Ospedale

Universo del Corpo (2000)

Ospedale

Anna Laura Palazzo
Eugenia De Luca
Antonino Iaria

Il termine ospedale (derivato del latino hospitale, neutro sostantivato dell'aggettivo hospitalis, "ospitale", con il senso di "alloggio per forestieri") indicava in origine l'ospizio per forestieri e il ricovero per poveri, anziani e trovatelli; attualmente con questo termine si identifica l'edificio, oppure il complesso di edifici, destinato all'assistenza sanitaria dei cittadini e, quindi, adeguatamente attrezzato per il ricovero, il mantenimento e le cure, tanto cliniche quanto chirurgiche, di ammalati e feriti.

Dall'hospitalitas alla sanità pubblica

di Anna Laura Palazzo


1.

L'assistenza agli infermi

Il connubio tra medicina e religione rappresenta una vera e propria costante delle società a sfondo rituale, sia pur declinata in innumerevoli sfumature che sottolineano comunque il legame indissolubile tra esperienza empirica e pratica magica. Secondo una credenza dell'antico Egitto, la frequentazione da parte degli ammalati dei santuari consacrati a Iside e Serapide avrebbe propiziato sogni in grado di giovare alle loro infermità. Il mondo greco e quello romano assimilano tale consuetudine con prudenza e scetticismo, sfrondandone gli aspetti più irrazionali e integrandola con le nascenti cognizioni di un'arte di guarire mediante 'la mano, l'occhio, il naso, il fuoco, il coltello' proveniente dall'insegnamento di Ippocrate.

Presso i templi di Esculapio, accanto ai ricoveri per pazienti in osservazione o sotto trattamento si formano scuole mediche per praticanti, mentre si diffonde l'abitudine all'esercizio della professione in un locale dell'abitazione del medico (ἰατρεῖον presso i greci, medicatrina presso i romani), che assume contemporaneamente i connotati di aula di insegnamento, locale di degenza e sala operatoria. Medicina e religione conoscono significative convergenze anche nell'Occidente cristiano, ma entro una prospettiva completamente diversa: l'innesto nello sperimentalismo di stampo tradizionale di alcuni portati della medicina orientale avviene soprattutto a opera di quei depositari per eccellenza del sapere classico che sono i monaci benedettini, autorizzati dalla Regola all'esercizio dell''arte salutare' anche fuori delle mura conventuali. Tale processo conosce un'importante affermazione nella celebre Scuola medica di Salerno, della quale si hanno notizie sin dagli inizi del 10° secolo: in questa fase si pongono le prime basi rudimentali per una costruzione in senso professionale della pratica terapeutica, la quale dopo il Mille si avvarrà sempre più di apporti di impronta laica.

In ogni caso, la dimensione eminentemente religiosa tenderà in varie riprese a porre in secondo piano la cura del corpo a vantaggio di un concetto molto articolato e complesso di assistenza, che agisce in assoluta autonomia rispetto alle effettive cognizioni ed espressioni della scienza medica coeva. Questo spirito di carità si esprime in forma di sollecitudine e disponibilità al servizio dell'altro, indipendentemente dalla sua condizione sociale, riconoscendo nel sofferente l'immagine di Cristo. L'orizzonte dell'esperienza cristiana si richiama a una nozione di hospitalitas estesa a diverse categorie accomunate dal bisogno, come i poveri, gli ammalati e, sempre più frequentemente, i pellegrini: ed è in effetti a costoro in particolare che sono riservati i primi 'xenodochi' (letteralmente "case di ospiti"), come quello fatto erigere a Porto, presso la foce del Tevere, dal senatore, poi monaco, Pammachio. L'edificio, del 398, consisteva di un atrio con fontana centrale, circondato su tre lati da ambienti per il ricovero dei pellegrini, mentre sul quarto si apriva un ampio locale a basilica. Alle iniziative sporadiche dei monasteri si affiancano le prime strutture assistenziali a carattere istituzionale, sia a Roma sia in diverse città sotto la giurisdizione bizantina. Nella capitale, le diaconie sorgono nel 7° secolo come filiazioni dell'amministrazione pontificia che aveva sede in Laterano, località eccentrica rispetto alla zona abitata, con lo scopo di integrarne le attività, prestando soccorso alla popolazione locale e ai profughi dalle regioni occupate dai Longobardi.

Queste strutture sono affidate a comunità monastiche, ma vengono dirette da un funzionario laico, il pater diaconiae, e sono prevalentemente finanziate con i redditi dei possedimenti del Patrimonium Petri, probabilmente secondo la prescrizione di papa Gelasio (fine 5° secolo) che prevede la riserva di un quarto delle entrate ecclesiastiche per attività caritative. Le diaconie trovano inizialmente una collocazione strategica nei luoghi più affollati, presso i centri di distribuzione annonaria e i mercati della città pagana, come il porto di Ripa Grande, il Foro Boario e il Foro Olitorio, e successivamente si diffondono anche in aree meno popolate. I criteri di ripartizione territoriale sono dettati dall'esigenza di provvedere capillarmente, anche per appello nominale, come dimostrano gli elenchi dei beneficiati, all'approvvigionamento e alla distribuzione periodica di viveri: grano, vino, formaggi, verdure, lardo, carne, olio, pesce. Le diaconie, spesso insediate entro costruzioni preesistenti, partecipano a pieno titolo a quella strategia di assimilazione e riappropriazione di presidi pagani a opera della città cristiana con contenuti del tutto nuovi nel segno illusorio della continuità. A parte la presenza di un locale destinato a oratorio, di maggiori pretese e dimensioni, a sottolineare lo spirito religioso dell'iniziativa, tali strutture risultano generalmente mimetizzate entro il tessuto urbano, con magazzini, uffici, alloggi per i monaci, rudimentali servizi igienici e, sempre più frequentemente, locali per la cura degli infermi. La diaconia di S. Maria in Aquiro (7° secolo), per es., con sede in un antico tempio, sarebbe stata dotata di un ospedale con 100 letti. A questo periodo risalgono anche le disposizioni scritte destinate ai rectores, i superiori degli ospizi romani, incaricati di prestare assistenza indiscriminatamente a residenti e forestieri, fornendo "letti e lenzuola per i poveri e gli infermi, medici, medicine e tutto il necessario per i malati" (Krautheimer 1980, trad. it., p. 106). A integrare la hospitalitas nelle sue diverse forme sono infine le scholae, centri di riferimento per le comunità di stranieri residenti a Roma, organizzate con proprie chiese, cimiteri e case di accoglienza per i connazionali. Il fenomeno dei pellegrinaggi richiama in effetti sin dall'Alto Medioevo i più cospicui traffici di uomini e cose lungo gli itinerari delle numerose vie romee, addensando folle di fedeli nelle sedi urbane di passaggio. È in questa fase che il termine xenodochium, mutuato dalla tarda antichità e ancora impiegato in senso strettamente etimologico, viene sempre più frequentemente affiancato da hospitale oppure hospitium, dizioni originariamente utilizzate per indicare il ricovero dei poveri che infine prevalgono in un uso allargato.

Dopo il Mille, fenomeni legati alle iniziali manifestazioni dell'urbanesimo comportano una maggiore mobilità degli uomini e la decisiva apertura all'economia monetaria. Anche nelle città minori si moltiplicano i santuari e i luoghi sacri che richiamano folle di fedeli su percorsi meno battuti, comportando la necessità di allestire nuovi ricoveri per stranieri, pellegrini e per quanti vengano feriti o si ammalino lungo la via. La fioritura di strutture assistenziali è innanzitutto connessa al movimento dei canonici riformati, che sulla scia di un generale rinnovamento della Chiesa tendono ad accentuare la dimensione sociale dell'ideale monastico, e successivamente alla comparsa di ordini cavallereschi detti ospitalieri, come i Templari e i Gerosolimitani che, attivi in varie forme sui percorsi delle Crociate, in tempi di pace assumono il compito di proteggere il viaggio dei pellegrini.

Numerose attività di assistenza sono coordinate o comunque controllate dalla Curia romana, che concede la protezione apostolica ad alcuni 'spedali' lungo la via Francigena in cambio del versamento di una somma in denaro. L'assistenza ai viaggiatori in transito si intensifica dove le difficoltà del cammino si accentuano, presso i valichi alpini e appenninici e presso i guadi fluviali. Tali forme di ospitalità e assistenza di matrice clericale, che solo occasionalmente pretendono un corrispettivo economico da parte dei forestieri solvibili, agiscono in opposizione a quelle di tipo professionale - pandocheìa e tabernae di derivazione pagana, avversate sin dal primo cristianesimo - le quali pure si diffondono con estrema rapidità, trovando i loro referenti in quel mondo variopinto e vagamente losco di commercianti e locandieri che presidiano stabilmente gli itinerari romei e in massimo modo la Città leonina, a ridosso della Basilica di Pietro. Ed è proprio qui che, nel 1198, Innocenzo III fonderà la chiesa di S. Spirito in Sassia e l'omonimo ospedale con una capienza di 300 letti e la possibilità di soccorrere mille poveri al giorno, entro le mura della Schola Saxonum ormai in disuso. La fisionomia della nuova fondazione è quella di un complesso polifunzionale destinato a svariate forme di accoglienza: albergo per visitatori di riguardo, ricovero di mendicità, ospizio per trovatelli e per orfani, clinica per partorienti, asilo per donne traviate.

Nelle città europee del Tardo Medioevo si inaugura una fase di attività caritative per l'assistenza ai bisognosi, tra cui figurano anche i pauvres passants, alimentate attraverso rendite agrarie, donazioni e lasciti testamentari da parte di quei laici burgenses che appartengono di norma al ceto artigianale. Costoro legano il proprio nome e il ricordo di sé a fondazioni minori, non di rado destinate a membri della propria corporazione ormai anziani o caduti in povertà, a ricoveri per i neonati 'esposti', o addirittura alla dotazione e alle spese di funzionamento di singoli posti letto entro istituti già in attività. Emerge anche il ruolo delle autorità municipali che possono partecipare direttamente all'amministrazione ospedaliera, nominare i rectores e il personale da impiegare, assicurare l'inserimento nei propri bilanci di una voce prestabilita per le spese di gestione. Le diverse iniziative sono spesso patrocinate e regolate dall'amministrazione pontificia attraverso privilegi, brevi e bolle intese a prevenire le frodi dei rectores e a promuovere contemporaneamente la carità privata. Se in questa fase un rinnovato fervore di attività mondane ha ormai allentato il pregiudizio sulla ricchezza, un eccessivo frazionamento delle iniziative assistenziali ne mette spesso a dura prova la sopravvivenza: istituzioni, che per legati testamentari avrebbero dovuto essere perenni, vengono assorbite di fatto, o per decreto, da fondazioni di maggiore prestigio, nei riguardi delle quali la generosità individuale è più munifica. Ciò si verifica a Palermo, che nel 1431 riunisce tutti i suoi ospedali in quello di S. Spirito, a Milano, in virtù dell'intervento di Francesco Sforza che nel 1456 istituisce, su disegno del Filarete, il monumentale Ospedale Maggiore, ma anche in molti centri minori.

A Parigi l'Hôtel-Dieu, risalente al 9° secolo, nella sua versione rinascimentale costituisce l'espressione per eccellenza della carità collettiva, con i suoi 279 letti e una capienza massima valutata in circa 800 persone, secondo una consuetudine di 'coabitazione' che invece, nell'ospedale di S. Spirito di Roma, era stata già da tempo sconsigliata. Il nosocomio parigino deve la propria ubicazione sulle rive della Senna a basilari principi di igiene: l'approvvigionamento e il ciclo delle acque vengono garantiti attraverso un impianto particolare, destinato a raccogliere l'acqua del fiume in un serbatoio che la distribuisce nei diversi ambienti.

L'organizzazione interna è improntata a criteri di buon senso: l'infermeria accoglie i malati gravi; la sala St.-Denis quelli inabili il cui stato di salute non desta particolare preoccupazione; la sala St.-Thomas è destinata ai convalescenti, e infine un locale a parte, attiguo alla camera del parto, è destinato alle inferme. Il personale preposto all'assistenza è composto di frati e suore, mentre le faccende domestiche e i servizi di manutenzione sono affidati a servi e artigiani che rendono l'istituzione completamente autonoma. La somministrazione ai malati di sostanze curative e la disponibilità di due chirurghi alle dipendenze dell'ospedale sono le uniche testimonianze riportate dai documenti dell'epoca, nei quali è singolarmente assente ogni menzione all'assistenza medica, nonostante i vistosi progressi della medicina nell'ambiente parigino dominato dalla facoltà della Sorbona.

Nell'Età moderna l'attività caritativa, con i suoi ambigui risvolti di ostentazione e di assicurazione per la vita ultraterrena che convivono con motivi di generica filantropia o con forme di sincera pietas, tende a esprimersi in forme meno disperse: gli ospedali più importanti assumono un carattere rappresentativo all'interno dei tessuti urbani, secondo uno schema distributivo generalmente articolato intorno a uno o più cortili, a somiglianza delle convivenze religiose. Il motivo del porticato lungo la facciata principale ricorre frequentemente, ma non di rado le successive esigenze di ampliamento ne decretano il sacrificio in favore di nuovi locali. Sull'esempio dell'ospedale filaretiano di Milano, prototipo classico a crociera, un criterio progettuale essenziale riguarda la necessità di calibrare dimensionalmente i complessi edilizi, in modo da consentire ai ricoverati di assistere alla celebrazione della messa; la disposizione dell'altare al centro dei quattro bracci della croce, nei quali sono collocate le corsie, anticipa la soluzione progettuale con cappella centrale che ispirerà molte realizzazioni del 18° secolo.

Sino alla soppressione delle cosiddette opere pie durante la Rivoluzione francese, l'assistenza poggerà robustamente su un volontariato consacrato che perfeziona la propria attività al capezzale dei malati e che vede la presenza femminile, già impiegata negli ospedali, secondo un'usanza antica, nei ruoli più ingrati: sono le donne consacrate, infatti, talvolta in abito laico, quelle che svolgono le mansioni della più difficile e spesso sgradevole assistenza concreta, anche all'interno dei reparti maschili.

Dopo la parentesi rivoluzionaria, l'iniziativa pubblica affiancherà, nei vari paesi, le istituzioni con finalità religiosa, mutuandone gli aspetti più innovativi: è anche grazie all'impegno profuso nell'insegnamento da Maddalena di Canossa, tra 18° e 19° secolo, con la sua congregazione delle Figlie della Carità, se si afferma già sotto Napoleone la consuetudine di impartire alle donne, a integrazione di quelle doti di dedizione e sacrificio personale che sono ritenute una loro vocazione naturale, alcuni rudimenti pratici finalizzati all'assistenza di particolari categorie di ammalati o di invalidi, dapprima in Europa e infine nelle lontane missioni. E, in pieno 19° secolo, è sempre una donna, la laica F. Nightingale, a imprimere, all'assistenza la definitiva svolta in senso professionale.

Gli straordinari risultati conseguiti nel ridurre i tassi di mortalità, introducendo semplici ma rigorose pratiche di igiene quotidiana nell'ospedale militare inglese di Scutari durante la guerra di Crimea, furono da lei propagandati con grande insistenza e indussero il governo britannico ad avviare forme di tirocinio per infermieri presso adeguate strutture sanitarie. Tra le ripercussioni mondiali suscitate dall'opera di Nightingale va inclusa l'idea di una tutela particolare riservata ai feriti di guerra, che ne afferma il diritto a essere raccolti e curati anche dal nemico sotto il vincolo della neutralità per il periodo della cura, vincolo esteso anche al personale sanitario militare e alle società private di assistenza riconosciute dalle autorità. Le linee schematiche di tale proposta, concordate a Ginevra già nell'anno 1864, congiuntamente alle azioni avviate per sensibilizzare i governi di diversi paesi, condurranno, nel 1928, alla costituzione della Croce rossa internazionale.

2.

Verso una specializzazione dei luoghi di cura

Sino al Tardo Medioevo la questione sanitaria costituiva un risvolto del tutto secondario delle attività caritative: per quanto le maggiori istituzioni ospedaliere disponessero per statuto di personale medico salariato e di speziali e farmacisti, l'esperienza diagnostica e la pratica terapeutica non conobbero per lungo tempo avanzamenti di rilievo. La scienza ufficiale da Galeno in poi ravvisava la causa delle malattie in una perturbazione degli equilibri degli umori - sangue, flemma, bile gialla e bile nera - sui quali era regolata la salute dell'individuo, e i rimedi adottati lasciavano poco spazio a interventi curativi o anche solo palliativi.

Sino al Rinascimento inoltrato, in mancanza di un sapere terapeutico condiviso, l'immaginario collettivo continuava ad attingere al corposo genere letterario delle memorie e biografie per la rievocazione di episodi di malattia conclusi da guarigioni leggendarie e miracolose. In tale situazione, intorno alla metà del 14° secolo si misero in atto i primi sporadici provvedimenti di natura sanitaria sotto l'incalzare della peste che avrebbe sterminato in pochi anni circa un quarto della popolazione europea. In alcune città italiane vennero adottate misure tese a isolare gli infermi affetti da malattie particolari o contagiose, disponendone il ricovero coatto entro le numerose mansiones leprosorum e domus infectorum dedicate a s. Lazzaro, costruite in luoghi distanti dai centri abitati, allo scopo di ridurre le occasioni di contatto e mantenere l'ordine nelle comunità colpite. A Milano venne istituita, nella prima metà del Quattrocento, una magistratura permanente sui problemi igienico-sanitari che rendeva conto direttamente al duca: tra i suoi compiti vi erano quelli di controllare l'affollamento delle abitazioni, gli scarichi degli edifici e di raccogliere informazioni sui casi di morte per contagio. Ben presto tale ricognizione fu estesa a tutti i decessi, con indicazione dell'età e della causa di morte presunta.

Nel corso dell'epoca moderna diversi Stati dell'Europa adottarono norme attinenti la salute pubblica nel senso più ampio del termine, tra cui alcuni provvedimenti specifici in occasione delle epidemie di peste, tifo e vaiolo, che decimarono la popolazione a più riprese nel Seicento e nel Settecento. Tali istituti e pratiche furono paradossalmente avversati dagli illuministi, che pure proclamavano la salute 'bene comune della società', in quanto ritenuti forme inaccettabili di ingerenza dello Stato nella vita privata degli individui e della collettività. Tra Settecento e Ottocento la rete ospedaliera delle città si è ormai ampliata e ramificata con la creazione di strutture specialistiche e con divisioni destinate a diverse patologie; nel 1735, per es., fa la sua comparsa a Venezia il primo ricovero specifico per i tisici. Tuttavia gli aspetti più innovativi non attengono all'articolazione delle strutture ospedaliere, se è vero che già nella Parigi medievale si contavano alcune decine di istituzioni, tra cui diversi lebbrosari e un singolare ospizio per ciechi, fondato da Luigi IX per dare rifugio a 300 invalidi con i propri congiunti. Anche nella Roma della seconda metà del Cinquecento Pio IV aveva sancito la fondazione dell'istituto di S. Maria della Pietà (già preesistente; v. oltre), corredato di assistenza medica ad insaniam curandam, sottraendo i malati di mente al destino della carcerazione in condizioni di promiscuità con altri reietti della società. E ancora, a Venezia, dove già dal 1423 nell'isola di S. Maria di Nazareth era stato creato un ospizio per accogliere individui sospetti di essere affetti da morbi contagiosi (da cui nazarethum, trasformato poi in 'lazzaretto' per contaminazione con il nome del lebbroso citato nella parabola del ricco Epulone), nel 1561 il governo della Serenissima aveva costituito una rete di ospizi, con destinazioni specifiche: l'ospedale degli Incurabili per i sifilitici gravemente ammalati e i piagati, quello dei Mendicanti per i lebbrosi e quanti erano colpiti da affezioni della pelle, quello dei Derelitti per i malati ritenuti guaribili, infine quello della Pietà destinato ad accogliere i trovatelli.

Ciò che di fatto caratterizza l'ordinamento e l'organizzazione sanitaria alle soglie dell'età moderna è il conseguimento di livelli di intervento qualitativamente superiori rispetto al passato, anche in virtù di una più salda cognizione delle modalità di trasmissione del contagio e del riconoscimento di un'importante causa di infezione e morte nella mancanza di adeguate misure antisettiche. Le basi per le nuove concezioni organizzative del sistema sanitario, in stretto collegamento con alcuni provvedimenti di carattere settoriale - norme sulla captazione e lo smaltimento delle acque, sul controllo e la conservazione degli alimenti, sul risanamento delle città industriali - non potrebbero venire gettate senza un completo rinnovamento del ruolo del medico e del suo statuto professionale, che ne fa l'elemento di riferimento e il cardine dell'organizzazione sanitaria nazionale e locale. Ciò si verifica in seno al processo di formazione delle diverse branche dall'originario nucleo indistinto dell'ars medica scolastica; tale processo, abbozzato attraverso la provvisoria ripartizione tra medicina interna e medicina esterna sulla base di un criterio essenzialmente anatomico (1839), si va precisando intorno alla metà dell'Ottocento in virtù di due fattori fondamentali: la nascita della medicina clinica nel senso moderno del termine, e l'applicazione del metodo scientifico. Sotto il primo profilo, il collegamento dell'insegnamento e dell'esercizio della medicina e della chirurgia con le strutture dell'ospedale, già introdotto nei più importanti nosocomi, come nel S. Spirito di Roma a opera di G.M. Lancisi (1710), e poi istituzionalizzato con la Rivoluzione francese, trova larga e immediata risonanza nella fase della Restaurazione. A Roma, Pio VII diviene l'acuto interprete di tali esigenze, dotando la Facoltà di medicina di due ospedali per l'insegnamento pratico in corpore vivo.

Si delinea una nuova forma di attività clinica fondata sulle acquisizioni teoriche più recenti, come le nuove cognizioni fisiologiche e istopatologiche. L'applicazione alla medicina del metodo scientifico consente di mutuare i concetti di osservazione e di misura introdotti da Bacone e Galileo attraverso una sistematizzazione delle sperimentazioni cliniche, di raccogliere l'eredità della nascente analisi quantitativa nell'interpretazione dei principali fenomeni demografici, quali natalità e mortalità, e conseguentemente di avviare le prime indagini epidemiologiche incentrate sulla distribuzione delle malattie, sulle cause che le provocano e sui fattori che ne influenzano il decorso. Il tema della corrispondenza tra malattia e tipologia ospedaliera, che aveva costituito un banco di prova per la trattatistica a partire da L.B. Alberti, conosce in questa fase di rinnovo degli apparati sanitari nazionali una consacrazione definitiva. Nel 18° secolo inizia a delinearsi una separazione tra istituzioni di carità e veri e propri presidi sanitari, anche a opera di F. Milizia, fautore delle ragioni di una politica di prevenzione che consentirebbe di circoscrivere di molto la sfera d'azione dell'assistenza pubblica. Per gli ospedali di tipo tradizionale Milizia conferma la tipologia corrente, che mutua dal convento il suo assetto distributivo, con un definitivo abbandono delle corsie in favore di celle individuali. In linea con le tendenze della nuova scienza sanitaria, egli prescrive la semplicità, la comodità, la salubrità e la nettezza, bandendo ogni forma di ornato, ritenuta inopportuna. Un'istituzione 'repressiva' come il lazzaretto, dove la libertà individuale viene necessariamente sacrificata per la salvaguardia degli uomini sani, va invece concepita secondo criteri che riducano al massimo il disagio della reclusione. L'utilità sociale si sposa egregiamente con una vis umanitaria tipica dell'illuminismo nella prescrizione che tali edifici, da costruirsi nei porti, su isole o su piattaforme artificiali, siano "gratuiti, comodi, sani, ilari e anco ameni con bei giardini ornati della sola proprietà" (Milizia 1825, p. 202), in maniera da contenere eventuali impulsi all'evasione.

Questi principi dovevano suonare comunque insoliti presso i contemporanei, se dalle realizzazioni coeve emergeva ancora un carattere nettamente coercitivo nei confronti dei degenti: il lazzaretto presso il porto di Ancona, realizzato nel 1781 su un precedente progetto del Vanvitelli, avamposto di un'area di colmata verso il mare, è un vero e proprio fortilizio a pianta pentagonale con una funzione difensiva che si rivelò più tardi provvidenziale negli assedi subiti dalla città.

Nel corso dell'Ottocento diversi traguardi sanitari sono stati conseguiti: regrediscono malattie come la malaria o il vaiolo, quest'ultimo grazie all'introduzione del vaccino, entrato in uso sin dagli ultimi anni del 18° secolo come misura preventiva che vede nel solo Lombardo-Veneto oltre un milione e mezzo di individui trattati; si assiste invece a un incremento della tubercolosi, particolarmente diffusa a causa dell'affollamento crescente delle città, e a un ripetersi di epidemie di colera, poste sotto controllo soltanto attraverso il ricorso a drastiche misure di igiene. In questa fase, gli orientamenti degli Stati nazionali assumono profili molto diversi in relazione a una differente concezione del proprio ruolo e del rapporto con i cittadini. Da un lato, l'indirizzo dominante negli Stati tedeschi, improntato a una forma di dispotismo illuminato, propugna un controllo della professione medica, della salute pubblica e dell'igiene privata attraverso gli organi del governo statale, che agiscono di concerto con una divisione di polizia sanitaria.

L'altro indirizzo è rappresentato invece dalla Francia, ma soprattutto dall'Inghilterra, dove la maggiore diffusione di abitudini igieniche e sanitarie consente di ridurre gli interventi autoritari di tipo coercitivo. La legislazione del Regno Unito viene assunta a riferimento di quella italiana. Con l'approvazione (1888) della legge contenente norme per l'assistenza medico-chirurgica e per il controllo delle professioni sanitarie, disposizioni sull'igiene del suolo e dell'abitato, su bevande e alimenti, e misure contro la diffusione delle malattie infettive, si avvia un disegno più ampio che comprende anche il riordino dei compiti di istituti di assistenza spesso secolari. Tali avanzamenti legislativi procedono di pari passo con la riflessione sui criteri progettuali e distributivi delle attrezzature ospedaliere, che inaugura una nuova fase realizzativa.

Le tipologie a bassa densità insediativa, generalmente a padiglioni, vengono prescelte in Europa dai complessi maggiori, come per es. il policlinico Umberto I di Roma, la cui costruzione fu iniziata nel 1889, in ordine a esigenze di igiene e sicurezza sia in caso di epidemie sia di altre fatalità inattese. Il modello funzionale, forse derivato dall'accampamento militare romano che disponeva di tende e baracche attrezzate per il ricovero degli infermi, era già stato codificato dal fisico J.-B. Le Roy nella seconda metà del Settecento dopo il disastroso incendio dell'Hôtel-Dieu parigino secondo il principio che ogni sala dev'essere come 'un'isola nell'aria': i corpi di fabbrica, isolati sui lotti di pertinenza ed eventualmente collegati tra di loro mediante corridoi o pensiline, ospitano le diverse cliniche con i loro spazi di degenza, e risultano autonomi dal punto di vista sia funzionale sia gestionale. Gli esempi di complessi compatti, denominati monoblocco, propongono invece una tipologia intensiva diffusa soprattutto negli Stati Uniti, grazie alle innovazioni delle tecniche costruttive e sotto l'influenza delle teorie tayloristiche incentrate sull'ottimizzazione di fattori che a vario titolo influenzano il lavoro del personale. Le congiunte necessità di sfruttare meglio il terreno e di razionalizzare il movimento dei dipendenti e dei degenti, con l'utilizzo di ascensori e di montacarichi che riducano i tempi di percorrenza, portano all'adozione di uno sviluppo in verticale che sancisce al contempo la separazione tra i reparti e l'accorpamento degli elementi funzionali ritenuti indispensabili, come le sale operatorie e le strutture di servizio. Infine, i vari schemi distributivi riconducibili all'organizzazione 'a pettine', con fabbricati sporgenti direttamente uniti a un corpo principale, conservano del tipo a padiglione il vantaggio di un'adeguata ventilazione dei reparti, salvaguardando il principio di una messa in comune delle attrezzature diagnostiche e terapeutiche sistemate nel fabbricato di raccordo.

Particolari strutture di degenza, diffuse a cavallo tra Ottocento e Novecento, soprattutto nelle località di montagna, sono i sanatori per gli ammalati di tubercolosi, che tendono a celare sotto l'aspetto di alberghi di lusso il loro risvolto sanitario. Il costo elevato delle prestazioni seleziona un'utenza altoborghese, per la quale la sospensione temporanea o definitiva della vita attiva assume il carattere dell'attesa indefinita di una possibile guarigione ingannata dai fasti e dalle mondanità che caratterizzano i luoghi di villeggiatura. Lo spazio privato nel quale il paziente trascorre la maggior parte del proprio tempo consente la riproduzione del suo microcosmo e si prolunga in un ampio loggiato ventilato. Questo tipo di ospedale specializzato va scomparendo nel secondo dopoguerra con la scoperta di metodi terapeutici capaci di controllare e debellare l'infezione.

3.

Orientamenti recenti

Sino agli ultimi anni del 19° secolo le potenzialità assistenziali dell'ospedale con riguardo sia alla diagnostica sia alla terapia non differivano sostanzialmente da quelle del domicilio. Infusi, pozioni, estratti, salassi, come pure le prime specialità della nascente industria farmaceutica, potevano essere somministrati nell'uno o nell'altro ambiente con risultati analoghi. L'esercizio della professione medica si svolgeva soprattutto entro le mura domestiche e il ricovero era riservato a quanti erano sprovvisti di mezzi economici per garantirsi l'assistenza a domicilio. Tali condizioni si modificano molto rapidamente nel 20° secolo, nel periodo compreso tra le due guerre, in virtù dell'introduzione di più avanzati mezzi diagnostici e terapeutici. Il modello della clinica universitaria, dotata di laboratori e ambulatori a indirizzo specialistico, diviene il riferimento organizzativo e funzionale degli istituti di ricovero: ciò determina un mutamento sostanziale nel rapporto medico/paziente in favore di un'articolazione delle competenze che vede diversi soggetti intorno al letto del malato.

Nel secondo dopoguerra si va precisando l'esigenza di un'organizzazione del sistema sanitario nazionale secondo presidi territoriali, in grado di assicurare alla popolazione omogenee condizioni di accesso all'assistenza. Con la legge di riforma del 23 dicembre 1978, nr. 833, concepita nel segno del trasferimento delle competenze alle Regioni e del decentramento amministrativo, tale processo di riorganizzazione e ristrutturazione delle attrezzature esistenti vede finalmente la luce: la gestione unitaria dei problemi di tutela della salute viene demandata alle neoistituite Unità sanitarie locali (USL, o Consorzi sociosanitari), definite dalla legge 'strutture operative dei Comuni'.

L'articolazione interna delle USL, su base territoriale, fa riferimento a un'organizzazione dell'offerta sanitaria secondo bacini di utenza via via crescenti con il livello di complessità dei servizi erogati: alla 'area elementare' (5000-10.000 abitanti) afferiscono i servizi sociosanitari di base che operano a diretto contatto con l'utenza; al livello di 'distretto' (10.000-20.000 abitanti, con oscillazioni tra 5000 e 50.000 in relazione al tipo di realtà, rurale o urbana) sono attivi i servizi integrativi di quelli di base, di rango più elevato, che prevedono poliambulatori con compiti di filtro alla specializzazione, di recupero dei de-ospedalizzati e di organizzazione di quell'insieme di servizi di base a cui dovrebbero appoggiarsi la medicina preventiva e le attività igienico-profilattiche; a scala di 'consorzio' per bacini di utenza compresi tra 50.000 e 200.000 abitanti (coincidenti con gli ambiti territoriali delle USL) operano invece quegli organismi - tipicamente le strutture ospedaliere - cui spetta fornire un sostegno e un'integrazione dei servizi diffusi sul territorio. Vi sono infine attrezzature di rango superiore destinate all'assolvimento di funzioni complesse e correlate con bacini più estesi delle USL in ragione della loro rarità, che in alcune leggi regionali figurano con la denominazione di 'dipartimenti'. I processi di riorganizzazione e di integrazione funzionale innescati dalla riforma sanitaria avrebbero dovuto comportare risultati concreti sul piano della razionalizzazione della spesa pubblica, ponendo al contempo le basi per la predisposizione di un quadro conoscitivo preciso e aggiornabile in termini di programmazione triennale da parte dello Stato, e per l'avvio di procedure finalizzate a individuare nuove domande di intervento in favore del settore.

Anche in relazione a tali presupposti, le distinzioni tipologiche che avevano presieduto alla progettazione 'scientifica' dei complessi ospedalieri tendono oggi a stemperarsi sotto l'incalzare delle nuove esigenze di flessibilità e adattabilità degli spazi: la sperimentazione architettonica si è avviata verso l'elaborazione di schemi modulari definiti per dimensioni, caratteristiche tecniche e tecnologiche tali da consentire costi e tempi esecutivi contenuti, in virtù di una più efficace connessione tra fase ideativa e fase realizzativa. Il ricorso a moduli funzionali di tipo semilavorato (per es., strutture portanti, impianti e attrezzature), che si sono affermati penalizzando in qualche misura la libertà progettuale, consente di fatto una maggiore latitudine e flessibilità di impiego sia nei riguardi di eventuali completamenti all'interno delle cellule elementari, sia in relazione a vere e proprie esigenze di ampliamento delle sedi ospedaliere per aggregazioni successive.

Un ulteriore campo di riflessione riguarda i portati disumanizzanti della 'macchina ospedaliera'. La questione si pone soprattutto nel caso di reparti di lungodegenza e di riabilitazione, dove non va sottovalutata la componente psicologica nei riguardi del decorso della malattia; le sperimentazioni, intese a evitare che ai disagi della sofferenza fisica si sovrappongano stati di demoralizzazione e di rifiuto da parte del paziente, agiscono nel segno della costruzione di uno spazio sociale che favorisca condizioni di convivenza nel microcosmo interno e di scambio con il mondo esterno dei visitatori. Nel caso dell'Academic hospital di Amsterdam, realizzato negli anni Ottanta del 20° secolo con una capienza di ben 800 posti letto, la soluzione tipologica adottata consiste in un insieme articolato di blocchi di degenza aperti mediante ballatoi su corti interne, che svolgono la funzione di centri di ritrovo con giardini d'inverno, esercizi commerciali e altre attrezzature collettive. Ma il traguardo più impegnativo è altrove: il cittadino chiede al sistema sanitario di assicurare l'efficienza dei servizi. Con d. legisl. 30 dicembre 1992, nr. 502, viene affidato alle Regioni il compito di ridefinirne le linee organizzative a livello territoriale e di svolgere attività di indirizzo e controllo nei confronti delle neoistituite Aziende sanitarie locali (ASL), definite 'enti strumentali delle Regioni' (in sostituzione delle USL), e delle Aziende ospedaliere (a loro volta esito di una ristrutturazione degli ospedali di rilievo nazionale e di alta specializzazione, dei policlinici universitari e dei presidi ospedalieri, sedi del triennio clinico di formazione delle Facoltà di medicina); tali strutture sono dotate di personalità giuridica pubblica e di autonomia economico-finanziaria, organizzativa e tecnica.

Contestualmente è stato introdotto anche in Italia il concetto di 'qualità della prestazione', intesa non come un attributo generico dei servizi erogati, ma come una caratteristica specifica dei macro- e dei microprocessi che costituiscono le attività sanitarie stesse; tale nozione è stata mutuata dalle tecniche di verifica e revisione di qualità (VRQ) messe a punto nei paesi anglosassoni inizialmente per la valutazione dei procedimenti di produzione industriale e, poi, estese al settore della sanità a partire dal secondo dopoguerra.

Anche in questa particolare accezione, la qualità viene valutata attraverso tre distinti criteri: sulla base del primo, da cui dipende l'accreditamento della struttura, ossia il riconoscimento formale da parte di un organismo abilitato dallo Stato a svolgere quelle determinate attività, ne vengono verificati i requisiti in termini di risorse e attrezzature a disposizione rispetto a un modello assunto come standard; il secondo criterio, che chiama in causa meccanismi di valutazione più difficilmente oggettivabili, fa riferimento ai 'processi', ossia all'insieme delle operazioni e dei procedimenti operativi, tecnici, professionali e amministrativi della struttura; il terzo infine attiene ai risultati (outcomes) delle cure mediche, in modo da poter inferire le caratteristiche della struttura che ha erogato le cure. Le attività di VRQ in Italia sono regolate da una serie di norme contrattuali per il personale dipendente e convenzionato che hanno disposto la costituzione di appositi organismi collegiali operanti a livello nazionale, regionale e di ASL. In particolare, a livello regionale, cui compete la predisposizione di linee-guida che precisino i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi per l'esercizio delle attività sanitarie, la commissione incaricata è tenuta a verificare: l'adeguatezza delle strutture, delle attrezzature e del personale; la correttezza delle procedure e delle prestazioni; i risultati raggiunti rispetto ai bisogni dei cittadini.

Sempre a livello regionale, apposite commissioni professionali, previste dagli accordi collettivi nazionali per la regolamentazione dei rapporti con i medici di base e gli specialisti ambulatoriali, hanno il compito di definire gli standard medi assistenziali, di fissare i parametri di spesa regionale, intesi come dati indicativi per il comportamento prescrittivo dei medici, e di stabilire le procedure di verifica di qualità dell'assistenza. In Italia, la spesa devoluta alla sanità, a fronte del principio costituzionale secondo il quale "la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività" (art. 32), ha oggi un'incidenza limitata sul prodotto interno lordo in confronto con altre realtà europee. Le strutture ospedaliere pubbliche manifestano tuttora forti diseconomie e gravi inefficienze, riferibili al costo elevato delle prestazioni a carico dello Stato, al limitato volume di lavoro rispetto alle potenzialità delle attrezzature e del personale, nonché alle carenze di controlli ambulatoriali dei pazienti dopo la dimissione. L'obiettivo di ridurre la durata della degenza viene oggi perseguito dalle Regioni attraverso l'introduzione di un nuovo meccanismo di rimborso alle strutture ospedaliere, non più in relazione ai giorni di degenza ma in base a un prezzo stabilito convenzionalmente, che risulta onnicomprensivo per episodio di malattia. Riemergono alcune tematiche che la riforma del 1978 non ha saputo pienamente affrontare, come l'esigenza di un maggiore contatto con i servizi di base, i cui interventi dovrebbero caratterizzarsi prevalentemente in senso preventivo, e la conseguente riconversione di quote di posti-letto in servizi poliambulatoriali e di tipo diurno.

Vi sono anche altri motivi per incoraggiare opzioni di questo tipo: l'attenzione a un modello di medicina incentrato sul paziente (patient centered), che si traduce nella pratica in una medicina più umana e attenta agli aspetti di comunicazione, può contribuire a correggere il riduzionismo del modello tradizionale incentrato sulla malattia (disease centered), integrandolo con il riferimento al vissuto del malato quale dato imprescindibile di ogni intervento clinico.

Aspetti e problemi dell'organizzazione ospedaliera

di Eugenia De Luca


La funzione dell'ospedale come s'intende oggi non si esaurisce nel ricovero, nella diagnosi e nella cura dei malati: l'istituzione mira al recupero e alla rieducazione funzionale dell'infermo (riabilitazione), ma anche alla prevenzione mediante la diagnosi precoce, alla preparazione professionale del personale sanitario e tecnico, alla promozione dell'educazione igienico-sanitaria del malato e del suo nucleo familiare, in modo che la salute possa essere conservata anche a dimissioni avvenute. Il perfezionamento delle tecniche diagnostiche e terapeutiche ha inoltre contribuito a un'evoluzione dei servizi ospedalieri, imponendo l'esigenza di tipologie sempre più rispondenti alle diverse necessità (centri di terapia intensiva, servizi ambulatoriali specialistici, day hospitals medici e chirurgici, reparti operatori per trapianti, per interventi di cardiochirurgia ecc.).

La recente organizzazione degli ospedali in aziende ospedaliere (aziendalizzazione) che, secondo la nuova normativa europea (recepita dal d.l. 19 settembre 1994, nr. 626 e successivi aggiornamenti) considera l'ospedale come luogo di lavoro alla stregua delle altre industrie produttive, ha lo scopo di fornire un'adeguata qualità dell'assistenza al malato e una garanzia di sicurezza per il personale sanitario operante. Le funzioni che si riconoscono a un moderno ospedale generale possono essere così classificate: 1) cura, diagnosi dei pazienti ricoverati o meno, trattamento (medico, chirurgico, specialistico) precoce degli stati morbosi acuti, riabilitazione fisica, mentale e sociale degli stati morbosi cronici; 2) prevenzione, controllo della normalità della gravidanza e della nascita, della normalità della crescita e dello sviluppo del bambino e dell'adolescente, controllo delle malattie infettive, prevenzione delle malattie professionali, prevenzione dell'invalidità conseguente a eventi morbosi acuti e cronici, educazione sanitaria, rivolta oltre che agli infermi e ai loro familiari anche al personale ospedaliero; 3) istruzione, formazione permanente del personale laureato, formazione di base del personale sanitario ausiliario; 4) ricerca, attività di ricerca applicata alle scienze biomediche. Tra i servizi speciali di recente acquisizione figurano in particolare il day hospital e l'ospedalizzazione a domicilio. Con l'espressione di origine anglosassone day hospital si intende una modalità di assistenza sanitaria ospedaliera in cui si svolgono attività diagnostiche e/o terapeutiche, anche coordinate tra loro, da effettuare nell'arco della giornata. Si tratta pertanto di una struttura rivolta all'assistenza e alla cura di pazienti affetti da patologie per le quali è necessaria un'assistenza per tempi brevi, senza dover ricorrere a un ricovero ospedaliero vero e proprio.

Attualmente il day hospital comprende i seguenti indirizzi: chirurgico, geriatrico, riabilitativo, oncologico, pediatrico, psichiatrico. Per tutti gli indirizzi vale la possibilità di essere collegati funzionalmente al reparto di riferimento, consentendo in tal modo di effettuare piccoli interventi chirurgici, radioterapia e chemioterapia, pratiche di riabilitazione, con la garanzia di équipe sanitarie specializzate. L'ospedalizzazione a domicilio costituisce invece un'ulteriore forma di organizzazione che è volta a garantire la prosecuzione dell'assistenza a domicilio da parte dello stesso personale ospedaliero nei casi in cui non è indispensabile il ricovero, ma, al contempo, la forma di assistenza richiesta non è sufficientemente coperta dal medico di famiglia. Il sistema prevede prestazioni mediche, infermieristiche, di riabilitazione e recupero psicofisico spesso in forma integrata con i servizi sociali di competenza dei Comuni.

Problemi non indifferenti di organizzazione sanitaria sono posti inoltre dal progressivo invecchiamento della popolazione, poiché si prevede che nel 2025, in Italia, essa sarà costituita per il 20% da anziani. Il fenomeno richiede un esame approfondito degli aspetti medico-biologici, demografici e sociosanitari al fine di individuare e programmare assistenza e servizi adeguati. I dati più significativi riguardano la disabilità (in Italia il 3-5% dei soggetti oltre i 65 anni non è autosufficiente e il 10% è parzialmente non autosufficiente) e la notevole incidenza di malattie croniche invalidanti legate all'invecchiamento (demenza, malattie cardiovascolari, ictus cerebrale, osteoporosi, neuropatie periferiche). Inoltre l'insorgenza di una patologia associata e plurima è piuttosto frequente e soprattutto più grave in rapporto all'aumento dell'età.

La strategia dell'assistenza all'anziano si presenta complessa e multiforme: essa prevede un'assistenza sanitaria di base (domiciliare, ambulatoriale, ospedaliera), ma anche l'introduzione di programmi di assistenza geriatrica (AG), la creazione presso gli ospedali di unità di valutazione geriatrica (UVG), il potenziamento di divisioni ospedaliere geriatriche con personale sanitario specificamente addestrato. Inoltre è necessario predisporre politiche, mezzi e strumenti per permettere alle persone anziane di vivere più a lungo possibile nel proprio ambiente, costituendo in particolare (come già la legge prevede) un'efficiente rete di assistenza domiciliare integrata (ADI) e realizzando le residenze sanitarie assistite (RSA).

L'ospedale psichiatrico

di Antonino Iaria


L'espressione ospedale psichiatrico, in uso in Italia a partire circa dagli anni Venti del Novecento, indica un'istituzione che è destinata alla cura e alla custodia dei folli. L'orizzonte culturale che lo sostiene include la pazzia, sotto specie di malattie mentali diverse nel dominio della medicina e, in particolare, della psichiatria, specialità nata all'inizio dell'Ottocento. La stessa espressione viene considerata sinonimo di manicomio, frenocomio, asilo dei pazzi ecc.: istituzioni, queste, diverse per storia e ispirazione, ma accomunate da una certa omogeneità nell'organizzazione degli spazi, e dal criterio segregativo nei confronti degli alienati. L'articolarsi della relazione tra società e 'sragione' nel corso dei secoli ne disegna una sorta di genealogia. Il rapporto degli antichi con il mondo, la loro concezione dell'uomo, la loro medicina, furono permeati dall'apertura simbolica alla divinità. Sarebbe arbitrario e azzardato attribuire, con criteri odierni, un carattere psichiatrico alle pratiche mediche che si esercitavano nei templi di Asclepio, mediante l''incubazione', su coloro che vi si recavano e soggiornavano. Sta di fatto che il dio, attraverso i sogni, agiva in senso terapeutico, sia direttamente sia mediante l'interpretazione da parte di un medico sacerdote.

Nei primi secoli della cristianità, le manifestazioni che oggi consideriamo di interesse psichiatrico erano valutate alla luce della distinzione polare tra santità e peccato, e per lo più attribuite agli influssi del Maligno. Non abbiamo infatti tracce di asili per folli. È invece a Fez, in Marocco, nel 7° secolo, con il fiorire della cultura islamica, che venne inaugurato il primo grande ospizio per malati di mente di cui si abbia notizia. Questa antica esperienza fu raccolta, otto secoli dopo, dai frati mercedari, che portarono in Spagna l'idea di accogliere caritatevolmente, in appositi asili, vagabondi, pellegrini, poveri di censo o malati di mente e ogni sorta di mendicanti, tutti egualmente bisognosi di carità.

Nel 1549, a Roma tre frati spagnoli fondarono l'ospedale S. Maria della Pietà dei poveri e dei pazzarelli, tra i primi in Europa. Non si trattava di un'istituzione medica per la cura della follia, ma di un'opera di carità volta alla salute dell'anima dei mendicanti e dei pellegrini, raccolti dalle strade e custoditi nell'istituto. Il recupero e il mantenimento dell'ordine morale necessario alla salvezza spirituale comportava il controllo della vita degli internati e mezzi coercitivi piuttosto brutali: era raccomandato l'uso del nerbo per batterli, legacci e catene erano correntemente utilizzati e i più inquieti venivano incatenati nudi a terra nella 'stanza delle paglie', senza altro conforto che la paglia su cui appunto giacevano. Un medico esterno visitava l'ospedale di tanto in tanto, per i malanni occasionali e le epidemie. Non si usava una terapia specifica per la follia, che non era un problema per la medicina ma per la morale e la carità.

Durante il Seicento, poveri, malati, mendicanti e vagabondi d'ogni sorta vennero tolti dalle strade di tutta l'Europa e internati in grandi ospedali; è del 1656 il decreto reale che istituisce l'Hôpital Général a Parigi, dove i ricoverati venivano assistiti ed educati al lavoro, o almeno controllati. Tra il Cinquecento e il Settecento si affermò il modello sperimentale della scienza. La distinzione cartesiana tra anima e corpo liberò quest'ultimo dalla condizione di semplice strumento di quella, attribuendogli un'autonomia che lo rese oggetto di un rinnovato interesse. Gli studi anatomici si perfezionarono. Si scoprì la circolazione del sangue, il sistema nervoso assunse il ruolo che oggi gli riconosciamo. La teoria umorale si avviò al tramonto e il corpo fu reinterpretato alla luce delle nuove idee, gettando le basi di quella fisiologia che trionferà nell'Ottocento come unica chiave di lettura dell'uomo e che pretenderà di oggettivare e includere tutte le sue manifestazioni. Al contempo, in tutta l'Europa, al refluire del fenomeno del grande internamento che aveva avuto caratteristiche vistose soprattutto fuori d'Italia, si pose la questione di un nucleo di internati non utilizzabili nelle nascenti fabbriche, perché incapaci e più propriamente folli, sempre più affidati alle cure del medico.

Si andò altresì definendo il confine tra i fenomeni estatici, di competenza della religione, e quelli deliranti. Nel Settecento, in un contesto caratterizzato dalla filosofia illuminista, nacquero una concezione medica della follia e una terapia specifica fondata sul dialogo con l'alienato. La pazzia fu considerata una malattia morale, ovvero psicologica, e la psicologia, affrancatasi da istanze di carattere metafisico - la concezione dell'anima immortale -, risolveva lo psichico nella concretezza corporea. A fine secolo, sulla base di questi presupposti, il medico parigino Ph. Pinel, raccogliendo anche le esperienze umanitarie degli istituti inglesi ispirati al pietismo protestante e alla filosofia morale scozzese, rivoluzionò l'idea degli asili per pazzi, teorizzando un'istituzione, il manicomio, che isolasse gli alienati dalla vita convulsa del tempo, permettendo loro di recuperare quell'equilibrio delle passioni la cui perdita era ritenuta alla base della loro dolente condizione.

Al contempo si istituiva una terapia specifica, la cosiddetta terapia morale, che faceva perno sulla ragionevolezza residua in ogni alienato e che presto si diffuse in tutta Europa e cominciò a essere chiamata psichiatria. A questa grande svolta teorica non corrispose peraltro un miglioramento delle condizioni materiali in cui vivevano i pazzi. Legacci, catene e paglie rimasero in vigore ancora per molto tempo. Il criterio per l'internamento, che rimase coatto, continuò a essere quello della segregazione dei soggetti pericolosi o di pubblico scandalo. La terapia morale faticò a superare la fase dell'adesione teorica e i manicomi, che sorsero spesso negli stessi edifici dei precedenti asili, ne mantennero la vocazione alla custodia più che alla terapia. Le condizioni degli internati si fecero soltanto leggermente più accettabili e il medico entrò a far parte stabilmente del personale degli istituti (a Roma dal 1826).

Dalla metà dell'Ottocento, andò affermandosi la concezione neurologica delle malattie mentali. L'alienazione fu considerata una malattia del cervello. La paralisi progressiva, di origine infettiva luetica, e l'idea che la malattia mentale fosse una forma di degenerazione ereditaria fornirono i modelli per ricondurre la patologia psichica a una corporeità totalmente oggettivata. La mente fu interpretata come l'epifenomeno dell'attività nervosa e i manicomi si avviarono a diventare ospedali dove i comportamenti abnormi potessero essere osservati, descritti, studiati e classificati. La trasformazione in senso ospedaliero avvenne con notevole lentezza, specialmente in Italia, dove al costituirsi dello Stato unitario si dovette uniformare la legislazione prodotta negli Stati preesistenti. Il dibattito sul ruolo del manicomio e degli psichiatri durò fino alla promulgazione della legge manicomiale del 14 febbraio 1904, nr. 36, con almeno mezzo secolo di ritardo rispetto alle altre nazioni europee. L'attenzione alla dimensione sociale della medicina spinse i manicomi, ancora ispirati al criterio della separazione dalla società produttiva, a trasformarsi in grandi comunità simili a villaggi, in cui fossero possibili forme di agricoltura, artigianato e piccola industria. Questo carattere di autonomia ed esclusione si accentuò durante il ventennio fascista, quando il manicomio si identificò con una sorta di città della devianza, mentre sul piano teorico si accentuava la spinta all'oggettivazione descrittiva. Gli insegnamenti di psichiatria e neurologia furono unificati e le terapie si incentrarono sulle metodiche di shock, che trovarono la più ampia diffusione nel secondo dopoguerra con l'elettroshock. La psichiatria dinamica, bandita nel periodo fascista, non trovò nell'ospedale psichiatrico altro che pochi, occasionali estimatori, né mai riuscì a organizzarsi o a costituirsi in scuola.

Negli anni Cinquanta del 20° secolo, l'introduzione degli psicofarmaci rese possibile un diverso approccio alla malattia mentale, ricoveri più brevi e dimissioni più facili. Al modello psichiatrico clinico-descrittivo, basato su una concezione oggettiva della malattia mentale e sull'ospedale psichiatrico come luogo segregato della diagnosi e della terapia delle malattie del cervello, si contrappose un modello aperto, che evitasse quella istituzionalizzazione del malato di mente considerata essa stessa causa di grave patologia psichica. L'urgenza della modernizzazione diede luogo alla l. 18 marzo 1968, nr. 431, ma il dibattito ormai investiva gli ospedali psichiatrici in quanto tali. Si fece strada in alcuni l'idea che la malattia mentale fosse una risposta deviante alle contraddizioni e alle ingiustizie della società, che avrebbe dovuto farsene carico attraverso l'integrazione e il reinserimento dei pazienti, limitando il contenimento alle fasi critiche. Questa visione culminò negli anni Sessanta e Settanta, fornendo il contesto ideologico e politico alla riforma varata con la l. 13 maggio 1978, nr. 180, che avviò il superamento dell'ospedale psichiatrico, sottolineò la volontarietà del ricovero e promosse la creazione di reparti psichiatrici negli ospedali generali e di strutture di assistenza sul territorio.

Questo rapido excursus sulla genealogia dell'ospedale psichiatrico permette di intravedere un analogo percorso antropologico dei momenti assai diversi della concezione che l'uomo ha avuto di sé, del proprio corpo, della propria infermità, della follia. Dopo essere stato manifestazione simbolica del dio e luogo di possessione diabolica, il corpo fu sede di umori peccanti, in grado di confondere l'anima, fino al punto di rendere necessaria la costrizione per ristabilire l'ordine morale perduto. Fattosi autonomo oggetto di studio e liberato, con Cartesio, dalla servitù nei confronti dell'anima, il corpo ne accolse le facoltà, radicandole nella propria materialità. Con l'illuminismo e il romanticismo le passioni divennero causa di malattia e strumento di una terapia che poneva la parola al proprio centro. Il manicomio fu l'utopico progetto di un mondo dove le passioni potessero ritrovare il proprio equilibrio, e gli alienati la ragione. La psichiatria descrittiva e d'impronta neurologica ha oggettivato il corpo, e in esso il male, in una continua, e finora illusoria, ricerca di una localizzazione, dapprima anatomopatologica, poi biochimica, poi neuroumorale. Su questi modelli di pensiero si sono articolati spazi e tempi dell'ospedale psichiatrico, mantenendone il carattere segregativo. Dal 1978 sono in corso tentativi di superamento dell'istituzione manicomiale, ritenuta inscindibile dal carattere coercitivo che l'ha sempre accompagnata. Assistiamo oggi per contro a un rinnovato sforzo di oggettivazione, che trova nella genetica molecolare la sua, per adesso, più avanzata frontiera.

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