ORIENTAMENTI DELL'ETICA

XXI Secolo (2009)

Orientamenti dell’etica

Eugenio Lecaldano

Le problematiche principali

La comprensione della natura dell’etica agli inizi del 21° sec., come del resto nelle epoche precedenti, è fortemente dipendente dal tentativo di mettere a punto un’elaborazione teorica in grado di rispondere alle questioni morali più proprie del nostro tempo. In questo senso i problemi che maggiormente hanno coinvolto la riflessione etica tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec. sembrano essere stati quelli connessi alle nuove condizioni di vita della specie umana e alle responsabilità della nostra generazione nei confronti di quelle future. L’incremento demografico ha contribuito a trasformarne radicalmente le condizioni di vita. Il raggiungimento di sei miliardi e mezzo di esseri umani e la previsione dell’arrivo a nove miliardi a metà del 21° sec. hanno reso evidenti le inadeguatezze di molte morali tradizionali che affidavano alla provvidenza o alla natura il compito di far fronte ai bisogni degli esseri umani. L’etica non può oggi non muoversi in un orizzonte che esige da ciascuna persona un’esplicita consapevolezza delle sue responsabilità di fronte alla situazione attuale della specie umana. Una situazione che tra l’altro comporta sicuramente tratti di rilievo etico quali: forti diversità tra le condizioni di vita in diverse parti della Terra tra Paesi ricchi e poveri (con conseguenti tensioni, guerre e riprese di forme di conflitti razziali ed etnici); situazioni tali che fanno prevedere la mancanza nel futuro, anche per un eccessivo consumo delle generazioni attuali, di alcune risorse essenziali per il benessere umano, con conseguente previsione di peggioramento delle condizioni di vita delle generazioni future; trasformazioni radicali nelle stesse condizioni ambientali in cui si sviluppa la vita umana con fenomeni nuovi, inquietanti e dalle cause non del tutto chiare, quali, per es., il cambiamento climatico o la riduzione della biodiversità; la possibilità di usare o limitare oppure ancora rifiutare le grandi potenzialità messe a disposizione dalla ricerca scientifica, in particolare nei settori della biologia e della genetica, per migliorare le condizioni sanitarie di ciascuna persona e addirittura per ampliare le capacità umane, ma anche con nuove tecniche di produzione agricola quali gli organismi geneticamente modificati.

Tutta questa serie di problemi morali porta a privilegiare come orizzonte teorico delle questioni etiche la prospettiva già a suo tempo indicata da Derek Parfit nell’importante volume Reasons and persons (1984; trad. it. 1989): al centro dell’etica vi sono le nostre responsabilità nei confronti delle generazioni future. Per delineare una concezione adeguata di queste responsabilità bisogna riesaminare criticamente alcune delle parti essenziali della teoria morale trasmessaci dalla riflessione del passato. In particolare è completamente da rivedere la concezione della responsabilità individuale, ovvero determinare in che cosa consista la natura stessa della soggettività morale, e quindi che cosa conti in un essere umano per farne un soggetto morale responsabile. Nello specifico, come mostra Parfit nella prima parte del suo libro, si tratta di esaminare l’accettabilità di una concezione che fa coincidere la soggettività morale con una qualche capacità di ragionare. Questa concezione della soggettività ci è stata trasmessa sia dalle etiche dei principi, che rinviavano alla capacità razionale di riconoscere il ruolo obbligante di una serie di leggi morali, sia dalle etiche consequenzialiste, che l’intendevano come capacità di confrontare con un calcolo le conseguenze delle diverse condotte alternative per poi scegliere quella con i migliori risultati. Un’etica centrata sulle nostre responsabilità verso le generazioni future ci spinge tuttavia non solo a riconsiderare la natura stessa del soggetto morale, ma anche a rivedere la concezione del tipo di dignità personale che dovremmo garantire ai nostri contemporanei e ai membri delle generazioni future: il ‘dovremmo’ in questa formula si riempie di contenuti empirici invitando a fare un esame di quello che siamo in grado di fare e di garantire agli esseri umani che verranno. In questo quadro si capisce perché l’etica teorica agli inizi del 21° sec. – come mostreremo – sia impegnata a riesaminare criticamente non soltanto la concezione della soggettività morale e della sua connessione con la razionalità, ma anche la nozione di persona, in particolare valutando l’accettabilità di quelle declinazioni di questa nozione secondo cui i problemi morali del nostro tempo sono risolvibili con la riaffermazione di una qualche dignità, ontologicamente fondata e garantita, della persona umana. Come Parfit indica nella quarta parte del suo libro, il problema teorico centrale per l’etica è proprio quello di domandarci che aiuto può dare la tradizionale affermazione della dignità della persona, per evitare i disastri che l’incremento demografico sembra rendere sempre più inevitabili facendoci prevedere per il futuro peggiori condizioni di vita per gli esseri umani, condizioni che possono allontanarsi da una qualità di vita «minimamente decente». Proprio per dare un contenuto alle nostre responsabilità verso le generazioni future, secondo Parfit, va sottoposta a vaglio critico anche la nozione tradizionale di persona umana, troppo astratta e universalistica per poter guidare la riflessione su esseri umani concreti che debbono confrontarsi con la scarsità delle risorse in grado di soddisfare i loro bisogni.

Il ritorno alla metaetica

Il tratto prevalente della riflessione filosofica sull’etica in questo passaggio dal 20° al 21° sec. è stato quello di un ritorno alle questioni della metaetica. È noto che vi è un paradigma consolidato, con cui si rende conto della storia della riflessione teorica sull’etica nella seconda metà del 20° sec., che individua una prima fase tra gli anni Cinquanta e Sessanta caratterizzata dalla prevalenza appunto della metaetica (la personalità più significativa di questo periodo è stata sicuramente quella di Richard Mervyn Hare); seguita, negli anni Settanta e Ottanta, da una fase in cui invece prevale l’etica normativa (in cui primeggiano pensatori come John Rawls, che presenta una concezione neocontrattaulista, o John Harsanyi che propone un neoutilitarismo); segue poi una fase in cui dominano i problemi dell’etica pratica o applicata (con la fioritura della bioetica, dell’etica ambientale, dell’etica degli animali, dell’etica degli affari e delle professioni ecc.). Una volta esauritasi, nell’ultimo decennio del secolo scorso, la capacità delle diverse etiche applicate di rendere meno astratta e autoreferenziale la riflessione teorica, in questo primo decennio del 21° sec. sono tornati tuttavia in primo piano gli interrogativi propri della metaetica. Le diverse etiche applicate hanno mostrato l’illusorietà di alcune impostazioni che ritenevano che proprio l’orizzonte della riflessione pratica e applicata avrebbe permesso di elaborare procedure più salde e sicure, in grado di arrivare a una soluzione condivisa dei principali problemi morali. Illusione che alcuni, tra coloro che si sono impegnati nelle diverse etiche applicate, hanno spinto così avanti da pretendere per le loro discipline lo statuto di scientifiche. Naturalmente nessun settore dell’etica applicata ha retto alla pretesa di essere una scienza – o di trasformarsi in una scienza – e dopo il contributo apportato dalla riflessione sui problemi applicati dell’etica sono rimasti aperti – e forse si sono allargati – i disaccordi e i conflitti. Il diffondersi della consapevolezza di quanto fosse da ritenere illusoria la pretesa di fare procedere le etiche applicate sulla strada sicura della scienza ha dunque reso nuovamente attuale una riflessione critico-filosofica sulla natura propria delle questioni etiche. Sono dunque tornate di attualità domande centrali su che cosa sia l’etica, quali siano le procedure argomentative adeguate in questo campo e il rapporto che gli interrogativi etici hanno con le conoscenze e acquisizioni scientifiche.

Come è però comprensibile, il ritorno di attualità delle questioni centrali della metaetica si è accompagnato anche a modi del tutto diversi nel formularle e impostarne la soluzione. Basta esaminare alcuni dei volumi recenti più decisamente segnati dal progetto di riaffermare l’attualità della metaetica per accorgersi di questi mutamenti. In realtà, già a suo tempo un radicale mutamento dei modi di intendere la natura della metaetica era riconoscibile nella fortunata e significativa sintesi che nel 1997 proponevano Stephen Darwall, Allan Gibbard, Peter Railton nel primo capitolo del libro Moral discourse and practice, dal titolo Toward fin de siècle ethics, some trends: la metaetica era già estesa ben al di là della mera analisi del linguaggio e del significato e non si occupava solo di concetti, ma di psicologia filosofica. Tuttavia la revisione marcata del nucleo di interrogativi al centro della nuova fase della metaetica rispetto a quella degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso risulta ancora più evidente in altri lavori dedicati specificatamente a questa area della teoria etica: per es., il volume di Alexander Miller (2003) o i tre volumi finora pubblicati della serie Oxford studies in metaethics (2006-2008).

Comprendere gli elementi alla base di questa svolta ci permetterà di dare conto della situazione dell’etica agli inizi del 21° secolo. Vi è una prima radicale trasformazione, per così dire in negativo, nel modo in cui nell’ultimo decennio si intende l’elaborazione metaetica: si ritiene cioè che se si vuole capire la natura dell’etica o della morale si deve spingere la considerazione ben al di là del linguaggio con cui gli esseri umani formulano i loro giudizi di valore. La fase che faceva coincidere l’analisi della morale con l’analisi del linguaggio morale e del significato delle principali nozioni etiche quali buono, giusto, dovere, virtuoso è decisamente messa da parte. Ancora più di questo, sembra farsi sempre più spazio la convinzione che una elaborazione metaetica concentrata esclusivamente sul linguaggio non solo è parziale e inadeguata, ma proprio deformante, in quanto incapace di impostare una riflessione in grado di catturare la natura dell’etica nella sua realtà. L’idea in contrasto con il tentativo di ridurre l’etica a logica del discorso morale è che la riflessione filosofica sulla natura della morale – anche se non ci vogliamo spingere fino alla tesi estrema che deve essere sottratta dalle mani dei filosofi – va comunque impostata in un quadro che è largamente dipendente dalle conoscenze che sono state acquisite da diverse scienze. Come è possibile pretendere di caratterizzare che cosa è la morale senza tenere conto delle conoscenze che sulla condotta morale della specie umana sono state raggiunte dalla biologia, dall’etologia, dalla psicologia empirica, dalla ricerca sul cervello e così via?

La nuova metaetica e l’integrazione tra riflessione filosofica e ricerca scientifica

La nuova metaetica filosofica, che non perde di vista le conclusioni sulla condotta umana raccolte dagli scienziati, mette in primo piano altre questioni, rispetto a quelle del significato dei giudizi morali. Si tratta di un lavoro attualmente in corso. Ricordiamo ora le diverse linee lungo le quali la riflessione filosofica sulla morale dell’ultimo decennio ha proceduto integrando la sua elaborazione con le acquisizioni di diverse scienze.

Particolarmente esemplificativi del raggio di questioni che viene affrontato dai filosofi morali in questo loro sforzo di integrare nelle loro teorie le acquisizioni delle discipline empiriche sono i tre volumi di Moral psychology (2008). Il primo volume è dedicato alle questioni dell’evoluzione della moralità, ovvero a sviluppare una spiegazione naturalistica ed evoluzionistica della capacità di fare distinzioni morali. Il secondo volume è rivolto alla scienza cognitiva della moralità, quindi sia a spiegare come da questo punto di vista si articolano le intuizioni morali o i sentimenti morali sia a mostrare come queste spiegazioni sono conciliabili con il trattamento della diversità e del disaccordo caratteristici della nostra esperienza morale odierna. Il terzo volume è incentrato sulla neuroscienza applicata alla comprensione della moralità e dunque rende conto di quelle ricerche recenti che si sono impegnate a riprendere e sviluppare le impostazioni già delineate ampiamente negli anni Novanta da Antonio Damasio (1995). Si tratta dunque di quella prospettiva che cerca nel cervello le basi delle scelte morali, confrontandosi tra l’altro con la capacità di psicopatici e malati di autismo di tracciare delle distinzioni morali.

Quelle delineate nei tre volumi della raccolta dedicata alla psicologia morale appena ricordata sono appunto le acquisizioni sulle basi biologiche e neurologiche della condotta morale che la riflessione teorica agli inizi del 21° sec. non può ignorare. Non si tratta naturalmente di assumere una posizione riduzionista, che porta ad assimilare l’elaborazione critica e teorica dell’etica filosofica alle acquisizioni delle discipline empiriche sulla natura della morale. Ma tali acquisizioni sembrano un punto di partenza necessario se non si vuole teorizzare su quello che gli esseri umani debbono fare in termini così astratti da prescrivere loro quello che non possono fare. La stessa elaborazione normativa che è una delle possibilità dell’etica teorica ha molto da guadagnare, in positivo, dal sapere esattamente dove si trovano le basi biologiche e psicologiche della condotta umana: le raccomandazioni che essa intende far valere potranno essere articolate in modo tale da connettersi con i modi reali di agire degli esseri umani. Non è mancato chi già qualche decennio fa ha sostenuto l’esigenza di togliere l’etica temporaneamente dalle mani dei filosofi (E. Wilson, Sociobiologia. La nuova sintesi, 1979): l’integrazione nella teoria filosofica dell’etica delle acquisizioni delle discipline empiriche è una risposta a questa soluzione.

Una delle linee di approfondimento della conoscenza della moralità umana che emerge in modo convergente dalle diverse aree di ricerca empirica ora ricordate è quella che mette in luce l’inadeguatezza della tradizionale concezione dell’etica come di una condotta realizzata dagli esseri umani in quanto dotati di una peculiare facoltà morale, in grado di fondare in modo universale e assoluto il dovere e la distinzione tra bene e male. Tale quadro è stato contestato in diversi modi dalle ricerche empiriche. Per es., in una serie di lavori l’etologo olandese Frans de Waal ha delineato un approccio evoluzionistico alla morale che contesta questa genealogia razionalistica (tale impostazione è particolarmente chiara in de Waal 2006; trad. it. 2008). De Waal sostiene che la moralità umana trova la sua base in meccanismi di empatia rintracciabili anche nelle azioni osservabili di vari animali evoluti come i bonobo e le scimmie. Contrariamente alla spiegazione che vede la moralità umana come una patina estrinseca che la ragione umana fa valere sugli istinti animali, de Waal la considera come se essa fosse una matrioska che include al suo interno le tendenze altruistiche già presenti nelle specie animali. La moralità umana si presenta, dunque, come trasformazione e ampliamento di una naturale inclinazione altruistica che tutte le specie viventi sociali condividono. La concezione che vede la moralità come derivata da una razionalità che solo gli esseri umani posseggono, in realtà non riesce a comprendere che essa ha le sue basi biologiche in una batteria di istinti ed emozioni altruistiche frutto del processo evolutivo di selezione.

Un’analoga critica dell’impostazione metaetica che vede al centro della moralità la facoltà della ragione viene condotta, per es., da Shaun Nichols che rende conto di una larga serie di ricerche di psicologia empirica (2004). Come spiega Nichols, l’obiettivo principale delle ricerche di psicologia empirica è quello di riuscire a mostrare come nel corso dello sviluppo individuale gli esseri umani riescono a impadronirsi di ciò che si può considerare il nucleo centrale del giudizio morale. Secondo Nichols questo nucleo consiste nella consapevolezza che determinate situazioni in cui si trovano altre persone umane che subiscono danni o sofferenze sono negative non su basi convenzionali, ovvero perché c’è qualche autorità o regola che abbiamo appreso che ci dice di considerarle negative, ma proprio perché le nostre reazioni emotive dirette non possono non considerarle negative. Dunque, secondo Nichols, gli studi empirici sullo sviluppo della psicologia individuale nell’infanzia mostrano che gli esseri umani acquisiscono questa naturale tendenza emotiva a reagire negativamente alle sofferenze altrui – indipendentemente dalla presenza di un’autorità che lo suggerisca – già tra il secondo e il terzo anno di età. Per ricostruire poi specificamente il giudizio morale nella sua interezza, secondo Nichols bisogna aggiungere la capacità di distinguere tra un danno subito dalle persone per un evento naturale e un danno di cui altre persone sono responsabili.

Riusciamo a spiegare questo più specifico giudizio morale se attribuiamo agli individui umani la capacità di immaginare il carattere e le qualità delle persone che producono danni. A queste qualità e caratteri si accompagna il sentimento morale di disapprovazione in quanto le persone in esame non hanno rispettato la regola di non produrre sofferenze e danni non voluti con le loro azioni. Una ricostruzione complessiva della moralità in cui gli interventi di una facoltà della ragione sono del tutto assenti.

La natura dell’individuo e del soggetto morale

La ricaduta principale della riflessione metaetica di cui abbiamo reso conto sta nella profonda trasformazione che essa suggerisce relativamente alla concezione del soggetto morale. Cambia dunque l’analisi della responsabilità morale e, al di là di essa, della persona da far valere se vogliamo incamminarci sul piano della elaborazione di soluzioni normative ai problemi morali del nostro tempo. Esaminiamo ora queste tre ricadute – sulle nozioni di soggetto, responsabilità e persona – della recente elaborazione della riflessione morale.

Per quanto riguarda il soggetto morale, viene fortemente criticata una concezione che faceva coincidere la rappresentazione dell’agente morale con un essere dotato di una peculiare facoltà razionale, in grado di guidarlo verso la costruzione di valori con una portata assoluta e universale. Anche autori come Jürgen Habermas, che maggiormente cercano di riproporre una concezione del soggetto morale erede del pensiero di Immanuel Kant, finiscono poi con il radicarlo o in una struttura biologica – laddove non addirittura genetica – o in un ambiente di convenzioni linguistiche che regolano a priori le capacità comunicative umane (entrambi i temi al centro della lunga riflessione di Habermas sono stati riproposti, per es., in Il futuro della natura umana, 2002). Altre rielaborazioni della concezione kantiana del soggetto morale – come quella di Christine M. Korsgaard (1996) – attenuano il modello trascendentale del soggetto presente in Kant identificando il creatore di valori in un singolo individuo non completamente sradicato dalle sue affezioni ed emozioni.

Un tentativo di ripresentare una caratterizzazione razionalista del soggetto morale, che tenga conto dei dati forniti dalla ricerca biologica e dalla neuroetica sulla base empatica dei giudizi etici, è stato fatto da Marc D. Hauser (2006). Secondo Hauser al centro della moralità vi sono delle intuizioni naturali che costituiscono per la nostra condotta delle regole grammaticali innate non diverse dalle regole linguistiche che Noam Chomsky ha a suo tempo individuato come struttura del linguaggio umano. Ma quando si tratta di delineare la natura del soggetto che si accompagna con il possesso di queste regole morali intuitive, Hauser scarta non solo la concezione della creatura morale che possiamo fare risalire alla concezione sentimentalistica di David Hume, ma anche quella disincarnata e astratta della creatura kantiana. I soggetti morali secondo Hauser vanno piuttosto considerati come delle creature rawlsiane – ovviamente facendo riferimento alla ricca produzione filosofica di John Rawls – ovvero creature capaci di riconoscere che la moralità è guidata da una facoltà che ci presenta un insieme di principi, ma al tempo stesso consapevoli che tali principi sono inaccessibili a una completa analisi e fondazione razionale. Sembra così che la predilezione di Hauser per una concezione del soggetto morale che lega la riflessione etica a un’attività di tipo intellettuale o razionale sia tutta dipendente dalla volontà di trovare nella mente umana dei contenuti intuitivi come quelli che operano a livello linguistico e conoscitivo anche per la morale e l’azione.

La maggior parte delle rielaborazioni del soggetto morale avanzate nel 21° sec. nel tentativo di fare tesoro della nuova metaetica abbandona però completamente il paradigma razionalista. Questo risulta chiaro, per es., nella critica avanzata da de Waal (2006) a proposito della inadeguatezza di una concezione del soggetto morale come quella inclusa nella ‘teoria della patina’ avanzata già alla fine del 19° sec. da Thomas H. Huxley (in varie conferenze tenute a partire dal 1893 e successivamente raccolte in Evoluzione ed etica, 1995). Questa teoria sostiene che gli esseri umani, con l’aiuto della loro ragione, avrebbero fatto ricorso alla moralità come strumento di controllo di quelle passioni egoistiche e competitive che invece prevalgono a livello della vita biologica. Secondo de Waal, invece, il soggetto morale umano va visto come erede di un tipo di soggettività comune che lo ha preceduto a livello evolutivo – e che è riconoscibile nelle specie viventi più socievoli o abituate a una vita gregaria – la quale ha stabilizzato istinti simpatetici ed empatici in grado di favorire la vita della sua specie. Naturalmente de Waal non assimila completamente il soggetto morale umano con l’agente altruistico riconoscibile anche nelle scimmie superiori, trovando uno spazio per il ricorso al linguaggio. Ma ciò che conta è che il linguaggio morale opera solo su una base già preesistente di emozioni empatiche.

Seguendo un’altra direzione troviamo una rivisitazione della soggettività morale che abbandona la ricostruzione in termini razionalistici per centrarla piuttosto sulle emozioni e i sentimenti negli esperimenti di psicologia raccolti da Nichols (2004). Attraverso il raffronto tra le condotte di più individui, tra i quali sono presenti persone affette da autismo e casi di gravi psicopatie sociali, l’autore mostra che la capacità di condotta morale non è legata a qualche forma di attività cognitiva o di comprensione linguistica. Rileva infatti che laddove gli psicopatici sono perfettamente in grado di comprendere il contenuto di norme morali, ma incapaci di dare una risonanza emotiva negativa alle sofferenze di altre persone, i soggetti autistici invece sembrano spesso del tutto incapaci di dare un senso alle norme o di rappresentarsi effettivamente le menti altrui eppur tuttavia, cogliendo emotivamente le sofferenze degli altri come rilevanti, sono capaci di condotta etica. Sembra dunque possibile indicare nelle emozioni e nei sentimenti che fanno considerare negative le sofferenze non volute di altre persone la radice costitutiva della soggettività morale.

La responsabilità individuale tra razionalità, regole e carattere

Questa rivisitazione della concezione del soggetto morale comporta anche una revisione di ciò in cui consiste la responsabilità morale. Sono infatti messe in crisi tutte quelle analisi che riconducono la responsabilità morale a una qualche forma di attività razionale. Viene contestata la tesi che per essere responsabili moralmente si debba essere esclusivamente capaci di usare la propria razionalità per uniformare la propria condotta a qualche legge morale preesistente: si tratta di una concezione eteronoma della moralità messa da parte dalle varie concezioni dell’etica contemporanea. Si rende conto di ciò che è in gioco nella responsabilità morale solo in quanto si fa riferimento a una scelta individuale della persona che in modo autonomo compie le azioni moralmente adeguate. Il tentativo fatto da una parte della politica conservatrice del mondo occidentale di riportare in auge concezioni religiose che riconducono ciò che le persone debbono fare al volere di un Dio non ha avuto alcuna incidenza nella riflessione teorica sull’etica, consapevole che la responsabilità individuale passa comunque attraverso la coscienza, la riflessione o il sentire della persona direttamente coinvolta.

Una volta accettata l’identificazione dell’orizzonte della responsabilità con quello della scelta personale, abbiamo diverse concezioni contemporanee a proposito del modo di identificare ciò che conta per declinare la responsabilità individuale. Sulla base di quello che abbiamo scritto finora, si può comprendere come siano andate incontro a difficoltà quelle concezioni che hanno ritenuto di potere risolvere la responsabilità in una mera attività della ragione. Non è mancata una riproposizione delle analisi razionalistiche di derivazione kantiana secondo le quali la responsabilità va plasmata dalla ragione, vista come una forza cui ricorrere per dare una portata universalistica alle proprie decisioni e scelte. Queste posizioni identificano la capacità di avere una posizione morale con la capacità di assumere un punto di vista neutrale, o dell’universo, nei confronti della situazione da valutare. In particolare è stato R.M. Hare a declinare approfonditamente fino ai suoi ultimi scritti (1997) questa analisi della moralità, secondo la quale la responsabilità morale stava tutta nella capacità di mettere a punto prescrizioni universalizzabili. Nei confronti di questa concezione hanno continuato a essere riproposte le critiche, a suo tempo fatte valere da Bernard Williams, che insistevano sul formalismo degli esiti a cui si giungeva per questa strada: cercando infatti di guadagnare un punto di vista morale valido per qualsiasi soggetto, in realtà si finisce con lo svuotare totalmente la prospettiva della responsabilità individuale, rendendola uno spazio vuoto non occupabile da nessun soggetto (critiche che Williams ha continuato a sviluppare nei numerosi saggi pubblicati fino all’anno della sua morte e raccolti in diversi volumi, tra i quali, per fare solo un esempio, In the beginning was the deed, 2005).

La caratterizzazione della responsabilità in termini di razionalità non ha interessato però solo le concezioni kantiane dell’etica. Anche le concezioni consequenzialiste e utilitariste hanno sostenuto che la persona responsabile è quella in grado di calcolare le conseguenze delle diverse alternative che gli stanno di fronte e scegliere quella che avrà risultati migliori. Già nel 1984 D. Parfit, nel suo libro Reasons and persons, metteva in luce le difficoltà a cui andava incontro questa concezione della responsabilità morale: da una parte, la persona incline a ritenere che la sua responsabilità coincide con il calcolare bene le conseguenze delle sue azioni finirà con lo scegliere, in una situazione che coinvolge altri agenti, un esito che non è quello ottimale cadendo nel ben noto ‘dilemma del prigioniero’; dall’altra, proiettata sulle vite delle generazioni future la capacità di calcolare quale può essere, tra alcuni secoli, la vita migliore per l’insieme degli esseri umani, questa concezione può portare a optare per una soluzione che aumenta enormemente il numero degli esseri umani (e così facendo aumenta la quantità totale di vita consapevole e dunque in un certo senso di piaceri), ma nello stesso tempo riduce a un minimo livello, qualitativamente ripugnante, le loro condizioni di esistenza. In contrasto quindi con questa analisi della responsabilità, come capacità di calcolare le conseguenze dirette delle singole azioni all’interno delle etiche consequenzialiste, in questi ultimi decenni è prevalsa una concezione indiretta che lega la responsabilità alla capacità di fare proprie regole generali (diverse sono state le teorie consequenzialiste delle regole come, per es., quella di Brad Hooker, 2000).

L’ultimo decennio ha visto ampiamente sviluppato un diverso modello di analisi della responsabilità morale in grado di tenere conto delle conclusioni che la ricerca empirica ha raccolto sulla natura della vita morale. Come abbiamo visto, la vita morale degli esseri umani si radica nella loro capacità di sentire emozioni e sentimenti come risposta alle sofferenze altrui. Ma allora la responsabilità non si connetterà esclusivamente al compiere determinate azioni, quanto piuttosto al carattere delle persone che tali azioni compiono, evitando ovviamente di limitare i giudizi morali all’esclusiva considerazione di motivi e intenzioni. Uno dei principali teorici dell’etica ambientale, Dale Jamieson, ha insistito recentemente (2008) sull’opportunità di affrontare le questioni morali legate al mutamento climatico in termini di virtù e carattere delle persone.

Il punto è che essere moralmente responsabili non può essere ricondotto al fatto che si compie una singola azione, ma richiede più ampiamente che si abbia la capacità di far valere un certo nostro carattere in una serie di azioni. Solo guardando a una responsabilità in termini di carattere potremo risolvere quei problemi legati all’interazione strategica tra diversi agenti e superare una concezione hobbesiana degli equilibri sociali: soltanto un’impostazione del genere può ispirarci condotte non strettamente autointeressate, in grado di poter allontanare da noi la catastrofe ambientale.

Dalla persona alle persone

La rivisitazione della concezione di soggetto morale e responsabilità individuale da parte della recente riflessione etica ha avuto, in questo scorcio di 21° sec., anche una ricaduta sul piano normativo. La revisione delle tradizionali concezioni etiche normative non è stata solo innestata dalle trasformazioni interne alla filosofia, ma anche dai radicali mutamenti delle condizioni di vita sociali e ambientali della specie umana e dai nuovi problemi morali che tutto ciò ha generato. Tra queste nuove condizioni quella dell’incremento demografico e del confronto continuo tra persone di diverse culture, razze, religioni ecc. è stata quella che – unitamente alle questioni di cui si occupa la bioetica – ha maggiormente influenzato la nuova ricerca normativa.

Anche sul piano normativo sembrano in difficoltà quelle concezioni razionalistiche e speculative che derivavano le soluzioni delle singole questioni morali da una concezione generale della natura umana fatta coincidere con il valore della persona fondato o su di una sua base ontologica spirituale o sulla sua razionalità. I tentativi di riproporre una concezione unitaria della persona con una qualche base fondazionale sono andati incontro alla difficoltà di confrontarsi con le profonde diversità di vite e di concezioni del valore che oggigiorno caratterizzano i membri della specie umana. Non sembra avere successo il tentativo di richiamare a un orizzonte unitario di valore, pretendendo di disporre di una concezione aprioristica della natura o della persona umana. In alternativa, una qualche convergenza etica sembra raggiungibile da coloro che sanno misurarsi con le diversità dei modi di vivere degli esseri umani. In questo senso, negli ultimi decenni, nell’etica normativa si è assistito a un processo di revisione del valore della dignità umana che viene fatto coincidere non più con il rispetto per la persona razionale, ma con la considerazione per i diversi modi in cui vivono le persone umane. Una revisione del genere ha coinvolto anche coloro che si sono impegnati a conciliare l’etica di ispirazione kantiana con l’accettazione dell’orizzonte dell’individualismo liberale. Questo progetto ha coinvolto tutta la biografia intellettuale di Rawls in particolare con il passaggio da A theory of justice (1973; trad. it. 1982) a Political liberalism (1993; trad. it. 1994). Ma ha coinvolto anche altri eredi della concezione kantiana della morale, basti ricordare tra tutti lo sviluppo teorico della Korsgaard che ha molto lavorato sulla «metafisica del soggetto agente» e che, rivedendo l’eredità kantiana, ha sviluppato un modello normativo di costruzione dell’identità personale in grado di riconoscere le molteplicità e le diversità delle vite individuali (come risulta dalle ricerche che sono confluite nel suo libro Self-constitution. Agency, identity and integrity, 2009).

La necessità di fare i conti con la nuova caratterizzazione del soggetto morale ha però coinvolto anche – e forse con risultati più convincenti – la concezione normativa consequenzialista. All’interno della recente elaborazione consequenzialista sono individuabili tre innovazioni significative in questo senso. Da una parte, come abbiamo già ricordato, il prevalere di una concezione indiretta della procedura mediante la quale si può identificare l’azione in grado di ottenere un risultato migliore, una concezione che ammette la rilevanza di regole e caratteri frutto di una precedente formazione dell’individuo che sta agendo. Dall’altra, il superamento della concezione razionalistica della procedura con cui si può identificare il risultato migliore secondo la quale tutto ciò che c’è da fare in morale è calcolare. E, parallelamente a questo superamento, un’insistenza sull’importanza di emozioni e sentimenti per spiegare come mai l’agente morale privilegi effettivamente un certo esito o sia mosso verso di esso. Infine, una revisione della natura del bene da privilegiare come conseguenza delle nostre azioni. Il consequenzialismo del 21° sec. si presenta quindi spesso sotto forma di un’etica utilitaristica della virtù (come, per es., troviamo nelle pagine di Julia Driver, 2001 e 2006). In questo contesto si può spiegare la fortuna della riflessione fatta a metà del 19° sec. da John Stuart Mill per articolare un utilitarismo liberale che identificasse la felicità generale con il pieno sviluppo di individualità libere di realizzare il proprio progetto di vita come esseri umani progressivi.

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