Vita, origine della

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Vita, origine della

Renato Fani
Matteo Brilli

Dalla seconda metà degli anni Novanta del 20° sec., gli studi sull'o. della v. sulla Terra hanno ripreso notevole vigore, principalmente grazie all'enorme quantità di informazioni che si possono ottenere dall'analisi filogenetica e comparativa dei geni e dei genomi degli organismi appartenenti ai tre domini cellulari (Archea, Batteri ed Eucarioti). A partire dal 1995, quando fu pubblicata la sequenza completa del primo genoma, quella del batterio Haemophilus influenzae, sono stati infatti completamente sequenziati, o sono in via di completamento, oltre 500 genomi batterici, 30 di Archea e oltre un centinaio di Eucarioti. Le informazioni ricavate da tali analisi hanno permesso di formulare alcune ipotesi riguardo le caratteristiche genetiche e fisiologiche delle prime forme viventi e sono state affiancate da un rifiorire della ricerca sperimentale sugli stadi precoci della vita. I nuovi risultati hanno posto le basi per un dibattito molto acceso, che è volto a descrivere le prime fasi della storia di tutti gli esseri viventi che vivono oppure sono vissuti sul nostro pianeta. I punti salienti di questa discussione possono essere schematizzati come segue: a) il ruolo del RNA nell'origine dei primi sistemi viventi (mondo a RNA); b) la natura del metabolismo primordiale, ossia quali fossero le capacità metaboliche delle prime cellule viventi e anche il modo in cui si sono evolute le prime vie metaboliche; c) la natura dell'ultimo progenitore comune di tutti gli esseri viventi, al quale ci si riferisce con l'acronimo LUCA (Last Universal Common Ancestor).

Il mondo a RNA

Sebbene si discuta ancora animatamente su quale possa essere la migliore definizione di vita, una delle sue proprietà fondamentali è rappresentata dalla riproduzione, la quale implica la trasmissione dell'informazione genetica. È quindi generalmente accettato che la conditio sine qua non per il passaggio dal non-vivente al vivente sia stata rappresentata dalla comparsa di materiale genetico (cioè una molecola informazionale) primordiale capace di replicarsi, accumulandosi nell'ambiente primitivo, e di andare incontro a eventi evolutivi. Tuttavia, la natura del primo materiale genetico comparso sul nostro pianeta è ancora altamente dibattuta e la sua identificazione rappresenta una sfida straordinaria per tutti gli scienziati che si occupano di origine della vita. Ciò è reso ancora più complicato dall'apparente paradosso rappresentato da due delle proprietà che caratterizzano gli esseri viventi, il metabolismo e la riproduzione. Questi si basano sull'attività di due classi fondamentali di molecole: informazionali (gli acidi nucleici) e catalitiche (le proteine). Nelle cellule moderne la sintesi delle proteine e la replicazione del DNA costituiscono due processi strettamente interdipendenti. Le molecole informazionali producono le proteine che, a loro volta, sono necessarie per la sintesi degli acidi nucleici. Quindi il problema dell'origine delle molecole informazionali sembra a prima vista un paradosso irrisolvibile: il metabolismo e l'informazione genetica si sono evoluti separatamente in molecole distinte, o si sono evoluti nella stessa molecola? E di che tipo erano le prime molecole informazionali? Già da molto tempo è noto che tutti gli organismi viventi attuali hanno l'informazione genetica depositata a livello di molecole di DNA, ma le ricerche hanno portato a ipotizzare che all'inizio l'informazione genetica non fosse contenuta in molecole di DNA, ma in un secondo tipo di acido nucleico, il RNA, anch'esso presente nelle cellule attuali e coinvolto nei più importanti processi cellulari, in particolare nell'organizzazione, struttura e funzione dei ribosomi. La scoperta che sta alla base del largo consenso tributato dalla comunità scientifica a questa ipotesi si verificò all'inizio degli anni Ottanta del 20° sec., quando T. Cech e S. Altman scoprirono che alcuni RNA possono effettuare reazioni catalitiche in completa autonomia (ribozimi). Da allora nuovi ribozimi sono stati scoperti e studiati a fondo, e sono state ideate tecniche che permettono di far evolvere le molecole di RNA fino al raggiungimento di una certa funzione. È stato quindi possibile ottenere ribozimi con differenti attività: ligasi, RNA polimerasi, aminoacilasi di tRNA o altri RNA e peptidil transferasi. Tali scoperte sono a favore dell'ipotesi dell'esistenza di un'era ancestrale, denominata mondo a RNA (RNA world), in cui sia l'informazione genetica necessaria per la vita, sia l'attività enzimatica degli esseri viventi erano contenute in brevi molecole di RNA. Secondo questa ipotesi, molecole molto semplici di RNA potrebbero aver rappresentato i primi semi della vita, riproducendosi in quanto capaci di potersi replicare e tramandando la medesima abilità alla progenie. Dalle prime semplici entità si sarebbero poi evolute varianti più specializzate, fino all'o. della v. cellulare per come oggi è conosciuta. Si suppone inoltre che in questa ipotetica era della biosfera si originò anche un metabolismo affiancato dall'origine di sistemi che garantissero una qualche compartimentazione alla vita. Nonostante le numerose verifiche sperimentali a supporto dell'ipotesi del mondo a RNA, questa idea è stata criticata per le difficoltà insite nella sintesi e polimerizzazione dei precursori del RNA nelle condizioni dell'ambiente primitivo. Infatti, la formazione di una molecola come il RNA è molto complessa e deve perciò aver richiesto condizioni molto particolari: a) la sintesi e la disponibilità di grandi quantità di ognuno dei suoi precursori (ribosio e basi azotate) nel brodo primordiale; b) la loro polimerizzazione in macromolecole; c) la protezione dei polimeri sintetizzati dalla possibile, e probilmente inevitabile, distruzione a opera di diversi agenti capaci di degradare le molecole di RNA, come, per es., i raggi ultravioletti provenienti dal Sole e non schermati da uno strato di ozono a causa della mancanza nell'atmosfera della Terra primitiva di ossigeno molecolare libero; d) la persistenza delle molecole informazionali primordiali nell'ambiente che cambiava di continuo. Le ricerche classiche in questo senso si sono focalizzate soprattutto sui processi che avvengono in fase acquosa, mimando le condizioni del brodo primordiale proposto da A.I. Oparin. Tuttavia, se un mondo a RNA è davvero esistito, è difficile per alcuni autori concepire che esso possa essersi originato in presenza di alte concentrazioni di acqua, a causa della difficoltà delle reazioni di polimerizzazione e della instabilità chimica del RNA in fase acquosa. Il che è reso ancora più difficilmente comprensibile dall'ipotesi di una origine 'calda' della vita. L'idea che i primi organismi viventi possano essersi originati in condizioni di alte temperature deriva, tra l'altro, dall'analisi dei fossili paleontologici e molecolari. In particolare, la costruzione di alberi filogenetici universali con geni diversi dimostra che organismi ipertermofili, capaci cioè di sopravvivere a temperature molto elevate, non sono distribuiti in modo casuale all'interno degli alberi filogenetici, ma occupano tutti i rami più profondi, vicini alla radice dell'albero stesso e quindi più vicini alle prime forme di vita. Se, quindi, la vita è comparsa in condizioni di alta temperatura, questo rende ancora più difficile il problema della stabilità dei mattoni della vita (aminoacidi, ribosio, basi azotate, RNA) in quelle condizioni. Alcuni autori hanno tuttavia suggerito che la vita alle alte temperature sia un adattamento secondario avvenuto durante gli stadi precoci dell'evoluzione cellulare e che quindi la filogenesi molecolare possa fornire indizi importanti per qualche stadio primigenio dell'evoluzione biologica, ma è molto difficile immaginare come questo approccio possa essere esteso a un periodo dell'evoluzione cellulare in cui la sintesi delle proteine fosse già operativa, ossia in un mondo RNA/proteine. Al di là di questo, al problema della instabilità delle molecole di RNA e dei suoi precursori nell'ambiente primordiale vengono date due diverse soluzioni: l'esistenza di un mondo pre-RNA e il RNA 'protetto'.

Il mondo pre-RNA. - Alcuni ricercatori sono stati indotti a cercare nuovi polimeri che possano aver funzionato alla stregua di sistemi genetici alternativi, partendo dall'idea che il RNA potrebbe essere una 'invenzione' di un mondo precedente completamente diverso (mondo pre-RNA). Fra questi sistemi genetici alternativi possiamo citare alcuni polimeri più facilmente sintetizzabili del RNA in condizioni prebiotiche plausibili: il TNA (acido nucleotresoico), il PNA (acido nucleopeptidico) e il piranosil-RNA. Il PNA in particolare è molto studiato perché privo di fosfato, dal momento che la fosforilazione appare necessaria a produrre i nucleotidi, ma la disponibilità di fosforo nell'ambiente primitivo potrebbe essere stata limitata se non, forse, in prossimità di sbocchi vulcanici. Per questa e altre peculiarità, è stato proposto che il PNA possa aver avuto un'importanza prebiotica, ma non si conoscono sintesi prebiotiche che permettano di produrre i monomeri del PNA.

Il RNA protetto. - L'alternativa è che il RNA fosse in qualche modo protetto, potendo quindi dare luogo alla successiva fioritura della vita. Uno dei possibili sistemi, ma anche un probabile attore nei meccanismi di polimerizzazione, a partire dai singoli costituenti, potrebbe essere stato rappresentato da particolari tipi di argilla, come la montmorillonite. L'adsorbimento su superfici minerali avrebbe avuto l'effetto di ridurre la concentrazione dell'acqua che rende difficoltosa la polimerizzazione dell'acido nucleico e ne limita anche la stabilità. È stato dimostrato che è possibile sintetizzare oligomeri di RNA in presenza di particelle di argilla e che queste molecole vengono protette dall'azione degradativa dei raggi UV. Le particelle possono favorire la conversione spontanea di micelle di acidi grassi in vescicole, e il possibile incapsulamento in queste di molecole di RNA adsorbite all'argilla, offrendo una soluzione relativamente semplice al problema di un sistema compartimentalizzato primordiale, all'interno del quale le molecole informazionali potessero andare incontro a processi evolutivi. Le particelle di argilla permettono inoltre la persistenza nell'ambiente di molecole di acido nucleico per lungo tempo. Tutte queste osservazioni suggeriscono che le superfici minerali possano aver giocato un ruolo cruciale tanto nella formazione quanto preservazione del materiale genetico nella Terra primordiale, permettendo la loro persistenza in condizioni critiche, come quelle probabilmente presenti a quel tempo. D'altra parte, la persistenza di una molecola in un ambiente ostile è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per dare inizio all'evoluzione molecolare. Tale molecola deve infatti anche essere capace di replicarsi, e al momento non è stata dimostrata la replicazione di molecole di RNA adsorbite su particelle di argilla; tuttavia, altri esperimenti più recenti di RT-PCR sembrano indicare che il RNA adsorbito sull'argilla possa essere copiato tramite trascrittasi inversa, suffragando l'ipotesi che i complessi argilla-RNA possano aver agito come un magazzino di informazione genetica negli habitat primitivi. Tuttavia, anche questa ipotesi è stata criticata, poiché alcuni autori non considerano plausibile che questa protezione possa essere efficiente a temperature superiori ai 100 °C. L'adsorbimento dell'acido nucleico sull'argilla avviene infatti con legami non-covalenti, quindi ad alte temperature qualsiasi monomero adsorbito si libera nell'ambiente e viene degradato.

Può essere quindi interessante considerare un'alternativa alla visione ortodossa di un'o. della v. al caldo, anche perché ci sono state negli anni ipotesi relative a temperature inferiori rispetto alle previsioni canoniche per il periodo in cui ipoteticamente si sarebbe originata la vita. Le basse temperature hanno l'ottima caratteristica di abbassare notevolmente la velocità con cui il RNA e i suoi costituenti vanno incontro a degradazione, ed è stato osservato un benefico effetto sulla replicazione del RNA. Se la temperatura fosse stata effettivamente inferiore rispetto a quella a cui vivono le attuali specie, rimane da spiegare perché le tecniche filogenetiche quasi sempre portino ad avere delle specie termofile nei rami più profondi, che corrisponde a una loro separazione dalle restanti linee tassonomiche in uno stadio molto precoce dell'evoluzione cellulare. Una delle spiegazioni può essre che le popolazioni primitive fossero prive dei sistemi di difesa dall'ingresso di DNA estraneo posseduto da quelle attuali, e che quindi le frequenze di trasferimento genetico orizzontale fossero estremamente elevate, rendendo impossibile un'analisi filogenetica dettagliata della radice dell'albero universale della vita.

Il passo evolutivo successivo delle prime forme di vita è stato il passaggio a quello che viene definito il mondo a DNA, nel quale la molecola di RNA come elemento principe delle prime forme di v. è progressivamente soppiantata dal DNA. Tale passaggio dell'evoluzione precoce della vita è ancora avvolto nel mistero, tuttavia si suppone che questa transizione sia avvenuta attraverso la formazione di molecole 'miste', vale a dire contenenti quantità variabili di ribonucleotidi e di desossiribonucleotidi, e che in quelle molecole vi sia stato un graduale aumento del contenuto di questi ultimi. È possibile che una delle forze selettive che hanno agito in questa transizione sia stata la maggiore stabilità in soluzione acquosa dei legami fosfodiesterici fra le unità di desossiribosio, che sono più resistenti all'idrolisi di quelli dello scheletro ribosio-fosfato del RNA. Il passaggio evolutivo dal mondo a RNA a quello a DNA ha reso possibile l'amplificazione dell'informazione genetica, attraverso la duplicazione genica e lo sviluppo di nuove abilità metaboliche.

Il metabolismo dei primi esseri viventi: l'origine e l'evoluzione delle vie metaboliche

Se l'ipotesi del brodo primordiale proposta da Oparin è corretta, le prime forme di vita dovevano essere eterotrofe e ricavare le sostanze necessarie alla propria sopravvivenza direttamente dall'ambiente esterno. Si suppone che quando la quantità dei composti organici che si era precedentemente formata diminuì a causa della loro incorporazione nei biopolimeri, alcuni composti particolarmente richiesti dalle prime cellule sarebbero risultati in una concentrazione così scarsa da limitarne la crescita. Questa diminuzione delle sostanze nutritive avrebbe così imposto una pressione selettiva sempre maggiore che, a sua volta, avrebbe favorito la sopravvivenza di quelle cellule divenute capaci di sintetizzare da sole le molecole, originariamente presenti in una grande quantità nel brodo primordiale, e che via via venivano a mancare. La comparsa delle vie metaboliche di base ha rappresentato perciò uno dei principali eventi dell'evoluzione precoce della vita, poiché ha permesso alle prime cellule di divenire sempre meno dipendenti dalle sorgenti esogene dei composti vitali accumulatisi nell'ambiente primordiale per sintesi prebiotica. Non è ancora oggi del tutto chiaro quando siano comparse le prime vie metaboliche, ma si suppone che la costruzione di molte di esse sia avvenuta nel mondo a DNA, quando cioè dovevano aver già visto la luce il codice genetico e la sintesi proteica. Le prime cellule possono aver acquistato nuove abilità metaboliche grazie a due tipi di meccanismi di acquisizione di nuova informazione genetica: a) esterni, tramite i quali una cellula riceve materiale genetico dall'esterno, come la xenologia, in cui si ha il passaggio di porzioni genomiche da un (micro) organismo donatore a uno ricevente (trasferimento genetico orizzontale), e la fusione cellulare (oppure sinologia), vale a dire quando due cellule mettono in compartecipazione la loro informazione genetica, unendosi a formare un unico organismo; b) interni, in conseguenza dei quali si verificano riarrangiamenti genetici all'interno del genoma della cellula; tra questi la duplicazione genica rappresenta uno dei meccanismi più importanti per l'origine di nuovi geni a partire da geni preesistenti. Infatti, quando un gene si duplica, le due copie possono divergere, accumulando mutazioni senza conseguenze negative per l'organismo, in quanto una di esse continuerà a svolgere la funzione originale, mentre la seconda potrà diversificarsi dal gene originario a tal punto da codificare una proteina avente una nuova funzione. Geni che traggono la loro origine per duplicazione di un gene ancestrale comune sono detti paraloghi; un gene, una delle sue copie, oppure entrambi, possono andare incontro a eventi multipli di duplicazione, dando origine a una 'famiglia di geni paraloghi'. L'analisi comparativa della sequenza nucleotidica dei genomi disponibili dimostra che oltre il 50% dei geni di uno stesso genoma appartiene a queste famiglie geniche e che la loro origine può quindi essere fatta risalire a un numero limitato di geni (di cui sarebbero state dotate le prime forme di vita), geni che successivamente sarebbero andati incontro a eventi multipli di duplicazione. La duplicazione genica è la base su cui si fondano tutte le ipotesi formulate per spiegare l'origine e l'evoluzione delle vie metaboliche, due delle quali sono riportate schematicamente di seguito.

Ipotesi retrograda. - Elaborata nel 1945 da N.J. Horowitz, si basa sulla teoria 'un gene un enzima' di G. Beadle ed E. Tatum e sull'idea del brodo primordiale di Oparin e J.B.S. Haldane. Secondo Horowitz la costruzione di una via metabolica per la sintesi di un composto A si sarebbe resa necessaria nel momento in cui la sua concentrazione nell'ambiente esterno fosse progressivamente diminuita. In queste mutate condizioni ambientali sarebbero stati selezionati favorevolmente quei microrganismi capaci di sintetizzare autonomamente il composto A a partire da un substrato B, che è presente in grande concentrazione nell'ambiente esterno, grazie all'azione di un enzima codificato dal gene a. Successivamente, nel momento in cui la concentrazione di B fosse a sua volta progressivamente diminuita, sarebbero state favorite quelle cellule primordiali capaci di ottenere B a partire da un substrato C (anch'esso presente in elevate concentrazioni nell'ambiente esterno), grazie all'azione di un enzima codificato dal gene b, originatosi per duplicazione e successiva divergenza dal gene a. Attraverso questi passaggi la via metabolica sarebbe stata costruita come una scala, per acquisizione successiva e sequenziale di enzimi in ordine inverso a quello in cui si trovano nelle vie metaboliche attuali, perciò l'ultimo enzima della via è il primo a essere apparso e viceversa (da qui il nome di ipotesi retrograda).

Ipotesi del mosaico. - Elaborata da M. Ycas (1974) e R.A. Jensen (1976), si basa sull'assunzione che gli enzimi primitivi, per quanto fossero poco veloci e inefficienti, fossero dotati di una bassa specificità di substrato che li rendeva perciò capaci di catalizzare più di una reazione enzimatica, interagendo con un ampio numero di substrati chimicamente correlati. Questi enzimi primordiali, relativamente aspecifici, potrebbero aver aiutato le cellule primitive, dotate di piccoli genomi, a sopperire alle loro limitate capacità codificanti. Secondo tale ipotesi, un enzima (E1) sarebbe stato capace di interagire con substrati diversi. Successivamente, attraverso successive duplicazioni del gene codificante l'enzima E1, si sarebbero evoluti enzimi con aumentata specificità di substrato che sarebbero entrati poi a far parte di vie metaboliche diverse, catalizzando in queste lo stesso tipo di reazione. In tal modo enzimi appartenenti a vie metaboliche differenti sarebbero stati 'reclutati' per costruirne una nuova. La seconda ipotesi è quella accettata dalla maggioranza degli scienziati e che ha ricevuto conferme non soltanto di tipo teorico, ma anche sperimentale, grazie ai cosiddetti esperimenti di evoluzione guidata, nei quali popolazioni microbiche, in genere di tipo batterico, sottoposte a pressioni selettive più o meno forti, sono capaci di evolvere velocemente nuove abilità metaboliche. Ciò può avvenire per mutazioni che cadono all'interno di geni strutturali o all'interno di sequenze che regolano l'espressione dei geni stessi. L'ipotesi del mosaico viene anche avvalorata dall'ampia specificità di substrato di molti importanti enzimi attuali che possono catalizzare una serie di reazioni chimiche diverse come, per es., la nitrogenasi, un enzima comparso nei primi stadi dell'o. della v. e responsabile della fissazione biologica dell'azoto. Attualmente si ritiene perciò che le prime forme di v. possedessero genomi di dimensioni estremamente ridotte contenenti pochi geni che codificavano enzimi mancanti di un'elevata specificità di substrato, potendo esse agire da catalizzatori multifunzionali in grado di riconoscere diversi substrati simili. Tuttavia, le due ipotesi proposte non si escludono l'una con l'altra; è infatti possibile che meccanismi diversi possano aver operato nella costruzione delle vie metaboliche ancestrali.

La natura del LUCA (l'ultimo progenitore comune)

Fino alla fine degli anni Novanta del 20° sec. si supponeva che l'ultimo progenitore comune fosse un'entità strutturalmente e geneticamente complessa, un progenitore 'totipotente', spesso paragonato a un'odierna cellula procariotica. Questo concetto si è tuttavia profondamente modificato alla luce di più recenti scoperte. Alcune delle caratteristiche dell'ultimo progenitore comune possono essere dedotte dall'analisi bioinformatica dei numerosi genomi completamente sequenziati disponibili. È infatti plausibile immaginare che se tutti gli organismi viventi condividono alcuni geni, questi possano essere stati presenti anche nel loro antenato comune e, quindi, anche nell'ultimo progenitore comune. In tal modo è stato possibile stabilire il tipo e il numero di geni che presumibilmente dovevano essere presenti nel LUCA. Ma l'analisi dei genomi ha anche messo in evidenza l'esistenza di forti discrepanze nella topologia degli alberi filogenetici usando le sequenze di geni diversi. Queste differenze molto spesso sono state interpretate come l'evidenza di un trasferimento genetico orizzontale tra organismi appartenenti a specie diverse. La filogenesi reticolata che ne deriva rende molto difficile la ricostruzione e la comprensione della storia biologica primordiale e la determinazione dei tratti del LUCA. Per cercare di spiegare questi dati contraddittori, nel 1998 C. Woese ha proposto un modello ancora largamente accettato. Secondo Woese l'ipotesi di un progenitore totipotente non è corretta, in quanto non è possibile spiegare come esso possa aver raggiunto una tale complessità in così breve tempo (poco meno di un miliardo di anni). L'autore conclude che i tentativi finora compiuti per descrivere l'ultimo progenitore comune sono insoddisfacenti, in quanto le teorie avanzate per spiegare l'evoluzione primordiale commettono l'errore di estendere il concetto di genealogia degli organismi anche agli stadi precoci dell'evoluzione, assumendo che durante l'era dell'ultimo progenitore comune i geni fossero ereditati verticalmente di generazione in generazione. Per l'autore tanto più indietro si va nella storia evolutiva quanto meno significato ha parlare di discendenza genealogica dei viventi. Woese propone perciò un modello diverso di evoluzione primordiale, nel quale viene introdotto il concetto di temperatura evolutiva come una misura del livello di mutazione e di trasferimento genetico orizzontale. Nei primi stadi dell'e. della v. la temperatura genetica era elevata e il trasferimento genetico orizzontale, e l'eredità verticale non era la modalità di evoluzione delle entità primordiali. Anche il tasso di mutazione era elevato. Solamente in una seconda fase dell'evoluzione la temperatura genetica diminuì; gli organismi iniziarono a evolvere mediante i meccanismi dell'eredità verticale (duplicazione e mutazione). Secondo il modello proposto, il processo cellulare che guida l'evoluzione degli organismi primordiali è la traduzione del RNA messaggero (la sintesi proteica) che avviene nei ribosomi. Il macchinario traduzionale delle cellule primordiali era molto più semplice di quello attuale e quindi molto meno accurato. Errori di riconoscimento dei codoni e di scivolamento nella fase di lettura erano frequenti e di conseguenza potevano evolvere solamente proteine piccole. In queste entità primordiali, cioè i progenoti, l'incapacità di sintetizzare proteine complesse limitava severamente le loro possibilità evolutive: esse non potevano aver sviluppato un genoma moderno, né dei meccanismi di riparazione. Il genoma dei progenoti era organizzato in numerosi piccoli minicromosomi, ciascuno in copie multiple e organizzato in maniera operonica: raccoglieva cioè tutti i geni implicati in uno stesso processo. L'organizzazione operonica dei cromosomi era selettivamente avvantaggiata tanto da una segregazione cromosomica puramente casuale durante la replicazione, quanto dagli eventi di trasferimento genico orizzontale; non c'è, infatti, alcun vantaggio a ereditare una parte soltanto di una via metabolica. I cromosomi erano semiautonomi, nel senso che assomigliavano più a elementi genetici mobili che non ai moderni cromosomi. La divisione cellulare avveniva nel modo più elementare possibile, per semplice strozzamento della cellula in due metà. La dimensione ridotta dei cromosomi era indispensabile per l'elevato tasso di mutazione, in quanto aumentava la probabilità che essi potessero essere replicati senza un eccessivo numero di mutazioni. Il genoma era lineare in quanto rendeva i processi di replicazione e la trascrizione topologicamente più semplici, e non era quindi richiesta la presenza di enzimi come le DNA-topoisomerasi. La molteplicità di copie di ciascun cromosoma garantiva che se una copia di un gene era inattivata per mutazione, la funzione era ugualmente assicurata dalle altre copie. La limitatezza del genoma imponeva che i progenoti fossero molto semplici dal punto di vista metabolico. Tuttavia, differenti progenoti potevano possedere differenti abilità metaboliche. La comunità genetica dei progenoti era così totipotente. Il fatto poi che ogni innovazione potesse essere facilmente trasferita nella popolazione per xenologia o sinologia ampliava enormemente le possibilità evolutive di questa comunità, che può essere vista come un moderno 'consorzio batterico', in cui le cellule interagiscono non soltanto geneticamente, ma anche metabolicamente. In questo senso, non è la singola cellula, ma piuttosto la comunità dei progenoti nel suo insieme che sopravvive ed evolve. È questa comunità di progenoti, e non uno specifico organismo, secondo Woese, l'ultimo progenitore comune. Nel preciso momento in cui la temperatura evolutiva iniziò a diminuire lentamente, la comunità dei progenoti iniziò a evolvere e, in seguito all'affinarsi del processo traduzionale, comparvero strutture con complessità sempre maggiore e sempre più integrate tra loro. Più un subsistema diveniva complesso, tanto più difficilmente elementi estranei risultavano compatibili con esso. Questo subsistema non poteva quindi più essere scambiato per trasferimento orizzontale e cristallizzava, iniziando a evolversi esclusivamente per eredità verticale. Secondo questo modello, i vari subsistemi cellulari si sono cristallizzati a differenti stadi evolutivi. La traduzione è stata tra i primi, se addirittura non il primo, subsistema cellulare a cristallizzare; si tratta, infatti, di un macchinario complesso i cui componenti chiave tendono a essere universali. Il fatto che non tutti i componenti dell'apparato traduzionale siano universali indica che questo meccanismo ha continuato a perfezionarsi dopo lo stadio dell'ultimo progenitore comune, dopo che il suo core si era cristallizzato. Questo perfezionamento non ha, almeno apparentemente, coinvolto fenomeni di trasferimento orizzontale; è plausibile attendersi, infatti, che un meccanismo così complesso, una volta cristallizzato, non sia soggetto a (frequenti) eventi di xenologia, e questo è in accordo con il fatto che quando i componenti dell'apparato traduzionale sono utilizzati come orologi molecolari, essi permettono di poter ricostruire alberi filogenetici coerenti.

La comunità di progenoti si sarebbe perciò separata in due e poi tre comunità isolate, non più capaci di comunicare in modo illimitato mediante trasferimento orizzontale. Ogni comunità cellulare si sarebbe evoluta in un numero sempre minore di tipi cellulari diversi i quali hanno dato origine al progenitore di ciascuno dei tre domini cellulari. Lo sviluppo delle caratteristiche essenziali della traduzione e delle vie metaboliche è avvenuto, quindi, molto prima della diversificazione dei tre domini cellulari dall'ultimo progenitore comune e ciò che ha portato ai tre domini cellulari non è stato un singolo organismo, ma piuttosto una comunità di entità genetiche capaci di una differenziazione rapida. LUCA deve perciò essere considerato come il risultato evolutivo di una serie infinita e ignota di eventi ancestrali, che comprendono il trasferimento genetico orizzontale, la perdita di geni, duplicazioni paraloghe che si sono succedute nei primi stadi dell'origine e dell'evoluzione della vita.

Molto quindi è stato scoperto sugli albori della vita e sulla sua evoluzione precoce che ha portato alla comparsa del LUCA. Tuttavia, l'alba della v. è ancora avvolta nel mistero. Come in una foresta di mangrovie, le radici degli alberi filogenetici universali sprofondano nelle acque del brodo primordiale, che rendono alquanto confuso lo scenario ancestrale e non permettono ancora oggi di farci capire come sia avvenuta la transizione dal non-vivente al vivente.

bibliografia

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