ORFISMO

Enciclopedia Italiana (1935)

ORFISMO

Guido Calogero

. La setta religiosa greca degli orfici trae il suo nome dalla leggendaria personalità di Orfeo: ma difficile a determinare (v. per ciò orfeo) è fino a che punto la figura del cantore tracio stia a fondamento della tradizione orfica, e fino a che punto invece ne dipenda. Stando all'etimologia proposta dal Bechtel e accolta dal Kern, secondo cui il nome Orfeo si connette al tema di ὀρϕανός, orbus, e ammesso che Orfeo medesimo non sia che un eponimo degli orfici, questi ultimi sarebbero i "solitarî"; quando invece ci si attenesse al più antico etimo di G. Curtius, collegante 'Ορϕεύς al tema ὀρϕ- "tenebra", quale ritorna nei nomi di molte divinità e figure mitiche degl'inferi, ne risulterebbe significato da un lato il nesso della figura di Orfeo col mondo dell'Ade e dall'altro il particolare orientamento escatologico dell'orfismo.

L'orfismo ci è noto attraverso un complesso di documenti frammentarî, attribuiti dagli autori classici a Orfeo stesso e agli antichi orfici, e risalenti a una letteratura che dové possedere un duplice carattere, da un lato teologico-dogmatico e dall'altro religioso-liturgico. Da frammenti di scritti del primo gruppo abbiamo nozione delle dottrine teogoniche degli orfici: questi infatti, sull'esempio che fin dal sec. VIII a. C. aveva dato Esiodo, elaborarono nella forma di una teogonia le concezioni teologiche e cosmologiche che stavano a fondamento del loro verbo etico-religioso. Difficile è peraltro la ricostruzione di questa teogonia, perché diversi e spesso discordi sono gli aspetti in cui essa si presenta nei varî documenti superstiti, i quali testimoniano, di fatto, di distinte fasi di elaborazione, estendentisi dal VI (e forse anche dal VII) sec. a. C. fino all'età del neoplatonismo. Una di tali fasi di elaborazione è rispecchiata, p. es., dalla teogonia che mette in bocca a Orfeo, nel suo poema, Apollonio Rodio (Argonaut., I, 494 segg.); di altre è conservata notizia in Damascio, come di quella che Aristotele attribuiva a Onomacrito e di quella cosiddetta "hieronymiana": e per molti aspetti affini alla teogonia orfica appaiono quelle ascritte a Ferecide e a Epimenide. Ma la forma più antica (già secondo l'opinione di C. A. Lobeck e, ora, di O. Kern, contro quella di E. Zeller), e insieme più largamente nota, della teogonia orfica è quella designata da Damascio come "comune", che vien detta anche "rapsodica" perché contenuta nelle Rapsodie: teogonia in cui si esprime d'altronde anche quella concezione del rapporto fra l'umano e il divino, che costituisce il fondamento caratteristico della religiosità orfica.

Secondo questa teogonia le divinità originarie sono Chronos (il Tempo, da non confondere con Kronos-Saturno) e Etere. Dall'Etere e dal Caos (l'Abisso) Chronos forma l'argenteo uovo del mondo, e da questo nasce Phanes (il "Brillante") che è il primo dio generato e costituisce la prima manifestazione di Dioniso. Esso ha anche nome Eros, Metis, Erikepaios. Fonte di ogni ulteriore generazione, Phanes è ermafrodito, e tali sono gli uomini che abitano il mondo da lui creato. Figlia di Phanes è la Notte, insieme con la quale egli genera la coppia Ouranos e Gaia (Cielo e Terra). Qui la teogonia orfica si ricollega alla teogonia esiodea, narrando della generazione dei Titani figli del Cielo e della Terra, del regno di Kronos-Saturno e infine del sopravvento di Zeus. Per diventare signore dell'universo questi deve però mangiare Phanes: infatti egli assorbe in tal modo in sé tutta la divina sostanza primigenia, e può esser celebrato come principio di tutte le cose. Questa universale fecondità è da lui dimostrata nella generazione della nuova stirpe degli dei, e anzitutto in quanto egli procrea, con Persefone, il secondo Dioniso, Zagreo (Ζαγρεύς, il "Gran cacciatore", che anche per la sua connessione con Persefone appare come divinità agraria e ctonia, simbolo della rinascita naturale). Questi ha ricevuto dal padre lo scettro del mondo; ma i Titani, ribelli alla signoria di Zeus e istigati da Era, lo sorprendono mentre, fanciullo, giuoca in un campo, lo incantano con uno specchio e lo uccidono, benché egli assuma, per sfuggir loro, varie forme. I Titani dilacerano le sue membra e se ne cibano, ma il cuore è salvato da Atena che lo reca a Zeus, il quale lo inghiotte per poi generarne il terzo ed ultimo Dioniso (e qui il mito orfico si fonde anche con quello propriamente dionisiaco, per cui Dioniso è figlio di Zeus e di Semele, ma, essendo stata questa folgorata da Zeus e non avendo potuto portare a compimento la propria creatura, viene cucito nella coscia del padre per il restante periodo della gestazione: v. su ciò dioniso). Zeus abbatte allora i Titani col fulmine; e dalle loro ceneri nasce una nuova generazione di uomini, i quali recano di conseguenza in sé tanto l'elemento titanico quanto l'elemento dionisiaco, tanto la macchia del peccato originale quanto il principio della divina perfezione.

Si vede quindi come la teogonia e teologia dell'orfismo si ricolleghino direttamente al suo verbo etico-religioso. L'uomo soffre della sua eredità titanica, che gl'impedisce la compiuta identità con Dioniso Zagreo: scopo di tutta la sua ascesi religiosa dev'essere perciò l'eliminazione del dissidio originario e l'identificazione mistica con la divinità, alla quale di fatto l'iniziato viene ad assimilarsi, assumendo il nome stesso di "bacco" (βάκχος). Ma "molti sono coloro che recano il tirso, pochi i bacchi"; e cioè la liturgia esterna dell'iniziazione non basta a costituire quell'unità tra l'umano e il divino, per la quale è necessario l'intimo sforzo spirituale del miste. In ciò sembra di fatto consistere la principale differenza fra la religione dionisiaca e la religione orfica, che pur ne costituisce sotto molti aspetti la continuazione e ne riprende il rituale (tutti i motivi fondamentali dell'antico sacrificio dionisiaco - come, p. es., lo σπαραγμός e l'omofagia, lo sbranamento della vittima che viene subito divorata cruda - corrispondono del resto ai momenti dell'uccisione di Dioniso Zagreo da parte dei Titani: la cerimonia religiosa è quindi concepita come rinnovamento della passione del dio e come materiale assimilazione di esso da parte del miste). L'orfismo, cioè, accentua fortemente il carattere d'interiorità dell'esperienza religiosa: donde la grande importanza ch'esso acquista per lo sviluppo della cultura ellenica, e l'influsso che esso giunge ad esercitare sulla sua visione filosofica e religiosa del mondo. Per quanto, infatti, tale influsso sia stato talora esagerato dagl'interpreti (impossibile, per es., è dedurre dall'orfismo le concezioni propriamente logico-ontologiche di Eraclito e di Platone, come pure alcuni hanno cercato di fare), non c'è dubbio che la concezione dell'aldilà quale è presupposta dal pitagorismo ed è grandiosamente sistemata da Platone abbia nell'orfismo le sue prime origini. All'idea omerica dell'Ade come scialba copia del mondo dei vivi, dove esser principe dei morti è meno desiderabile che esser contadino sulla terra, e all'opposta convinzione pessimistica, che pur ritorna in tante massime dell'antica saggezza ellenica, secondo la quale è meglio non esser mai nati e, se nati, al più presto morire, per conquistare l'insensibilità ad ogni dolore, l'orfismo contrappone l'immagine dell'aldilà come luogo di premio e di punizione, in cui coloro che hanno raggiunto la piena purificazione fruiscono della mistica identificazione con la divinità, mentre coloro che hanno disobbedito a tale imperativo etico-religioso soffrono i più crudeli tormenti. Inferno e paradiso sono con ciò, nel mondo ellenico, creazioni essenzialmente orfiche (se ne veda, p. es., il grandioso quadro che ne dà l'orfico Pindaro nella seconda Olimpica); e specie nella feroce raffigurazione dei tormenti infernali è la nota che caratterizza l'orfismo a paragone delle altre escatologie misteriche (in quella di Eleusi, p. es., il quadro dell'aldilà sembra fosse sostanzialmente positivo, la prosecuzione della vita oltre la morte apparendo semplicemente come il premio a cui solo l'iniziato poteva aspirare).

L'orfismo è con ciò una religione soteriologica, portata da un lato a raccogliere intorno a sé gli umili e i dolenti, desiderosi di felicità oltremondana, e rispondente dall'altro all'esigenza di un'ascesi etica, di una liberazione dal male, sentito primitivamente come impurità originaria. E in quanto l'antitesi dell'elemento dionisiaco all'elemento titanico assume l'aspetto di quella dell'anima al corpo (la stessa ebbrezza della religiosità dionisiaca, in cui il βάκχος si sente identico al dio, contribuisce forse a trasformare l'antica idea dell'anima come soffio vitale nell'idea dell'anima come centro di quella stessa tumultuosa esperienza e quindi come essenzialmente dionisiaca), l'imperativo etico-religioso diventa quello della liberazione dell'anima dal corpo, sua "prigione" e "tomba". Per quanto questa concezione appartenga propriamente alla rielaborazione e sistemazione del verbo orfico operata dal pitagorismo, non c'è dubbio che essa sia sostanzialmente intrinseca all'orfismo originario: comuni, infatti, all'orfismo e al pitagorismo sono quelle prescrizioni rituali, come, p. es., la dieta vegetariana (di altre, come del divieto di mangiar fave, ci resta invece oscuro il significato), che si ricollegano all'idea della metempsicosi, onde l'anima è costretta a vivere molte esistenze in corpi umani e animali, finché, liberatasi interamente dall'impurità corporea, può sottrarsi al doloroso ciclo delle nascite e delle morti e godere della presenza della divinità. E tale è certamente il "ciclo aspro e gravemente doloroso" di cui parla una delle laminette auree tombali, che costituiscono oggi il più caratteristico documento archeologico della religiosità orfica. Queste laminette, che venivano poste dagli orfici accanto, e forse in mano, ai loro defunti, sono, come è stato detto, specie di passaporti per l'aldilà: i defunti vi esprimono alla divinità la preghiera che li accolga, talora dichiarando anche il proprio nome, e nello stesso tempo vi trovano scritte indicazioni concernenti la topografia degl'inferi, affinché vi si possano orientare. Quest'orientamento verso l'aldilà e questa svalutazione del corpo di fronte all'anima appare del resto evidente anche nel rito funerario orfico, quale risulta dai cosiddetti "timponi" (dal gr. τύμβος), e cioè dalle grandi sepolture a tumulo superstiti nell'Italia meridionale nella regione dove sorsero Sibari e Crotone, e dalle quali provengono le laminette sopra ricordate. Questi tumuli si distinguono infatti nettamente dal consueto tipo greco della tomba-casa appunto in quanto quest'ultima risponde al motivo della continuazione nell'oltretomba della stessa vita terrena e corporea, mentre in essi si esprime invece l'idea del definitivo abbandono di tale vita: il cadavere, dopo aver subito una cremazione più rituale che reale, vi è deposto in una tomba a cassa senz'altra suppellettile che la laminetta d'oro inscritta, e con la sola copertura di un lenzuolo bianco. La cremazione, che non giunge a incenerire il corpo, ha evidentemente il significato rituale dell'annientamento definitivo del corpo stesso, da cui l'anima dell'iniziato ha potuto liberarsi, per salire al livello della divinità. E quest'ascesa è sentita come identificazione piena: "te felice e beato, che di mortale sarai dio", dice un esametro di una tra le più celebri laminette, trovata in un timpone di Turî e ora conservata nel Museo nazionale di Napoli.

Bibl.: La prima ricostruzione critica moderna dell'orfismo sulla base di una silloge delle testimonianze antiche fu compiuta da Chr. A. Lobeck, Aglaophamus sive de theologiae mysticae Graecorum causis (voll. 2, Königsberg 1829), pp. 229-1104; la più recente edizione critica di esse (in cui mancano però gli Αργοναυτικά, attribuiti a Orfeo ma in realtà imitazione, probabilmente del secolo V d. C., dell'omonimo poema di Apollonio Rodio, e gl'Inni, che il Kern ritiene composti intorno al sec. I d. C.) è quella di O. Kern, Orphicorum fragmenta, Berlino 1922. Una scelta di testi orfici è data anche da H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, II, 4ª ed., Berlino 1922, pp. 163-78 e da N. Turchi, Fontes historiae mysteriorum aevi hellenistici, Roma 1930, pp. 25-39; per le laminette auree v. A. Olivieri, Lamellae aureae Orphicae, Bonn 1915. Una larga traduzione italiana dei frammenti orfici, in base all'ediz. del Kern, è data da M. Losacco in appendice all'Introduzione alla storia della filosofia greca, Bari 1919, pp. 119-188 (per gl'Inni cfr. anche la traduzione di E. Ottino, Torino 1855). In generale sull'orfismo: O. Kern, Orpheus, Berlino 1920; Die griechischen Mysterien der klassischen Zeit, Berlino 1927, p. 41 segg.; N. Turchi, Le religioni misteriosofiche del mondo antico, Roma 1923, pp. 35-53; R. Pettazzoni, I misteri, Bologna 1924, pp. 57-71. Importante per la parte archeologica è V. Macchioro, Zagreus, Firenze 1930 (raccoglie tutti i precedenti studî dell'autore sull'orfismo), non sempre persuasivo invece nell'interpretazione dei motivi orfici delle dottrine di Eraclito, di Platone, del cristianesimo. Sulla teogonia orfica v., tra gli scritti italiani: A. Olivieri, L'uovo cosmogonico degli Orfici, in Civiltà greca nell'Italia meridionale, Napoli 1931, pp. 1-32; R. Mondolfo, Nota sulle cosmogonie orfiche e sul contenuto dell'antica teogonia, nella sua traduzione italiana di E. Zeller, La filosofia dei Greci, I, i, pp. 221-235. Per la bibliografia sull'orfismo v. la citata edizione del Kern, pp. 345-350, e le note del Mondolfo, op. cit., pp. 115-16, 126, 205.

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