Ortodossia ed eterodossia

Enciclopedia delle scienze sociali (1996)

Ortodossia ed eterodossia

Enzo Pace

di Enzo Pace

Ortodossia ed eterodossia

Introduzione

L'origine del termine 'ortodossia' e del complementare concetto di eterodossia va ricercata nella storia del cristianesimo, in particolare nel periodo dei Padri della Chiesa (II secolo d.C.).

In una fase iniziale di affermazione della religione cristiana il problema che i Padri dovettero affrontare fu quello di ricondurre a unità una molteplicità di interpretazioni del messaggio di Gesù di Nazareth. Non solo esistevano comunità cristiane che mettevano in pratica in modo differente gli insegnamenti trasmessi dai primi apostoli, ma i confini simbolici che dovevano marcare l'identità della nuova religione di Cristo sia rispetto al giudaismo, sia nei confronti delle nuove correnti dello gnosticismo, non erano del tutto chiari sino almeno alla prima metà del II secolo d.C. Non esisteva ancora né una organizzazione centralizzata e autorevole come la Chiesa, né un corpo dottrinario sistematizzato che fosse in grado di uniformare le credenze e i comportamenti dei nuovi credenti.

È proprio nel grande sforzo teologico e organizzativo avviato da Paolo di Tarso e proseguito poi dai Padri della Chiesa - diretto a definire i fondamenti assoluti e certi della credenza cristiana - che va rintracciata l'origine remota del termine ortodossia.In realtà i Padri misero al centro della loro riflessione la coppia concettuale eresia-dogma. Una riflessione, quest'ultima, che nasceva dall'esigenza di contrastare correnti di pensiero, prassi liturgiche, senso di appartenenza alla comunità cristiana, che apparivano ai loro occhi devianti rispetto alla supposta autenticità del messaggio originario di Gesù. In altri termini, quando dall'interno delle prime comunità cominciarono a manifestarsi dissensi ermeneutici profondi relativamente allo statuto della verità portata da Cristo, l'azione dei Padri assunse la forma di una lotta condotta con le armi della critica teologica contro i conflitti interni.

Uno di essi, Giustino di Samaria, fortemente imbevuto di cultura filosofica ellenistica, trovò nel concetto di haireseis, utilizzato ampiamente nelle scuole greche di filosofia per stigmatizzare l'avversario di opposta scuola di pensiero, un dispositivo teologico potente per contrastare i dissensi e i conflitti. Così facendo Giustino venne elaborando un paradigma interpretativo che doveva segnare profondamente tutta la storia del cristianesimo. Il paradigma in sostanza poggiava sulle seguenti affermazioni: a) esiste una sola verità e chi se ne discosta la falsifica; b) l'eresia è una forma di deviazione diabolica dal retto cammino e dal retto pensiero; c) solo la certezza della verità sancita attraverso precetti irrefutabili e incontrovertibili, che debbono essere assunti come autentici atti di fede dai credenti, consente alla comunità cristiana di lottare efficacemente contro le eresie.

È nel fuoco della lotta contro di esse che gradualmente viene a definirsi una dottrina cristiana intesa come un insieme di dogmi - cioè di credenze trasformate in decreti immutabili - concepiti quali strumenti per delimitare il campo dell'ortodossia cristiana. Una dottrina, in una parola, che servisse a marcare i confini fra 'noi' cristiani e 'gli altri' (giudei, gnostici e poi via via i numerosi eresiarchi che nel tempo i vari concili si incaricheranno di condannare).

Man mano che la dottrina si sistematizzava, essa tendeva a diventare un corpo coerente, stabile e cogente; ogni vittoria riportata contro un'eresia costituiva un nuovo tassello di un dispositivo ideologico (la teologia dogmatica) e organizzativo (la costruzione dell'apparato ecclesiastico) che si imponeva come ortodossia in contrapposizione all'eterodossia. Aderire alla dottrina vorrà dire allora sentirsi sempre più parte della Chiesa; non aderirvi equivarrà a volersi porre fuori della comunione ecclesiale.

Come ha mostrato Alain Le Boulluec (v., 1988) l'invenzione della categoria teologica dell'eresia da parte dei Padri della Chiesa (Giustino, Ireneo da Lione, Tertulliano e, in forma più moderata, Origene) è condizionata profondamente dall'idea che la differenza di opinione in seno alla Chiesa sia intollerabile e che essa sia destinata a sconfinare nell'errore e nella falsa interpretazione. Di conseguenza le relazioni che intrattengono dogma ed eresia nella produzione intellettuale dei teologi riflettono la prassi istituzionale della Chiesa.I più antichi sinodi, infatti, non si riunivano solo per acclarare punti oscuri della fede, ma anche per mettere sotto accusa qualcuno. "Il dogma si afferma nella redazione della formula di fede che l'assemblea dei vescovi oppone all'accusato e nell'interrogatorio che ha lo scopo di dimostrare perché egli si distacchi dall'autentica dottrina e si autoescluda dalla Chiesa" (ibid., p. 275).

Se tutto ciò è vero, è altresì incontestabile che la polarità ortodossia-eterodossia si ritrovi in molte altre grandi religioni.

Da quanto detto sinora, infine, risulta evidente che ortodossia ed eterodossia costituiscono una coppia indissociabile dal punto di vista sia storico che concettuale, così come in parallelo risultano metodologicamente non disgiungibili la nozione di dogma e quella di eresia.

Le relazioni fra ortodossia ed eterodossia variano a seconda delle situazioni storiche. Ci sono delle fasi nelle quali una nuova religione sente l'esigenza di differenziarsi da altre religioni concorrenti e di affermarsi quale unica vera religione universale, e allora la tensione fra ortodossia ed eterodossia si acuisce notevolmente; ci sono altre stagioni storiche nelle quali una religione, dopo essersi consolidata e aver definito i fondamenti del proprio credo, si limita a presidiare i confini simbolici del sistema di credenza faticosamente costruito attraverso i conflitti teologici, tollerando che in forme latenti il pensiero eterodosso continui a vivere carsicamente tra le pieghe della storia; infine, si presentano situazioni storiche nelle quali - in forza di incisivi processi di cambiamento sociale e culturale che tendono a laicizzare la coscienza degli individui o a produrre tutte le forme moderne di religiosità soggettiva - una religione, che nel passato era dotata di un corpus di dogmi e di un efficace apparato di controllo di tipo ortodosso nei confronti delle forme sempre aperte di contestazione o di dissidenza, non riesce più a controllare il proprio territorio simbolico. Allora o altri 'imprenditori' religiosi e parareligiosi le sottraggono beni e competenze, oppure tale religione - pur essendo istituzionalizzata su base ortodossa - tenderà a presentare il proprio messaggio più come proposta etica che come verità assoluta e indiscussa.

Una definizione analitica

In prima approssimazione intendiamo per ortodossia un sistema di credenze (relative alla sfera religiosa, ma anche alle ideologie politiche) che si presenta come un insieme di verità e di certezze di fede non opinabili, sostenuto da un apparato di controllo il quale verifica gli scostamenti rispetto a esse manifestati eventualmente da individui o gruppi di credenti.In questa prima definizione generale sono impliciti alcuni assunti di fondo: a) un sistema di credenze viene qui considerato non tanto come l'insieme dei simboli che danno senso a una relazione intima fra l'individuo e il suo Dio, ma come un'impresa collettiva, come espressione di un lavoro complesso svolto da un gruppo religioso interessato a regolare i contenuti e le forme della credenza stessa; b) un sistema di credenze assume i tratti dell'ortodossia quando tende a prevalere la funzione regolatrice del gruppo sui contenuti intrinseci di un determinato messaggio (religioso o ideologico che sia); c) nel caso dell'ortodossia religiosa un sistema di credenze diventa ortodosso quando l'interpretazione libera del messaggio religioso originario viene gradualmente limitata e bloccata al fine di salvaguardare la coesione interna del gruppo; d) tutto ciò spiega allora come sia possibile elaborare un codice di credenze e di comportamenti ortodossi che contenga una serie di proposizioni religiose fragili dal punto di vista razionale; in altre parole il grado di ortodossia viene stabilito dal gruppo più per regolare rigidamente i criteri di appartenenza al gruppo stesso che per attestare ed esibire una coerenza dottrinaria.

Un sistema ortodosso, dunque, presuppone un gruppo ortodosso che ha interesse a mantenere unita la comunità dei credenti, mettendola al riparo da ogni tentazione di deviare dalla retta via.

Sulla base di queste considerazioni le componenti analitiche del concetto di ortodossia sono individuabili nell'esistenza di un'autorità che definisce i confini del vero e del falso, di una fonte certa cui attingere le chiavi interpretative per distinguere il vero dal falso, di un meccanismo di trasmissione di generazione in generazione delle interpretazioni autentiche ammesse e di definizioni di proposizioni religiose ritenute incontrovertibili, e infine di un potere sanzionatorio che consente di imporre le proposizioni religiose ortodosse, controllando che queste vengano accettate e non disattese. Ricorrendo alle formule religiose più note, gli elementi che abbiamo testé indicato corrispondono rispettivamente all'autorità dogmatica, all'esistenza di un testo sacro, alla tradizione e al potere di scomunica nei confronti degli eterodossi.

Non c'è ortodossia senza un'autorità legittimata a definire una credenza come tale. Allo stesso tempo, una volta definito il credo religioso, l'autorità è chiamata a dare continuità nel tempo alla verità e ai dogmi che compongono il corpo dottrinario ortodosso.

Si comprende allora che oltre alla dialettica fondamentale fra affermazione di una verità non controvertibile e appartenenza al gruppo religioso, nell'affermazione di una ortodossia agiscono due strategie: una prima diretta a consacrare una volta per tutte le fonti della rivelazione religiosa, e una seconda che ha per fine la costituzione di una linea di credenza in grado di sfidare i mutamenti della storia e le variazioni delle condizioni sociali.

La storia delle religioni ci insegna che un primo passo verso la definizione di un sistema ortodosso è rappresentato proprio dalla messa per iscritto della parola rivelata da un profeta o dal fondatore di una religione. Lo sforzo di fermare sulla carta la parola profetica vivente costituisce già di per sé, alla radice, un atto linguistico decisivo che serve a delimitare i confini della credenza: un atto linguistico che è al tempo stesso un 'far dire' e un 'far fare'.

È un 'far dire', perché nella confezione di un testo sacro si selezionano gli aspetti ritenuti più significativi del messaggio originario annunciato da un profeta o dal fondatore di una nuova religione e se ne scartano altri. Ed è anche un 'far fare', perché, dal momento in cui nel Testo vengono definiti i contenuti di una fede religiosa, si vengono gradualmente a stabilire le modalità concrete di professione di una fede.

Grazie al poderoso lavoro di documentazione e di analisi svolto non solo dagli storici delle religioni ma anche dagli esperti in esegesi delle sacre scritture, sappiamo che quando i seguaci del fondatore di una religione si sono impegnati a conservarne la memoria ricorrendo alla trascrizione di quanto egli aveva detto e fatto in vita, questa operazione non è stata né indolore né facile, e ha prodotto lacerazioni, conflitti, tensioni interpretative infinite. La stesura definitiva del Testo sacro ha sempre richiesto un prezzo elevato in termini di tenuta della coesione interna di un gruppo religioso.

Quando si è arrivati a proclamare concluso questo lavoro, si sono poste le basi per la formazione di un modo di pensare e di credere di tipo ortodosso. Il riconoscimento del Testo sacro come definitivo contenitore della verità originaria rivelata implica, infatti, l'accettazione di una lettura regolata (canonica, come si dice solitamente) della verità stessa. L'imposizione di una lettura regolata presuppone un'autorità che si mostri capace di imporla e di trasmetterla autorevolmente nel tempo (la tradizione religiosa).

L'eterodossia perciò è al tempo stesso rifiuto di una lettura regolata e canonica della parola rivelata, interpretata una volta per tutte nella scrittura sacra, e non adesione alla linea di credenza che si riproduce nel tempo e che viene controllata da un'istituzione o da un'autorità religiosa. L'eterodossia contesta la legittimità sia del canone interpretativo imposto da un'autorità religiosa che della tradizione inaugurata a partire dalla formulazione di un corpo dottrinario ortodosso.L'esistenza di una dissonanza cognitiva (v. Festinger, 1957) di tipo eterodosso - nel senso appena precisato - aiuta a comprendere come nella nozione stessa di ortodossia sia implicita l'idea di un necessario potere sanzionatorio. Non c'è ortodossia senza questo potere che un'autorità si attribuisce e che esercita in funzione della preservazione del 'bene comune', dell'integrità della parola originaria e dell'unità della comunità dei credenti.

Gli istituti a difesa dell'ortodossia

In molte religioni centrate sul primato del Libro sacro e di un'autorità che ne sorveglia la retta interpretazione si sono sviluppate istanze sanzionatorie - a volte veri e propri tribunali specializzati - per la condanna delle forme ritenute eterodosse del pensare e del credere religioso. I casi più noti sono rappresentati nella storia del cattolicesimo dall'istituzione della 'santa inquisizione' e, in un momento particolare della storia dell'Islam, dalla persecuzione nei confronti del sufismo.

Nel primo caso è interessante ricordare che nel lessico teologico e giudiziario dell'inquisizione l'eresia era considerata "crimine di lesa maestà" (secondo la decretale Vergentis in senium di papa Innocenzo III alla fine del XII secolo) e perciò gli eterodossi si ponevano automaticamente contro l'ordine pubblico. Gli inquisitori, che vennero nominati successivamente da papa Gregorio IX, furono dapprima una sorta di superispettori plenipotenziari che giravano da una diocesi a un'altra e solo in un secondo tempo divennero un gruppo di specialisti nella repressione teologica degli eretici: nell'ultimo scorcio del XIV secolo questo gruppo fu messo in condizione di operare in base a procedure uniformi e a una precisa fattispecie di reati.

Nel caso dell'Islam, la persecuzione avviata sotto gli Abbasidi (IX-X secolo dell'era volgare) nei confronti del sufismo - in particolare si ricorda il martirio del grande mistico al-Hallāǵ nel 922 d.C. - fu affidata alle prime forme organizzate di sapere teologico e giuridico, le cosiddette scuole coraniche, che contribuivano in tal modo a rafforzare la legittimazione del nuovo potere imperiale di una dinastia come quella degli Abbasidi. Al-Hallāǵ fu infatti condannato come zindīq (sobillatore, dunque eversore dell'ordine pubblico), secondo la definizione che la polizia amministrativa abbaside aveva coniato.In entrambi i casi - cattolicesimo e Islam - queste forme di repressione del dissenso sono storicamente condizionate da esigenze di natura sia religiosa che politica. Possiamo dire che spesso è difficile distinguere dove finiscono le prime e incominciano le seconde. È evidente, in ogni caso, come l'interesse primario che sta alla base di questi meccanismi repressivi sia quello di ottenere il massimo di uniformità nelle credenze e, conseguentemente, di legittimazione della legalità di un determinato potere politico.

La logica circolare dell'ortodossia

L'ortodossia, come mostrano le ricerche di psicologia sociale condotte da Jean Pierre Deconchy (v., 1971 e 1980), ubbidisce a una logica circolare: chi formula le proposizioni religiose di tipo ortodosso - dotate cioè di alto grado di dogmatismo e di rigidità nell'interpretazione del significato da dare a esse - riesce più efficacemente a garantire la coesione interna al gruppo religioso, a controllare le menti e i cuori dei credenti. Non si tratta tuttavia di un'impresa facile. Un'autorità religiosa che controlla un capitale di definizioni di tipo ortodosso è condannata "a non poter mai sbagliare, perché cambiare qualcosa vorrebbe dire - agli occhi dei credenti - ammettere di aver sbagliato" (v. Deconchy, 1971, p. 38).

Quando nella Chiesa cattolica, ad esempio, si affronta il discorso relativo al celibato dei preti o al sacerdozio femminile, la controversia interpretativa non sembra riguardare tanto ciò che è contenuto nel Testo sacro (Nuovo Testamento) ma piuttosto il fatto che la tradizione autorevole del magistero ecclesiastico attesterebbe una ininterrotta catena di interpretazioni concordanti nell'escludere l'ammissibilità dell'uno e dell'altro. Ammettere, dunque, che i preti possano sposarsi o che le donne possano diventare sacerdoti appare rischioso, dal momento che ciò vorrebbe dire che 'la Chiesa si è sbagliata' e che dunque tutto il principio validativo dell'ortodossia cattolica - l'autorità garante della verità nella tradizione - soffre di eccezioni. In questo caso gli effetti sociali sarebbero incontrollabili, nel senso che potrebbe indebolirsi il senso di appartenenza alla Chiesa stessa o potrebbero verificarsi veri e propri processi di dissociazione dalla Chiesa. La vicenda della Chiesa anglicana che ha ammesso nel 1993 il sacerdozio femminile sembra confermarlo: la coesione interna è stata compromessa dal momento che sia una parte di fedeli che un nucleo non piccolo di preti e vescovi si sono dissociati per protesta dalla decisione presa e in piccola parte hanno chiesto di aderire alla Chiesa di Roma.

L'esempio è eloquente al di là delle contingenze storiche. Infatti la proposizione religiosa che enuncia il principio del celibato ecclesiastico si fonda su un'interpretazione che la gerarchia cattolica ha dato tradizionalmente di alcuni centrali passi evangelici. Il grado di incontrovertibilità dell'enunciato riposa, da un lato, su un presunto fondamento scritturale e, dall'altro, sulla tradizione del magistero ecclesiastico. Nel momento in cui una proposizione religiosa assume queste caratteristiche, essa entra a far parte di un corpus di norme, principî e dogmi che formano un tutto organico e che si affermano come verità assoluta. È proprio perché ogni proposizione è parte integrante di un corpo organico che diventa difficile poi per l'autorità religiosa che ha contribuito a elaborarlo scorporare un argomento, relativizzarlo e adattarlo allo spirito dei tempi. Ogni adattamento può essere percepito come aleatorio, come una minaccia alla tenuta dell'integrità del sistema di credenza ortodosso.

L'antropologa Mary Douglas ha mostrato come le dispute religiose in realtà pongano interrogativi su questioni radicali che riguardano "il giusto modello di organizzazione della vita collettiva" (v. Douglas, 1992; tr. it., p. 129). L'autrice, dopo aver ricostruito i termini della contesa teologica (dalla Dichiarazione della Sacra congregazione per la dottrina della fede della Chiesa di Roma sull'ammissione delle donne al sacerdozio, del 1976, alle obiezioni espresse dalle teologhe femministe cattoliche), mostra come possa essere interpretata la questione alla luce di una teoria antropologica delle forme sociali stabili e delle loro procedure di legittimazione.

La definizione di un sistema di credenza ortodosso varia, secondo l'autrice, al variare di due dimensioni fondamentali: "la dimensione del controllo, definita dalla presenza o dall'assenza di prescrizione, e la dimensione della chiusura del gruppo, definita dalla presenza e dall'assenza di confini che lo delimitano" (ibid., p. 147).

Ortodossia ed eterodossia nella tipologia delle formazioni socioreligiose

Utilizzando la coppia concettuale proposta da Douglas si può arrivare a individuare una matrice di variabili che consentono di elaborare una tipologia delle formazioni socioreligiose ortodosse.

La combinazione, all'interno di un gruppo religioso, di un forte controllo normativo, da un lato, e di una rigida chiusura verso l'esterno, dall'altro, corrisponde al 'tipo-setta'. All'estremo opposto - cioè assenza di prescrizione e apertura verso l'esterno - troviamo tutte le forme di sincretismo religioso vecchie e nuove che strutturalmente rifiutano una visione religiosa sistematica, chiusa e dogmatica, consegnata una volta per tutte a fonti sacre codificate e indubitabili. Le posizioni intermedie fra questi due estremi sono occupate rispettivamente dal 'tipo-chiesa' e dal 'tipo-misticismo'. In quest'ultimo caso, come ha notato Ernst Troeltsch (v., 1912), essendo prevalente la dimensione del rapporto diretto ineffabile fra un individuo e Dio, la forma sociale alla quale l'esperienza mistica dà eventualmente vita è costituita da una rete di relazioni che si creano attorno a chi dice di avere questa esperienza o fra nuclei di persone che la condividono. Si tratta di una rete di relazioni assunte volontariamente - attraverso la libera accettazione della disciplina o delle regole che il gruppo si impone -, e aperta a scambi simbolici con altre fonti di spiritualità o con altre religioni. Il principio funzionale, infatti, del tipo sociologico della rete mistica è che la verità si rivela direttamente al singolo credente e, dunque, non ha bisogno di essere sancita da un'autorità esterna alla coscienza e assunta come un sistema concluso, un corpo di dottrine preesistente al quale aderire conformisticamente.

Non è casuale perciò che nelle tre grandi religioni monoteistiche del ceppo abramitico il misticismo e le forme sociali da esso nate siano state sempre guardate con circospezione o addirittura condannate. In particolare nel giudaismo la corrente del ḥasidismo (movimento dei pii, dall'ebraico ḥăsīd), così come si è sviluppata in Europa orientale a partire dalla seconda metà del XVII secolo, è stata a lungo osteggiata perché ritenuta da parte delle correnti ebraiche ortodosse una variante eterodossa del giudaismo.

Allo stesso modo, come abbiamo già visto, la corrente mistica islamica - il sufismo - ha conosciuto alterne vicende di tolleranza o di violenta persecuzione da parte vuoi del sunnismo che, più recentemente, dei movimenti fondamentalisti. La forma sociale che il sufismo prevalentemente ha alimentato è stata la confraternita religiosa (ṭarīqa). Quest'ultima non è una setta, ma piuttosto una rete di solidarietà socioreligiosa, a base mistica e carismatica (c'è sempre un fondatore riconosciuto santo, la cui tomba diviene luogo di preghiera e di pellegrinaggio), nella quale gli individui si sforzano di raggiungere il contatto con Dio sotto la guida di un maestro.

L'ortodossia dell'Islam ufficiale mal sopporta una via mistica che in pratica spinge gli individui a una ricerca personalizzata del rapporto con Dio, fuori dei canoni stabiliti e delle prassi codificate. Pur non esistendo nulla di equivalente alla forma-chiesa, l'Islam ha di fatto elaborato, nel ramo sunnita, un sistema di credenze che per molti aspetti presenta i caratteri di una compiuta ortodossia. Al di là, infatti, delle differenze che esistono in campo sunnita fra le principali scuole di giurisprudenza coranica, il principio dell'esistenza della Legge coranica (sharī῾a), che deve funzionare come un codice sacro e immutabile che regolamenta tutte le sfere della vita e che solo gli esperti nella scienza coranica (fuqahā᾽ possono interpretare, costituisce una cornice di riferimento comune anche con il ramo sciita. Esiste allora una versione ufficiale dell'Islam che tende a contrapporsi a tutte le forme dell'Islam popolare da un lato e alla radicalità delle vie mistiche dell'altro.

Un equivalente del tipo-chiesa nell'Islam può essere rintracciato, con molti distinguo, nello sciismo. In questa 'famiglia' - che raccoglie oggi circa il 10% degli 850 milioni di musulmani sparsi nei cinque continenti - per ragioni storiche e per lo sviluppo di una particolare teologia si è affermato un ceto di specialisti, una sorta di clero, organizzato in una istituzione separata dal resto della società. La legittimazione del loro potere sacro si fonda su una dottrina teologica particolare, quella dell'imamato (imām = guida spirituale). Come ci ha insegnato uno dei maggiori studiosi dello sciismo (v. Corbin, 1971), questa dottrina si fonda su un duplice riconoscimento: a) che il ciclo della profezia non si è concluso definitivamente con Maometto; esso continua nella catena degli imām, l'ultimo dei quali si sarebbe occultato nell'878 d.C. e ritornerebbe sotto le vesti di Mahdī il giorno del Giudizio finale; b) che, sulla base di questa tensione teologica fra manifesto e occultato, del già e del non ancora, la teologia sciita ritiene che il Testo sacro racchiuda in sé un senso manifesto (letterale, di immediata fruizione da parte di ogni semplice credente) e un senso nascosto che solamente gli 'amici di Dio', gli specialisti della sapienza divina, possono cogliere. Lungo l'asse che divide, dunque, l'esoterico (il nascosto) dall'essoterico (il manifesto) viene a costituirsi un potere superiore ed elitario del clero sciita e dell'istituzione religiosa alla quale esso appartiene. Si tratta di un potere che permette di definire in modo certo e incontrovertibile ciò che è vero rispetto a ciò che è falso, ciò che è bene rispetto a ciò che è male. È un potere, infine, che vincola le coscienze e sanziona i comportamenti devianti. Ben lo sanno organizzazioni religiose diverse, ma nate nel contesto sciita, come il bahaismo (fondato nel 1866-1867 da un discepolo del Bāb persiano ῾Ali Muhammad), che sono state e continuano a essere duramente represse o stigmatizzate da parte delle autorità sciite per il contenuto fortemente eterodosso della dottrina rispetto al sistema di credenze sciita.

Rispetto al sunnismo, lo sciismo è invece meno rigido nei confronti delle vie mistiche sufi, dal momento che il sufismo può essere tollerato se si presenta come una variante della dottrina esoterica propria dello sciismo.

Tipo-chiesa, tipo-setta e tipo-misticismo, per riprendere la tipologia classica di Max Weber (v., 1920) e soprattutto di Ernst Troeltsch (v., 1912), non esauriscono tutte le forme di organizzazioni socioreligiose possibili e si adattano a fatica alle grandi religioni orientali.

Nel buddhismo, ad esempio, vediamo come dall'originaria comunità dei discepoli sorta attorno alla figura del maestro e asceta Gautama detto il Buddha vengano a dipartirsi, subito dopo la sua morte, varie scuole o sette. Ciò accade per il fatto che, con la sparizione di un'autorità suprema capace di fissare e di imporre l'ortodossia, l'interpretazione di come dovesse essere intesa la via per la liberazione dalla sofferenza, tracciata nella biografia personale di Gautama stesso, varia in base alle nuove condizioni che vengono a crearsi man mano che la nuova religione si diffonde in tutta l'India e soprattutto fuori del contesto indiano.

La prima comunità di asceti (Saṅgha) si divide subito dopo la morte del Maestro, e da questo iniziale scisma nascono successivamente varie sette (nikāya). Ciascuna di queste tenderà a consolidare nel tempo una propria tradizione dottrinaria e rituale, con la pretesa di essere riconosciuta come l'autentica interprete del messaggio originario del Buddha. Là dove poi queste diverse sette divengono, per ragioni storiche e politiche, il veicolo del fondamento religioso dell'identità nazionale di interi popoli, esse finiscono per trasformarsi in vere e proprie religioni di Stato (seguendo in questo l'analoga sorte di altre religioni, ad esempio il cattolicesimo in epoca costantiniana o lo sciismo duodecimano sotto la dinastia dei safawidi nel XV secolo), come nel caso della Thailandia o dello Sri Lanka, e dunque finiscono per assumere i caratteri di un sapere religioso organizzato e controllato da un gruppo di asceti-monaci specialisti del sacro, custodi di un'ortodossia ufficiale, spesso ripiegata su se stessa e chiusa nei confronti di altre forme ritenute non ortodosse di buddhismo o di altre religioni (Islam, cristianesimo, ecc.).

Il buddhismo tenderà a divenire una religione sincretistica soprattutto in Giappone, lasciandosi contaminare dalla tradizione religiosa autoctona dello shinto e dando vita a una grande varietà di interpretazioni, da quelle più rigoriste a quelle più aperte allo spirito moderno, vere e proprie forme di secolarizzazione del messaggio buddhista, come accade, ad esempio, in una grande organizzazione attiva non solo in Giappone ma anche in altre parti del mondo (compresa l'Europa) come il Sōka-gakkai.

I principali approcci teorici nelle scienze sociali

Le teorie che hanno cercato di spiegare la dinamica delle relazioni fra ortodossia ed eterodossia possono essere ricondotte a due approcci fondamentali: a) un primo approccio focalizza l'attenzione sulla struttura psicologica e mentale del soggetto o della personalità ortodossa e studia in controluce i comportamenti eterodossi; b) un secondo preferisce invece spostare l'analisi sul gruppo ortodosso, sul ruolo che un gruppo religioso (o ideologico) ha nel regolare l'ortodossia in funzione del mantenimento della propria coesione interna.

In linea generale possiamo dire che mentre il primo approccio è prediletto, per evidenti ragioni disciplinari, dagli psicologi, il secondo viene scelto dai sociologi e dagli psicologi sociali. Con alcune ragguardevoli eccezioni: Theodor Adorno e la scuola di Francoforte (v. Adorno e altri, 1950) hanno studiato, infatti, la personalità autoritaria sulla base di un approccio che ha tenuto conto delle condizioni sociali entro le quali matura questo tipo di personalità. L'autoritarismo di cui Adorno parla è beninteso cosa diversa dall'ortodossia, anche se esso si associa con quest'ultima: un sapere religioso elevato a dottrina indiscutibile ha bisogno strutturalmente di un'autorità che abbia il potere di imporla, standardizzando i comportamenti; i credenti tendono allora ad aderire a un universo simbolico e ideologico in modo acritico, più in forza del potere gerarchico che lo impone che per i contenuti che esso propone.

In contesti religiosi ortodossi la probabilità che si manifestino atteggiamenti e comportamenti di dipendenza acritica da un potere assoluto è molto elevata. Il gregarismo è l'altra faccia dell'autoritarismo. In un sistema ideologico chiuso e rigidamente controllato da un'autorità che pretende di essere riconosciuta come sacra, la personalità autoritaria ha molte possibilità di affermarsi e di diventare uno stile di vita e un modello sociale diffuso.

L'attenzione al soggetto in relazione al tema dell'ortodossia si ritrova anche nei lavori di un importante psicologo come Milton Rokeach (v., 1960). Egli ha studiato a fondo il dogmatismo sin dalla più nota delle sue opere - The open and closed mind -, al fine di scoprire le predisposizioni psicologiche che spingono gli individui ad aderire a un sistema di pensiero dogmatico. Nel fare questo, Rokeach ha concentrato l'analisi sulla struttura piuttosto che sui contenuti dei sistemi di credenze, nella convinzione che il dogmatismo (un elemento decisivo, come abbiamo visto, nell'ortodossia) "non necessariamente implica un'adesione a un sistema di credenze condiviso e istituzionalizzato da un gruppo" (ibid., p. 6). In altri termini, un individuo può aderire a un sistema di credenze (ideologiche o religiose) ortodosse senza dover necessariamente sentirsi parte integrante di un gruppo organizzato (di una chiesa, di una setta o, sul terreno più squisitamente politico, di un partito).

Il secondo approccio, contrariamente a quelli che abbiamo sinteticamente riportato sinora, punta non solo sulla struttura dei sistemi di credenze, ma anche sul contenuto, partendo dal presupposto che il grado di ortodossia di un sistema religioso dipenda principalmente dal tipo di relazione che si stabilisce fra soggetto e gruppo. In questa prospettiva teorica diventa pertanto essenziale verificare come in un sistema ortodosso una proposizione ortodossa (o un insieme di proposizioni che formano il contenuto del sistema dottrinario legittimato da un'autorità) abbia la funzione prevalente di regolare l'appartenenza al gruppo (v. Deconchy, 1971 e 1980).

Su questa linea di analisi possiamo, infine, richiamare il contributo del sociologo francese contemporaneo Pierre Bourdieu (v., 1971; v. Bourdieu e Passeron, 1970), il quale ha studiato i meccanismi di riproduzione del campo religioso. Sebbene egli non si occupi direttamente di questo tema, tuttavia le sue riflessioni sul potere degli specialisti del sacro ci sembrano pertinenti. Riprendendo sia le idee di Weber che quelle di Marx, Bourdieu sostiene che un campo religioso è un sistema simbolico prodotto e riprodotto incessantemente da un gruppo di specialisti (clero, teologi, sapienti, asceti, fondatori di una nuova religione e così via) in funzione della conservazione del proprio potere: nella costante difesa dei confini del campo simbolico gli specialisti tendono a legittimarsi come gli unici autorevoli interpreti del capitale simbolico-religioso che essi controllano. Questo viene riprodotto mediante processi di inculcamento nei 'fedeli' di habitus mentali di sottomissione all'autorità sacra.

In questo ambito il fatto che un sistema di credenze si presenti con i caratteri dell'ortodossia va interpretato come lo sforzo massimo compiuto dagli specialisti e dai funzionari del campo religioso per difendere il proprio potere.

Si tratta di una tesi radicale che tende a ridurre tutte le dinamiche complesse del fenomeno della credenza religiosa entro lo schema del conflitto di potere: in questa prospettiva la religione finisce quindi per coincidere sostanzialmente con il potere di imporre simboli e credenze.

Al di là dell'evidente eccessivo riduzionismo contenuto in questa posizione teorica, l'idea di campo religioso può rivelarsi euristicamente utile per comprendere la dialettica e l'interdipendenza fra ortodossia ed eterodossia. Questi due termini non sono altro che la forma fisiologica del conflitto religioso o simbolico: l'eterodossia è infatti, da questo punto di vista, una forma di contestazione dell'ordine simbolico ortodosso così come si è venuto affermando attraverso la forza di imposizione esercitata da un gruppo di specialisti del sacro; essa è un modo attraverso il quale persone o gruppi vengono a porsi come antagonisti rispetto all'interpretazione ufficiale di una dottrina o di un messaggio religioso trasformato in un sistema ortodosso. La posta in gioco è la contestazione della regolazione ortodossa della 'fede' religiosa.

Tutte le varie forme di dissidenza religiosa che noi conosciamo dalla storia (messianismi, movimenti apocalittici o nuovi profeti) possono dunque essere 'rilette' anche come manifestazione di una ricorrente tensione fra un corpo di verità dottrinarie attestate da un gruppo di specialisti o da un'istituzione sacra, da un lato, e altri gruppi o persone che revocano in dubbio la legittimità dell'interpretazione fornita dai primi, dall'altro.

Ortodossia ed eterodossia nelle religioni abramitiche: ebraismo, cristianesimo e Islam

Gli esempi e gli accenni fatti alle tre religioni abramitiche ci consentono di limitarci ad approfondire solo alcuni aspetti non sufficientemente sviluppati in precedenza.

Per quanto riguarda l'ebraismo, convenzionalmente si fissa attorno al IV secolo a.C. della storia del popolo di Israele l'affermarsi di una forma di sistematizzazione del sapere religioso di tipo ortodosso, legittimato da un corpo di specialisti. In particolare con la ricostruzione del secondo Tempio di Gerusalemme, avviata sotto il regno persiano di Ciro nel 538 a.C., si viene imponendo un nuovo paradigma teologico e socioreligioso: il tempio non è più proprietà del re, come ai tempi di Davide o Salomone, ma è del popolo che delega un ceto di sacerdoti alla sua gestione. Siamo nel periodo post-esilico babilonese, quando un influente scriba di famiglia sadducea, Esdra, avvia a partire dal 458 a.C. una riforma religiosa con lo scopo di rifondare il sistema di credenze ebraico incrinato profondamente nelle sue basi durante gli anni dell'esilio.

L'asse portante di questa riforma fu l'introduzione della scuola degli scribi. Tale istituzione contribuì enormemente a formare, in primo luogo, un ceto di specialisti nella Legge e nell'interpretazione autorevole della Tōrāh (dottrina, retto cammino, insegnamento) - il Libro che contiene la parola di Dio e le norme che gli esseri umani devono seguire nella loro vita - e, in secondo luogo, a stabilire il principio della canonizzazione della sacra scrittura. La Tōrāh, sia quella orale che quella scritta, è intesa allora come deposito della sapienza divina alla quale ogni uomo deve fare riferimento per comprendere come informare della verità divina tutta la propria vita, la hălākhāh.

Pur non essendo basato su dogmi e concetti astratti, questo grande corpo dottrinario acquisisce - nella successiva storia della dispersione del popolo di Israele, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme del 70 d.C. - i caratteri di un vero e proprio sistema di credenze ortodosso.

Possiamo parlare poi di un giudaismo ortodosso a partire dalla fine del XVIII secolo in Europa: siamo in piena diaspora quando le comunità ebraiche elaborano una teoria dell'appartenenza religiosa sancita dall'adesione a un sistema di norme e di principî ritenuti immutabili e vincolanti.

Se non possiamo parlare in senso stretto di ortodossia è perché neanche nella diaspora il pensiero religioso ebraico arriva a concepire né un'autorità centrale che presidia e custodisce i confini simbolici del campo religioso, né un dispositivo di dogmi analogo a quello che verrà messo a punto dalla Chiesa cattolica a fronte dell'avanzata dell'illuminismo e in generale della cultura moderna. Tuttavia l'assillo dell'eterodossia per le comunità ebraiche europee in diaspora diverrà forte, per cui come nell'ebraismo antico anche nel giudaismo moderno si definisce il deviante religioso (min, plurale minīm, quelli di un genere a parte) come colui il quale tradisce il patto di alleanza con Dio e spezza il legame fra etnia e religione.

Mai come in questo caso risulta evidente come il dispositivo ortodosso serva a regolare l'appartenenza al gruppo. È interessante ricordare che i primi a essere classificati come minīm furono i primi cristiani. Altro caso molto noto è quello di Spinoza condannato dalle autorità rabbiniche di Amsterdam nel 1656 per aver deviato dal retto sentiero.

Nel cristianesimo, come abbiamo già detto, i confini fra ortodossia ed eterodossia vengono tracciati gradualmente e ben presto nel fuoco della lotta contro le eresie. Si può dire che questa originaria demarcazione del territorio religioso si deposita nella memoria collettiva cristiana e si esprime in forme potenti attraverso l'istituzione della Chiesa cattolica.

Tutta la vicenda dei movimenti di riforma religiosa medievali - le cosiddette eresie, nella definizione che ne dà la Chiesa stessa - mostra, infatti, come ciclicamente venga a riproporsi nella storia del cattolicesimo uno schema dualistico: la verità legittimata da un'autorità si presenta come ortodossia e definisce tutto ciò che le si oppone e che la contrasta come eterodossia. I catari, i patari, i valdesi, il movimento dei fraticelli o quello apocalittico che si richiamava al pensiero di Gioacchino da Fiore, vengono così prontamente rubricati dalle autorità ecclesiastiche in un repertorio di casi che si sono da tempo già presentati nella storia del cristianesimo: così mentre i primi vengono ricondotti a una nuova forma di manicheismo (già combattuta a suo tempo da Agostino di Ippona), le idee millenaristiche di Gioacchino verranno condannate allo stesso modo in cui i Padri alessandrini nel III secolo avevano decisamente condannato tutte le correnti messianiche, in particolare quelle che facevano capo a un profeta frigio del II secolo di nome Montano (da cui deriva il montanismo).

Nell'Islam la parola che meglio traduce il concetto di ortodossia è mustaqim, che compare nella prima sūra del Corano (la Aprente il Libro) nell'invito rivolto ai credenti a seguire "la retta via" (al-ṣirāt al-mustaqim). Colui che devia dalla retta via è l'apostata, l'eterodosso, che ripiomba nello stato di ignoranza e di infedeltà.

Moḥamed Arkoun (v. Arkoun, 1992), uno dei più autorevoli sociologi contemporanei dell'Islam, ha mostrato come il sistema di credenze nato dalla predicazione di Muḥammad abbia seguito il seguente percorso lineare: discesa della Rivelazione (tanzil) e suo annuncio tramite un profeta, incorporazione della parola rivelata in un testo sacro (Qur'ān), trasformazione della parola trascritta in un Corpo ufficiale chiuso che viene arricchito in un secondo tempo di un corpo di commenti e interpretazioni prodotti nel corso della storia dalla comunità dei credenti in tutte le sue varie ramificazioni.

Quando Arkoun parla di Corpo ufficiale chiuso allude a tre passaggi fondamentali della storia dell'Islam che ne segnano profondamente l'evoluzione successiva: un Corpo designa l'insieme dei testi che vengono raccolti, selezionati e sistemati in base a una logica precisa nel Testo sacro; l'ufficialità allude al fatto che la stesura del Testo e la sua canonizzazione costituiscono un atto di decisione politica presa da un califfo 'ben-guidato' come 'Uthmān, già implicato nella disputa violenta sul problema della successione del Profeta; mentre, infine, la chiusura evoca il principio secondo il quale nulla avrebbe più potuto essere aggiunto o tolto al Testo pena la violazione della sua integrità e sacralità dopo l'avvenuta canonizzazione ufficiale. Ciononostante lo sforzo di interpretazione non si arrestò mai definitivamente. Certo oggetto di interpretazione è il Testo scritto, non la parola rivelata.

Ciò implica che nell'Islam l'edificazione di un corpus dottrinario ortodosso avviene attraverso un investimento simbolico iniziale e poi per accumuli successivi che hanno tutti un limite preciso: amplificare il contenuto senza mai cedere all'idea di cambiare una virgola del Testo perché ciò costituirebbe un'innovazione deviante (bid῾a).Il campo simbolico e conseguentemente sociale che l'Islam finisce per delimitare rigidamente trova nella contrapposizione fra "i compagni della destra" e "i compagni della sinistra", di cui parla diffusamente e a più riprese il Corano, una plastica rappresentazione. Chi non è in grado di riconoscere l'integrità della parola contenuta nel Libro si autocolloca - religiosamente ma anche socialmente - fuori della comunità dei compagni della destra, di coloro che seguono la retta via. I compagni della sinistra sono infatti coloro che si ribellano, che deviano dalla vera conoscenza; da qui la polarità fra īmān (vera fede) e kufr (miscredenza).

Tutto ciò costituirebbe lo scheletro di un'ideologia religiosa classicamente dualistica e non si trasformerebbe in un pensiero e di conseguenza in una struttura socioreligiosa ortodossa, se non intervenissero due fattori: a) la trasformazione del principio religioso in un corpo di norme chiamate a regolare tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, sociale e politica (ed è appunto ciò che viene chiamata la Legge coranica - sharī῾a - che letteralmente vuol dire, con uno slittamento linguistico e concettuale significativo, 'seguire il retto cammino'); b) il monopolio dell'interpretazione autentica del Corano e dei detti e fatti del Profeta (ḥadīth) esercitato da un corpo di specialisti, gli ulamā, i quali peraltro non sono certo assimilabili a un clero, né sono sottoposti a un'autorità centrale.

Nel momento in cui per ragioni storiche e politiche - legate alla tumultuosa espansione dell'Impero musulmano fra il 650 e il 1200 (I-VI secolo dopo l'egira, secondo la datazione del calendario musulmano) - si viene fossilizzando questa complessa macchina organizzativa, l'Islam tende a diventare un corpus dottrinario ortodosso e a rintuzzare tutti i tentativi di tenere 'aperta la porta dell'interpretazione'.

Quando, soprattutto a partire dal III secolo, "i dottori della Legge - teologi e giurisperiti fondamentalisti (uṣūlī) - trasformano la Rivelazione in un codice etico-religioso, essi contribuiranno a impoverire il lavoro legislativo senza d'altro canto salvare teoricamente il carattere trascendente della parola di Dio assimilata, all'occorrenza, a quella del Profeta" (v. Arkoun, 1992, p. 50). Il rigoroso principio dell'unicità di Dio che ispira tutta la visione teologica dell'Islam, inoltre, viene interpretato a volte come criterio supremo per distinguere l'ortodossia dalle forme di idolatria.

Nel caso, ad esempio, di un movimento riformista puritano come il wahhabismo (nato nel XVIII secolo per impulso di Muhammad Ibn ῾Abd al-Wahhāb e radicatosi nell'attuale Arabia Saudita grazie all'appoggio ricevuto dalla dinastia saudita), in nome dell'unicità di Dio i muwaḥḥidūn (coloro che professano l'unicità di Dio) lottarono contro tutte le forme di religiosità popolare che erano sorte nell'Islam (culto dei santi, pellegrinaggi ai marabutti) definite come eterodosse o devianti rispetto alla purezza dell'ortodossia.

Ortodossia ed eterodossia nelle religioni orientali (induismo, buddhismo e sikhismo)

Nelle grandi religioni orientali i termini del conflitto ortodossia-eterodossia si presentano in forme diverse rispetto alle religioni monoteistiche del ceppo abramitico.

Nell'induismo non troviamo né forme di organizzazione socioreligiosa del 'tipo-chiesa', né un'autorità gerarchica centrale, né tanto meno un fondatore. Esso in realtà più che una religione è all'origine una compiuta visione cosmologica di un intero popolo, quello indù. Se di religione possiamo parlare nell'induismo è solo nell'accezione del dharma, legge eterna che regola e ordina tutto il cosmo del quale anche l'essere umano fa parte come piccola particella. L'unico punto in comune che l'induismo ha con le religioni abramitiche è che esso fa riferimento a un testo sacro - i Veda (sapienza sacra). Questo Testo è considerato autosvelamento del principio assoluto che governa tutte le cose. Composto in sanscrito in un lungo arco di tempo che va dal 1500 al 500 circa a.C., esso racchiude una parola sacra rivelata a veggenti e sapienti i quali la tramandarono oralmente sino a quando altri sapienti assunsero il compito di trascriverla, conservarne l'integrità e custodire la linea di credenza che da esso si diparte.

Il sapere sacro divenne così appannaggio della casta superiore, i brahmani, i quali si attribuirono anche il monopolio dello studio dei testi vedici e della celebrazione dei riti sacrificali solenni. In tal senso l'esistenza di un testo sacro, controllato da un gruppo di specialisti di cose sacre, spiega come anche nell'induismo venga a polarizzarsi un sapere e un potere ortodosso di contro alle forme stigmatizzate come eterodosse. Infatti nell'induismo esistono due scuole: una prima che si chiama appunto 'ortodossa' (astika) e una seconda 'eterodossa' (nastika). Secondo il punto di vista ortodosso, la scuola nastika deve essere condannata perché rifiuta l'autorità dei Veda e della tradizione dell'insegnamento vedico rappresentata dalla casta dei brahmani.

Il buddhismo nasce come contestazione del potere e del sapere sacri dei brahmani e, dunque, in prima approssimazione, esso si pone come una religione eterodossa rispetto all'ortodossia induista. Basterà ricordare che sia nell'insegnamento originario del fondatore (Gautama) che nelle tecniche di meditazione insegnate nelle prime scuole buddhiste risulta secondario o addirittura non necessario il riferimento alla divinità. I riferimenti ai Testi sacri come all'insegnamento di maestri e asceti venerabili sono strumentali, servono al singolo asceta per coadiuvare i suoi sforzi nel cammino verso la liberazione dal dolore e dalla sofferenza provocata dalla legge del karma (delle continue morti e rinascite). In tal senso sino all'avvento della scuola del cosiddetto 'Grande Veicolo' (Mahāyāna) - all'inizio dell'era cristiana (dunque cinquecento anni dopo la predicazione di Gautama) - il buddhismo non può essere considerato una vera e propria religione. Possiamo parlare di religione solo quando il processo di consolidamento dell'esperienza ascetica originaria dà vita a un ordine di precetti e dogmi, di pratiche rituali e meditative, e soprattutto a forme organizzate di tipo monastico, a un capitale simbolico che diventa oggetto di contesa fra scuole diverse che sorgono dopo la morte di Buddha. Ed è allora che, nel fuoco del conflitto religioso, ogni scuola tenderà a costruire una propria ortodossia sulla cui base giudicare come devianti ed eterodosse le altre correnti e scuole.

Un ultimo caso interessante di ortodossia religiosa nell'ambito nel mondo orientale è rappresentato dal sikhismo, religione nuova nata nel XVI secolo nel Punjab a opera del guru Nānak (1469-1538). La struttura simbolica del sistema di credenze elaborato da Nānak si articola su tre punti fondamentali: l'esistenza di un unico Dio eterno, trascendente e ineffabile, dispensatore di grazia all'essere umano che vuole accedere alla verità; la necessità, per l'essere umano che voglia liberarsi dal male e conquistare la verità, di affidarsi al maestro, al guru; la convinzione che quest'ultimo sia il depositario della via che conduce l'uomo a percorrere gli stadi progressivi che conducono alla liberazione. Dunque esiste nel sikhismo l'idea di un mediatore salvifico fra Dio e l'essere umano, un mediatore che conduce il credente sulla retta via.

La formazione della prima comunità di fedeli costituisce il prototipo dell'ordine sociale che dalla religione di Nānak viene affermandosi nella regione del Punjab. L'insegnamento di Nānak, trasmesso attraverso una catena ininterrotta di guru, viene sistematizzato come dottrina dogmatica e come un insieme di riti collettivi in un testo sacro (l'Ādi Granth, che alla fine nel 1708 risulta composto di 1.430 pagine). Allorché successivamente, per cause politiche, nel 1699 l'allora guru-capo della comunità, Govind Singh (1675-1708), trasformò l'antica e tradizionale disciplina religiosa in una metodica di vita adeguata a un'etica militare (è la cosiddetta khālsa, cioè il 'puro sentiero'), la religione sikh divenne una complessa fede ortodossa sostenuta da una sorta di chiesa di santi-in-armi. Al contempo Govind dichiarò chiusa la sequenza dei guru e stabilì che il Testo sacro dovesse costituire l'unica autorevole fonte di verità. Si comprende come all'aumentare dei conflitti con l'Islam e con l'induismo da un lato, e con l'acuirsi, dall'altro, della lotta per l'autonomia politica del popolo sikh dallo Stato indiano, il grado di ortodossia del sistema di credenze è andato aumentando e ha funzionato come regolatore dell'appartenenza etnico-religiosa.

L'ultra-ortodossia nel fondamentalismo contemporaneo

In tempi recenti in diversi contesti religiosi si sono manifestati movimenti di risveglio che invocano la riscoperta dei fondamenti di una rivelazione o di un messaggio sacro per contrastare la deriva della secolarizzazione prodotta dai processi di modernizzazione sociale ed economica che vanno diffondendosi dal centro alle periferie del mondo (v. Giammanco, 1993; v. Pace, 1990). In alcuni casi si assiste non solo alla ripresa di una lettura inerrante del Testo sacro, ma alla pretesa avanzata dai movimenti in questione di ricavare dal corpo dottrinario religioso un modello di società che astoricamente si pensa di poter riprodurre in piena modernità.

Uno studioso contemporaneo (v. Greilsammer, 1991) ha proposto di chiamare alcuni di questi movimenti 'ultra-ortodossi', al fine di sottolineare il carattere di assoluta chiusura ed esclusività delle dottrine religiose che si contrappongono allo Stato moderno e a tutti i tentativi compiuti nel mondo contemporaneo per mediare fra tradizione religiosa ed esigenze di modernizzazione sociale.Gli esempi più significativi, da questo punto di vista, sono rappresentati, per un verso, dai movimenti ultra-ortodossi ebraici (gli haredim che non solo vivono in quartieri separati in alcune città israeliane, ma si organizzano in partiti politici che non riconoscono la legittimità dello Stato d'Israele, ritenuto espressione di un'ideologia secolarizzata, il sionismo) e, per un altro, dai movimenti radicali islamici che inseguono l'utopia della restaurazione della Città del Profeta nel cuore di Stati e società attraversati da conflitti sociali, espressione matura di avanzati processi di modernizzazione.

L'estensione del concetto di ortodossia ed eterodossia in campo politico

Le ideologie politiche che pretendono di fornire una visione del mondo esaustiva e una spiegazione totale dei processi sociali e storici tendono a volte ad assumere la forma di vere e proprie 'ortodossie politiche', manifestando analoga intolleranza (anche violenta) verso tutte le forme di dissidenza. Raymond Aron (v., 1965) e, più recentemente, Jean Paul Sironneau (v., 1982) e Albert Piette (v., 1993), hanno parlato a tal proposito di 'religioni secolari'. Gli esempi che solitamente vengono fatti sono rispettivamente il comunismo sovietico e il nazismo.Il fatto che si ricorra da parte degli autori appena citati a una nozione ambigua, anche se suggestiva, come quella di religione secolare sta a indicare la difficoltà teorica cui si va incontro quando si cerca di trasferire una nozione come quella di ortodossia/eterodossia dal campo strettamente religioso, nel quale essa nasce, all'ambito politico.

Nel caso del marxismo (v. Bobbio, 1983; v. Lane, 1981; v. Rivière, 1968; v. Zeldin, 1969), ad esempio, si suole parlare di marxismo ortodosso in riferimento a un preciso momento della lotta politica sviluppatasi all'interno del movimento rivoluzionario russo nel 1917. La frazione che faceva capo a Lenin (v. Settembrini, 1983) riteneva necessario che la società uscita dalla rivoluzione passasse attraverso la fase dell'industrializzazione capitalistica affinché, dopo che si fosse dialetticamente formata la classe operaia in contrapposizione alla borghesia, potesse nascere la società comunista (v. Bedeschi, 1983). Questa tesi era aspramente contrastata dagli eredi del populismo i quali ritenevano improbabile e non necessaria la transizione capitalistica data la prevalente base sociale contadina della Russia del tempo. Nel momento in cui Lenin e i suoi applicarono rigorosamente lo schema analitico di Marx alla storia della Russia, senza fare i conti con le particolari condizioni storiche di quel paese, mostrarono di concepire l'ideologia marxista come un corpus dottrinario da applicare acriticamente. Lo stalinismo successivamente accentuò questa tendenza, trasformando il marxismo in un apparato ideologico di Stato. Il marxismo fu sottratto così ufficialmente alla verifica della storia e divenne un canone - una sorta di vulgata ufficiale garantita da un'autorità politica centralizzata e totalitaria - da applicare indifferentemente a qualsiasi campo della vita umana e sociale (dall'arte alla scienza, dalla religione all'economia). Nulla di più distante dallo spirito dialettico del pensiero di Marx.

Una volta che il marxismo divenne l'ideologia portante delle diverse forme storiche di realizzazione della 'dittatura del proletariato' - dalla Russia alle società sovietizzate dei paesi del Centro e dell'Est europeo (v. Michel, 1988 e 1994), dalla Cina di Mao alla Cuba di Fidel Castro -, l'inevitabile deriva fu la formazione di un catechismo, di un apparato di specialisti chiamati a controllare la purezza dell'ideologia e di un duro sistema di repressione di qualsivoglia forma di dissenso eterodosso.

L'esempio del marxismo ridotto a ideologia totale di uno Stato illustra sino a che punto possiamo accettare l'estensione della nozione di ortodossia (religiosa) al campo politico. Si può allora affermare che un'ideologia politica diventa ortodossa quando pretende di costituirsi come un grande codice universale, astorico, chiuso al bisogno di interpretazione e di adattamento dei propri contenuti al mutare degli eventi storici, assorbendo tutti i caratteri di una visione religiosa totalizzante. In questo senso possiamo allora parlare di religione secolare con i caratteri dottrinari totalitari e ortodossi anche nel caso del nazismo. La controprova possiamo averla nel fatto che là dove ideologie del tipo 'religione secolare' si sono affermate e insediate nel cuore degli Stati moderni, si sono dispiegate con violenza tutte le forme più aberranti di persecuzione del dissenso politico e della differenza sociale e culturale, come nel caso appunto del genocidio - shoa - degli Ebrei sotto il regime hitleriano e anche sotto quello staliniano (v. Bauman, 1989).

(V. anche Movimenti integralistici; Religione; Religiosa, organizzazione).

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