promessi sposi (Roma 1939) e il volume di poesie Luna di casa (introd. di M. Luzi, Firenze 1992), nonché Poesie edite e inedite (con un saggio critico e nota ai testi di L. Bonavita, Pisa-Roma 2015).

Utili le dichiarazioni di poetica, presenti in O. Costa, La regia teatrale, in Riv. italiana del dramma, 1939, 4, pp. 12-27;  Regia di un mistero medievale, ibid., 1940, 6, pp. 341-363. Per la filiazione rivendicata con orgoglio nei confronti del maestro francese cfr. L’insegnamento di Jacques Copeau, in La regia teatrale, a cura di S. d’Amico, Roma 1947, pp. 79-98; Il PoverelloNote di regia, in Lo spettatore critico, 1954, 2, pp. 49-61. In rapporto a Pirandello, si v. pure Il teatro dei miti nell’esperienza scenica, in I miti di Pirandello, a cura di E. Lauretta, Palermo 1975, pp. 96-99 e 117-134 (dibattito conclusivo). Da non trascurare, altresì, l’intervista rilasciata in G. Antonucci, La regia teatrale in Italia (e altri scritti sulla messinscena), Roma 1978, pp. 83-90. Indispensabile, infine, la serie dei volumi curati dalla devota Maricla Boggio, che ha illustrato in varie edizioni il suo metodo, riversate anche in RAI nel 1986-87, tra cui si ricordino almeno: Il corpo creativo. La parola e il gesto in O. C., Roma 2001; Mistero e Teatro. O. C., regia e pedagogia, ibid. 2004; O. C. maestro di teatro, ibid. 2007; O. C. prova Amleto, ibid. 2008.

Più in generale si rimanda a: C. Meldolesi, Fondamenti italiani del teatro. La generazione dei registi, Firenze 1984, in partic. pp. 43-51, 145-152, 164-169 ; R. Di Giammarco, Prima del teatro. Sette scuole per sette modelli, Pisa 1985, pp. 112-117; G.G. Colli, Una pedagogia dell’attore. L’insegnamento di O. C., Roma 1989 (2ª ed. riv. e accr., ibid. 1996); M. Giammusso, La fabbrica degli attori. L'Accademia nazionale d'arte drammatica: storia di cinquant'anni, [Roma s.d., ma 1988]; M.T. Saturno, Voci dal Piccolo Teatro di Roma. O. C. dalla pedagogia alla pratica teatrale, Roma 2001 [ma 2000]; P. Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, 8ª ed., Roma-Bari 2012, pp. 35-42; L. Piazza, L’acrobata dello spirito. I quaderni inediti di O. C., Corazzano 2018.

Crediti: foto fornita da Matteo Brighenti per il Teatro della Pergola

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