Organizzazione internazionale

Enciclopedia del Novecento (1979)

Organizzazione internazionale

Benedetto Conforti

di Benedetto Conforti

Organizzazione internazionale

sommario: 1. La comunità internazionale e il suo diritto. 2. Caratteri dell'organizzazione internazionale in senso moderno. 3. Panorama delle organizzazioni internazionali esistenti. 4. L'atto costitutivo delle organizzazioni: trattato o costituzione? 5. La struttura delle organizzazioni: organi composti di Stati, organi composti di individui, organi composti di popoli. 6. L'attività delle organizzazioni: a) l'attività normativa; b) l'attività giurisdizionale; c) l'attività esecutiva. 7. Conclusione. □ Bibliografia.

1. La comunità internazionale e il suo diritto

Il ruolo delle organizzazioni internazionali (o associazioni fra Stati) non può essere valutato se non si conosce il contesto nel quale esse si sono venute costituendo, se non si tien conto cioè dei caratteri della comunità internazionale e del suo diritto. Cercheremo qui di fissare tali caratteri, anche se in modo molto sommario, utilizzando la distinzione che di solito è operata quando si descrive l'ordinamento giuridico di una qualsiasi comunità: ci riferiamo alla distinzione tra procedimenti di formazione delle regole giuridiche all'interno della comunità (funzione normativa), procedimenti di accertamento del diritto (funzione giurisdizionale) e procedimenti intesi a far rispettare il diritto medesimo (funzione esecutiva). Nel quadro che così tracceremo, è inutile dirlo, faremo del tutto astrazione dal fenomeno dell'organizzazione internazionale, dato che il quadro ci servirà proprio per dare un'esatta collocazione alle associazioni fra Stati e affrontare i problemi che si connettono alla loro esistenza.

Cominciando dalla funzione normativa, chi ha una certa familiarità con il diritto internazionale sa bene che questo si forma in larga misura mediante accordi fra Stati. Il trattato, e dunque un atto la cui conclusione dipende in tutto e per tutto dalla libera determinazione di volontà di ciascuno Stato contraente, è lo strumento tipico per creare vincoli giuridici sul piano internazionale. Esso è oggi sempre più adoperato. Sempre più oggi si tende a regolare con accordi ogni genere di rapporti della vita sociale e anche rapporti che hanno natura interindividuale anziché internazionale (che cioè riguardano individui all'interno delle singole comunità statali) e che purtuttavia i singoli Stati sono impotenti a disciplinare ciascuno con proprie leggi. Sempre però il trattato resta un atto di natura contrattuale, un atto non necessario ma volontario. Carattere necessario hanno invece le norme internazionali che scaturiscono dall'altra tipica fonte di diritto internazionale, ossia le norme consuetudinarie. Tali norme, che si formano attraverso comportamenti uniformi degli stessi Stati, ripetuti per un periodo di tempo e in circostanze tali da rivelare la convinzione della loro doverosità, rappresentano per così dire i punti di vista generali della comunità internazionale in ordine alla convivenza tra i suoi membri e si impongono al singolo Stato indipendentemente dalla sua volontà e dalla prova specifica della sua partecipazione al processo formativo delle varie consuetudini. Senonchè il diritto internazionale consuetudinario, a differenza del diritto pattizio, è quantitativamente assai povero. Esso si è andato progressivamente impoverendo negli ultimi tempi, in palese contrasto con l'infittirsi dei rapporti contrattuali, ed è oggi tanto in crisi da indurre, se non proprio a dubitare della sua stessa esistenza, a far comunque propendere per la tesi che solo uno sparuto gruppo di norme (ad esempio la norma secondo cui ogni Stato è sovrano entro i suoi limiti territoriali, quella che riserva allo Stato costiero le risorse dei mari adiacenti, quella sulle immunità diplomatiche e qualche altra) ormai lo componga. Nè è difficile rendersi conto delle cause che sono alla base di siffatto fenomeno. La consuetudine, come è intuitivo, nasce dalla comunanza di sentimenti, di costumi e soprattutto di ideologie; e si capisce perciò come essa abbia potuto svolgere una rilevante funzione nelle relazioni fra Stati fin quando la comunità internazionale, sorta dalle rovine delle strutture medievali, è rimasta limitata a pochi membri e ha continuato ad avere in Europa il proprio centro di gravità. Oggi la situazione è profondamente mutata. L'impressionante aumento del numero degli Stati (dalla fine della seconda guerra mondiale si è avuta quasi una triplicazione!), dovuto soprattutto allo smantellamento degli imperi coloniali, e, quel che più conta, lo scontro tra ideologie opposte o comunque divergenti, rendono sempre più difficile la ricerca di quella uniformità che è alla base delle norme non scritte scaturenti dall'uso. Sta di fatto che la contestazione da parte dei paesi del Terzo Mondo di molti principi consuetudinari che pure avevano resistito ai secoli, ad esempio i principi relativi al trattamento degli stranieri e dei loro beni, è decisa e costante; nè si tratta di contestazione trascurabile, ove si consideri che tali paesi rappresentano la maggioranza degli Stati attualmente esistenti.

La crisi del diritto consuetudinario e il fatto che il diritto internazionale sia costituito quasi esclusivamente da accordi dimostrano come la comunità internazionale già nelle norme giuridiche, già nei procedimenti di formazione di esse, sia una comunità abbastanza anarchica e condizionata da forze centrifughe. Ma l'anarchia risulta ancor più evidente quando si passa a considerare la funzione di accertamento del diritto internazionale e quella di esecuzione coattiva del medesimo. Per quanto riguarda la prima, basti accennare alla circostanza che l'amministrazione della giustizia nei rapporti internazionali ha fondamentalmente natura arbitrale e quindi dipende anch'essa dalla volontà di collaborazione del singolo Stato: è noto infatti che l'arbitro in tanto può decidere una controversia in quanto tutte le parti di questa si siano messe d'accordo per sottoporgliela. Circa l'esecuzione coattiva, si ponga mente al fatto che è lo stesso Stato, il quale in un caso concreto abbia interesse a veder rispettato il diritto internazionale nei suoi confronti, a dover provvedere: l'autotutela, istituto eccezionalissimo negli ordinamenti statali evoluti (solo entro certi limiti e in determinate condizioni, quando non possano intervenire gli organi pubblici, ci si può fare giustizia da sé), assurge a regola generale nell'ambito della comunità degli Stati, contrabbandandovi in definitiva la legge del più forte.

Molto si è discusso e si discute se, date le caratteristiche descritte, la comunità internazionale sia una vera e propria comunità o non piuttosto un modo di indicare (ormai la parola è di uso comune) un insieme o giustapposizione di enti, e se il diritto internazionale, essendo per definizione un diritto tra enti sovrani (l'annullamento delle sovranità statali porterebbe alla costituzione di un unico imperium mundi, mai storicamente realizzato), sia un vero e proprio diritto. Del resto anche chi parla di comunità è solito aggiungere che si tratta di una comunità di tipo primitivo, nella quale le funzioni giuridiche, a differenza di ciò che avviene nelle comunità statali evolute, non sono nè ripartite nè esercitate secondo regole e competenze razionalmente prestabilite, ma vengono svolte in forma convulsa e discontinua.

I dubbi circa l'esistenza di una vera e propria comunità internazionale abbracciante tutti gli Stati sembrano trovar maggiore alimento oggi per i motivi che indicavamo parlando delle consuetudini, e cioè a causa dell'impossibilità di riportare l'attuale congerie di paesi a un'unica matrice. Esiste però anche il rovescio della medaglia ed è costituito dal dato, cui pure si accennava, dell'incremento senza precedenti che oggi si verifica nelle relazioni pattizie come necessaria conseguenza della natura ‛internazionale' dei problemi del nostro tempo: dette relazioni, a parte i trattati politici che non sono che un'esigua minoranza, danno luogo a tutta una serie di vincoli anche tra Stati portatori di interessi e di ideologie totalmente diversi tra loro. Non vi è forse in ciò più di quanto vi fosse un tempo nel diritto internazionale comune?

È chiaro che la questione se la comunità internazionale meriti effettivamente questo nome ha natura prevalentemente filosofica e richiederebbe una serie di considerazioni di partenza che sarebbero qui fuor di luogo. Ai nostri fini basti aver indicato per sommi capi, vorremmo dire fotografato, i caratteri di detta comunità come premessa indispensabile al discorso sui fenomeni organizzativi che in essa si sono andati verificando.

2. Caratteri dell'organizzazione internazionale in senso moderno

Le organizzazioni internazionali, definibili, da un punto di vista generalissimo e formale, come quei complessi di organi istituiti da più Stati mediante trattato per il perseguimento di scopi comuni, sono essenzialmente un portato del nostro secolo.

Non mancano, è vero, i precedenti, e anche i precedenti remoti. Per quanto riguarda questi ultimi, si è soliti citare addirittura le anfizionie dell'antica Grecia, costituite da gruppi di città-stato praticanti il culto della medesima divinità e i cui delegati, riunendosi per l'esercizio del culto, disponevano anche di limitati poteri di deliberazione, come il potere di regolamentare la condotta della guerra tra i membri. Così pure vengono citate le leghe medievali tra città, delle quali l'esempio più famoso resta quello della Lega Anseatica (Hansa Teutonica) che, sorta per la pro- tezione del commercio tedesco all'estero ed estesa la pro- pria competenza fino al punto di comprendervi il diritto di dichiarar guerra, ebbe momenti di grande potenza, arrivando a riunire intorno a Lubecca, Brema e Amburgo, nel XIV secolo, più di cinquanta città tra costiere e interne: la Dieta generale della Lega, in cui tutte le città erano rappresentate, trattava gli affari comuni secondo un ordine del giorno previamente stabilito (le riunioni avevano luogo a distanza di vari anni l'una dall'altra) e le sue decisioni, prese a maggioranza, erano vincolanti per ciascun membro pena l'espulsione dalla Lega e la perdita dei privilegi connessi all'appartenenza a quest'ultima. È da dire però che tali e altri precedenti, a parte ogni ovvia considerazione circa la radicale diversità delle condizioni politiche e sociali dell'epoca in cui ebbero vita, restano poco calzanti in quanto riguardano fenomeni non solo assai circoscritti nello spazio, ma anche e soprattutto non ispirati da un ideale o almeno da un'idea unica, così come accade (lo vedremo fra poco) per la fittissima rete di organizzazioni che ricopre ogni angolo dell'odierna comunità internazionale. Da questo punto di vista si ricollegano alla moderna concezione dell'organizzazione internazionale piuttosto certi progetti vagheggiati da pensatori e utopisti (come il progetto di federazione tra gli Stati europei proposto già dal Dubois nel XIV secolo e poi dal duca di Sully nel XVII) ma mai tradotti in pratica.

Poco calzanti, più o meno per gli stessi motivi, sono al- tresì i precedenti piu vicini a noi, quelli che si collocano nel secolo scorso, o meglio tra la Rivoluzione americana e la prima guerra mondiale. In tale periodo, se si eccettua qualche caso di organizzazione a carattere tecnico (come l'Unione Postale Universale, sorta nel 1874) che precorre le attuali istituzioni specializzate delle Nazioni Unite, oppure a carattere amministrativo (come la Commissione Europea del Danubio, istituita nel 1856), il fenomeno dell'organizzazione internazionale si riduce sostanzialmente al caso della confederazione di Stati, di cui sono notevoli esempi la Confederazione degli Stati Uniti d'America (1778-1787), la Confederazione Elvetica (1815-1848) e quella Germanica (1815-1871). La confederazione, che del resto non si discosta, quanto a struttura e funzioni, dalle citate leghe medievali, è di solito definita dai giuristi come un'unione di Stati creata per la comune difesa e organizzata in modo da accentrare in un organo assembleare, rappresentativo di tutti i membri, la somma dei poteri di politica estera: dalla stipula dei trattati, all'accreditamento dei diplomatici, alla dichiarazione di guerra. In una simile definizione, peraltro, manca proprio la caratteristica più rilevante dei casi di unione confederale verificatisi nel periodo in esame: ci riferiamo al fatto che tali unioni nient'altro rappresentarono, sia nel caso degli Stati Uniti che della Svizzera e della Germania, che una fase di passaggio verso la costituzione di Stati federali, ossia di Stati unitari, sia pure fortemente decentrati, nei quali la personalità dei singoli membri veniva ad annullarsi e dai quali non sarebbe più stato possibile recedere se non con un atto rivoluzionario. E anche sotto questo aspetto è facile osservare che si trattò di fenomeni di organizzazione poco assimilabili a quelli odierni, dato che oggi la realizzazione di processi unificanti di tipo statale non caratterizza affatto l'azione degli Stati.

L'organizzazione internazionale è insomma un fenomeno essenzialmente contemporaneo che nasce dopo la prima guerra mondiale, con la Società delle Nazioni, e si sviluppa, dopo la battuta d'arresto costituita dall'avvento dei regimi fascisti in Europa e dalla seconda guerra mondiale, negli anni successivi a quest'ultima. Solo dopo la prima guerra mondiale, infatti, si fa strada un'idea che, immediatamente o mediatamente, ispirerà ogni forma di associazione fra Stati; e solo dopo la seconda, le organizzazioni, con le Nazioni Unite in testa, andranno moltiplicandosi, assumendo dimensioni mai prima raggiunte. L'idea è senz'altro rivoluzionaria rispetto a quello che in precedenza, e fin da epoche remote, era il comune modo di intendere le relazioni fra Stati o fra enti simili agli Stati: si tratta dell'idea che la violenza bellica debba essere con ogni mezzo scoraggiata se non messa al bando della comunità internazionale.

Avanti il primo conflitto mondiale, la guerra era considerata una componente ineliminabile dei rapporti internazionali. Si discuteva, è vero, circa la sua liceità dal punto di vista morale e anche giuridico (dottrina del bellum justum, della guerra santa, ecc.); ma in pratica si finiva col ritenerla, comunque e da qualsiasi parte fosse scatenata, un evento inevitabile e fisiologico. Ciò è dimostrato dal fatto che gli sforzi dei governanti più che a prevenirla erano diretti a disciplinarla (e a disciplinarla ponendo su di un piede di parità i contendenti) come testimoniano, per non risalire troppo indietro nel tempo, le Conferenze dell'Aia del 1899 e del 1907 sulla disciplina della guerra terrestre, oppure la Conferenza di Londra del 1909 sulla disciplina della guerra marittima. La natura ‛fisiologica' della guerra era addirittura teorizzata da una parte della dottrina internazionalistica (di cui vi è ancora eco in autori recenti: v. ad es. Morelli, 19677, p. 51), sostenendosi che la violenza bellica costituisse, secondo il diritto internazionale, un mezzo per assicurare il ‛ricambio' delle regole giuridiche, per rinnovare queste ultime onde renderle rapidamente conformi alle nuove esigenze: gli accordi internazionali, si diceva, hanno natura troppo rigida, potendo essere modificati solo col consenso di tutti i contraenti, e la guerra provvede pertanto a correggerne la rigidità.

I motivi che, già dopo il primo conflitto mondiale e assai più dopo il secondo, hanno determinato il capovolgimento di simili opinioni e tendenze, ponendo in primo piano e in tutta la sua drammaticità il problema dell'eliminazione dell'uso della forza dai rapporti fra Stati, sono noti anche all'uomo della strada; sicchè non è il caso neppure di ricordarli. Basti qui solo ribadire che proprio la ricerca di una soluzione a tale problema ha costituito l'idea motrice dalla quale si è sviluppato tutto il movimento diretto a creare organi al di sopra degli Stati e a farli funzionare. Essa non è solo alla base delle organizzazioni esclusivamente o principalmente destinate a dirimere conflitti di natura politica e a predisporre misure preventive o repressive atte a scoraggiare le aggressioni, ma traspare dai trattati istitutivi di tutte le altre organizzazioni, comprese quelle che operano esclusivamente nel campo economico e sociale. Organizzazioni del genere, in quanto si propongono di correggere gli squilibri economici e i conflitti sociali di rilievo internazionale, cercando di ottenere che gli interessi di vaste collettività umane, se non dell'intera umanità, prevalgano sul particolarismo statale, tendono in effetti a operare sulle cause, siano pure meno immediate ma non certo meno determinanti, dei conflitti politici e del ricorso alla forza.

Ma di quali poteri dispongono le organizzazioni per raggiungere siffatti scopi? È chiaro che un'azione collettiva internazionale può essere tanto più efficace quanto più c'è un effettivo trasferimento di poteri decisionali dai singoli Stati agli organi cui il trattato istitutivo dell'organizzazione ha dato vita e le cui deliberazioni siano prese a maggioranza, quanto più si supera, anche se in specifici settori, il principio dell'accordo come unico e rigido strumento disponibile per la composizione di interessi a livello internazionale, quanto più si limita insomma la sovranità del singolo Stato. Si è giustamente osservato che è contraddittorio parlare di organizzazione internazionale, costituendo il processo organizzativo nient'altro che il superamento della fase inter-nazionalistica dei rapporti fra Stati (v. Quadri, 19685, p. 552). È però proprio tale contraddizione che fornisce l'esatta fotografia delle organizzazioni internazionali del nostro tempo. La vita di queste ultime si risolve, infatti, in una pressochè continua competizione caratterizzata sia dalla ‛pretesa' degli organi (almeno di quelli che, per la loro struttura, maggiormente riflettono interessi collettivi) di rafforzare i propri poteri, magari al di là delle competenze previste dai trattati istitutivi, sia dalla ‛resistenza' degli Stati membri, magari diretta a recuperare poteri che con i trattati medesimi erano stati trasferiti. Chiunque osservi la realtà internazionale può peraltro rendersi conto che la competizione è impari. Gli Stati restano ancora i principali protagonisti sulla scena internazionale, non avendo finora il fenomeno dell'organizzazione prodotto una sostanziale modifica di quel quadro da noi tracciato al capitolo precedente circa i caratteri della comunità internazionale e del suo diritto ; e ciò ad onta di dichiarazioni solenni inserite negli stessi statuti delle organizzazioni internazionali o nelle moderne costituzioni, di dichiarazioni, per intendersi, simili a quella contenuta nell'art. 1 1 della Costituzione italiana (‟L'Italia [...] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni ; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo"). È pur vero però che la resistenza all'esercizio di poteri decisionali da parte degli organi internazionali non sempre è politicamente o moralmente condannabile ; non lo è quando essa costituisce una reazione a pratiche egemoniche o a tentativi di strumentalizzazione da parte di una potenza o di un gruppo di Stati in seno a un determinato organo.

Se il trasferimento di una somma di poteri decisionali dalle mani degli Stati a quelle degli organi non ha trovato ampia e concreta attuazione, deve allora concludersi che l'iniziale idea è stata tradita e che a poco o a nulla si riduce il fenomeno dell'organizzazione internazionale? Una conclusione del genere sembra troppo pessimistica. Essa non tiene conto del fatto che le organizzazioni internazionali costituiscono oggi le sedi nelle quali, anche se non attraverso decisioni maggioritarie ma con il classico e rigido strumento dell'accordo, una gran parte dei problemi internazionali vengono affrontati e risolti; ma soprattutto non tiene conto del fatto che gli accordi conclusi dagli Stati nell'ambito, e per iniziativa, delle organizzazioni hanno il pregio di formarsi in un clima che scoraggia la diplomazia segreta, che impone ai governi di dar ragione dei loro atteggiamenti in aperto contraddittorio e che pertanto costituisce una spinta al superamento del particolarismo statale. La base meramente contrattualistica dei rapporti fra Stati non è dunque eliminata, ma l'accordo tende sempre più a porsi, per l'azione delle organizzazioni, come strumento di cooperazione e di solidarietà fra i popoli.

Contrapposizione tra poteri degli organi e poteri degli Stati membri, incapacità dei primi a rafforzarsi a scapito dei secondi e funzione dell'accordo in seno alle organizzazioni internazionali ci serviranno da sfondo alla (e d'altro canto troveranno conferma nella) analisi dei problemi relativi alla costituzione, alla struttura e all'attività delle organizzazioni esistenti. Ma non è forse inutile fornire prima, più che altro a scopo informativo, una visione d'insieme di queste ultime.

3. Panorama delle organizzazioni internazionali esistenti

Il filo conduttore che lega le associazioni fra Stati e che, come si diceva, è costituito dall'idea di scoraggiare l'uso della forza attuando in ogni campo forme evolute di cooperazione internazionale, si ricava da un esame anche superficiale dei trattati istitutivi di ciascuna associazione. Trattasi anzi di un legame che fa apparire le varie associazioni fra Stati come disposte secondo una sorta di scala gerarchica avente i suoi vertici nella massima organizzazione mondiale odierna (della quale sono ormai entrati a far parte quasi tutti gli Stati), l'organizzazione delle Nazioni Unite.

Gli scopi che l'ONU si propone sono enunciati in forma solenne nel Preambolo e nell'art. 1 della Carta di San Francisco, cioè dell'accordo dal quale l'organizzazione ha preso vita, nel 1945, in sostituzione della vecchia Società delle Nazioni. Il suo principale scopo è per l'appunto quello di mantenere la pace e la sicurezza internazionale e quindi ‟prendere efficaci misure collettive atte a prevenire e reprimere le minacce alla pace, gli atti di aggressione e le altre violazioni della pace" onde ‟salvare le future generazioni dal flagello della guerra che per due volte nell'arco di tempo di una vita umana ha causato indicibili afflizioni all'umanità". In seconda posizione, ma con non minore enfasi, vengono poi elencati gli scopi attinenti all'azione in campo economico e sociale e consistenti nel ‟conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale e umanitario e nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione".

Ai due scopi o gruppi di scopi così enunciati corrispondono grosso modo i due organi fondamentali dell'Organizzazione, il Consiglio di sicurezza e l'Assemblea generale. Il Consiglio di sicurezza, composto da soli quindici membri, tra cui, obbligatoriamente, le grandi potenze, è l'unico organo competente, secondo la Carta, in materia di azioni collettive a tutela della pace; esso può imporre agli Stati membri tutta una serie di misure, dalla rottura delle relazioni diplomatiche al blocco economico totale, o addirittura intraprendere esso stesso operazioni militari, contro uno o più Stati che abbiano commesso o stiano per commettere atti di aggressione o che in altro modo minaccino la pace. C'è però da sottolineare che una competenza tanto importante e tanto decisiva per il mantenimento dell'ordine nell'ambito della comunità internazionale finisce con l'essere in pratica paralizzata a causa della nota regola procedurale (che fu approvata alla Conferenza di Jalta e poi trasfusa a San Francisco nell'art. 27 della Carta) secondo la quale le risoluzioni dell'organo possono essere bloccate dal veto di una delle grandi potenze. Nessun diritto di veto è previsto invece in seno all'Assemblea generale, l'organo nel quale tutti gli Stati sono rappresentati con pari poteri e che, pur potendo discutere qualsiasi questione, è prevalentemente destinato a mandare a effetto (con la collaborazione di un altro organo a composizione più ristretta, e in posizione ausiliaria, il Consiglio economico e sociale) il secondo gruppo di scopi sopra indicati; senonché, in questo caso, all'inesistenza di regole procedurali paralizzanti (le deliberazioni dell'Assemblea sono prese a maggioranza) fa da contrappeso la mancanza di poteri decisionali effettivi, avendo l'Assemblea il potere di indirizzare semplici raccomandazioni agli Stati membri. Sia il Consiglio di sicurezza che l'Assemblea si avvalgono anche dell'opera del Segretario generale, che la Carta definisce come il ‟massimo funzionario amministrativo" dell'Organizzazione (art. 97) e che esercita funzioni meramente esecutive rispetto alle delibere consiliari e assembleari.

Nel sistema di sicurezza collettiva, facente capo al Con- siglio di sicurezza, da un lato, e nell'ambito della collaborazione economica, sociale e umanitaria, facente capo al- l'Assemblea generale, dall'altro, possono inquadrarsi la maggior parte delle rimanenti organizzazioni internazionali, sia quelle a carattere universale o tendenzialmente universale, cioè aperte a tutti gli Stati, sia quelle create da particolari gruppi di paesi.

Al sistema di sicurezza collettiva si ricollegano le cosiddette organizzazioni regionali (regionali in senso più politico che geografico), istituite a fini di difesa e di mutua assistenza fra i membri. Ne sono esempi rilevanti l'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) sorta nel 1 949 a opera delle potenze occidentali, l'organizzazione del Patto di Varsavia, creata nel 1955 dai paesi socialisti dell'Est europeo, l'Organizzazione degli Stati Americani (OSA o OAS), l'Unione Europea Occidentale (UEO), la Lega degli Stati arabi e l'Organizzazione per l'Unità Africana (OUA). Tutte queste organizzazioni hanno strutture più o meno simili, con organi politici (di solito un consiglio composto da ministri degli Stati membri) e, in taluni casi (NATO, Patto di Varsavia), organi militari comuni ; e anche se la maggior parte di esse ha competenze in vari campi, l'obiettivo principale da tutte perseguito resta quello della mutua difesa. Il loro collegamento, e si potrebbe dire la loro dipendenza dal Consiglio di sicurezza, è sancito dalla Carta dell'ONU. L'art. 53 della Carta stabilisce infatti che il Consiglio utilizza ‟gli accordi e le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua direzione", e aggiunge che ‟nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali senza l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza". Occorre poi tener presente l'art. 51, che riconosce agli Stati l'esercizio del ‟diritto di autotutela individuale o collettiva" per difendersi contro un ‟attacco armato" e ‟fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale": la legittima difesa collettiva fu per l'appunto prevista alla Conferenza di San Francisco e inserita nella Carta in relazione all'eventualità che si creassero organizzazioni difensive su scala regionale. Dal coordinamento tra l'art. 53 e l'art. 51 consegue pertanto che siffatte organizzazioni possono agire contro uno Stato con l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza in ogni caso, e senza l'autorizzazione del Consiglio solo nel caso di risposta a un attacco armato.

È chiaro che il collegamento tra organizzazioni regionali e Carta dell'ONU presuppone che le prime si propoligano effettivamente quegli scopi difensivi che il trattato istitutivo di ciascuna di esse dichiara (ad es. l'art. 5 del Patto Atlantico, nell'addossare a tutti gli Stati associati l'obbligo di soccorrere il membro che sia stato aggredito, si rifà espressamente all'art. 51 della Carta); ma è chiaro altresì che l'art. 51 e il fatto stesso che la Carta preveda le organizzazioni regionali dimostrano come già nel 1945 non si nutrisse eccessiva fiducia nell'efficacia del Consiglio di sicurezza.

Passando alle organizzazioni che operano in campo economico e sociale, vengono anzitutto in rilievo, in quanto più strettamente collegate con l'ONU, le istituzioni specializzate (o istituti specializzati) delle Nazioni Unite, di cui sono membri la maggior parte degli Stati. Si tratta, per ricordare alcune tra le principali istituzioni esistenti, dell'Organizzazione per l'Alimentazione e l'Agricoltura (FAO), dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL o ILO), dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), dell'Organizzazione per l'Aviazione Civile Internazionale (OACI o ICAO), dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS o WHO), del Fondo Monetario Internazionale (FMI o IMF), e della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS o IBRD). Le istituzioni specializzate, che contribuiscono notevolmente alla soluzione dei problemi internazionali nei settori di loro competenza, sorgono da trattati del tutto autonomi rispetto alla Carta, e hanno organi (di solito un'assemblea o conferenza, nella quale ogni Stato membro è rappresentato, un consiglio eletto dall'assemblea e a composizione ristretta, e un segretario o direttore generale) distinti dagli organi dell'ONU; anche i loro membri non sempre coincidono con i membri delle Nazioni Unite (ad es., del FMI e della BIRS non fanno parte la maggioranza dei paesi socialisti) e ciò nonostante si tratti di organizzazioni tendenti all'universalità. Il collegamento di ciascuna istituzione con l'ONU è dato in effetti da un accordo che le due organizzazioni stipulano e che, da parte dell'ONU, è negoziato dal Consiglio economico e sociale e approvato dall'Assemblea (art. 63 della Carta). L'accordo conferisce la qualifica di istituzione specializzata delle Nazioni Unite e fa scattare le norme della Carta che sottopongono tutte le istituzioni a certi poteri di coordinamento e di controllo da parte dell'Assemblea generale e del Consiglio economico e sociale, come il potere di coordinarne i programmi e le attività (artt. 58 e 60), di esaminarne i bilanci (art. 17), ecc.

Esiste poi, sempre all'insegna della collaborazione internazionale in campo economico, sociale e umanitario, un numero vastissimo di organizzazioni a partecipazione limitata, le quali raggruppano paesi legati tra loro da affinità spirituali, da vincoli ideologici o politici o anche soltanto da interessi particolari. Sarebbe davvero impossibile, oltre che sterile, fornire un elenco di tutte quelle che operano nel mondo. Per limitarsi ai principali enti costituiti nell'ambito dell'Europa occidentale e della regione atlantica, si può ricordare: l'Organizzazione di Cooperazione e di Sviluppo Economico (OCSE) che nel 1960 ha preso il posto dell'Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (OECE), a sua volta costituitasi nel 1948 per l'utilizzazione degli aiuti americani destinati alla ricostruzione in Europa (Piano Marshall); il Consiglio d'Europa, cui si deve un'intensa azione soprattutto nel campo della tutela dei diritti umani, della cooperazione culturale e dell'assistenza giudiziaria, azione concretatasi nella predisposizione di numerose convenzioni internazionali da tempo in vigore tra gli Stati membri; l'Agenzia Europea per l'Energia Nucleare (ENEA), istituita nel 1957 per lo scambio di informazioni e il coordinamento dei programmi tra i paesi membri in materia di uso pacifico dell'energia atomica: l'Eurocontrol, che dal 1960 opera nel campo del traffico aereo; l'Organizzazione Europea per lo Sviluppo e la Costruzione di Vettori Spaziali (ELDO) e l'Organizzazione Europea di Ricerche Spaziali (ESRO), costituite entrambe nel 1962, destinate a svolgere attività di studio e anche di costruzione di satelliti artificiali e di dispositivi di lancio di veicoli spaziali. Il collegamento ideale tra simili enti (come tra altri che, con struttura e fini analoghi, operano in altre parti del mondo) e le Nazioni Unite forma il più delle volte oggetto di espresse dichiarazioni contenute nei rispettivi trattati istitutivi (ad es. nel Preambolo della Convenzione che istitui l'OECE e nell'art. 1 dello Statuto del Consiglio d'Europa).

Nella categoria delle organizzazioni internazionali ordinate in linea discendente dall'ONU vanno infine inquadrate anche le cosiddette organizzazioni soprannazionali, di cui sono esempi esclusivi le tre comunità europee, la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA), sorta dalla Convenzione di Parigi del 1953, la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea dell'Energia Atomica (EURATOM), entrambe istituite nel 1958 con i Trattati di Roma. Come è noto, CECA ed EURATOM sono due organizzazioni settoriali, tendenti la prima all'attuazione del mercato comune (abbattimento delle barriere doganali, unificazione dei prezzi, ripartizione razionale della produzione, ecc.) limitatamente al settore carbo-siderurgico, l'altra allo sviluppo dell'industria nucleare dei paesi membri; la CEE investe invece tutta la vita economico-sociale degli Stati membri, mirando non solo a estendere i principi del mercato comune a ogni genere di produzione, ma disponendo di tutta una serie di competenze preordinate al fine di integrare le economie dei nove paesi che ne fanno parte. Le tre Comunità, pur essendo tra loro distinte e separate, agiscono mediante organi comuni. Gli organi più importanti, cioè il Consiglio, nel quale sono rappresentati gli Stati membri (di solito ne fanno parte i ministri volta a volta competenti per le questioni all'ordine del giorno), e la Commissione, composta di persone che vi siedono a titolo individuale, sono stati unificati nel 1967 e agiscono ora per l'una ora per l'altra Comunità. D'altro canto i poteri di cui questi due organi dispongono variano sensibilmente a seconda della Comunità: mentre nella CECA la Commissione (che esplica le funzioni esercitate prima dell'unificazione dall'Alta autorità) è l'organo decisionale e il Consiglio ha poteri consultivi, nella CEE e nell'EURATOM il rapporto è rovesciato, spettando al Consiglio i maggiori poteri normativi e alla Commissione funzioni prevalentemente esecutive oppure di iniziativa e di stimolo nei confronti del Consiglio medesimo.

Le tre Comunità sono, e per il momento sembrano de- stinate a restare, delle organizzazioni internazionali, che traggono i loro poteri dal diritto internazionale (precisa mente dai trattati istitutivi) e che attuano forme particolarmente intense di collaborazione internazionale. Il termine soprannazionale, spesso usato peraltro in modo ambiguo, indica in definitiva una differenza quantitativa più che qualitativa delle tre Comunità rispetto alle altre organizzazioni. Esso indica che le Comunità sono dotate di ampi poteri di decisione (che peraltro, come vedremo, incontrano notevoli remore nel loro esercizio) e si occupano di molti rapporti puramente interni agli Stati membri. Ma il fenomeno non è nuovo in quanto anche altre organizzazioni (ad es. l'ICAO, una delle istituzioni specializzate delle Nazioni Unite, competente a emanare regolamenti per il traffico aereo su scala mondiale) sono fornite di poteri di decisione per la disciplina di rapporti interni; e l'unica differenza è data appunto dal fatto che simili poteri sono esercitabili solo in determinate e limitate ipotesi. Affermando che le Comunità appartengono alla categoria delle organizzazioni internazionali, si viene a escludere che si tratti, come da qualche parte si ritiene, di unioni di tipo statale, di Stati federali, sia pure parziali: come si evince dagli stessi trattati istitutivi e ancor più dalla realtà delle cose, la sovranità degli Stati membri delle Comunità europee non è certo degradata (come caratteristicamente avviene nel caso degli Stati membri di Stati federali) a semplice autonomia. Ed è sintomatico al riguardo che nel Preambolo del Trattato che istituisce la più importante fra le Comunità, il Trattato CEE, non si indichi affatto come scopo dell'organizzazione il raggiungimento della meta federalistica bensì ‟lo sviluppo della prosperità degli Stati membri conformemente ai principi dello Statuto delle Nazioni Unite" nonché il rafforzamento delle ‟difese della pace e della libertà".

Per concludere questo rapido panorama delle organizzazioni esistenti, vale la pena di notare che la configurazione di una sorta di supremazia gerarchica delle Nazioni Unite rispetto a tutte le altre associazioni fra Stati, supremazia fin qui tratteggiata, non consta soltanto di un collegamento ideale, ma si concreta anche in un preciso vincolo di carattere giuridico-formale. A parte le singole categorie di organizzazioni (organizzazioni regionali a scopo difensivo e istituzioni specializzate) per le quali valgono le specifiche regole che poc'anzi menzionavamo, il vincolo in parola è ricavabile dall'art. 103 della Carta dell'ONU, che stabilisce: ‟in caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai membri delle Nazioni Unite con la presente Carta e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale prevarranno gli obblighi derivanti dalla presente Carta".

4. L'atto costitutivo delle organizzazioni: trattato o costituzione?

Ogni organizzazione internazionale nasce da un trattato che ne fissa lo statuto. Ed ecco allora che si pone il primo problema tra quelli che, come preannunciavamo, si riallacciano alla contrapposizione tra poteri degli Stati membri e poteri degli organi da essi creati. Il problema, che ha avuto riflessi pratici notevoli negli ultimi anni, consiste nel chiedersi se il trattato istitutivo di un'organizzazione sia da considerare alla stregua di un qualsiasi accordo internazionale o non sia qualcosa di più e di diverso, se esso, per intendersi, non sia assimilabile, più che ai contratti, alle costituzioni.

È opportuno non creare equivoci sulla portata di un problema del genere. Nessuno pensa che il trattato istitutivo di un'organizzazione internazionale, una volta stipulato, si trasformi in una costituzione statale. Simile trasformazione può anche avvenire (ed è storicamente avvenuta ad es. nel caso degli Stati Uniti d'America) quando più Stati decidano di fondersi, rinunciando alla propria sovranità, in uno Stato unico magari a struttura federale; ma si è allora fuori, per i motivi che già esponemmo, dal fenomeno dell'organizzazione internazionale. Del pari nessuno sostiene che gli Stati membri, una volta creata un'organizzazione, non possano con un successivo trattato modificarne la struttura o deciderne l'estinzione; impossibilità che, ancora una volta, caratterizza invece le federazioni di tipo statale, nelle quali gli Stati, avendo rinunciato alla propria sovranità, non hanno più il potere di accordarsi per sciogliere la federazione. Quando ci si chiede se l'accordo istitutivo possa essere assimilato alle costituzioni interne non si ha riguardo alla natura giuridica dell'atto ma piuttosto al modo di interpretarlo, e in particolare all'interpretazione delle norme che concernono i poteri e le competenze degli organi. L'assimilazione alle costituzioni interne è in definitiva alla base delle tendenze dirette a estendere i poteri delle organizzazioni nei confronti degli Stati membri; l'accentuazione della natura pattizia, con il conseguente ricorso alla teoria per cui gli accordi internazionali, limitando la libertà degli Stati, andrebbero interpretati in senso restrittivo, è invece alla base delle tendenze esattamente contrarie.

Sulla strada di un'interpretazione fortemente estensiva delle norme sulle competenze degli organi, e utilizzando tecniche interpretative proprie delle corti costituzionali interne, si sono posti i due più importanti organi giurisdizionali oggi esistenti a livello internazionale, la Corte internazionale di giustizia e la Corte delle Comunità europee. La Corte internazionale di giustizia è organo delle Nazioni Unite ed esercita, oltre che funzioni arbitrali nelle controversie fra Stati, una funzione consultiva nei confronti dell'Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza (‟L'Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza dice l'art. 96 della Carta dell'ONU possono chiedere alla Corte internazionale di giustizia un parere consultivo su qualunque questione giuridica"); a sua volta la Corte delle Comunità europee, organo comune alla CECA, alla CEE e all'EURATOM, assicura il rispetto del diritto" nell'interpretazione e applicazione dei trattati comunitari (art. 164 del Trattato istitutivo della CEE, art. 31 del Trattato CECA e art. 136 del Trattato EURATOM). Orbene, entrambe le Corti hanno fatto ampio uso, nell'interpretazione rispettivamente della Carta dell'ONU e dei Trattati comunitari, di una teoria elaborata dalle corti di Stati federali, e particolarmente dalla Corte suprema degli Stati Uniti d'America, per rafforzare i poteri del governo centrale a scapito delle competenze dei governi locali ; si tratta della teoria dei poteri impliciti. In base a questa, ogni organo disporrebbe non solo dei poteri espressamente attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di tutti i poteri necessari per l'esercizio dei poteri espressi. La Corte internazionale di giustizia, nell'applicare la teoria dei poteri impliciti agli organi dell'ONU, ne ha addirittura ampliato in modo notevole la portata, finendo col dedurre certi poteri degli organi direttamente ed esclusivamente dai fini dell'organizzazione. A sua volta la Corte di giustizia comunitaria ha ricavato competenze implicite dalle norme del Trattato CEE, e ciò nonostante il Trattato espressamente preveda (all'art. 235) che nuovi poteri possano essere attribuiti alle Comunità solo su decisione unanime del Consiglio, cioè dell'organo nel quale sono rappresentati gli Stati membri.

A nostro avviso, l'equiparazione degli statuti delle or- ganizzazioni internazionali alle costituzioni interne, sia pure sotto il profilo dell'interpretazione, non può che lasciare perplessi. L'analogia tra gli organi internazionali e gli organi statali è assai discutibile, dato che l'osservazione della realtà internazionale mostra come raramente i primi riescano a dimostrare quella effettiva capacità di imporsi ai consociati che è propria dei secondi. Per quanto riguarda la teoria dei poteri impliciti, essa è tanto velleitaria, soprattutto allorché il suo uso si risolva in una sensibile alterazione dell'equilibrio tra poteri degli organi e poteri degli Stati membri, quanto arcaica è l'opposta teoria, che propugna la necessità di interpretare restrittivamente tutti gli accordi internazionali. La verità sta nel mezzo e impone di interpretare gli accordi istitutivi di organizzazioni internazionali per quel che sono, cioè come strumenti di collaborazione fra Stati, e con le comuni tecniche di interpretazione delle norme giuridiche, cioè pervenendo ad applicazioni restrittive o estensive a seconda che la lettera delle norme dica di più o di meno di quanto si ricavi dalla loro ratio.

Quanto qui affermiamo circa la natura velleitaria del trasferimento sul piano internazionale della teoria dei poteri impliciti, trova riscontro nella prassi dell'organizzazione in cui se ne è fatto maggior uso, l'Organizzazione delle Nazioni Unite.

In una serie di pareri resi all'Assemblea generale in base al citato art. 96 della Carta, la Corte internazionale di giustizia ha finito col pronunciarsi a favore dell'esercizio di poteri sostanzialmente nuovi da parte dell'Organizzazione. Ma con quali risultati? Fin quando si è trattato di riconoscere competenze del tutto accessorie e marginali, di risolvere, insomma, questioni minoris generis, il parere ha avuto seguito, l'Assemblea vi si è conformata e i singoli Stati non hanno reagito. Si può ricordare al riguardo il parere reso nel 1948 in occasione dell'assassinio del conte Bernadotte (inviato dall ONU come mediatore tra Arabi e Israeliani) per mano di estremisti ebrei: in questo caso la Corte sentenziò, e nessuno obiettò, che l'ONU potesse agire contro uno Stato per il risarcimento dei danni subiti da propri funzionari e dedusse siffatto potere (non previsto espressamente) dalla norma dell'art. 100 della Carta che sancisce l'indipendenza dei funzionari medesimi. Si può anche ricordare il parere (anch'esso rimasto senza contestazioni di rilievo) emesso nel 1954 a proposito del Tribunale amministrativo delle Nazioni Unite, allorché la Corte ricavò il potere dell'Assemblea generale di dar vita a un Tribunale per le controversie relative ai rapporti di impiego presso le Nazioni Unite dall'art. 101, secondo cui l'Assemblea ha competenza a disciplinare il reclutamento del personale assicurandosene il massimo grado di efficienza, perizia e integrità. Quando invece la Corte, da simili questioni marginali, è passata a occuparsi di questioni fondamentali, quando essa ha tentato di ricostruire, o meglio di costruire, poteri di enorme importanza dal punto di vista della stessa struttura dell'Organizzazione, le cose sono allora andate in modo diverso. Estremamente significativa al riguardo è la sorte subita dal parere del 1962 sulla questione delle spese per le azioni dell'ONU nel Medio Oriente e nel Congo, questione alla quale vale la pena di dedicare una certa attenzione.

La questione delle spese fu dibattuta in termini drammatici tra il 1961 e il 1965. Essa sorse a causa del rifiuto di vari paesi (tra cui l'URSS, numerosi Stati socialisti e la Francia) di contribuire alle spese incontrate dall'ONU per il mantenimento della Forza di Emergenza delle Nazioni Unite (UNEF) in Medio Oriente e della Forza delle Nazioni Unite nel Congo (ONUC). L'UNEF era stata istituita dall'Assemblea generale durante la crisi di Suez del 1956 e aveva operato come forza cuscinetto tra Israeliani, Inglesi e Francesi, da un lato, ed Egiziani dall'altro; a sua volta, l'ONUC era stata creata dal Consiglio di sicurezza, nel 1960, e inviata nel Congo, alle dipendenze del Segretario generale, per contribuire a eliminare il caos che esisteva nel paese e che era dovuto non solo e non tanto agli indigeni quanto alle interferenze straniere. Iscritte le spese relative alle due forze nel bilancio delle Nazioni Unite, e presentato il bilancio all'Assemblea per l'approvazione, gli Stati sopra menzionati dichiararono (si era nel 1961) di non voler corrispondere la loro parte. Tale rifiuto, che sembrava a prima vista contrario all'art. 17 della Carta, secondo il quale l'Assemblea approva il bilancio ripartendo obbligatoriamente le spese tra gli Stati membri, era accompagnato da precise motivazioni giuridiche. Si sosteneva infatti da quei paesi: che nella specie si trattasse di spese straordinarie e non ordinarie, come tali non previste dall'art. 17; che l'azione nel Medio Oriente era stata illegittimamente deliberata dall'Assemblea, essendo il Consiglio di sicurezza l'unico organo competente a intraprendere azioni a tutela della pace; che, per quanto riguardava l'intervento nel Congo, il Segretario generale non si era attenuto alle direttive del Consiglio; e infine che, attribuendosi all'Assemblea il potere di deliberare, e poi ripartire obbligatoriamente tra i membri, qualsivoglia spesa, si sarebbe finito per riconoscerle funzioni di supergoverno mondiale in palese contrasto con quella che era stata la volontà dei redattori della Carta. Dietro siffatti argomenti giuridici vi erano, come è evidente, forti motivazioni politiche e in particolare il timore che, servendosi dell'art. 17, le forze prevalenti nell'Assemblea (a quell'epoca esse facevano capo agli Stati Uniti) potessero pretendere ogni genere di comportamenti dagli Stati non disposti ad allinearsi. Fu allora che, persistendo il rifiuto, la Corte internazionale di giustizia venne chiamata a pronunciarsi in sede consultiva. Nel parere, reso nel 1962, essa diede torto agli oppositori: a suo avviso non poteva non riconoscersi all'Organizzazione il potere di prendere qualsiasi misura (e far sopportare ai membri le relative spese) necessaria per il raggiungimento dei fini delle Nazioni Unite e soprattutto del fine fondamentale del mantenimento della pace.

A un esame obiettivo il parere sulla questione delle spese non può che apparire assurdo, ove si consideri che i fini delle Nazioni Unite sono assai generici e onnicomprensivi. Ma non è ciò che si vuol mettere in luce. Si vuole piuttosto sottolineare il fatto che, tra il 1962 e il 1965, il rifiuto di contribuire venne tenuto fermo, nonostante il parere, nonostante le condanne verbali da parte degli esponenti della maggioranza assembleare e nonostante la minaccia di ricorrere all'art. 19 della Carta che prevede la sospensione del diritto di voto per i membri morosi. Si vuol sottolineare altresi, per una definitiva conferma della natura velleitaria della teoria dei poteri impliciti nelle questioni davvero importanti e decisive, che gli oppositori finirono col vincere sostanzialmente la partita quando, per por termine alla controversia, che sembrava addirittura attentare alla stessa esistenza dell'Organizzazione, l'Assemblea (la quale non aveva quasi tenuto sessione nel 1964 per fare in modo che non trovasse applicazione il citato art. 19) decise unanimemente, nel 1965, che le spese per l'UNEF e l'ONUC sarebbero state pareggiate... con contributi volontari.

5. La struttura delle organizzazioni: organi composti di Stati, organi composti di individui, organi composti di popoli

La più gran parte degli organi internazionali, e tra essi quelli di maggior rilievo, sono formati da Stati. Ciò significa che le persone che compongono l'organo rappresentano il proprio Stato, ne manifestano la volontà, sono tenute a seguirne le istruzioni; di solito esse rappresentano, manifestano la volontà e seguono le istruzioni del potere esecutivo, dato che, nell'ambito di ciascuno Stato, al potere esecutivo è normalmente affidata la condotta degli affari esteri. È così, per esempio, che rappresentanti del governo italiano votano per l'Italia in seno all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, oppure al Consiglio della NATO o ancora al Consiglio delle Comunità europee.

La circostanza che gli organi internazionali siano nella maggior parte composti di Stati, o meglio di governi, unita all'altra circostanza (di cui ci occuperemo più avanti) che le decisioni degli organi si riducano sostanzialmente ad accordi, contribuisce a dimostrare l'inesistenza di effettivi centri decisionali al di sopra degli Stati, l'incapacità insomma delle organizzazioni di distaccarsi dagli Stati membri e di avere una vita autonoma.

Ma quali sono le alternative all'organo composto di Stati? E quale tipo di composizione è auspicabile che venga potenziata se si vuole rafforzare il potere delle organizzazioni e rafforzarlo in modo che sia esercitabile efficacemente e nell'interesse di tutti?

Un'alternativa è costituita da quello che nel linguaggio tecnico-giuridico si è soliti qualificare come organo composto di individui: la persona o (nel caso di organi collegiali) le persone che formano l'organo assumono l'ufficio a titolo puramente individuale, senza manifestare la volontà di alcuno Stato e senza ricevere, anzi con l'obbligo di non ricevere istruzioni da alcun governo. È chiaro che l'organo così formato gode per definizione di indipendenza rispetto ai paesi membri dell'organizzazione cui appartiene, e pertanto dovrebbe agire esclusivamente nell'interesse di quest'ultima.

Organi composti di individui esistono in tutte le organizzazioni, ma svolgono esclusivamente funzioni esecutive o giurisdizionali. Organo esecutivo è per esempio il Segretario generale delle Nazioni Unite, che è nominato dall'Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza, e che, a termini della Carta dell'ONU (art. 100), ha l'obbligo, nell'espletamento dei suoi compiti, di non sollecitare nè ricevere istruzioni da alcun governo o da ‟alcun'altra autorità estranea all'organizzazione"; organi esecutivi sono altresì i segretari o direttori generali esistenti in ogni istituzione specializzata delle Nazioni Unite, nelle organizzazioni regionali e in quasi tutte le altre associazioni fra Stati. Per quanto riguarda gli organi giurisdizionali, gli esempi sono forniti dalla Corte internazionale di giustizia, organo dell'ONU, e dalla Corte delle Comunità europee, nonché dai tribunali istituiti in talune organizzazioni per la soluzione delle controversie di lavoro con i funzionari, per esempio il Tribunale amministrativo delle Nazioni Unite: tutti i membri di queste corti vi siedono a titolo individuale, vengono reclutati, come dicono i trattati istitutivi delle rispettive organizzazioni, tra persone che danno garanzia di competenza e di moralità, e svolgono la loro attività in posizione di piena indipendenza.

C'è un solo caso di organo composto di individui che non esplica funzioni esecutive o giurisdizionali ma dispone di ampi poteri normativi ed è anzi l'organo principale nell'ambito della propria organizzazione: si tratta della Commissione delle Comunità europee, in quanto agisca come organo della CECA. Come si è già avuto modo di accennare, la Commissione delle Comunità, unificata dopo il 1967, esercita per la CECA gli stessi poteri esercitati prima dell'unificazione dall'Alta autorità. Tali poteri sono assai estesi rispetto a quelli del Consiglio, l'organo nel quale sono rappresentati gli Stati, e danno luogo a una vera e propria attività di tipo legislativo (la cosiddetta legislazione comunitaria) destinata in parte a sostituirsi alle legislazioni nazionali; per la qualcosa la differenza della CECA rispetto alla CEE è notevole, dato che in questa la legislazione comunitaria è di competenza del Consiglio, e dunque torna nelle mani degli Stati membri, laddove la Commissione ha sì limitate competenze normative in talune materie ma esercita principalmente poteri di iniziativa e di esecuzione. La Commissione delle Comunità, come già l'Alta autorità della CECA, è un organo composto di individui: le tredici persone che la compongono, sebbene siano nominate di comune accordo dai governi e sebbene debbano essere cittadini degli Stati membri, sono del tutto indipendenti. ‟I membri della Commissione - dice l'art. 10 del Trattato che nel 1967 ha istituito Commissione e Consiglio unici per le tre Comunità e che peraltro riprende termini già adoperati dai trattati istitutivi della CECA, della CEE e dell'EURATOM - esercitano le loro funzioni in piena indipendenza nell'interesse generale delle Comunità. Nell'adempimento dei loro doveri essi non sollecitano nè accettano istruzioni da alcun governo nè da alcun organismo [...]. Ciascuno Stato membro si impegna a rispettare tale carattere e a non cercare di influenzare i membri della Commissione nell'esercizio del loro compito".

Ciò premesso, è il caso di chiedersi se l'organo composto di individui rappresenti effettivamente un'alternativa valida all'organo composto di Stati, e funzionale rispetto a un giusto rafforzamento dei poteri delle organizzazioni. Il problema non si pone ovviamente per gli organi con competenze esecutive o giurisdizionali, trattandosi di competenze che per loro natura ben si prestano a far capo a persone individualmente scelte, e il cui esercizio non richiede altri requisiti oltre quelli dell'esperienza, dell'onestà e dell'indipendenza. Il problema va posto invece per gli organi a competenza normativa, e va posto con particolare enfasi proprio quando si tratta, come nel caso della Commissione comunitaria agente per la CECA, di competenze normative destinate a regolare rapporti anche interni agli Stati membri e a sostituirsi in tal modo alle legislazioni nazionali. È davvero da approvare l'accentramento di competenze del genere in un gruppo di individui, siano pure indipendenti ed esperti? Noi siamo francamente tra coloro che propendono per una risposta negativa, e ciò nonostante l'entusiasmo che nel 1953 suscitò la costituzione dell'Alta autorità della CECA, definita dal Trattato di Parigi come organo soprannazionale e additata, anche al di fuori della cerchia dei fautori dell'integrazione europea, come esempio di primo, genuino centro di potere superiore agli Stati. A nostro avviso, contro l'attribuzione di poteri di decisione soprannazionale a individui militano invece quelle stesse, precise e semplici ragioni che, all'interno dello Stato, militano contro le forme di governo oligarchico e tecnocratico, ragioni che tutte si compendiano nel principio per cui i tecnocrati possono esprimere pareri ma a governare devono essere i popoli o i loro diretti rappresentanti. E ci sembra che queste ragioni debbano tanto più farsi valere contro chi si lamenti che l'esperienza della CECA, e dunque di un'organizzazione che è almeno settoriale e limitata, non sia stata estesa a organizzazioni aventi fini e competenze assai più ampi e generici, non sia stata estesa, per intenderci, nel 1958, alla Comunità Economica Europea.

Le considerazioni fin qui svolte lasciano intravvedere una soluzione del problema della struttura degli organi internazionali, che è certamente rivoluzionaria allo stato attuale dei rapporti fra Stati, ma per la quale crediamo varrebbe la pena di battersi. Si tratterebbe di assicurare negli organi principali delle principali organizzazioni la diretta rappresentanza dei popoli. In questa direzione è stata del resto già accesa qualche scintilla, e sia pure non più che qualche scintilla; essa andrebbe alimentata, con la speranza... che il fuoco divampi e si propaghi.

Una scintilla, che purtroppo la pratica ha finora neutralizzato, è anzitutto contenuta nella stessa Carta delle Nazioni Unite per quanto concerne l'Assemblea generale.

Secondo gli artt. 9 e 18 della Carta, ogni Stato membro dell'ONU dispone di un solo voto in seno all'Assemblea ma ha diritto a farvi sedere fino a cinque rappresentanti. Per comprendere lo scopo originario di siffatta discordanza, occorre risalire al vecchio Patto della Società delle Nazioni che già la prevedeva per l'Assemblea societaria. Si può scoprire così che essa fu voluta dai redattori del Patto proprio per assicurare una sia pur imbrigliata presenza di persone che non rappresentassero il governo ma i governati, e che comunque fossero portatori di opinioni e di interessi diversi e magari contrastanti. La manifestazione del voto - si disse in sede di elaborazione del Patto - non può che essere unitaria e sarà esercitata dagli organi (potere esecutivo) cui compete la condotta della politica estera di ciascun paese membro; sarà bene però che ogni singolo governo procuri di far intervenire più ‛voci' nella fase della discussione, accreditando per esempio un rappresentante dell'opposizione parlamentare, di un'associazione di categoria ecc. E in tal modo si ovvierà almeno in parte - concluse il Presidente Wilson in un solenne discorso tenuto il 14 febbraio 1919 alla Conferenza della pace - al fatto che l'Assemblea della Società sia un insieme di delegati statali anziché un parlamento mondiale.

Come si vede, si trattava di un passo assai timido, lo strumento del voto restando saldamente nelle mani dei governi. È davvero spiacevole constatare che, nonostante ciò, sia all'epoca della Società delle Nazioni, sia oggi alle Nazioni Unite, l'intento degli antichi redattori del Patto abbia finito col non trovare rispondenza nella pratica. Già in seno all'Assemblea societaria le ‛voci diverse' non furono molto numerose (solo alcuni governi, tra cui la Danimarca e l'Austria, presero ad accreditare membri dei partiti di opposizione); esse sono addirittura scomparse con l'Assemblea dell'ONU. Sebbene le delegazioni di molti Stati non siano composte esclusivamente da personale ‛dipendente' dal potere esecutivo, è comunque impossibile trovar traccia negli interventi dei delegati in seno all'Assemblea generale di linee politiche non allineate su posizioni governative. In realtà la pluralità dei delegati ha finito con l'assumere un significato soltanto pratico e tecnico, in vista del fatto che i lavori dell'Assemblea si svolgono sia in seduta plenaria sia in varie commissioni, e che in ognuna di queste occorre assicurare la presenza di un rappresentante di ciascun governo; e si è arrivati per questa via a far prendere il posto dei rappresentanti dei popoli dagli esperti governativi!

Più viva, e d'altro canto più decisamente orientata nel senso della rappresentanza se non popolare almeno di gruppi eterogenei all'interno dello Stato, è invece la regola che presiede alla composizione dell'organo principale di una delle istituzioni specializzate delle Nazioni Unite, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro. Alla Conferenza generale dell'OIL ogni Stato membro partecipa con quattro delegati, di cui due rappresentano il governo mentre gli altri due sono sì di nomina governativa ma, in quanto sono destinati a rappresentare rispettivamente i datori di lavoro e i lavoratori, devono essere scelti (e a ciò sovrintende la maggioranza della Conferenza con lo strumento della verifica dei poteri) d'accordo con le organizzazioni più rappresentative delle rispettive categorie. Ciò che è importante notare è che, una volta avvenuta la nomina, ogni delegato dispone di un proprio voto che egli esercita in modo indipendente; con la conseguenza che le maggioranze in seno all'organo possono formarsi per categorie e gruppi di delegati politicamente affini anziché attraverso intese fra governi. La funzione della Conferenza generale, che è poi la funzione caratteristica dell'intera OIL, consiste nel predisporre progetti di accordi multilaterali in materia di lavoro da sottoporre alla ratifica degli Stati membri; ed è significativo che, nell'esercizio di siffatta funzione e grazie anche alla composizione sui generis rispetto alla normale composizione degli organi assembleari internazionali, la Conferenza abbia contribuito allo sviluppo della tutela del lavoro in varie sue manifestazioni.

Ma l'esperimento più interessante e ricco di prospettive nel campo della rappresentanza popolare in seno alle organizzazioni internazionali è senza dubbio quello che si è andato e si va realizzando nell'ambito dell'Europa occidentale. Già il Consiglio d'Europa, con una modifica apportata al Trattato che nel 1949 l'aveva istituito, trasformò nel 1952 il proprio organo assembleare (l'Assemblea consultiva), decidendo che esso non sarebbe stato più composto da delegati dei governi bensì da rappresentanti dei parlamenti nazionali. A loro volta i trattati istitutivi delle Comunità europee stabilirono che tra le proprie istituzioni, e quindi a fianco del Consiglio, della Commissione e della Corte di giustizia, vi fosse un'Assemblea, anch'essa formata di delegati scelti dai parlamenti nazionali fra i propri componenti. L'Assemblea è unica per le tre Comunità ed è l'organo che ormai viene designato con il nome di Parlamento europeo. Con un accordo raggiunto dai capi di Stato e di governo dei nove paesi membri nel dicembre 1975, accordo recepito in una decisione del Consiglio delle Comunità del settembre 1976 e ratificato dagli organi legislativi nazionali, l'elezione a suffragio universale e diretto del Parlamento europeo, auspicata dai Trattati comunitari, è divenuta una realtà. Si è così ora di fronte alla prima realizzazione di un organo che può dirsi di effettiva e completa rappresentanza popolare.

L'elezione del Parlamento europeo a suffragio universale e diretto è un evento tale da suscitare legittimo entusiasmo e larghi consensi sia tra gli europeisti sia tra coloro che vi scorgono la giusta strada per superare il particolarismo statale. Entusiasmo e consensi non devono far dimenticare però i limiti dell'operazione, che sono grossi e che ancora una volta dimostrano come il potere a livello internazionale è ben lungi dall'essere esercitato su base democratica. I limiti sono propriamente costituiti dal fatto che, come l'Assemblea consultiva del Consiglio d'Europa non è l'organo principale ditale organizzazione (essa è subordinata al Comitato dei ministri, che è l'organo rappresentativo dei governi), così pure le competenze del Parlamento europeo sono estremamente ridotte. Come si è più volte sottolineato, infatti, i poteri normativi nell'ambito della CECA, da un lato, e della CEE dall'altro, spettano rispettivamente alla Commissione e al Consiglio. Il Parlamento non ha invece che certi poteri di controllo in materia di bilancio e la facoltà (mai finora esercitata) di votare una mozione di sfiducia nei confronti della Commissione, provocandone le dimissioni ; per il resto esso si limita a rivolgere interrogazioni agli altri organi. Il progresso costituito dalla rappresentanza popolare nell'ambito comunitario resta dunque condizionato a un accordo tra gli Stati membri circa uno spostamento di competenze dalla Commissione e dal Consiglio all'organo parlamentare; ma il cammino verso siffatta meta sembra assai lungo e arduo. Eppure, se esso fosse percorso, e se l'esempio fosse seguito in altre e più vaste associazioni fra Stati, si potrebbe allora veramente esser fiduciosi nei processi organizzativi in seno alla comunità internazionale.

6. L'attività delle organizzazioni

L'attività delle organizzazioni internazionali può essere esaminata servendosi della classica tripartizione delle funzioni di governo, ossia distinguendo l'attività normativa, diretta a creare regole giuridiche per gli Stati associati, da quella giurisdizionale, consistente nell'interpretare autoritativamente siffatte regole, e da quella esecutiva, intesa a mandare a effetto e a far rispettare le medesime.

a) L‛attività normativa

Cominciando dall'attività normativa, abbiamo più volte affermato che la presenza e la moltiplicazione delle forme organizzative nella comunità degli Stati non hanno prodotto una sostanziale modifica di quel principio che da secoli presiede alla formazione del diritto internazionale, cioè il principio dell'accordo, principio per cui il consenso del singolo Stato è necessario affinché un vincolo giuridico di qualsiasi genere si crei a suo carico. È giunto ora il momento di dimostrare e specificare detta affermazione.

Un primo punto va subito chiarito ed è che spesso l'attività delle organizzazioni internazionali è proprio diretta, in base a quanto prescrivono i rispettivi statuti, a promuovere convenzioni fra gli Stati membri. Trattasi di un'attività che si svolge in una fase, per così dire, pre-giuridica, in quanto la sua caratteristica principale è costituita dal fatto che in seno agli organi ci si limita a negoziare un progetto di convenzione; questo poi, come tutti i testi negoziati, deve essere sottoposto ai governi degli Stati membri, e solo quando i singoli governi lo abbiano ratificato secondo le procedure stabilite dalle rispettive costituzioni, l'accordo diventa operante. È ovvio che un'attività del genere non suscita problemi, inquadrandosi di per sé nelle regole classiche relative alla formazione del diritto internazionale. Tutto ciò che si può dire è che essa merita comunque una menzione onorevole per i notevoli risultati che ha prodotto e che si ricollegano al diverso clima nel quale si svolgono i negoziati in seno agli organi internazionali rispetto alle comuni procedure di negoziazione diretta fra Stati. Tale clima, che del resto già sottolineammo e che circonda tutte le attività delle organizzazioni, comporta una forte spinta, mai in altre epoche concepita e attuata, verso la diplomazia aperta, verso il superamento degli interessi prettamente nazionalistici, verso la collaborazione internazionale la più intensa. È significativo al riguardo che le più importanti convenzioni multilaterali oggi vigenti, da un lato siano state predisposte nell'ambito di organizzazioni internazionali, dall'altro disciplinino rapporti che assai difficilmente in altri tempi gli Stati avrebbero consentito a regolare con accordi internazionali. Si pensi, per fare solo pochissimi esempi, ai tanti accordi promossi dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, come la Convenzione sul genocidio del 1948, i due Patti rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali dell'uomo, entrambi del 1966, e le convenzioni di codificazione del diritto internazionale (sul diritto internazionale marittimo, sulle immunità diplomatiche, sul diritto dei trattati) ecc.; si pensi inoltre alle varie convenzioni a tutela del lavoro promosse dall'OIL, oppure alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950, alla Convenzione europea di estradizione del 1957, e alla Convenzione europea di stabilimento del 1955, tutte promosse dal Consiglio d'Europa.

Sempre sul piano pattizio e all'insegna della collaborazione e della solidarietà fra gli Stati si svolge anche quella encomiabile attività delle organizzazioni operanti in campo economico e sociale, che va sotto il nome di assistenza tecnica. Ne sono esempi i vasti programmi di assistenza ai paesi in via di sviluppo, programmi che investono i più diversi settori (dalla sanità ai lavori pubblici, dall'educazione alla formazione professionale, dall'agricoltura all'industria) e che vedono soprattutto impegnate le istituzioni specializzate delle Nazioni Unite (OMS, FAO, UNESCO ecc.); oppure le operazioni finanziarie che fanno capo al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo e, nell'ambito europeo, alla Banca Europea per gli Investimenti; o infine i vari fondi costituiti dalle Nazioni Unite con contributi volontari degli Stati membri, come per esempio il Fondo per l'Assistenza all'Infanzia (UNICEF) o il Fondo Speciale per l'Assistenza Tecnica. Programmi, prestiti, erogazioni di fondi si traducono sul piano normativo in nient'altro che nella formazione di accordi tra l'organizzazione o le organizzazioni eroganti da un lato e lo Stato beneficiano dall'altro.

Senonché la formazione di accordi non esaurisce, o meglio non dovrebbe esaurire, l'attività normativa delle organizzazioni. L'attività normativa vera e propria dovrebbe esser formata da quegli atti che sono tipici di qualsiasi associazione e che consistono in deliberazioni adottate secondo il principio di maggioranza. Ed è appena il caso di sottolineare che la sostituzione del principio maggioritario, proprio degli atti organici, al principio di unanimità, proprio degli accordi, segna, o dovrebbe segnare, un salto di qualità nella gestione delle relazioni internazionali, il salto dalla tutela degli interessi statali particolari a quella degli interessi della collettività che una data organizzazione rappresenta. Orbene, non si può dire che tale salto non trovi riscontro nella più gran parte dei trattati istitutivi delle organizzazioni oggi esistenti e sia pure secondo una linea di tendenza il cui consolidamento non risale oltre la seconda guerra mondiale, dato che ancora nell'ambito della vecchia Società delle Nazioni le delibere degli organi dovevano tutte esser prese all'unanimità. Ma - ed ecco perché usiamo il condizionale - si tratta di una tendenza consolidatasi solo nei testi dei trattati istitutivi, solo nella ‛lettera' delle disposizioni statutarie, non anche nella realtà delle cose. A nostro avviso, se si guarda alla prassi delle organizzazioni quale si è venuta sviluppando (ovviamente nelle grandi linee e salve le debite eccezioni) negli ultimi trent'anni, ci si rende conto che il principio di maggioranza è stato sì statutariamente sancito ma non ha avuto il successo sperato, che esso il più delle volte ha ceduto il posto in un modo o nell'altro al principio di unanimità, che gli atti organici si sono risolti in accordi fra Stati e che infine, per quanto possa sembrare paradossale, siffatta riduzione ha contribuito a dare un certo ossigeno alle organizzazioni laddove non poteva esserci altro che la condanna alla paralisi. Prima però di fornire una sintesi dei dati della prassi dai quali ciò si ricava, è bene dare un'occhiata ai principali tipi di atti organici cosi come previsti nei vari statuti.

Le categorie alle quali possono ricondursi tutti gli atti delle organizzazioni internazionali, adottabili secondo il criterio maggioritario nelle sue varie manifestazioni (maggioranza semplice, maggioranze qualificate), sono fondamentalmente due: la categoria delle decisioni e quella delle raccomandazioni.

Le decisioni hanno carattere pienamente vincolante per lo Stato o gli Stati membri ai quali si indirizzano ; questi sono tenuti statutariamente a rispettarle, ne abbiano o me- no accettato il contenuto. Esempi: nell'ambito delle Nazioni Unite le cosiddette decisioni ‛non implicanti l'uso della forza', che il Consiglio di sicurezza può emanare in base all'art. 41 della Carta imponendo agli Stati membri l'adozione di una serie di misure contro un determinato paese (colpevole, a giudizio insindacabile dello stesso Consiglio, di minacciare la pace), misure che vanno dalla rottura dei rapporti commerciali all'interruzione delle comunicazioni terrestri, aeree, navali, telegrafiche ecc., fino al blocco economico totale; sempre nell'ambito delle Nazioni Unite, la risoluzione con cui l'Assemblea generale ripartisce obbligatoriamente le spese dell'Organizzazione tra gli Stati membri (art. 17 della Carta) ; nell'ambito delle istituzioni specializzate, i regolamenti sul traffico aereo, denominati ‛standard internazionali', di competenza del Consiglio dell'OACI, l'Organizzazione per l'Aviazione Civile Internazionale (artt. 37, 54, lett. C, e 90 dello Statuto), oppure i regolamenti in tema di procedure per prevenire la diffusione delle epidemie, per definire le caratteristiche dei prodotti farmaceutici, ecc. , adottabili dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (art. 21 dello Statuto) ; nell'ambito delle Comunità europee, e soprattutto nell'ambito della CEE, i cosiddetti atti della legislazione comunitaria, ossia i regolamenti, che addirittura vengono statutariamente equiparati alle leggi interne in quanto sono ‟direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri", e hanno carattere generale e astratto, le decisioni (termine che qui indica specie e non genere) che hanno invece carattere particolare e concreto, e le direttive, le quali obbligano gli Stati membri cui si rivolgono per quanto riguarda un certo risultato da raggiungere ma non anche i mezzi per conseguirlo (art. 189 del Trattato CEE).

Occorre notare che, a parte la legislazione comunitaria (soprattutto la legislazione della CEE), la quale non solo si compone di vari tipi di atti ma può spaziare in tutta una gamma di materie rientranti nell'attuazione del Mercato Comune, la competenza degli organi internazionali a emettere decisioni non è prevista con molta larghezza; vi sono anzi organizzazioni, come varie istituzioni specializzate, come il Consiglio d'Europa e altre, i cui statuti non fanno neppure menzione di una competenza del genere. Largamente previsto è invece il potere di adottare la seconda delle due summenzionate categorie di atti, ossia le raccomandazioni. La raccomandazione è in definitiva lo strumento tipico e più diffuso nelle mani degli organi internazionali; basti pensare che nei trattati istitutivi di tutte le organizzazioni, e per tutti gli organi nei quali i governi membri sono rappresentati, esiste una norma press'a poco simile a quella dell'art. 10 della Carta delle Nazioni Unite, secondo cui l'Assemblea generale può indirizzare agli Stati membri raccomandazioni ‟su qualsiasi questione o argomento che rientri nei fini del presente Statuto". La caratteristica di questo tipo di atto, caratteristica che ne spiega la diffusione, è che esso, a differenza della decisione, incide in modo assai tenue nella sfera giuridica degli Stati membri: la raccomandazione infatti non obbliga gli Stati cui si dirige a tenere il contegno raccomandato, non è, per usare termini tecnici, una manifestazione di volontà ma una manifestazione di desiderio la quale lascia liberi i destinatari di conformarvisi o meno. Errerebbe però chi ne deducesse che la raccomandazione non produca alcun vincolo e quindi sia da considerare come un atto privo di valore o comunque non riportabile al genere delle attività normative. Può osservarsi al contrario che il vincolo c'è, che esso sorge allorquando gli Stati abbiano liberamente deciso di eseguire la raccomandazione, e che esso consiste, per usare ancora un linguaggio tecnico, in un effetto di liceità: il contegno raccomandato, se eseguito, è sempre lecito, anche quando consiste in una violazione di precedenti norme internazionali, per esempio di precedenti norme pattizie. L'effetto di liceità è ricavabile da tutti gli statuti delle organizzazioni ed è insito nell'obbligo di solidarietà che lega fra loro gli Stati membri e li autorizza ad anteporre gli atti degli organi, sia pure non vincolanti, agli impegni derivanti da comuni trattati. Per fare un esempio che chiarisca quanto diciamo, si pensi alle varie raccomandazioni che da diversi anni va emanando l'Assemblea generale dell'ONU e che consistono nel richiedere agli Stati membri la rottura di relazioni commerciali, o almeno di certe relazioni commerciali, con il Sudafrica per condannarne la politica di apartheid, politica senza dubbio contraria ai fini delle Nazioni Unite: il sostenere che da simili raccomandazioni consegua, a termini della Carta dell'ONU, un effetto di liceità, significa sostenere che la loro esecuzione, liberamente decisa da ciascuno Stato membro, è sempre lecita anche se comporta l'inosservanza di trattati bilaterali o multilaterali di commercio eventualmente conclusi con il governo sudafricano.

Veniamo ora ai dati della prassi da cui si ricava quanto poc'anzi affermavamo, e cioè che il principio di maggioranza, il quale a termini dei vari statuti dovrebbe presiedere all'emanazione sia delle decisioni che delle raccomandazioni degli organi internazionali, ha finito col cedere il posto al principio di unanimità.

In alcuni casi l'abbandono del criterio maggioritario è stato addirittura sancito in un documento formale. È quanto è avvenuto nell'ambito della Comunità Economica Europea, il cui Consiglio, competente a emanare gli atti della legislazione comunitaria, dovrebbe secondo il Trattato istitutivo (art. 148) decidere a maggioranza, ora semplice ora qualificata. Il documento formale cui alludiamo è costituito dai famosi Accordi di Lussemburgo del 1966, che posero fine alla dirompente crisi attraversata dalla Comunità in seguito alla decisione di de Gaulle di sospendere la collaborazione francese nell'ambito dell'organizzazione comunitaria finché proprio la regola sulle modalità di votazione in seno al Consiglio nonché altre regole, considerate come fortemente limitatrici della sovranità dei singoli Stati membri, non fossero state modificate. In realtà, gli Accordi di Lussemburgo non ebbero, per la parte che ci interessa, una formulazione del tutto limpida: con essi ci si limitò, da un lato, a registrare una netta presa di posizione del governo francese favorevole sic et simpliciter al principio di unanimità, e dall'altro a constatare l'esistenza di una divergenza di vedute sul punto, divergenza che però si ritenne non dovesse ostacolare... la ripresa della vita comunitaria! Anche la natura giuridica degli accordi venne molto discussa, consistendo questi di dichiarazioni dei governi non seguite dalla ratifica da parte dei rispettivi parlamenti nazionali. Che si trattasse però di veri e propri accordi, sia pure conclusi, come si dice in linguaggio tecnico, in forma semplificata, e che il loro valore consistesse in una sostanziale accettazione della pretesa francese al fine di evitare il crollo dell'edificio comunitario salvando il salvabile, lo si ricava con sicurezza dalla prassi successiva, la quale testimonia che mai atto importante è stato adottato a Bruxelles, dopo di allora, secondo il criterio maggioritario.

La CEE, lo si è visto, è l'organizzazione più di ogni altra dotata di ampi poteri decisionali in vastissimi settori. Quanto è avvenuto nella prassi ora descritta è dunque assai significativo e induce a riflettere sulla capacità degli Stati di recuperare competenze già trasferite alle organizzazioni per esercitarle come le hanno sempre esercitate, cioè mediante lo strumento dell'accordo. Ancor più significativo diviene l'esempio della CEE se si considera che le Comunità europee offrono l'unico esempio di organizzazioni internazionali dotate di un organo giudiziario al quale compete un controllo sulla legittimità degli atti, ossia sulla conformità dei medesimi ai trattati istitutivi, con conseguente potere di annullamento delle deliberazioni illegittime eventualmente adottate dagli organi. Neppure una garanzia del genere, la cui mancanza, come subito vedremo, agevola in altre organizzazioni la tendenza degli Stati a sottrarsi alle competenze degli organi, riesce a rafforzare il principio di maggioranza!

Se nella CEE il principio dell'unanimità e quindi dell'accordo è stato ripristinato in forma quasi ufficiale, lo stesso principio ha ripreso vigore, sia pure in modo meno esplicito e anzi celandosi dietro... deliberazioni maggioritarie, presso gli organi principali (precisamente presso gli organi composti da Stati) di altre organizzazioni internazionali. Decisioni e raccomandazioni di tali organi continuano, è vero, a esser prese a maggioranza, secondo quanto prescrivono i rispettivi statuti, e nonostante gli sforzi che soprattutto in talune organizzazioni si fanno per pervenire alla cosiddetta approvazione per consensus, cioè senza una votazione formale e quindi senza voti contrari. Ma quali effetti le delibere maggioritarie sortiscono in pratica? Il fenomeno che colpisce quando si cerca di rispondere a questa domanda attraverso l'esame della prassi, si sviluppa da quella che può chiamarsi la ‛contestazione di carattere giuridico'. Gli Stati membri dell'organo che restano in minoranza relativamente a una determinata risoluzione, e che intendono sottrarvisi, sono soliti invocarne la illegittimità alla luce del diritto internazionale e soprattutto delle disposizioni statutarie. Una simile forma di contestazione trae alimento dal fatto che, allo stato attuale, le organizzazioni internazionali non sono dotate di strumenti idonei a garantire la legalità o comunque l'osservanza delle deliberazioni maggioritarie: da un lato, se si eccettua il caso isolato delle Comunità europee, mancano organi giudiziari che, in quanto organi super partes, controllino con efficacia vincolante la legittimità degli atti (anche la Corte internazionale di giustizia, organo dell'ONU, non dispone di un potere di controllo sugli atti dell'Organizzazione, ma emette solo pareri privi di forza obbligatoria e su richiesta degli stessi organi); dall'altro non esistono mezzi efficaci di pressione, mezzi ‛coercitivi' di cui le maggioranze possano servirsi per imporre il rispetto delle risoluzioni alle minoranze. Deriva da ciò che le contestazioni di carattere giuridico risultano appianabili solo attraverso mezzi conciliativi oppure se si riesce a ottenere l'acquiescenza alla risoluzione da parte del singolo Stato contestante. Se però l'acquiescenza non interviene, il dato che più frequentemente ricorre nella prassi è costituito dall'atteggiamento di completa e totale estraneità da parte degli Stati contestanti rispetto alla risoluzione contestata; questa resta res inter alios acta nei confronti della minoranza. Ed è allora che si assiste al sopravvento del principio dell'unanimità e dell'accordo: una volta scissa la maggioranza dalla minoranza, una volta verificata l'impossibilità di pervenire a una conclusione sicura circa la conformità della risoluzione al diritto internazionale e alle disposizioni statutarie, acquista unicamente valore l'adesione dello Stato membro, uti singulus, espressa attraverso il voto positivo, e il problema non è più quello di stabilire se esista una deliberazione presa nel quadro delle competenze statutariamente stabilite, ma fino a che punto e in che limiti gli Stati che adottano la risoluzione intendano concludere tra loro un accordo e impegnarsi a rispettarlo.

La prassi della massima organizzazione esistente, le Nazioni Unite, fornisce gli esempi più significativi di contestazione di carattere giuridico, di scissione tra maggioranza e minoranza e di trasformazione delle risoluzioni in accordi tra membri della maggioranza. Un primo esempio è dato dalle numerose risoluzioni di carattere politico prese dall'Assemblea generale nel periodo della guerra fredda, a cominciare dalla famosa risoluzione Uniting for peace del 1950 (con la quale l'Assemblea si attribuì la competenza ad adottare misure per la pace in luogo del Consiglio di sicurezza, paralizzato dal diritto di veto) fino alle varie delibere che avallarono la guerra di Corea nonché una serie di azioni con essa connesse, come l'embargo sulle merci destinate alla Repubblica Popolare Cinese e alla Corea del Nord, l'assistenza militare ed economica alla Corea del Sud, ecc.: tutte queste risoluzioni furono costantemente respinte come illegittime dall'Unione Sovietica e dai paesi del blocco socialista e finirono per essere interamente gestite, al di là dei limiti fissati all'Assemblea dalla Carta, dagli Stati che le avevano sostenute col loro voto positivo. Altre importanti testimonianze sono poi ricavabili dagli avvenimenti che accompagnarono la grave crisi internazionale e finanziaria attraversata dall'ONU tra il 1960 e il 1965 in seguito alle azioni nel Medio Oriente e nel Congo, crisi di cui sotto altri aspetti abbiamo già avuto modo di occuparci con una certa ampiezza (v. sopra, cap. 4), e che fu anch'essa caratterizzata dalla contestazione dell'attività della maggioranza a opera della minoranza: il fatto che gli Stati contestanti la legittimità delle azioni nel Medio Oriente e nel Congo riuscissero a non corrispondere i contributi per le spese relative (e ciò a onta dell'art. 17 della Carta secondo il quale le spese sono ‟obbligatoriamente" ripartite dalla maggioranza dell'Assemblea) e il fatto che alla crisi si ponesse fine con una delibera che trasformava i contributi da obbligatori in volontari, costituiscono forse la prova più calzante del dominio dell'accordo in seno alle Nazioni Unite. Che dire infine delle tante risoluzioni di palese marca terzomondista che l'Assemblea generale va adottando da alcuni anni in campo politico, economico e sociale, e che sempre più vedono in posizione di totale estraneità, sia pure secondo turni corrispondenti agli argomenti via via delibati, i paesi industrializzati, sia occidentali che socialisti? Gli esempi, tratti dalla prassi delle Nazioni Unite o di altre organizzazioni, potrebbero moltiplicarsi, ma non è certo questa la sede per indugiare in una casistica dettagliata.

La tendenza delle risoluzioni organiche a trasformarsi in accordi fra gli Stati che volta a volta compongono le maggioranze, se muove da un fattore negativo e cioè dalla incapacità delle organizzazioni a costituire dei veri centri decisionali al di sopra dei governi, ha almeno l'effetto positivo di dare un senso a un'attività che altrimenti dovrebbe considerarsi come puramente velleitaria e superflua. É chiaro pure che, trasformandosi in accordi e quindi svincolandosi dagli statuti delle rispettive organizzazioni, le risoluzioni acquistano una capacità di regolamento pressoché illimitata, quella stessa illimitata capacità che per l'appunto ha l'accordo fra Stati secondo il diritto internazionale. Tipica al riguardo è la prassi delle cosiddette Dichiarazioni di principi dell'Assemblea generale dell'ONU, prassi instaurata nel 1948 con la famosa Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ma intensificata dopo gli anni sessanta con tutta una serie di atti spesso assai invadenti della sfera interna statale, quali per esempio le Dichiarazioni sulla sovranità sulle risorse naturali, del 1 962, sulla non discriminazione razziale, del 1963, sulla eliminazione delle discriminazioni contro la donna, del 1967, sul progresso e lo sviluppo sociale, del 1969, ecc. La caratteristica saliente di buona parte di queste Dichiarazioni di principi sta nel fatto che esse pretendono di ‛vincolare' gli Stati, equiparando la violazione delle regole dichiarate (regole che talvolta non sono affatto generali ma di dettaglio, come per esempio, nel caso della Dichiarazione sulla non discriminazione razziale, la norma per cui ogni forma di propaganda razzista debba esser vietata) alla violazione del diritto internazionale e della Carta. Orbene, l'Assemblea generale, come più volte abbiamo sottolineato, non ha, a termini di statuto, poteri di legislazione mondiale bensì soltanto competenza a emanare raccomandazioni ; le dichiarazioni di cui stiamo parlando acquistano dunque un loro preciso significato solo se le si considera sotto la specie di accordi, solo se l'impegno a osservarle, impegno che chiaramente traspare dal loro testo ma che altrettanto chiaramente risulta (dai lavori dell'organo) respinto dagli Stati dissenzienti, è limitato ai membri della maggioranza.

b) L'attivita' giurisdizionale

Se l'attività normativa delle organizzazioni non si è risolta finora in una modifica qualitativa degli strumenti classici di formazione del diritto internazionale ma soltanto in un'incentivazione del classico strumento dell'accordo, una situazione del tutto analoga è riscontrabile nel campo della giurisdizione internazionale. Anche qui il principio tradizionale secondo cui uno Stato non può essere convenuto da un altro Stato dinanzi a un tribunale internazionale se prima non ne abbia liberamente accettato la competenza, il principio insomma della natura meramente ‛arbitrale' dei tribunali internazionali non si può dire abbia subito modifiche sostanziali per effetto del fenomeno dell'organizzazione. Si può dire però che le organizzazioni e soprattutto i due massimi organismi mondiali succedutisi nel nostro secolo, la Società delle Nazioni prima e le Nazioni Unite poi, abbiano prodotto una forte spinta verso la risoluzione arbitrale delle controversie, contribuendo ad affinarne e perfezionarne le procedure. Per rendersi conto di ciò è forse utile descrivere per sommi capi l'evoluzione che l'istituto dell'arbitrato è andato progressivamente registrando dalla fine del secolo scorso in poi.

Punto di partenza dell'evoluzione dell'istituto è l'arbitrato isolato. Nel secolo scorso, e secondo una prassi che sì era andata consolidando con l'affermarsi degli Stati nazionali e sovrani, l'arbitrato si svolgeva di solito nel modo seguente: sorta una controversia tra due o più Stati, si stipulava un accordo ad hoc, il cosiddetto compromesso arbitrale, col quale si nominava un arbitro o un collegio arbitrale, si stabiliva eventualmente qualche regola di procedura, e ci si obbligava a rispettare la sentenza (che spesso consisteva della sola parte dispositiva, non essendo l'arbitro obbligato a far conoscere la motivazione) così emessa. Come si vede, si trattava della forma più rudimentale e approssimativa possibile di accertamento giudiziale del diritto, rudimentale e approssimativa non solo dal punto di vista procedurale ma anche perché l'impegno arbitrale non precedeva ma seguiva la nascita della controversia e dunque era idoneo a coprire soltanto questioni minoris generis.

Già alla fine del secolo scorso e agli inizi dell'attuale cominciò a manifestarsi, prima in America e poi in Europa, la tendenza a ricorrere più frequentemente all'arbitrato e a circondarlo di maggiori garanzie. Da un lato comparvero i trattati generali di arbitrato e le clausole compromissorie, con i quali gli Stati si obbligavano a ricorrere all'arbitrato in ordine alle controversie o a determinate controversie che potessero tra loro sorgere in futuro. Dall'altro si diede l'avvio all'istituzionalizzazione dei collegi arbitrali, cioè alla creazione di corti arbitrali con carattere di permanenza e alla predisposizione di una serie di regole di procedura applicabili nei giudizi instaurati presso le corti medesime: venne per esempio creata in Europa, nel 1905, e messa a disposizione dei paesi che intendessero servirsene, la Corte permanente di arbitrato, tuttora esistente. I passi così compiuti erano però assai timidi. Trattati generali di arbitrato e clausole compromissorie dell'epoca, infatti, contenevano soltanto l'obbligo di addivenire al compromesso arbitrale in caso di controversia, contenevano cioè un semplice obbligo de contrahendo; se il compromesso non seguiva, non poteva comunque pervenirsi all'emanazione di una sentenza. Dal canto suo, la Corte permanente di arbitrato presentava, come presenta, un grado assai basso di istituzionalizzazione, consistendo in nient'altro che in un elenco di giudici, periodicamente aggiornato, ed essendo tutte le sue regole di procedura modificabili dagli Stati compromittenti.

Solo con la Società delle Nazioni e poi con le Nazioni Unite l'istituto arbitrale ha effettivamente compiuto progressi notevoli e senza precedenti. In seno ai due organismi si è anzitutto compiuto il processo di istituzionalizzazione, con la creazione nel primo dopoguerra della Corte permanente di giustizia internazionale, organo della Società, sostituita nel 1945 dalla Corte internazionale di giustizia, organo dell'ONU: la Corte internazionale di giustizia, al pari della vecchia Corte societaria, è composta di un corpo permanente di giudici che vengono eletti dall'Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza, e che giudicano in base a puntuali e complesse regole di procedura inderogabili dalle parti. In secondo luogo, e sempre sotto la spinta prima dell'una e poi dell'altra organizzazione, si è andato diffondendo nella prassi contemporanea dei trattati di arbitrato e delle clausole compromissorie l'impegno degli Stati a sottoporsi direttamente al giudizio della Corte internazionale, con la conseguente possibilità che, in caso di controversia, uno Stato sia citato da un altro Stato innanzi alla Corte medesima, a prescindere dalla conclusione di un successivo compromesso; tipica al riguardo è la clausola prevista dall'art. 38 dello Statuto della Corte, secondo cui ‟gli Stati aderenti al presente Statuto [cioè tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite] possono in ogni momento dichiarare di riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza speciale convenzione, nei rapporti con qualsiasi altro Stato che accetti la medesima obbligazione, la competenza della Corte [...]". È chiaro che il fondamento del giudizio resta pur sempre volontario; è chiaro che gli Stati restano liberi di non accettare la competenza della Corte e che questa resta pertanto un organo a carattere arbitrale; ma è chiaro pure che la possibilità di ricorrere unilateralmente alla Corte, anche se limitata agli Stati accettanti, determina una situazione al limite con quella che si verifica negli ordinamenti statali, dove la giurisdizione è imposta dall'alto. Nè è senza significato notare che dal primo dopoguerra a oggi la giurisprudenza della Corte societaria e poi della Corte dell'ONU, ricca quantitativamente e qualitativamente, ha costituito un punto di riferimento costante ai fini dell'interpretazione e della stessa elaborazione del diritto internazionale.

Una funzione analoga va svolgendo da vent'anni a questa parte, anche se limitatamente ai paesi della piccola Europa e all'interpretazione ed elaborazione del diritto comunitario, la Corte di giustizia delle Comunità europee. Anche della Corte comunitaria gli Stati membri hanno accettato una volta per tutte (con la ratifica dei trattati istitutivi delle Comuriità) la competenza e ciascuno Stato può essere pertanto convenuto in giudizio, per violazione delle norme comunitarie, dagli altri Stati membri oppure dalla Commissione. La Corte esercita altresì un controllo di legittimità sugli atti degli organi, ossia, come si e visto, sui regolamenti, sulle direttive e sulle decisioni. Una simile competenza, che può risolversi nell'annullamento degli atti illegittimi, costituisce un unicum nel campo del diritto e dell'organizzazione internazionale; ad essa non è paragonabile la funzione consultiva attribuita dalla Carta dell'ONU alla Corte internazionale di giustizia: i pareri che, nell'esercizio della funzione consultiva, la Corte internazionale può dare agli organi delle Nazioni Unite su qualsiasi questione giuridica, non solo vengono forniti soltanto su richiesta degli organi medesimi, ma non sono neppure vincolanti nei confronti di questi ultimi.

c) L'attivita esecutiva

Quando si parla di attività o di funzione esecutiva nel campo del diritto si ha riguardo sia all'attività intesa a tradurre in pratica (a mandar a effetto in ordine a casi concreti) le norme giuridiche, ed è questa l'attività propriamente amministrativa, sia l'attività diretta a far rispettare le norme stesse attraverso l'uso di strumenti coercitivi. Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, l'attività del primo tipo è in larga misura esplicata nel loro ambito: ne fanno fede gli estesi apparati burocratici che esistono in tutte le organizzazioni e il cui compito consiste per l'appunto nel curare gli aspetti amministrativi conseguenti all'attività degli organi deliberanti. Trattasi peraltro di aspetti poco importanti, sui quali non conviene soffermarsi. Bisogna invece francamente riconoscere che l'altro, e molto più importante, tipo di attività è del tutto carente presso le organizzazioni. Queste non dispongono di alcun mezzo idoneo a ottenere coattivamente l'osservanza delle proprie deliberazioni, degli accordi da esse promossi e più in generale del diritto internazionale. Dal punto di vista della coazione, insomma, le cose stanno esattamente al punto in cui erano prima dell'affermarsi e del diffondersi, nell'ambito della comunità internazionale, del fenomeno dell'organizzazione, ossia prima della grande guerra: il rispetto delle norme internazionali comunque create è, oggi come allora, affidato all'azione del singolo Stato; unico modo per prevenire o reprimere le altrui violazioni del diritto internazionale è, oggi come allora, costituito dalla minaccia o dalla concreta attuazione di una propria violazione, cioè dall'autotutela nella sua duplice forma della legittima difesa e della rappresaglia. E significativo che ciò sia espressamente riconosciuto dalle disposizioni statutarie dell'organizzazione che è forse la più avanzata dal punto di vista della cooperazione tra gli Stati membri: ci riferiamo all'art. 88 del Trattato istitutivo della CECA, il quale prevede che, come extrema ratio di fronte all'inadempienza di uno Stato membro, gli altri Stati possano venir meno agli obblighi fondamentali sanciti dall'art. 4 dello stesso Trattato.

Sembra poi inutile ricordare gli scarsi risultati che si sono ottenuti allorquando, per prevenire o reprimere quella massima violazione del diritto internazionale consistente nell'aggressione contro la sfera territoriale altrui, si è addirittura tentato di dotare la comunità degli Stati di una forza di polizia internazionale. Tale tentativo trovasi incorporato nella Carta dell'ONU agli artt. 42 e seguenti, articoli che abilitano il Consiglio di sicurezza a intraprendere contro qualsiasi Stato azioni di carattere militare. Trattasi però, come già si ebbe modo di vedere, di una parte della Carta che è rimasta pressoché lettera morta, essendo venuta meno fin dai primi anni di vita dell'ONU quell'intesa tra le grandi potenze che, resa necessaria dalla regola che sancisce il diritto di veto, è indispensabile al normale funzionamento del Consiglio. Forze internazionali sono state sì sporadicamente costituite su iniziativa del Consiglio, come nel caso del Congo nel 1960, e talvolta (nonostante la sua palese incompetenza in materia) dall'Assemblea generale, come durante la crisi di Suez nel 1956; ma la costituzione è avvenuta secondo modalità sempre diverse e spesso contrastanti con quelle previste dalla Carta, a fini più di conciliazione che di repressione, e dando in definitiva luogo a opposizioni e proteste sfociate, come pure si è visto, nel rifiuto da parte di molti Stati di contribuire alle relative spese. Il vero è che già nel 1945 non si doveva nutrire eccessiva fiducia nella funzionalità del Consiglio di sicurezza, se si sentì il bisogno di prevedere nella stessa Carta (art. 51) che gli Stati potessero organizzarsi in sistemi di alleanze di tipo classico a fini di autotutela collettiva e sia pure per difendersi solo fino al momento in cui... il Consiglio si attivasse. È chiaro d'altro canto che, se l'autotutela non fosse ancor oggi il mezzo normale per prevenire e reprimere le violazioni del diritto internazionale, se il Consiglio di sicurezza funzionasse normalmente, se, in altri termini, sussistesse quell'intesa duratura e profonda tra le grandi potenze sulla quale, a termini della Carta, dovrebbe fondarsi l'organizzazione della comunità degli Stati, quest'ultima perderebbe il suo carattere inter-nazionalistico per trasformarsi in comunità gerarchicamente ordinata sotto direttorio mondiale. C'è da chiedersi se l'attuale situazione non sia comunque preferibile a una simile alternativa.

7. Conclusione

La tesi di fondo che ha accompagnato la nostra indagine è che lo Stato come singolo fa ancora da protagonista nella vita di relazione internazionale, che l'accordo resta corrispondentemente lo strumento pressoché esclusivo per l'affermazione del diritto in seno alla comunità degli Stati, e che i fenomeni organizzativi che in questa si sono andati verificando hanno svolto il compito, non rivoluzionario ma certo assai importante, di facilitare l'accordo e di convogliarlo verso forme evolute di collaborazione internazionale.

C'è un ultimo punto che vale la pena di sottolineare e che riguarda un fenomeno il quale si svolge parallelamente all'attività delle organizzazioni (segnatamente delle grandi organizzazioni a carattere mondiale quali l'ONU e gli istituti specializzati delle Nazioni Unite), ma agendo, per così dire, al di sotto dello Stato anziché al di sopra: ci riferiamo alla pressione oggi sempre più esercitata dagli individui che compongono le varie comunità statali, e che la grande circolazione internazionale delle idee lega fra loro a onta dei confini territoriali, affinché i governi si vincolino alla più ampia collaborazione nell'interesse dell'intera umanità e ai vincoli tengano fede. Questa specie di spinta dal basso costituisce un correttivo, sia pur tenue, alla mancanza di mezzi coercitivi azionabili dalle organizzazioni.

La spinta proveniente dalle comunità statali non è fatta soltanto di movimenti di opinione ma assume o può assumere concrete forme giuridiche. Giova ricordare a tal pro- posito che negli ordinamenti statali più evoluti dal punto di vista della difesa della legalità anche nei confronti del- l'autorità pubblica, si prevede che il diritto internazionale sia osservato al pari del diritto interno. In Italia, per esempio, l'art. 10 della Costituzione impegna all'osservanza delle ‟norme internazionali generalmente riconosciute" ; inoltre il Parlamento, ogni qualvolta autorizza con legge la ratifica di un accordo internazionale, è solito ordinarne nella stessa legge l'esecuzione nell'ambito del territorio italiano. Così stando le cose, coloro cui spetta di applicare e far rispettare il diritto nell'ambito dello Stato, e in primo luogo i giudici, possono contribuire al rafforzamento della collaborazione internazionale in misura tanto più ampia quanto più utilizzino con mentalità internazionalistica, quanto più subordinino al perseguimento dei valori che legano gli uomini di buona volontà gli strumenti giuridici offerti dallo stesso diritto statale a garanzia dell'osservanza del diritto internazionale.

(v. internazionalismo: Diritti codificati e common law).

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