Osteoporosi

Universo del Corpo (2000)

Osteoporosi

Gaetano Crepaldi
Sandro Giannini

L'osteoporosi è una malattia dello scheletro, caratterizzata da una riduzione della densità e da un'alterazione microarchitetturale del tessuto osseo, tali da indurre fragilità ossea e predisporre, quindi, a fratture, che di frequente sono imputabili a traumi di modesta entità.

Epidemiologia e classificazione

L'osteoporosi è estremamente frequente: si calcola che, a partire dall'età di 50 anni, la probabilità di frattura da osteoporosi riguardi il 40% circa della popolazione femminile e quasi il 15% di quella maschile. Se ci si riferisce, poi, alla prevalenza dell'osteoporosi non ancora complicata da fratture, questa è pari a circa il 15% nelle donne già prima dei 60 anni e raggiunge il 70% nelle donne di età pari o superiore a 80 anni, configurando così un'altissima percentuale di soggetti a rischio di fratture in età avanzata. La malattia è due o tre volte più frequente nella donna rispetto all'uomo. Tuttavia, a torto si tende a ritenere che l'osteoporosi interessi solo il sesso femminile; la sua frequenza e rilevanza clinica nel maschio sono tutt'altro che trascurabili. È possibile distinguere una forma primitiva di osteoporosi, i cui meccanismi eziopatogenetici sono solo in parte noti, e forme secondarie, che si sviluppano, invece, in relazione a precise e ben riconosciute condizioni. I tipi più comuni di osteoporosi primitiva sono, senza dubbio, quella postmenopausale e quella senile: la prima si sviluppa negli anni immediatamente successivi alla menopausa, mentre la seconda tende a manifestarsi in un'età più avanzata, di solito dopo i 65-70 anni. Le osteoporosi secondarie sono, nel complesso, meno frequenti e possono interessare qualunque età della vita.

Fisiopatologia ed eziopatogenesi

Il tessuto osseo (v. osso) consiste di una matrice di collagene e di altre proteine non collageniche, su cui il minerale viene depositato sotto forma di idrossiapatite. Circa l'80% dello scheletro è costituito da tessuto corticale o compatto, più rappresentato nelle ossa lunghe e nella superficie delle ossa piatte, mentre il restante 20% è formato da tessuto trabecolare o spugnoso, maggiormente presente nelle vertebre, nelle parti terminali delle ossa lunghe e in quelle interne delle piatte. Le principali cellule del tessuto osseo sono gli osteoblasti e gli osteoclasti: gli osteoblasti sono deputati a sintetizzare nuova matrice ossea e a favorirne, al contempo, un'adeguata mineralizzazione, in modo da raggiungere la normale configurazione del tessuto osseo maturo; gli osteoclasti, invece, hanno fisiologicamente il compito di erodere e riassorbire il tessuto osseo più vecchio.

Queste due attività cellulari presiedono a quell'incessante rinnovamento del tessuto scheletrico, chiamato processo di rimodellamento osseo. Ogni ciclo di rimodellamento osseo inizia con l'erosione di una determinata quantità di osso da parte degli osteoclasti, che durante la loro attività scavano una vera e propria lacuna: questa viene prima ripulita da cellule di tipo propriamente macrofagico e, successivamente, riempita da tessuto osseo di nuova sintesi, generato dagli osteoblasti. Gli osteoclasti e gli osteoblasti non operano in modo indipendente, ma si scambiano, attraverso la produzione di numerose sostanze, continui e specifici messaggi, necessari per coordinare e sincronizzare queste complesse attività. L'accoppiamento tra le due attività cellulari garantisce il costante ricambio e la riparazione dell'osso, fondamentale per il mantenimento della capacità meccanica dello scheletro, che costituisce la principale funzione cui esso è preposto.

I processi di rimodellamento dell'osso forniscono, inoltre, all'intero organismo quel substrato di minerali, indispensabile al funzionamento della maggior parte degli organi e apparati. Lo scheletro, infatti, è il più cospicuo deposito di calcio e fosforo del corpo; queste sostanze, all'occorrenza, possono essere da esso prontamente mobilizzate per rispondere alle più diverse esigenze metaboliche.

Qualunque sia la causa scatenante, l'osteoporosi deriva da un sostanziale disequilibrio e disaccoppiamento tra l'attività degli osteoblasti e quella degli osteoclasti. In condizioni normali, infatti, il tessuto osseo eroso è sostituito da una pari quantità di osso neoformato: le lacune scavate dagli osteoclasti vengono, cioè, interamente riempite grazie alla neoformazione ossea, promossa dagli osteoblasti. Quando la quantità di osso riassorbita dagli osteoclasti è, in termini assoluti o relativi, superiore a quella deposta dagli osteoblasti, una parte di osso viene persa durante ogni singolo ciclo di rimodellamento, creando così i presupposti per un progressivo depauperamento scheletrico, che conduce all'osteoporosi. I fattori che presiedono al mantenimento di una normale e armonica attività delle cellule osteoblastiche e osteoclastiche sono numerosi: alcuni di essi sono sostanze ormonali, prodotte da specifici tessuti endocrini; altri sono sostanze sintetizzate all'interno del tessuto osseo, che agiscono direttamente sulle linee cellulari dello scheletro. Tra le prime, svolgono un ruolo di assoluto rilievo gli estrogeni, che, più abbondantemente prodotti dalle gonadi femminili, sono specificamente deputati a mantenere in equilibrio l'attività di osteoblasti e osteoclasti: la notevole caduta dei tassi estrogenici che si verifica nel periodo della menopausa è associata, in tutte le donne, a una progressiva e più o meno rilevante riduzione della quantità di tessuto osseo, connessa proprio a un più netto prevalere del riassorbimento osseo sulle attività di neoformazione.

La carenza estrogenica costituisce il più importante fattore causale per l'insorgenza dell'osteoporosi postmenopausale e giustifica la maggiore frequenza di questa malattia nella popolazione femminile. Altri ormoni sono, comunque, direttamente o indirettamente coinvolti nel controllo delle funzioni metaboliche dello scheletro. Il paratormone, secreto dalle paratiroidi, ha come principale funzione il mantenimento di normali livelli di calcio nel sangue. Esso esercita tale funzione, in parte, stimolando il riassorbimento osseo indotto dagli osteoclasti e, quindi, favorendo il passaggio del calcio dal compartimento osseo al sangue circolante; un eccesso di questo ormone, come quello che caratterizza l'iperparatiroidismo primitivo e gli iperparatiroidismi secondari, può, pertanto, facilitare la comparsa dell'osteoporosi.

Un altro elemento importante è la vitamina D, i cui i vari metaboliti sono sintetizzati dall'organismo a partire da precursori, contenuti in abbondanza in alcuni tipi di pesce, nel latte e nei suoi derivati, nei funghi e nei lieviti in generale; essi esercitano la loro azione principalmente stimolando l'assorbimento di calcio da parte dell'intestino e, quindi, facilitando una corretta mineralizzazione del tessuto osseo. Una carenza grave e prolungata di vitamina D provoca, solitamente, nell'adulto una franca osteomalacia; una meno severa insufficienza di questa sostanza, peraltro assai frequente anche nella popolazione anziana del nostro paese, è chiamata in causa nella genesi dell'osteoporosi, soprattutto di tipo senile. Nella modulazione del metabolismo scheletrico sono coinvolti ancora: l'ormone della crescita, la calcitonina, i corticosteroidi ecc.

Fattori di rischio e quadro clinico

Lo scheletro dell'adulto cresce in modo rapido durante l'adolescenza e diviene definitivamente maturo tra i 20 e i 30 anni, epoca in cui si raggiunge il picco di massa ossea, che corrisponde al massimo grado di densità e, quindi, di resistenza ai traumi, di questo tessuto. Il picco di massa ossea è maggiore nell'uomo rispetto alla donna. Diversi e non tutti noti sono i fattori che contribuiscono al suo raggiungimento: tra questi, estrema importanza ha il normale processo di accrescimento, laddove i ritardi di crescita sono spesso associati a un ridotto patrimonio di mineralizzazione ossea. Altri aspetti sono, comunque, importanti: un'alimentazione genericamente ben bilanciata, e con un adeguato apporto alimentare di calcio durante lo sviluppo, consente una migliore maturazione dello scheletro, così come lo svolgimento di un'appropriata attività fisica. Il raggiungimento di una massa ossea ottimale alla maturità sembra subire anche una specifica influenza genetica ed eredofamiliare: i figli di genitori con un adeguato patrimonio di massa ossea raggiungono, di solito, un buon picco di densità scheletrica, mentre i figli di genitori affetti da osteoporosi sono maggiormente a rischio di sviluppare fratture osteoporotiche. Una progressiva perdita di massa ossea comincia a verificarsi a partire dai 40-45 anni di età e continua, poi, per tutta la vita.

Nell'uomo, è dell'ordine dello 0,5-1,0% per anno, mentre nella donna, con l'avvento della menopausa, si verifica una brusca accelerazione della velocità di perdita, che si aggira, dopo quest'epoca, intorno all'1-3% per anno. La perdita è più rapida a livello dell'osso trabecolare e più lenta per quanto riguarda il tessuto corticale. I fattori che condizionano questa progressiva demineralizzazione sono in parte legati a specifici processi di invecchiamento dell'osso, in particolare, a una sostanziale carenza di ormoni sessuali in entrambi i sessi. L'importanza del deficit estrogenico, che si verifica nella donna dopo la menopausa, spiega, come accennato, la maggiore rilevanza e frequenza della malattia in questo sesso. Un ulteriore fattore è costituito dalla progressiva riduzione con l'età dell'apporto e dell'assorbimento intestinale di alcuni nutrienti importanti, come il calcio e la vitamina D. Sebbene non tutti gli aspetti causali dell'osteoporosi siano ancora oggi completamente chiariti, esistono alcune condizioni più strettamente associate a un aumentato rischio di sviluppo di questa malattia. Quando esse sussistono, è necessario che il soggetto sia sottoposto a un'accurata valutazione clinica, atta a verificare l'eventuale presenza della patologia. Essa però può ricorrere anche in soggetti che non presentino alcuno dei cosiddetti fattori di rischio: è possibile stimare, infatti, che in oltre la metà dei pazienti osteoporotici non sia identificabile alcuna delle condizioni descritte sopra.

Dal punto di vista sintomatologico, l'osteoporosi, di per sé, non comporta alcun disturbo specifico e decorre di solito in assoluta assenza di sintomatologia dolorosa. La comparsa del dolore scheletrico in un paziente osteoporotico, in assenza di altre malattie osteoarticolari, deve sempre far sospettare la presenza di fratture da fragilità, che rappresentano, infatti, la più diretta manifestazione clinica dell'osteoporosi. Esse possono potenzialmente verificarsi a livello di qualunque distretto scheletrico, ma interessano più frequentemente il radio, l'ulna, l'omero, le coste, le vertebre, il bacino, il femore e le altre ossa lunghe delle gambe. La caratteristica che in genere accomuna tutte le fratture osteoporotiche è quella di verificarsi, nella maggioranza dei casi, dopo un trauma di entità contenuta e non tale da generare fratture in un soggetto con normale resistenza scheletrica. Le fratture vertebrali, costali e del radio sono generalmente più frequenti nei pazienti con osteoporosi postmenopausale, in relazione alla maggiore quantità di tessuto trabecolare in questi distretti. Le fratture del femore sono, invece, tipicamente appannaggio della popolazione anziana.

Dal punto di vista clinico, la frattura è contraddistinta dalla comparsa di un dolore intenso, associato a una evidente perdita funzionale del segmento interessato, almeno per quanto concerne gli arti. In quasi il 50% dei casi, le fratture vertebrali, generalmente più frequenti al rachide toracico e molto rare a quello cervicale, possono decorrere senza alcuna manifestazione clinicamente apprezzabile e sono, quindi, difficili da diagnosticare senza l'ausilio di un'indagine radiologica. Quando sintomatiche, appaiono caratterizzate da un dolore molto acuto, abbastanza localizzato intorno alla regione del corpo vertebrale interessato, eventualmente irradiato a cintura e quasi mai associato a disturbi di tipo neurologico degli arti. Il dolore è accentuato dalla pressione sul corpo vertebrale, dai movimenti (in particolare da quelli di torsione e flessione del tronco) e dai colpi di tosse; è alleviato dal riposo a letto. Inoltre, tende a durare diverse settimane o anche più di un mese e può risolversi spontaneamente. Anche in relazione alla severità delle fratture, può residuare un dolore cronico al rachide, che di solito limita in modo significativo le attività del paziente. La presenza di una singola frattura vertebrale accresce di molto il rischio di ulteriori fratture, laddove le fratture vertebrali multiple sono associate a una più severa rachialgia, a una significativa riduzione staturale e a gradi marcati di cifosi, con avvicinamento della gabbia toracica alle ossa del bacino, che può a sua volta generare seri problemi tanto agli organi respiratori quanto a quelli addominali. Le fratture del femore sono senz'altro la più importante conseguenza clinica dell'osteoporosi. Si verificano tipicamente dopo una caduta, ma in casi più rari possono occorrere in modo spontaneo. Sono facilmente diagnosticabili per la comparsa del dolore, l'incapacità a riacquisire la posizione eretta e per la frequente presenza di una rotazione esterna della gamba. La diagnosi viene poi confermata da un esame radiografico e, pressoché in tutti i casi, risulta necessaria l'ospedalizzazione. La frattura femorale è associata a una mortalità entro il primo anno dall'evento pari a circa il 20%. Inoltre, poco meno del 20% dei pazienti diviene definitivamente non autosufficiente in seguito alla frattura e circa l'8% richiede una permanente istituzionalizzazione. Il rischio di sviluppare fratture osteoporotiche non è solo determinato dalla riduzione della massa ossea: le cadute e il trauma che ne consegue sono nell'assoluta maggioranza dei casi fattori causali di grande rilevanza.

Oltre i 70 anni di età, quasi un soggetto su cinque cade accidentalmente almeno una volta nell'arco di un anno e superati gli 80 anni circa il 25% dei soggetti cade due o più volte per anno. Anche la capacità di contenere gli effetti della caduta e, quindi, la pericolosità del trauma, risulta più compromessa nel soggetto anziano.

Diagnosi e terapia

La diagnosi dell'osteoporosi ancora non complicata da fratture può risultare in molti casi complessa. La malattia, come si è detto, non è associata ad alcuna sintomatologia specifica e i suoi segni e sintomi più tipici divengono apparenti solo in presenza delle fratture. Anche il laboratorio non è di sicuro aiuto per la diagnosi dell'osteoporosi: i più comuni esami del metabolismo scheletrico, quali calcio e fosforo ematici e urinari e dosaggio del paratormone, appaiono in genere del tutto normali, almeno quando non siano presenti specifiche forme secondarie di osteoporosi. In tempi più recenti, è stata messa a punto la determinazione, nel sangue o nelle urine, di sostanze, definite come marcatori di rimodellamento osseo, più specificamente coinvolte nei processi metabolici dello scheletro, o perché prodotte durante la fase di riassorbimento dell'osso promossa dagli osteoclasti, o perché prodotte in concomitanza con la neoformazione ossea, mediata dalle cellule osteoblastiche. Tuttavia, anche l'impiego di questi ultimi test di laboratorio è solo raramente probante per una sicura identificazione della malattia ed essi sembrano essere piuttosto di reale ausilio nel monitoraggio, nel tempo, dei pazienti. Laddove la storia clinica indichi la presenza di fattori di rischio per la suddetta malattia, il paziente va avviato alla diagnostica strumentale. La radiografia standard dello scheletro individua una riduzione della densità ossea solamente se è nell'ordine del 20-30%, quando, cioè, il rischio di fratture è già molto elevato. Essa non viene, quindi, adoperata nella diagnostica dell'osteoporosi, ma risulta di grande utilità per identificare la presenza delle fratture clinicamente meno evidenti, quali quelle delle vertebre.

La densitometria (o mineralometria) ossea è, oggi, il metodo più efficace per la diagnosi di questa condizione. Attraverso l'attenuazione di un fascio di fotoni, generalmente X, che attraversa uno specifico distretto dello scheletro, tale metodica è in grado di stimare una perdita di densità ossea, anche quando è intorno all'1-2%, consentendo così un'identificazione tempestiva dell'osteoporosi. Può essere eseguita su diversi segmenti ossei o, anche, sull'intero scheletro, ma i risultati più affidabili si ottengono con le misurazioni eseguite sulle ossa dell'avambraccio, sulle vertebre e sul femore. Quest'ultimo tipo di esame è particolarmente vantaggioso per i pazienti anziani. La densitometria ossea, che comporta l'assorbimento di una trascurabile dose di radiazioni da parte del paziente, è anche il metodo più attendibile per valutare, nel tempo, le modificazioni della massa ossea che possono seguire uno specifico trattamento antiosteoporotico. Un soggetto viene definito francamente osteoporotico quando la sua densità ossea sia ridotta di almeno 2,5 deviazioni standard rispetto ai valori dei giovani adulti normali. Si usa, invece, il termine di osteopenia per definire riduzioni più contenute, seppure già patologiche, della densità ossea.

Più recentemente, è stato introdotto nella diagnostica l'uso degli ultrasuoni. Anche in questo caso, si possono analizzare differenti siti dello scheletro, quali il calcagno, la tibia, le falangi e, con particolari strumenti, anche il radio. Il vantaggio di questa tecnica consiste nella mancanza di radiazioni ionizzanti e nell'apparente capacità di fornire informazioni, oltre che sulla densità dell'osso, anche sulla sua qualità, altro parametro in grado di influenzarne la resistenza ai traumi.

L'impiego della tomografia assiale computerizzata (TAC) non trova, invece, larga diffusione: essa non comporta sostanziali vantaggi rispetto alla densitometria propriamente detta ed espone il paziente a una elevata dose radiante. La riduzione del rischio di fratture è lo scopo del trattamento dell'osteoporosi. Le strategie disponibili per questo fine comprendono l'impiego di farmaci specifici e quegli interventi che possono risultare idonei a limitare il rischio di cadute. Prescindendo dal tipo di farmaco adoperato, l'efficacia del trattamento farmacologico è dimostrata solo quando questo venga protratto per periodi molto lunghi. La terapia estrogenica, il cui razionale specifico risiede nel ruolo svolto dalla carenza di estrogeni nella genesi dell'osteoporosi, costituisce il trattamento di prima scelta, almeno per quanto concerne l'osteoporosi postmenopausale, ma esistono dimostrazioni della sua efficacia anche in età più avanzata; quando protratta per molti anni, tale terapia è efficace nel ridurre il rischio delle principali fratture osteoporotiche. Significativi vantaggi che ne consigliano l'impiego sono rappresentati dalla capacità di questi ormoni di controllare, contemporaneamente, l'insieme dei disturbi della sindrome climaterica, quali, per es., i sintomi vasomotori e le alterazioni della sfera genitourinaria.

La terapia estrogenica sembra, inoltre, esercitare un effetto di protezione contro la patologia cardiovascolare in genere, la cui frequenza aumenta in modo rilevante proprio dopo la menopausa. La terapia va, comunque, associata all'uso di progestinici, farmaci sostanzialmente in grado di annullare il rischio di neoplasia uterina, che risulta accresciuto nelle donne che assumono solo estrogeni. Inoltre, almeno per periodi molto prolungati di trattamento estrogenico, esiste la possibilità di un incremento del rischio di carcinoma della mammella, per cui le pazienti sottoposte a cura ormonale sostitutiva devono effettuare con particolare regolarità controlli mammografici. In tempi molto recenti, è stata identificata una nuova classe di farmaci, definiti come modulatori selettivi del recettore estrogenico (raloxifene, idoxifene, droloxifene), che sembrano mantenere gli effetti positivi degli estrogeni sul tessuto osseo e sull'apparato cardiovascolare, senza esercitare alcuna azione indesiderata sull'utero e sulla mammella.

Tra i farmaci maggiormente impiegati ed efficaci nel trattamento dell'osteoporosi vi sono, attualmente, anche i bisfosfonati, che presentano una specifica affinità per il tessuto osseo e agiscono principalmente interferendo con l'attività di riassorbimento osseo mediata dagli osteoclasti. L'alendronato è il farmaco della famiglia più largamente utilizzato: aumenta in modo moderato la densità ossea ed è efficace nel prevenire le conseguenze dell'osteoporosi, riducendo di circa il 50% il rischio di quasi tutte le fratture osteoporotiche e, in particolare, di quelle femorali e vertebrali. Altri farmaci per la terapia dell'osteoporosi sono la calcitonina, ormone che riveste un ruolo fisiologico nel mantenimento dell'equilibrio metabolico del tessuto osseo, il calcitriolo (metabolita attivo del sistema della vitamina D), i sali di fluoro e l'ipriflavone. Soltanto per alcune di queste sostanze, tuttavia, è stato possibile dimostrare una certa efficacia nella prevenzione delle fratture da osteoporosi. La supplementazione di calcio e vitamina D riveste un ruolo di assoluto rilievo nella terapia dell'osteoporosi. Il fabbisogno di calcio è, nell'anziano in particolare, solo raramente soddisfatto dall'apporto alimentare e la cronica carenza di questo minerale contribuisce, impoverendo il tessuto osseo di questo ione, all'insorgenza dell'osteoporosi. Se, quindi, una terapia con sali di calcio può non rivestire particolare significato nel trattamento dell'osteoporosi postmenopausale, essa è invece un efficace strumento nell'osteoporosi dell'anziano e in tutte quelle forme in cui, come nell'osteoporosi cortisonica, sia ridotto l'assorbimento intestinale di calcio. Anche l'apporto dietetico di vitamina D è di solito insufficiente nella popolazione anziana e, nonostante l'ulteriore stimolo alla fotosintesi di questa sostanza fornito dall'adeguata insolazione cutanea presente alle nostre latitudini, l'ipovitaminosi D è una caratteristica abbastanza frequente nell'età avanzata. La terapia con vitamina D, infatti, ha anch'essa dimostrato di essere efficace nella prevenzione delle fratture osteoporotiche, in particolare in soggetti di età superiore ai 65 anni. La prevenzione delle cadute, infine, è un aspetto di primaria importanza al fine di ridurre il rischio di queste fratture. Specifiche precauzioni devono essere prese per evitare i traumi in ambiente domestico: più delle metà della fratture, in particolare di quelle del femore, si verifica infatti in questa sede.

Bibliografia

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