ORGANIZZAZIONE INDUSTRIALE

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1993)

ORGANIZZAZIONE INDUSTRIALE

Pier Luigi Piccari

(App. IV, II, p. 677)

Tradizionalmente i temi dell'o.i., nell'accezione anglosassone del termine industrial organization, si possono riferire al campo degli studi di economia industriale che s'interessano dei soggetti economici, le imprese industriali, e del loro ambiente d'azione, il settore industriale, ovvero possono riguardare i temi più operativi dell'organizzazione dell'impresa e della sua gestione aziendale.

Gli studi di economia industriale si configurano esplicitamente, dopo la grande crisi del 1929, come un campo autonomo, emergente dalle attività didattiche e di ricerca della Harvard University che, nei loro interessi di studi induttivi della struttura e del finanziamento del sistema industriale, puntarono l'attenzione ai suoi sottosistemi, i settori industriali, animati dai soggetti (le imprese) che li compongono nell'offrire i loro servizi e/o prodotti ai mercati di riferimento. Il più consolidato schema di analisi è pertanto il noto paradigma ''struttura-condotta-risultati'' secondo il quale, con logica di tipo quasi causale-deterministico, si ricercano le coerenze tra la struttura di un settore industriale e la natura del relativo mercato (perfetta competizione, concorrenza monopolistica, oligopolio e monopolio) e le condotte (comportamenti, politiche e strategie) delle imprese del settore con i loro risultati (efficienza, livello qualitativo e tecnologico, crescita dimensionale e del valore del capitale investito, ecc.).

Il modello generale elaborato, nella tradizione degli studi di economia industriale, da E.S. Mason ad Harvard negli anni Trenta e successivamente consolidato da J. Bain (1959), J.M. Clark (1961) e F.M. Scherer (1970), assume che le performances (i risultati) di specifiche industrie dipendono dalle politiche-guida delle azioni (le condotte) dei produttori-venditori e degli acquirenti in campo, esprimibili, per es., come politiche di prezzo, delle collaborazioni palesi o tacite tra aziende, di prodotto e pubblicitarie, come strategie d'investimento in ricerca e sviluppo, in impianti di produzione e/o in sistemi distributivi e come azioni legali di protezione dei propri prodotti, espresse in relazione alle strutture di mercato. La crisi ideologica della visione statica descrittiva dell'economia industriale classica segue in realtà il momento del suo massimo sviluppo teorico, quando la consapevolezza del rapporto di circolarità del rapporto tra struttura di mercato e condotta delle imprese non ha permesso oltre d'interpretare la varietà dei tipi, delle dimensioni, dei risultati delle aziende, nonché le sistematiche differenze tra tassi di redditività, come effetti di condizioni strutturali offerte come esogene.

Quanto all'altra accezione di o.i., intesa come insieme operativo-funzionale interno, rappresentativo dell'organizzazione dell'impresa industriale, si è imposto dapprima, come più rilevante, il filone di studi che l'ha analizzata come mezzo per raggiungere gli obiettivi dell'impresa stessa, nell'ambito dell'ambiente economico e sociale di riferimento considerato come esogeno al sistema stesso.

Se le organizzazioni raramente si sviluppano come fini a se stesse e se il concetto stesso di organizzazione in questo senso rispecchia l'etimo greco (organon, il cui significato è "strumento", "mezzo", ecc.), non meraviglia che il perseguimento di compiti, lo svolgimento di funzioni, la finalizzazione agli obiettivi siano termini fondamentali e oggetti dell'analisi organizzativa, nella storia degli studi che guardano all'evolversi dell'impresa industriale. D'altro canto, l'analisi dei mercati di azione dell'impresa richiede attenzione alle modalità organizzatorie (le strutture organizzative) con le quali le imprese esprimono condotte (strategie) e perseguono risultati, tenendo come vincoli al contorno le strutture del mercato, ovvero mutandole o modificandole, per virtù dell'azione strategica stessa che segna l'evoluzione di lungo termine sia dell'impresa sia dell'ambiente industriale di riferimento.

Collimano dunque, come campo generale d'interesse, ma non coincidono, le due possibili interpretazioni del termine o.i., l'una oggetto degli studi di economia industriale e l'altra, più aderente alle strutture operative, oggetto degli studi delle scienze organizzative. Il legame interpretativo possibile è quello della finalizzazione strumentale dell'organizzazione (cioè il sistema stabile di relazioni e regole che aggrega individui, in quanto insieme organizzativo che vive relazioni e opera transazioni con l'ambiente esterno), vista come modo dell'impresa per raggiungere i possibili obiettivi di efficienza ed efficacia nel suo contesto di riferimento, il settore industriale e l'ambiente storico di appartenenza, spiegando e giustificando le modalità dell'azione decisionale che tendono al successo dei comportamenti nella dinamica evolutiva dell'impresa stessa. Quando si voglia, dunque, inquadrare il problema dell'organizzazione dell'entità (l'impresa industriale) nell'ambito dell'organizzazione del suo ambiente (il sistema industriale in cui agisce), coniugando logicamente le due accezioni di o.i., si prospetta una lettura funzionale, su livelli progressivamente sempre più ampi, dell'organizzazione come: a) strumento, di efficienza ed efficacia, dell'azione; b) scelta di regolazione del mercato; c) rapporto d'interdipendenza con l'ambiente.

Strumento dell'azione. − La storia degli studi dell'organizzazione interna dell'impresa industriale si è espressa dapprima in un complesso di contributi d'esperienza e di teoria che hanno approfondito, nell'Ottocento e nel Novecento, le conoscenze del sistema azienda industriale con il succedersi, a volte parallelo, di filoni interpretativi che si è soliti denominare teoria classica dell'organizzazione scientifica del lavoro, dei rapporti umani, del processo decisionale e informativo e della contingenza (Fabris 1980). Pur rispettando la necessità storica di distinguere tra le diverse scuole e le specificità dei diversi contributi disciplinari, si può qui sinteticamente interpretare l'evolversi delle scienze organizzative in riferimento ad almeno tre fondamentali modelli. L'organizzazione, vista dapprima come un sistema meccanicistico, formale e razionale strumento di efficienza, a fronte di una successiva alternativa concezione di sistema organicistico, insieme di componenti sociologiche e psicologiche orientato ai risultati desiderati, si compone poi storicamente in una visione di modello sistemico adattivo, alle condizioni e necessità dell'ambiente esterno, secondo evolutive capacità di regolazione e di espressione d'indirizzo strategico interno.

La storia degli studi dell'o.i. fonda le prime elaborazioni della cosiddetta teoria classica sullo spunto dell'elogio della divisione del lavoro espresso da A. Smith (1776) e si sviluppa successivamente con i contributi della "teoria scientifica dell'organizzazione", o scientific management. L'emblematica espressione di tale filosofia è rappresentata dal lavoro operativo e dagli scritti di F. Taylor (1911) che costituisce, con i suoi "principi di organizzazione scientifica del lavoro", il punto di riferimento storico per l'analisi e la progettazione del lavoro di produzione, della quantità e qualità della forza lavoro necessaria e del suo addestramento, nonché del controllo delle procedure operative predeterminate e dei risultati operativi attesi. Il suo ''sistema d'officina'', metodologia sistematica per l'incremento dell'efficienza del lavoro, si estendeva all'intero processo produttivo alla ricerca delle procedure più efficienti basate sul dettaglio della misurazione delle operazioni elementari necessarie, da tradursi in semplici mansioni specializzate controllabili, e assegnate a individui addestrati a espletarle in maniera precisa e ripetitiva, e pagati con coerenti sistemi di incentivi. Analoga attenzione ai problemi organizzativi dell'azienda nel suo complesso, dedicano, parallelamente all'evolversi del modello organizzativo della produzione di massa, autori come H. Emerson (1911), H. Fayol (1911), J.D. Mooney (1937), L. Urwick (1938 e 1945) e L. Gulik e Urwick (1937), M. Weber (1947) che consolidano i principi base della teoria classica dell'organizzazione. Il punto più alto della sistemazione teorica è raggiunto da Weber che evidenzia le coerenze tra meccanizzazione industriale e organizzazione burocratica intesa come forma organizzativa precisa, affidabile ed efficiente proprio per il rigido sistema di divisione dei compiti, di regole e comportamenti coordinati da un sistema di supervisione gerarchica.

In reazione all'assenza di considerazione dell'individuo nella teoria classica, quella delle human relations nega, successivamente, la validità assoluta del principio della divisione formale del lavoro nell'organizzazione e sostiene che quantità e qualità delle prestazioni dipendono fondamentalmente dalle componenti psicologiche e sociali delle persone, più che da quelle tecniche, e dai loro comportamenti. Particolare importanza viene attribuita ai bisogni, alle motivazioni, alle sensazioni, agli atteggiamenti e ai valori individuali, nonché alla leadership, al comportamento di gruppo informale, alla comunicazione, ecc. Si tratta di un approccio, radicato negli studi ormai classici di Hawthorne, F. Mayo (1933) e F.J. Roethlisberger e W.J. Dickson (1939), al quale si possono riferire innumerevoli altri contributi con le critiche più importanti della teoria classica rappresentate da R.K. Merton (1957), A.W. Gouldner (1954) e F. Selznick (1957), ma che ai fini della progettazione organizzativa della struttura aziendale si esprime più compiutamente nell'opera di R. Likert (1961 e 1967). Nella concezione organicistica che ne emerge, le organizzazioni sono qualcosa di più che freddi e razionali strumenti per raggiungere obiettivi economici ben definiti: sono gruppi sociali che tentano di adattarsi e sopravvivere, in circostanze date, con modelli d'interazione umana non necessariamente rappresentati dall'organizzazione strutturale formale. L'influenza della concezione organicistica, volta alla considerazione degli individui nell'organizzazione e dei loro bisogni, risalta particolarmente dalle ricerche e nelle opere di A.H. Maslow (1943 e 1954), C. Argyris (1957 e 1962), A.K. Rise (1958), F.B. Herzberg (1959), D. McGregor (1960), R. Blake e J.S. Mouton (1964), che si sviluppano nell'insieme più variegato dei contributi sociopsicologici, sino alla visione della scuola ''dei sistemi sociotecnici'' negli studi del Tavistock Institute.

Contributi evolutivi della concezione organicistica sono avanzati nelle teorie del processo decisionale (H.A. Simon 1948, J. March e H.A. Simon 1958, M. Cyert e J.G. March 1963), secondo le quali le motivazioni e il comportamento individuale dovrebbero essere riguardati all'interno del quadro decisionale e informativo specifico, fornito dall'organizzazione nel possibile perseguimento razionale degli obiettivi posti. Da questo punto di vista la struttura aziendale è considerata composta da una serie di unità decisionali, enti o individui, che fanno parte di una rete di comunicazione, mettendo l'accento sul processo decisionale vero e proprio, sulle procedure formali e informali per la soluzione dei conflitti, sul coordinamento delle unità e sul flusso dei dati informativi. L'organizzazione stessa è rappresentata come struttura che elabora informazioni per prendere decisioni e che assume la veste di un sistema cognitivo, capace quindi non solo di agire ma anche di pensare e apprendere collettivamente.

La teoria della contingenza rappresenta, a questo punto, una possibile conciliazione tra le posizioni estreme della scuola classica e quelle della scuola dei rapporti umani, proponendo una visione che integra questi opposti punti di vista. Di fronte a un ambiente esterno incerto, le aziende ricercano strategie volte all'eliminazione dell'incertezza, con l'elaborazione di modelli contingenti di azione e reazione per far fronte alle varietà e variabilità delle situazioni, affrontando l'ambiente in modo negoziale e induttivo ed esercitandovi un certo grado di controllo. Il parallelo concetto dell'organizzazione come ''sistema aperto'' di S. Beer (1959 e 1972), D. Katz e R.L. Kahn (1966), E. Kast e J.E. Rosenzweig (1973), elaborato rifacendosi ai principi e alla ''teoria dei sistemi aperti'', formulata nel 1950 dal biologo L. Von Bertalanffy (1968), con il progressivo diffondersi dell'approccio sistemico in psicologia e negli studi sociali in genere, è evoluto negli anni Settanta concentrando la propria attenzione sui problemi dell'equilibrio e della omeostasi dell'organizzazione in rapporto all'ambiente. La subordinazione logica della struttura aziendale all'ambiente diventa allora la base ideologica dell'approccio della contingenza nella progettazione organizzativa. La migliore progettazione dell'organizzazione deve tener conto dell'ambiente esterno in cui opera l'azienda sia nel disegno della struttura sia nei modi della gestione: esistono infatti situazioni in cui una struttura gerarchica e formale si rivelerà più adatta, mentre in altre sarà meglio ricorrere a una soluzione più partecipativa. Si definisce così progressivamente una scuola della progettazione organizzativa poco dogmatica, ma proiettata a cogliere i paradigmi delle condizioni di equilibrio del rapporto interno-esterno dell'organizzazione, senza dimenticare le variabilità specifiche della componente umana. Gli studi di P.R. Lawrence e J.W. Lorsch (1967) consolidano lo spirito della teoria della contingenza nella strumentazione analitica dei concetti di differenziazione e integrazione, nozioni che forniscono una base ormai universalmente accettata per l'analisi del problema organizzativo e per la progettazione della struttura aziendale. L'applicazione ordinata delle nozioni di segmentazione, differenziazione e integrazione costituisce lo strumento dinamico a sostegno della strategia di un'azienda che si sviluppi con un quadro strutturale armonico, mentre la mancata realizzazione di una struttura appropriata avrà conseguenze negative sull'elaborazione e sull'implementazione della strategia aziendale.

Tra i criteri di segmentazione, si ricordano come i più diffusi la dimensione numerica e temporale del controllo, la specializzazione funzionale, l'area geografica, la finalizzazione al prodotto o al cliente, ecc.

La struttura gerarchico funzionale, modello base di configurazione organizzativa, si differenzia al suo interno principalmente per specializzazioni funzionali, ricercando efficienza sulla base della competenza tecnica rispetto alle risorse da trattare e alle attività da svolgere. La struttura divisionale, in relazione al grado di diversificazione dei prodotti, sposta l'attenzione dalle funzioni ai prodotti, assegnando responsabilità di profitto alle divisioni di prodotto e centralizzando soltanto le funzioni che gestiscono risorse comuni, mentre la struttura per aree sposta, quando la variabile critica sia la diversificazione geografica, le responsabilità di profitto sulle aggregazioni territoriali.

Le esigenze create dalla crescente complessità dell'ambiente e della differenziazione e segmentazione organizzativa che ne derivano, richiedono sempre più elevati impegni di coordinamento, ottenuti tramite rapporti per l'integrazione laterale, così elencati da J.R. Galbraith (1977) in ordine crescente di complessità: a) contatti diretti informali tra responsabili di funzioni diverse; b) ruoli di collegamento tra gruppi, quando gli interessi di un'unità rendano auspicabile una partecipazione non estemporanea all'attività di un'altra unità; c) task force, gruppo composto da persone di unità diverse con il compito di realizzare obiettivi specifici in un lasso di tempo determinato; d) gruppi permanenti di coordinamento, la cui forma più comune è il comitato; e) capo progetto, responsabile incaricato temporaneamente del coordinamento, quando le attività attraversano orizzontalmente delle unità funzionali o divisionali dell'azienda, per garantire la buona esecuzione della commessa o del progetto in questione; f) responsabile permanente di coordinamento, quando un progetto o un prodotto necessita un'attenzione costante di coordinamento nel controllo parziale, o totale, esercitato sul budget del progetto, o del prodotto, per più cicli di programmazione; g) struttura formale a matrice, forma estrema di coordinamento con una pluralità di ruoli di responsabilità formali e caratteristici del sistema matriciale.

È ormai perfezionata, nella teoria della contingenza, la convinzione che per la progettazione dell'organizzazione non esista un modello ottimo in senso assoluto, ma soltanto una gamma di principi da seguire, e che ciascuna organizzazione debba elaborare uno suo specifico progetto in linea con le proprie caratteristiche interne e con gli obiettivi e i rapporti che ha stabilito con l'ambiente esterno (H.I. Ansoff e R.G. Brandeburg 1971). H. Mintzberg (1979) sottolinea l'utilità della congruenza tra il complesso dei parametri di progettazione e i fattori situazionali contingenti, evocando naturalmente la necessità della coerenza interna tra le variabili organizzative (microstruttura, posizioni individuali, collegamenti laterali, sistema decisionale, deleghe e decentramento) e della coerenza esterna, relativa alle condizioni dell'azienda (stabilità, complessità, diversità e variabilità dei mercati, grado di controllo esterno e interno, tecnologia prevalente, età e dimensione dell'azienda e maturità del settore d'appartenenza). Lo stesso Mintzberg suggerisce per la progettazione organizzativa cinque ideali tipologie, o configurazioni sistemiche: la macchina burocratica, il modello decisionale, la burocrazia professionale, la struttura semplice, l'''adhocrazia''. Ciò nella convinzione che un'organizzazione efficace dipenda dalla possibilità di sviluppare un insieme coerente di relazioni tra struttura, età, dimensione e tecnologia dell'azienda, qualità umane e professionali necessarie alle condizioni di potere e ambientali del settore di attività.

Il progetto organizzativo non comporta semplicemente la struttura gerarchica di autorità e responsabilità, ma comprende l'insieme dei meccanismi operativi e dei processi gestionali che contribuiscono alla realizzazione delle strategie e delle operazioni intraprese dall'organizzazione. Per struttura s'intende l'insieme delle variabili che attengono alla ripartizione dell'autorità e della responsabilità, quali gli organigrammi, le procedure, i mansionari, le normative interne, ecc., che rappresentano l'intelaiatura formale aziendale. Per meccanismi operativi s'intendono invece gli strumenti di attivazione gestionale che rendono operativa la struttura, quali il sistema informativo di programmazione, di controllo, di valutazione, ecc. Per processi organizzativi s'intendono le dinamiche organizzative, cioè la rete complessa di scambi e relazioni che rendono operante la struttura, secondo i meccanismi operativi e sulla base dei rapporti di gruppo e individuali, e che si riferiscono, pertanto, ai profili sociopsicologici delle persone e ai comportamenti organizzativi relativi alla leadership, alla comunicazione, alla motivazione, alla decisione, alla gestione del potere, ecc. Il progetto organizzativo si delinea nel caso concreto, dalla coerenza tra le predette variabili dell'organizzazione e i risultati attesi, misurando il suo successo sui risultati ottenuti.

Se si ammette che non esista una risposta univoca al problema della progettazione organizzativa e che non esistano ricette ottimali, il problema della ricerca dell'organizzazione efficiente si sviluppa nel tempo, tra casi e consolidazioni di studi sperimentali, alla scoperta delle variabili d'influenza sulle quali deliberare le specifiche fondamentali che servano da supporto alla progettazione dell'organizzazione. Fondamentale la testimonianza storica di A. Chandler che, in Strategy and structure (1962), evidenzia come l'organizzazione delle imprese industriali statunitensi si sia sviluppata secondo una sequenza di fasi successivamente segnate da: espansione dei volumi produttivi; accumulo di risorse; espansione in nuove linee di prodotti e mercati per assicurare nel tempo un pieno uso delle risorse; razionalizzazione dell'uso delle risorse e sviluppo di una nuova struttura. Chandler considera, infatti, la tipologia delle strutture organizzative nella loro dinamica storica, traendone fondamentali relazioni tra il manifestarsi di nuovi modelli strutturali, i mutamenti dei mercati e delle tecnologie, e l'esplicitazione di nuove strategie delle imprese industriali. Da queste relazioni si giustificano le direttrici evolutive secondo le quali si compirebbe la transizione da un'organizzazione semplice a una funzionale multilocalizzata, e da questa a una divisionale e poi a una multisettoriale.

Galbraith e D.A. Nathanson (1978) hanno proposto un più ampio modello evolutivo secondo il quale le aziende possono comunque aggiungere fonti di differenziazione, come nuove funzioni, nuovi mercati collegati, nuove linee di prodotto non collegate tra loro, per poi evolvere in nuove e coerenti forme organizzative. Non esisterebbe quindi un unico cammino prestabilito che le aziende debbano seguire per raggiungere una determinata struttura, ma la strada indicata da Chandler (le linee rosse nella fig. 1) sarebbe soltanto un percorso dominante, ma non l'unico, seguito dalle aziende statunitensi.

Tale interpretazione storicistica dell'evoluzione dell'o.i. vede comunque il passaggio dalla semplice unitaria azienda familiare alla gigantesca poliforme impresa multinazionale/multibusiness, attraverso una relazione continua tra economia e organizzazione (il rapporto tra strategia e struttura) che ha come protagonista il management che idea la strategia e la rende positivamente operante nel suo mercato attraverso la sua implementazione organizzativa.

Organizzazione dell'azienda e regolazione del mercato. − Quando si guardi al rapporto tra organizzazione dell'azienda e organizzazione del mercato, si pone in crisi l'idea del mercato, ideale regolatore dello scambio nel modello di libera concorrenza, perché in realtà agirebbe quella che Chandler stesso (1981) chiama la "mano visibile", la mano, cioè, dell'organizzazione dell'impresa, che esprime, tra le alternative di regolazione possibili, il proprio modo di regolare il mercato come frutto della propria scelta strategica, costruendo l'organizzazione a ciò funzionale. La "mano visibile" sostituirebbe in realtà la "mano invisibile", evocata da A. Smith, regolatrice del mercato attraverso il puro scambio, tra domanda e offerta, puntualmente regolato dal prezzo.

La grande impresa infatti assume in proprio la funzione del mercato, cioè del coordinamento del flusso di beni e di ripartizione delle risorse umane e finanziarie, in base alla propria capacità di disegnare la propria strategia. Le strategie delle imprese nel settore e le conseguenti strutture del settore giustificano le dimensioni organizzative delle aziende che vi operano e quindi i modelli organizzativi che vi vengono adottati. Un modello organizzativo aziendale tipico di un settore è determinato storicamente dal grado d'integrazione verticale, dai vincoli di economia dei trasporti (che naturalmente esprimono un ambito geografico nel quale l'azienda effettua il suo ruolo di trasformatore di materie e risorse), dal volume di domanda potenziale, dalle dimensioni produttive (le economie di scala) concesse dalla tecnologia, nonché dalla dimensione della quota di mercato assunta, dal grado di diversificazione dei prodotti.

Le condizioni storiche che, da queste variabili, identificano le dimensioni d'impresa ottimali sono frutto di spinte economiche identificabili come economie di scala, di scopo e di transazione.

Le economie di scala, dovute all'esistenza del fenomeno dei costi marginali decrescenti al crescere dei volumi di produzione, permettono di raggiungere dimensioni ottimali derivanti proprio per scala dalla scelta tecnologica del bilanciamento del rapporto tra costi fissi e variabili. Esistono peraltro altre tensioni economiche, cosiddette "di scopo", o "di campo" come vengono più di recente denominate, dovute alla progressiva estensione dell'attività primaria verso altre attività produttive dapprima correlate, ovvero poi sempre più diversificate da quella originaria. Questo progressivo allargamento dello spettro di attività è effetto della spinta allo sfruttamento delle risorse indivisibili a disposizione dell'impresa, per combinare in nuovi modi possibili i surplus di management e di flussi finanziari, ovvero quelli dati dall'eccedenza e flessibilità della capacità produttiva. La terza spinta, che giustifica insieme alle altre l'assetto organizzativo e dimensionale di un'azienda, è quella delle "economie di transazione", come definite dall'analisi transazionale che, nella ricerca di nuovi profili di analisi economica, ha ritrovato elementi di profondo interesse, come entità di studio, nella natura e nella modalità dello scambio tra soggetti, prima che nei soggetti stessi. Le economie di transazione sarebbero dovute ai costi che si hanno per lo scambio, nel trasferimento e nel processo negoziale, di una risorsa tra soggetti distinti sul mercato esterno.

O.E. Williamson (1975) ha identificato, in particolare proprio nei costi transazionali, le determinanti delle scelte organizzative dell'impresa e dei mercati. In realtà si abbandona l'idea che il teorico mercato sia l'unica e ideale condizione dello scambio, perché non sempre è regolabile, in regime di mercato, dalla definizione di un prezzo puntuale per il trasferimento delle risorse, giorno per giorno, tra soggetti distinti di egual forza e potere, come nel modello dell'impresa concorrenziale dell'economia neoclassica. Tanto più lo scambio avviene in un regime di opportunismo tra le parti (nel senso d'inaffidabilità egoistica dei protagonisti dello scambio); tanto più è debole la razionalità, per limitazione delle informazioni a disposizione nel regolare lo scambio; tanto più è incerta la conseguenza dello scambio (cioè non ben misurabile nelle conseguenze finali); tanto più è grande la dimensione dell'investimento necessario per effettuare lo scambio tra due soggetti; tanto più è frequente lo scambio tra soggetti, tanto più si sostituisce allo scambio di mercato, libero e regolato da un prezzo, la ''gerarchia'', ovvero il potere regolatorio dell'organizzazione.

Pertanto le predette condizioni di complessità e incertezza dello scambio, determinando crisi del mercato, spingono a modificare i confini dell'organizzazione che si allarga internalizzando le attività, o si restringe esternalizzandole, per costituire l'ambito all'interno del quale si realizza

il ''non mercato'' e si sostituisce al mercato la gerarchia. La forza storica che spinge a internalizzare all'interno delle imprese, a farle cioè organizzativamente grandi e a sostituirsi al mercato, impostando condizioni gerarchiche di non mercato, è data dai rapporti di convenienza tra quanto costa la struttura organizzativa (la gerarchia) a fronte di quella del mercato.

Per ciascuna realtà si propongono molte alternative forme di governo dello scambio che corrispondono con più efficienza all'ampia gamma delle possibili categorie di transazioni: il mercato, il clan, il quasi mercato (Barney-Ouchi 1984), la quasi organizzazione (Eccles 1981) e, infine, la gerarchia, ovvero l'organizzazione interna nelle sue varie configurazioni: elementare, funzionale/forma U, multidivisionale/forma M, holding/forma H (Williamson 1975; Nacamulli 1985).

I confini dell'impresa si fanno indeterminati, e assicurano sempre più rilevanza analitica e interpretativa le categorie concettuali delle ''quasi imprese'' e dei ''quasi mercati''. Le spinte economiche (scala, campo, transazione) e le relative opportunità sarebbero combinate in una progressiva ricerca di migliori condizioni di potere competitivo: l'azienda non modifica organizzativamente se stessa senza senso, ma ricerca sempre una condizione di forza-potere competitivo, vitale e controllabile, per programmare e controllare i propri investimenti e la relativa redditività, senza dover subire condizioni prevalenti, dettate da altri, soggetti o vincoli strutturali dell'ambiente esterno.

Rapporti con l'ambiente esterno. − Se il concetto di organizzazione si estende al rapporto di interdipendenza con l'ambiente competitivo (quale strumento di attuazione della strategia) si assume una visione più integrata, fondata tanto sulle azioni quanto sulle condizioni ambientali di sopravvivenza dell'impresa stessa. Le relazioni organizzative interne non possono essere infatti comprese nella loro genesi e nelle loro modalità di funzionamento, se non si fa riferimento alla logica funzionale che lega l'impresa al suo contesto esterno, in quanto una chiave di lettura della varietà delle forme d'impresa discende proprio dalla gamma delle relazioni che l'impresa può stabilire e mantenere col suo ambiente. L'ambiente dell'impresa, inoltre, non si limita alle sole relazioni competitive: l'impresa agisce in simbiosi, o in conflitto, con l'ambiente socio-culturale. Tale ambiente esprime innanzitutto l'insieme di valori, cultura e tradizioni, che definisce la sua identità, nonché la società intesa nel senso più ampio, come insieme di consumatori e fornitori nonché di soggetti organizzati (sindacati, movimenti politici, ecc.), con cui l'impresa interagisce nell'azione economica, e istituzioni che governano la sua azione (stato, enti locali, amministrazione pubblica ai vari livelli del sistema politico).

L'ambiente si caratterizza non solo come sistema di relazioni competitive che si stabilisce con le imprese dello stesso settore, ma anche come specificità culturale dell'impresa, che viene a condividere valori e comportamenti del suo contesto ambientale. Il rapporto con l'ambiente e lo scambio tra impresa e contesto finiscono così per essere determinanti nel definire anche le logiche del potere e dell'organizzazione interne all'impresa, e dunque la sua specificità organizzativa. L'impresa, in quanto operatore concorrenziale, sviluppa le sue strutture e le sue strategie ponendole in relazione con le strutture e le strategie delle imprese concorrenti, perché, dal confronto nell'ambiente competitivo, la strategia dell'impresa genera il suo successo e il suo valore economico. Tale confronto è anche arricchito e intrecciato di relazioni di cooperazione orizzontale, tra imprese concorrenti che operano sugli stessi mercati, o di cooperazione verticale, tra imprese che a vario titolo si trovano ad avere interessi paralleli e convergenti nella filiera tecnologica d'appartenenza. Con filiera tecnologica-produttiva s'intende l'insieme delle trasformazioni che devono essere effettuate in cascata, anche in settori collaterali, per passare da un certo insieme di materiali a un prodotto finito.

L'apporto a una specifica filiera è dato dalla scelta strategica dell'impresa di svolgere un numero, più o meno elevato, di operazioni che corrispondono allo sforzo di creazione di valore aggiunto, offerto al sistema economico e misurato dalla differenza tra il valore di ciò che vende e ciò che acquista nell'ambiente competitivo, dal quale trarre la remunerazione dei fattori impiegati. Il concetto di ambiente competitivo fa qui riferimento a una nozione diversa dalla struttura di mercato, data e misurabile con i parametri dell'economia industriale classica, in quanto espressamente legata a fattori storicamente definibili dal momento e dalla specificità della singola tipologia d'impresa. L'ambiente competitivo, nella teoria tradizionale, è rappresentato, ovviamente, come insieme di mercato e di operatori con cui l'impresa ha un rapporto di scambio in condizioni di reciproca estraneità tra ciò che è interno all'impresa e ciò che è nel mercato-ambiente.

Questa visione è semplificatrice della realtà, perché l'ambiente ha con l'impresa una dialettica più complessa in quanto non è dato esogeno e oggettivo che l'impresa subisca in modo passivo. L'ambiente competitivo è al contrario, più realisticamente, prodotto dell'azione dell'impresa stessa, la strategia dell'impresa, che, con grande discrezionalità, definisce l'ambiente competitivo e sceglie le sue relazioni di concorrenza-cooperazione con le altre imprese. Se l'impresa definisce una propria strategia, delimita perciò un ambiente che comprende sia l'insieme delle relazioni cooperative, che si stabiliscono per accordi joint ventures tra imprese diverse, sia l'insieme delle relazioni di concorrenza, che contrappongono ciascuna impresa stessa con tutte le concorrenti in grado di offrire analoghe prestazioni economiche.

La letteratura economico-industriale e manageriale ha trattato diffusamente negli ultimi trent'anni il tema delle strategie aziendali, perché lo sviluppo delle teorie corre parallelo con relazioni di reciproca influenza al manifestarsi dei problemi concreti delle scelte aziendali. Sin dalla fondazione dei concetti di strategia (Chandler 1962; Ansoff 1965; Anthony 1965) e dallo sviluppo degli studi di business policy (Learned e Christensen 1964), il tema della strategia ha prodotto una massa di studi e ricerche, tra il deduttivo e l'induttivo, di complessa articolazione e sistematizzazione (Eminente 1981).

Si spazia dalle logiche dei processi formali di pianificazione e dei loro livelli strategici (corporate, business, funzione: Steiner 1969; Ackoff 1970; Lorange 1980 e 1982; Vancil 1977; Hofer e Schendel 1978), alle tipologie d'azione strategica (Glueck 1980; Rispoli 1980), alle strumentazioni operative di diagnosi (BCG 1968 e 1972; Henderson 1972; Abell e Hammond 1979; Hax e Majluf 1984), alla logica delle decisioni strategiche (Ansoff 1965, 1979 e 1984; Rheyman 1973; Norman 1977), alla relazione d'implementazione con l'organizzazione (Bower 1962; Scott 1971; Uyterhoeven 1973; Coda 1973; Galbraith e Nathanson 1978; Galbraith e Kazanjian 1986), alle positive integrazioni tra schemi di analisi economica e organizzativa (Porter 1980 e 1985; Mintzberg, Quinn e James 1988). Al fine di elaborare vitali strategie di business si suggerisce di segmentare organizzativamente l'azienda, secondo distinti ''business naturali'' sulla base di riferimenti esterni tratti dal mercato, piuttosto che su criteri interni quali il condividere omogenee competenze professionali o risorse strumentali, o la comunanza degli impianti produttivi o dei canali distributivi.

H.I. Ansoff (1965) individua l'argomento del disegno strategico, allineamento della missione aziendale rispetto all'ambiente, proprio con la definizione del business, tradizionalmente concepito secondo le due convenzionali dimensioni del prodotto/mercato ed espresso dalla nota matrice di sviluppo: a) dei mercati attuali per i prodotti esistenti (penetrazione); b) di nuovi prodotti (innovazione); c) di nuovi mercati (espansione); d) di nuovi mercati per nuovi prodotti (diversificazione). I. Levit (1975) osserva che le aziende dispongono di determinate tecnologie per le quali cercano mercati di sbocco e nei quali tentano di individuare prodotti e servizi atti a soddisfare le esigenze dei clienti.

Sin dai primi anni Settanta, alcune esperienze (per es., McKinsey della General Electric) promuovono nuove strumentazioni per la pianificazione che sono fondate sul concetto di segmentazione per business e portano l'attenzione sul tema della definizione del business. In questa logica si pone il contributo di D.F. Abell (1980) che si dedica in modo penetrante al problema della definizione dei business, basata su attente e aggiornate definizioni di unità minime di aggregazione, secondo tre differenziabili dimensioni (funzioni d'uso, tecnologie, gruppi di clienti), e alla rilevanza strategica dell'ampiezza (scope) e della differenziazione dell'attività compresa nel business, diffusamente riconosciuta in letteratura: C.W. Hofer e D. Schendel (1978), Ansoff (1984) e Porter (1985), A.C. Hax e N.S. Majluf (1984).

Si definisce così la SBU (Strategic Business Unit), come un centro organizzativo di naturale valenza strategica che si confronti con una specifica ASA (Area Strategica d'Affari), alla quale offre prodotti e/o servizi, determinando obiettivi e strategie indipendenti da altre SBU interne e confrontandosi con uno specifico ambiente concorrenziale. M.E. Porter (1980) propone, per descrivere non astrattamente quale sia il sistema di concorrenza di un settore d'attività di un'impresa e il relativo grado di concorrenzialità, una rappresentazione dell'ambiente competitivo che identifica la pluralità di imprese che possono essere competitors in una data filiera.

L'ambito concorrenziale in senso più ampio comprenderebbe (fig. 2):

a) i concorrenti attuali, ossia le imprese che offrono nello stesso mercato lo stesso prodotto/servizio, con gradi di differenziazione e di rivalità che dipendono dalle strategie di mercato di ciascuna di esse;

b) i concorrenti potenziali, che pur non operando attualmente nel segmento di mercato dell'impresa, possano facilmente accedervi;

c) i fornitori e i clienti in quanto concorrenti per strategie d'integrazione verticale, a valle o a monte, delle attuali attività;

d) i produttori di prodotti/servizi sostitutivi che, se non hanno alcuna relazione diretta con l'impresa, possono averla con i suoi consumatori finali.

In questo ambito la struttura del sistema concorrenziale emerge dalla classificazione dei comportamenti strategici che permette d'individuare ''raggruppamenti strategici'', distinguibili per omogeneità di comportamenti a proposito di specializzazione, scelta dei canali, qualità del prodotto, integrazione, costi e politica dei prezzi, strutture di leva operativa e finanziaria, sistema di relazioni, ecc. (Porter 1980).

Se si guarda agli aspetti evolutivi e morfogenetici si può descrivere come l'impresa produca il proprio ambiente e come l'ambiente esprima a sua volta le sue imprese, in una genesi storica che rende via via simbiotiche le realtà organizzative interne della singola impresa con le realtà esterne dell'ambiente e le prestazioni-transazioni che sostanziano la consonanza sistemica tra impresa e specifico ambiente (Di Bernardo-Rullani 1985).

Alcuni, più importanti tra gli altri, possono essere indicati come fattori d'evoluzione nel sistema competitivo dell'impresa: i progressi della tecnologia e le modifiche della struttura della filiera tecnologica, l'ambito geografico d'espressione del sistema concorrenziale, il ciclo di vita del prodotto e dell'area strategica d'affari e non ultimo il ciclo di vita della business idea dell'impresa. Normann (1979) nel concetto di business idea identifica la "formula imprenditoriale" capace di generare, per un'impresa, un vantaggio nel suo ambiente competitivo. La selezione delle business ideas esprime nel tempo il processo con cui le imprese realizzano, attraverso l'acquisizione di vantaggi competitivi specifici, la scelta di una posizione differenziata tra le nicchie dello specifico ambiente competitivo impostando una loro specifica posizione (Coda 1984). È fondamentale quindi la continua ricerca della coerenza fra strategie, strutture, meccanismi e processi dell'organizzazione per raggiungere gli obiettivi e gli equilibri prefissati, come testimoniato da diversi modelli descrittivi delle logiche, dalla interrelazione tra variabili dell'organizzazione: compito (task), tecnologia, struttura, persone (Leavitt 1964); compito, struttura, processi informativi e decisionali, persone, sistema premiante (Galbraith 1977); strategia, struttura, risorse umane, cultura, sistemi manageriali (Stonich 1982); strategia, struttura, sistemi, stile direzionale, staff, skills e valori condivisi (Pascale e Athos 1981).

Il problema della coerenza tra struttura, strategia e azione organizzativa, nel sistema di relazioni tra impresa e ambiente competitivo, può essere approfondito nell'analisi della catena del valore di Porter (1985) che è uno schema utile per descrivere l'intreccio di relazioni competitive e cooperative che si addensano intorno a un'impresa.

Ciascuna impresa stabilisce specifici legami tra le unità organizzative che servono a comporre i diversi cicli produttivi, dando luogo a: a) una catena esterna del valore, che comprende le imprese fornitrici, i canali e i clienti dei vari prodotti/servizi che servono alla produzione e per la vendita del prodotto finito; b) una catena interna del valore, che comprende l'insieme delle unità organizzative di cui l'impresa ha il controllo diretto (fig. 3).

L'impresa migliora le sue prestazioni competitive, ossia produce valore sia selezionando una propria composizione della catena, sia stabilendo forme efficaci di coordinamento tra le unità e, infine, finalizzando le singole unità interne alla riduzione del costo o alla diversificazione qualitativa del prodotto/servizio offerto all'utente. Al fine di valutarne l'influenza sul valore creato, le attività organizzative dell'impresa si possono distinguere in attività primarie (logistica in entrata, produzione, marketing e vendite, servizi), che identificano il flusso dei materiali nella trasformazione, e attività di supporto (servizi generali, gestione delle risorse umane, sviluppo tecnologico, approvvigionamenti), che identificano invece i compiti di acquisire, o sviluppare, le risorse cui fa ricorso l'impresa (il lavoro, la tecnologia, le materie prime, i semilavorati, ecc.), nonché le tecnologie per la loro gestione.

La generazione del valore economico non è fenomeno che possa determinarsi in un anello isolato della catena, ma richiede il coordinamento e il concorso di tutte le unità interne ed esterne a essa, le quali producono un vantaggio competitivo in forza della loro complementarietà. Un tale ambiente competitivo dell'impresa appare estremamente complesso; esso è infatti formato da numerosi operatori autonomi e interdipendenti che si situano lungo una catena del valore, dando luogo a un tessuto di relazioni molto differenti, che spaziano dalla cooperazione alla concorrenza, in competizioni impostate contrapponendo non soltanto imprese isolate, bensì catene del valore alternative.

La complessa razionalità degli attori che sviluppano strategie non è quasi mai riassumibile in modelli semplici, astratti e universali, quali quelli delle cosiddette ''strutture di mercato'' (concorrenza perfetta, monopolio, concorrenza monopolistica, oligopolio, ecc.), riconducibili ad alcuni parametri strutturali che vi si possano osservare (barriere, segmentazione della domanda) o misurare (la concentrazione, il grado di diversificazione, ecc.). Questi modelli non bastano infatti a spiegare la ''diversità'' di un'impresa dalle altre in quella attività che è cruciale per la produzione di valore, e cioè nell'azione strategica per la generazione, conservazione e sviluppo del vantaggio competitivo.

L'ambiente competitivo può essere visto come un'architettura complessa di delimitazioni e di relazioni, articolate lungo la catena del valore ed estese a tutto l'ambito concorrenziale (concorrenti attuali e potenziali) nella filiera tecnologica più rilevante, che l'impresa definisce e affronta con la sua specifica organizzazione (posizione della catena, qualità organizzativa delle unità, relazioni cooperative e competitive con l'esterno) affinata nel tempo, sino ad arrivare a una specializzazione tipica per la quale la singola impresa è positivamente consonante con uno specifico ambiente. Le trasformazioni tecnologiche, sociali ed economiche agiscono costantemente, come fattori di decomposizione delle coerenze e specificità precostituite, riattivando nel tempo la dialettica impresa/ambiente senza concedere per lungo tempo situazioni stabili di equilibrio.

Assume particolare rilevanza, quanto alle modalità dell'o.i., il ruolo delle relazioni non estemporanee di complementarietà tra imprese che definiscono l'impresa rete, le reti d'impresa, i distretti industriali.

L'impresa rete si configura come una vera e propria forma evolutiva della grande impresa per attuare strategie d'integrazione verticale, diversificazione e crescita multinazionale, attraverso combinazioni di internalizzazioni, rapporti contrattuali, cooperazioni societarie in cui una singola impresa occupa una parte rilevante del sistema e ne rappresenta il nucleo di agglutinazione.

Le reti di imprese si esprimono invece come insiemi di relazioni produttive complementari tra cicli che impiegano fattori con elevate caratteristiche di specificità, da cui scaturiscono economie che le imprese non possono internalizzare completamente a causa di elevati costi della gerarchia e che il mercato non può gestire efficientemente a causa dei suoi costi d'uso.

Analoghi concetti vengono evocati per sistemi di relazioni tra aziende, basati su integrazioni del ciclo produttivo, come insiemi interorganizzativi, popolazioni, comunità e costellazioni di aziende (Freeman e Hannan 1977).

Per distretto industriale s'intende, più genericamente, un territorio nel quale si sia accumulato, con una qualche specializzazione settoriale, un reticolo di relazioni interaziendali coesive, con carattere di ragionevole stabilità nel tempo, che leghi tra loro più aziende, aventi rapporti contrattuali e/o societari di fornitura e di collaborazione in un comune sistema di valori e d'ambiente sociale e politico (Mariti 1978; Becattini 1979).

Se nel modello evolutivo strategia-struttura di Chandler, alle diverse strategie (integrazione, diversificazione, internazionalizzazione, ecc.) corrispondevano storicamente appropriati modelli di configurazione strutturale, lo svilupparsi di relazioni interorganizzative, anche in condizioni non competitive, comporta oggi, e ancor più in prospettiva, un nuovo modello d'impresa: la rete. Emerge, infatti, una configurazione d'impresa-sistema, basata su precise scelte di internalizzazione-esternalizzazione, che lega le relazioni intraorganizzative (Lorenzoni 1990), nel definire il profilo strategico nel settore, o nel distretto ove nel caso, e la ripartizione delle attività, fra organizzazione interna e mercato, che abbiano maggiore fortuna nel generare e mantenere vantaggio competitivo. Cambia, oggi, la materia dell'o. i.: se le nuove tecnologie minimizzano i costi delle informazioni, modificano anche le prospettive organizzative interne alle aziende e prospettano nuove articolazioni degli apparati distributivi e produttivi.

Con macchine intelligenti e strutture produttive flessibili, situate presso imprese diverse, l'innovazione imprenditoriale viene a consistere non tanto nel nuovo prodotto, quanto nello sviluppo delle modalità organizzative che permettono di progettare, produrre e vendere nuovi prodotti e/o servizi attraverso organizzazioni reticolari, definite da molti soggetti diversi sia produttivi sia distributivi.

La grande impresa della produzione di massa era in sostanza un ''saper fare'' concretamente radicato nell'organizzazione produttiva, mentre oggi il ''sapere'' dell'impresa tende a separarsi dalla fabbricazione, non più luogo della sedimentazione storica del sapere imprenditoriale e manageriale. Le relazioni e la concorrenza divengono globali, se l'informazione e il sapere dell'organizzazione possono facilmente circolare su distanze tendenzialmente infinite. Poche imprese sono ormai in grado d'investire da sole quanto necessario per globalizzare le proprie scelte operative, se l'ambiente non fornisce un apporto rilevante di ricerca scientifica e tecnologica, di lavoro qualificato, di finanza moderna, di reti informatiche efficaci, di servizi reali di assistenza tecnologica e di consulenza. L'impresa si sviluppa allora in simbiosi sempre più significativa con l'ambiente e, recuperando flessibilità, può avere oggi molte più varianti strategiche, aggregando forze e risorse diverse, secondo nuove modalità flessibili dei sistemi di produzione di massa o antichi modelli di flessibilità interorganizzativa (Piore e Sabel 1984). Se ne può concludere che la regolazione tra mercato, organizzazione e società è forza continua, non necessariamente a senso unico, che determina confini e termini dello scambio, modalità organizzative per l'efficienza e l'efficacia, attraverso le scelte strategiche delle imprese e delle condizioni di concorrenza e di controllo privato e/o pubblico dell'economia. I significati stessi di efficacia ed efficienza dell'organizzazione perdono, in tale interpretazione, il loro senso assoluto, ma ne assumono uno relativo, più significativo e credibile, nel riferimento alla condizione storica e all'o.i. determinatasi in un determinato settore e, nel quadro più ampio, dato dal sistema sociale ed economico che ne giustifica la sopravvivenza di lungo termine, accettandone l'offerta di prodotti e/o servizi.

Vedi anche organizzative, tecnologie, in questa Appendice.

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