Pacifismo

Enciclopedia del Novecento (1980)

Pacifismo

Mulford Q. Sibley

di Mulford Q. Sibley

sommario: 1. Introduzione. 2. Cenno storico. 3. Concetti di pacifismo. 4. Basi comuni. 5. Pacifismo non politico. 6. Pacifismo politico. 7. I punti di forza e di debolezza del pacifismo. a) Critiche. b) Repliche pacifiste. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Nell'accezione più ampia del termine, il pacifismo è una dottrina che propugna la pacificazione. Un pacifista è un pacificatore. In senso lato, essere pacifista significa perciò favorire la pacificazione o la composizione di conflitti violenti, come per esempio la guerra. Tutti i vincitori del premio Nobel per la pace potrebbero quindi essere considerati pacifisti, come sarebbe possibile ravvisare dei pacifisti in tutti i negoziatori di una conferenza internazionale, per esempio V. E. Orlando e W. Wilson, che parteciparono alla conferenza per la pace che concluse la prima guerra mondiale. Analogamente, infine, tutti coloro che tentano di por fine a dispute personali potrebbero essere collocati nella stessa categoria.

Ma l'uso dei termini pacifismo e pacifista non è più molto frequente in quest'accezione generica. Durante il XX secolo questi termini sono venuti sempre più designando dottrine e persone che rifiutano la guerra e la violenza, qualunque ne sia il fine. In questo senso specifico, quindi, il pacifismo costituisce un complesso di idee miranti a difendere o giustificare - con varie motivazioni - la tesi secondo la quale non è mai legittimo fare la guerra o usare la violenza nei conflitti tra uomini. Nella sua accezione positiva il pacifismo tenta di elaborare strategie morali e politiche capaci di realizzare efficaci metodi di lotta non violenta. Pacifista è dunque chi propugna, e cerca di realizzare, il pacifismo nell'accezione sia negativa che positiva del termine.

In questo articolo ci interesseremo essenzialmente del pacifismo nel senso specifico che il termine è venuto in genere assumendo nel XX secolo. Nel corso della trattazione risulteranno evidenti i punti di contatto e di connessione tra il pacifismo e molte filosofie, concezioni e discipline riguardanti la condizione umana, come le credenze religiose, le teorie etiche, le strategie politiche e la sociologia del conflitto. Per prima cosa daremo un cenno storico, esporremo poi le formulazioni teoriche ed esamineremo infine i punti di forza e di debolezza del pacifismo rispetto ai problemi che l'umanità dovrà affrontare nel futuro immediato.

2. Cenno storico

Sebbene il nostro interesse vada anzitutto alle teorie e alla prassi dei pacifisti del nostro secolo, il pacifismo moderno si fonda su numerose vicende e concezioni del passato, con le quali è inestricabilmente intrecciato. Una breve ricognizione di questo sfondo storico sembra quindi opportuna.

Secondo alcuni, bisogna vedere un pacifista - o almeno un antimilitarista - nel faraone Ekhnaton, il quale durante il suo regno (1377-1358 a. C.) fondò una religione universalista e manifestamente pacifica, e ritirò le guarnigioni egiziane dal Vicino Oriente (v. Weigall, 1923, p. 202). Il saggio cinese Lao Tzŭ, con il suo appello per il ritorno al Tao (la ‛Via') sembra a volte aver anticipato concezioni pacifiste. Buddha e l'imperatore Aśoka (m. 232 a. C.) - sebbene forse non esplicitamente pacifisti - sostennero idee che presentano affinità con talune concezioni del pacifismo odierno. Nel Vecchio Testamento, vari profeti ammoniscono contro la fiducia riposta nella forza militare, giacché la vera forza viene da Dio: ‟Non con la potenza, nè con la forza, ma con il mio spirito", dice il Signore (Zaccaria, IV, 6). Nel libro di Isaia c'è un passo famoso, nel quale si predice la finale armonia del genere umano come del regno animale (Isaia, XI, 1-9), e nei versetti del ‛servo sofferente' troviamo l'idea, spesso ripetuta in molti scritti pacifisti del Novecento, che attraverso la sofferenza collettiva (in questo caso del popolo d'Israele) il mondo raggiungerà la pace e l'armonia (LIII). Alcuni - forse erroneamente - hanno visto un pacifista anche in Geremia, quando esortava Giuda (v. in particolare XXVII) a non resistere a Babilonia con la forza delle armi.

Nella tradizione greco-romana le idee apertamente pacifiste non occuparono certo un posto eminente. Nondimeno Socrate, discutendo con Polemarco, enunciò l'opinione che non è mai cosa giusta danneggiare un altro essere umano, sia questi amico o nemico (Repubblica, I, 335 e). La sua opinione che è meglio patire un'ingiustizia piuttosto che commetterla potrebbe essere facilmente usata a sostegno di almeno una certa versione del pacifismo. Quest'insegnamento socratico ci rammenta l'affermazione di Camus, secondo cui è meglio essere vittima che carnefice. Pur non essendo pacifista, lo stoicismo - con la sua concezione di una città universale, nella quale siano superate tutte le divisioni razziali, nazionali e sociali - fornì un motivo importante al pensiero pacifista futuro (compreso quello del Novecento).

I pacifisti religiosi moderni, come anche i non pacifisti, si sono interessati al problema se Gesù e il cristianesimo primitivo possano ricevere la qualifica di pacifisti (v. Macgregor, 1960; v. Brandon, 1967; v. Lasserre, 1953; v. Edwards, 1972). Sebbene non siano tramandati divieti di Gesù ai suoi seguaci di partecipare a guerre, molti studiosi ritengono che lo spirito globale del suo insegnamento sia avverso all'uso della violenza, qualunque ne sia lo scopo. Ciò sembra essere particolarmente vero del Discorso della montagna (Matteo, V, 43-44). I racconti della tentazione, inoltre, narrano che Satana mostra a Gesù tutti i regni della terra, dicendogli che possono essere suoi se si prostrerà e lo adorerà. Gesù ripudia l'offerta, evidentemente perché i regni della terra sono caratterizzati dalla lotta violenta per il potere e la ricchezza (Matteo, IV, 8-10). I pacifisti odierni citano spesso un altro famoso passo, in cui Gesù riprende uno dei suoi seguaci per aver mozzato l'orecchio di un servo del sommo sacerdote: ‟Riponi la spada nel fodero, perché tutti coloro che prenderanno la spada, moriranno di spada" (Matteo, XXVI, 51-52).

Secondo molti pacifisti moderni, san Paolo sosteneva vedute affini. Egli ammoniva, per esempio, i suoi contemporanei (ma in verità anche i cristiani del nostro tempo) a non rendere a nessuno male per male (Ai Romani, 7-21).

Studiosi moderni come A. Harnack e C. J. Cadoux hanno mostrato che nel primo e nel secondo secolo la maggior parte dei cristiani si rifiutava di entrare nell'esercito romano a causa dei suoi principi, adducendo che i soldati uccidevano altri esseri umani in guerra ed erano spesso obbligati a uccidere persone ree di delitti. Anche quando i cristiani cominciarono a prestare servizio militare, i grandi pensatori della Chiesa continuarono a sostenere, sino al sec. IV, che l'etica pacifista era l'unica compatibile con le credenze cristiane. Così Origene, nel rispondere allo scrittore pagano Celso, il quale aveva accusato i cristiani di rifiutarsi di entrare nell'esercito e di aiutare l'imperatore, ammetteva l'esattezza dell'accusa, ma difendeva i cristiani nel loro atteggiamento verso il servizio militare (Contra Celsum).

Dopo Costantino, tuttavia, molti scrittori cristiani cominciarono a respingere il vecchio pacifismo cristiano, e durante il Medioevo l'opinione prevalente era che potevano esserci delle guerre ‛giuste'. Soltanto movimenti come quello dei Valdesi conservarono le antiche concezioni pacifiste.

Alcune versioni del pacifismo religioso del Novecento sono state profondamente influenzate dagli insegnamenti di certe sette protestanti, come i mennoniti (seguaci di Menno Simons, 1496-1561) e gli ammanniti (seguaci di Jacob Amman, sec. XVII). I pacifisti del Novecento citano spesso anche gli scritti del cattolico Etienne de La Boétie (1530-1563) che, nel suo classico Discours de la servitude volontaire ou le Contr'un, insisté sul fatto che tutte le tirannie possono essere rovesciate senza violenza, facendo ricorso a una diffusa non cooperazione non violenta.

I pacifisti del Novecento sono stati profondamente influenzati dalla storia della Società degli Amici (i quaccheri). Radicata in parte nella tradizione mistica, la classica tesi contro la guerra fu formulata nel 1660, quando i quaccheri dichiararono di rifiutare ogni forma di conflitto armato e di voler seguire un modo di vita tale da escludere ogni occasione di guerra. Il fondatore del movimento, George Fox (1624-1691), e uno dei suoi primi seguaci, William Penn (1644-1718), contribuirono a gettare le basi dell'orientamento pacifista dei quaccheri, orientamento che si è mantenuto sino al nostro secolo (v. Sharpless, 1898; v. Tolles, 1956). Penn fondò la Pennsylvania, un commonwealth disarmato che stabilì con gli Indiani del Nordamerica rapporti interamente improntati alla non violenza (un esperimento spesso citato come un modello dai pacifisti del Novecento).

Altre correnti del pensiero pacifista - anch'esse sfocianti nel fiume del pacifismo del Novecento - derivano dall'illuminismo settecentesco. Si può citare al proposito W. Godwin (1756-1836) il quale, nella sua Political justice (1793), metteva in luce l'importanza della pubblica opinione e insisteva sulla disobbedienza non violenta come strumento per minare il potere dei tiranni. Su questo tema batté l'accento anche il poeta romantico Percy B. Shelley che agli inizi del secolo, nella poesia The mask of anarchy, esortava coloro che protestavano contro l'ordine economico e sociale a fronteggiare risolutamente - sebbene pacificamente - gli attacchi delle truppe regie: rifiutandosi di reagire con la violenza, avrebbero suscitato un vastissimo appoggio alla loro causa e avrebbero distrutto nel contempo l'ingiustizia e il militarismo. Essi non dovevano arrendersi ma essere pronti a morire, se necessario, piuttosto che sottomettersi.

Con il suo saggio sulla disobbedienza civile, H. D. Thoreau ha esercitato un influsso considerevole su pacifisti posteriori, come Tolstoj e altri.

Lo scopo di questa breve rassegna del pacifismo prenovecentesco è quello di mettere in luce il fatto che gli orientamenti pacifisti moderni sono profondamente radicati in una storia più che bimillenaria. I pacifisti del nostro secolo non hanno troncato - né avrebbero potuto farlo - i legami col passato. All'opposto, essi fanno continuo riferimento al passato e, quando scrivono dotti trattati sul pacifismo antico, il loro slancio deriva spesso dai problemi attuali connessi con il pacifismo e con la violenza. Si pensi per esempio alla discussione odierna sul pacifismo di Gesù: non si tratta di un problema di interesse principalmente erudito, ma piuttosto del problema - per le persone religiose - di determinare che cosa il Cristo ‛vivente' direbbe nel sec. XX.

Il pacifismo del nostro secolo si fonda quindi su certe correnti dell'antica tradizione cristiana, sulle teorie ‛secolari' e illuministiche di impronta pacifista, sugli autori classici che hanno sostenuto la possibilità di una resistenza non violenta alla tirannia, e infine su una sorta di sincretismo, che cerca di combinare il pensiero storico dell'Occidente e il pensiero religioso dell'Oriente con impostazioni razionalistiche e utilitaristiche. Le diverse tradizioni pacifiste vengono applicate e modificate nel contesto delle condizioni sociali e politiche del Novecento.

Un buon esempio - nella storia del Novecento - di quello che potremmo chiamare pacifismo sincretico è rappresentato dalla teoria di Mohandas K. Gandhi (1869-1948). Ispirandosi a una propria interpretazione delle scritture sacre indiane, alla tradizione pacifista cristiana, agli insegnamenti di Tolstoj, a Thoreau e a certi aspetti del pensiero pacifista ‛secolare', egli elaborò una concezione del pacifismo che cerca di combinare i principi religiosi con il ‛pragmatismo' politico. Sin dalla fine dell'Ottocento Gandhi cominciò a riflettere sugli elementi che dovevano in seguito costituire le nozioni di ahiṃsā e di satyāgraha (la vera e propria elaborazione teorica doveva occupare molti anni). Egli fece le sue prime prove in Sudafrica e più tardi combatté la lunga lotta per l'emancipazione dell'India dal dominio britannico. Ahiṃa significa ‛il non nuocere' e satyagraha (un termine coniato da Gandhi) ‛insistenza per la verità'. Gandhi sosteneva che il principio della non violenza era fondamentale per le sue concezioni religiose così come lo era per quelle dei pacifisti cristiani tradizionali. Il principio del satyāgraha esige che ogni essere umano difenda le proprie concezioni morali e politiche fondamentali, anche se debba patire sofferenze per questo. Ma, nella ricerca della giustizia e nell'impegno per correggere le ingiustizie sociali, al seguace del satyagraha non è consentito il ricorso alla violenza, neppure nel caso che si usi violenza nei suoi confronti. Il satyāgraha era nel contempo un elevato principio etico-politico e una strategia da usare nei conflitti sociali. Gandhi cercava di conciliare l'integrità morale dei primi pacifisti cristiani con la capacità di muoversi nella sfera della politica pratica. Egli conseguì con il satyāgraha notevoli successi politici sia in Sudafrica (dove rivendicava i diritti della comunità indiana contro restrizioni oppressive) sia in India contro il dominio britannico. I pacifisti occidentali, tanto di orientamento religioso che non religioso, furono colpiti dallo sforzo gandhiano di conciliare l'elevatezza morale con l'efficacia pratica.

Approcci di tipo gandhiano ai problemi delle riforme e dello sviluppo sociale sono stati elaborati da uomini come D. Dolci in Italia e da M. L. King nel corso della lotta per i diritti civili negli Stati Uniti.

Coloro che, come B. De Ligt (v., De overwinning..., 1934), hanno insistito sulle possibilità pratico-politiche di un orientamento pacifista, citano a volte l'esempio delle rivoluzioni russe del 1905 e del febbraio 1917. Si sostiene cioè, in sostanza, che gli eventi del 1905 costituirono essenzialmente una forma non violenta d'insubordinazione che costrinse lo zar ad apportare mutamenti fondamentali nella struttura politica. L'anarchico americano B. Tucker (1854-1939) fu particolarmente colpito dalla forza politica generata dalla non cooperazione non violenta in Russia.

In epoca moderna, con l'adozione diffusa della coscrizione come metodo di reclutamento per il servizio militare, è stato spesso posto il problema dell'obiezione di coscienza. I non pacifisti professanti principi ‛liberali' sono stati sfidati a riconoscere il diritto degli obiettori di coscienza a non prestare servizio militare. In molte nazioni è stato difficile ottenere il riconoscimento giuridico dell'obiezione di coscienza, e anche quando ciò è avvenuto, i criteri usati sono stati spesso molto restrittivi. Così nella prima guerra mondiale gli Stati Uniti hanno riconosciuto solo i diritti degli appartenenti a talune ‛chiese pacifiste' come i mennoniti e i quaccheri; e anche in tali casi gli obiettori furono costretti a entrare nell'esercito per prestare servizi non armati. Il risultato fu che molti obiettori, che non rientravano nei casi previsti dalla legge, incontrarono grandi difficoltà e alcuni subirono perfino torture fisiche (v. Thomas, 1927).

Durante la seconda guerra mondiale la legge americana fu un po' più liberale, sebbene anche allora continuasse a escludere gli obiettori non legati da divieti religiosi e molte critiche fossero avanzate contro il servizio civile sostitutivo previsto per gli obiettori riconosciuti (v. Sibley e Jacob, 1952). In Gran Bretagna, durante la seconda guerra mondiale, la legge fu piuttosto liberale. Ma nel continente europeo il riconoscimento giuridico è stato lento a venire (in Austria, per esempio, durante la prima guerra mondiale molti obiettori erano inviati in manicomio). In Francia - sin dopo la seconda guerra mondiale - non esisteva alcuna disposizione riguardante l'obiezione di coscienza. Nell'Unione Sovietica venne spesso affermato che non vi era necessità di riconoscere l'obiezione di coscienza poiché non vi erano obiettori! In realtà sembra che gli obiettori non siano mancati e che siano stati spesso assegnati senza clamore a servizi civili come alternativa al servizio militare.

Nella prima metà del secolo, fra i leaders del pacifismo attivo si annoverano uomini quali A. J. Muste (1885-1967) negli Stati Uniti, il politico G. Lansbury (1858-1940) in Gran Bretagna e H. Camara in Brasile.

Il periodo successivo alla prima guerra mondiale fu caratterizzato dai tentativi dei pacifisti di creare organizzazioni internazionali di vario genere. Così la War Resisters Internationai ha avuto ramificazioni in molti paesi del mondo occidentale. Anche la International Fellowship of Reconciliation ha cercato di riunire obiettori di varia origine, particolarmente i pacifisti per motivi religiosi. Uno dei suoi capi più importanti fu il pastore protestante francese A. Trocmé. Stretti rapporti con l'associazione ha avuto anche D. Dolci.

Dopo la prima guerra mondiale, l'enorme aumento della potenza distruttiva degli armamenti e il diffuso sentimento della sua vanità indussero molti che fin allora avevano, sebbene con riluttanza, accettato la guerra a metterla radicalmente in questione. Taluni esponenti della teoria tradizionale cattolica della ‛guerra giusta' giunsero quindi alla conclusione che nessuna guerra moderna poteva soddisfare i requisiti richiesti dalla teoria: accadde così che alcuni cattolici abbracciarono il pacifismo per il tramite della dottrina della guerra giusta (v. Rommen, 1947, p. 666). Il periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale fu l'epoca del cosiddetto giuramento di Oxford, quando migliaia di giovani s'impegnarono a non farsi mai sostenitori di un'altra guerra. Le vicissitudini della seconda guerra mondiale indussero molti pacifisti a modificare le loro opinioni. Ma dopo la seconda guerra mondiale la minaccia di un olocausto nucleare indusse moltissimi a divenire ‛pacifisti attivi'. Sebbene la stragrande maggioranza degli esseri umani pensasse ancora che la guerra avrebbe potuto rendersi necessaria come ‛estremo rimedio', negli anni sessanta e settanta si è fatto evidente che l'alone romantico, che in passato spesso si accompagnava al servizio militare, è in gran parte svanito. La diffusa opposizione in Francia alla guerra algerina e negli Stati Uniti alla guerra vietnamita, pur se non ebbe un carattere in primo luogo pacifista, aggravò la delusione di molti rispetto all'intero sistema del conflitto armato. I pacifisti, naturalmente, asserivano che perfino le guerre di ‛liberazione' - così caratteristiche del Terzo Mondo - sono illegittime sul piano morale e inefficaci sul piano pratico.

3. Concetti di pacifismo

Sebbene tutti i pacifisti concordino nel respingere la guerra e la violenza, essi esprimono i motivi del loro agire in modo notevolmente diverso, come assai diversi sono i loro giudizi sui risultati della posizione pacifista. Mentre storicamente il pacifismo ha avuto in larga misura carattere religioso, nel XX secolo è sorto un pacifismo utilitario e non religioso. I confini fra pacifismo religioso e non religioso si fanno spesso molto sfumati, tanto che la distinzione sembra quasi scomparire. In senso lato, il pacifista religioso trova la base delle sue convinzioni in una qualche autorevole scrittura religiosa o in un'intuizione personale che egli ritiene sia la voce di Dio. Il pacifista non religioso si riferirà invece a principi generali di moralità, appellandosi spesso, anche se non sempre a considerazioni utilitarie. Naturalmente vi saranno anche pacifisti religiosi che mettono energicamente l'accento sull'utilità, e pacifisti non religiosi la cui profondità di convinzione, comunque espressa, ha una connotazione religiosa.

Per il XX secolo, la divisione significativa sembrerebbe essere non quella tra pacifismo di carattere religioso e pacifismo non religioso, ma piuttosto quella tra un pacifismo non inteso in primo luogo a una trasformazione politica e sociale e un altro volto invece a porre l'accento sulla politica. Chiameremo il primo ‛pacifismo non politico' e il secondo ‛pacifismo politico'.

Entrambi potranno affondare le loro radici in credenze sia religiose che non religiose. Le differenze vertono su ciò che essi si attendono dall'azione pacifista e, in un certo grado, sul modo - più o meno approfondito - di considerare le implicazioni di una concezione pacifista per l'interpretazione della storia e degli interessi collettivi dell'umanità. Come in ogni tentativo di classificazione, è ovvio che la nostra caratterizzazione dovrà spesso delineare tendenze e sfumature anziché distinzioni precise.

Ma prima di cercare d'indicare le differenze tra pacifismo non politico e pacifismo politico, accenneremo alle credenze che essi sembrano avere in comune.

4. Basi comuni

Molti sono i concetti etici che accomunano il pacifismo politico e quello non politico: il rapporto organico tra mezzi e fini, l'altissimo valore attribuito alla vita umana, il generale rifiuto della violenza, l'affermazione che esistono alternative alla violenza, l'esortazione a usare solo metodi non violenti.

Il concetto della connessione organica tra fini e mezzi è naturalmente molto antico. Nel pacifismo religioso lo troviamo espresso in vari modi. Nel Nuovo Testamento è detto, per esempio, che non ci si può aspettare di cogliere fichi dai rovi (Matteo, VII, 16); altrove viene affermato che ‟non si può beffarsi di Dio, poiché quello che l'uomo avrà seminato quello pure mieterà" (Ai Galati, VI, 7); o che se si semina vento si mieterà tempesta (Osea, VIII, 7).

Chi usa un linguaggio non religioso - nel senso tradizionale del termine - fa notare che non è possibile separare realmente i fini dai mezzi. Quando si opta per un dato mezzo si scelgono anche i fini impliciti in quel mezzo. Intraprendendo una guerra, dunque, bisogna essere preparati a tutti i fenomeni che, a quanto pare inevitabilmente, alla guerra si accompagnano o ne sono le conseguenze: disorganizzazione sociale, disprezzo della vita umana, impoverimento, tendenza alla polarizzazione economica, spinta verso la centralizzazione e l'autocrazia, ecc. Coloro che appoggiarono la guerra americana nel Vietnam potevano difenderla solo asserendo - contro ogni esperienza storica - che l'eccidio su vasta scala e lo sradicamento di vaste masse si sarebbero - a lunga scadenza - tramutati in ‛democrazia' e in rispetto per la vita e per i diritti umani. Ma i fautori della guerra incontrarono grandi difficoltà nel mostrare come tutto questo potesse effettivamente avvenire. In realtà, affermano i pacifisti, con la guerra o con metodi analoghi non si raggiungono mai obiettivi incompatibili con tali metodi: se mai si potrà raggiungere la pace e la ‛democrazia', ciò avverrà malgrado la guerra e non in virtù della guerra. Il filosofo americano J. Dewey si distinse per lo sviluppo dato all'idea che mezzi e fini sono strettamente connessi, e che quindi il carattere dei mezzi informa la natura dei fini. Autori quali A. Huxley sostennero concezioni analoghe facendo spesso uso di un linguaggio sia religioso che non religioso (v. Huxley, 1937).

Che si consideri il principio della connessione tra fini e mezzi come religiosamente ispirato - quasi fosse il frutto di una sorta di rivelazione - ovvero come una specie di generalizzazione fondata sull'esperienza, esso è ovviamente in conflitto con le opinioni di quanti ritengono che la guerra, con tutte le sue distruzioni, possa nondimeno essere uno strumento per la protezione e la promozione della vita umana. E anche in contrasto con quanto sembra implicito nella posizione di molti rivoluzionari, cioè che si può mostrare disprezzo per la vita umana durante il periodo della violenza rivoluzionaria purché ciò avvenga in nome di un mondo postrivoluzionario, nel quale il diritto alla vita sarà tenuto nel massimo onore.

I pacifisti di ogni corrente attribuiscono un grande valore alla vita umana, anzi un valore che è quanto di più vicino all'assoluto essi possano concepire. Di fronte a tutti i grovigli dell'esistenza umana, e alle complicazioni e oscurità insite in slogan o problemi politici quali l'‛onore nazionale', gli ‛interessi vitali' o la direzione dell'economia, il pacifista si chiede sempre: questa misura servirà a promuovere la vita umana o a distruggerla? Egli asserisce che nessuno ha il diritto di togliere deliberatamente la vita ad altri anche se così gli viene ordinato dalle autorità dello Stato e in conformità al diritto positivo. Molti pacifisti considerano il divieto della distruzione deliberata della vita umana come implicante anche il divieto dell'eliminazione dell'embrione o del feto per mezzo dell'aborto.

Ora, i pacifisti sono consapevoli che può accader loro di dover soffrire o perfino morire per restar fedeli ai loro principi. Così Tolstoj consigliò una volta a un giovane tedesco di rifiutarsi di prestare servizio militare anche se la legge tedesca contemplava la pena di morte per tale rifiuto. Ma se, in conseguenza del proprio rifiuto di uccidere, si deve a volte morire, non si dimostra con ciò disprezzo per la propria vita ? Se si compie un atto che quasi sicuramente comporterà la propria morte, non rappresenta tale atto un suicidio virtuale ? I pacifisti sono ben consci di questi interrogativi. In linea di massima, rispondono che esiste un importante distinzione etica fra l'uccidere e l'accettare la morte per mano altrui per fedeltà a un principio. È meglio essere uccisi che uccidere, se questa è proprio l'unica alternativa.

Il paradosso del rapporto tra il pacifista e lo Stato sotto questo aspetto è illustrato dalle esperienze degli obiettori di coscienza. Quando erano messi in prigione per essersi rifiutati di uccidere (così essi pensavano), poteva capitare a volte che si trovassero rinchiusi in celle vicine a quelle di condannati per omicidio. La legge, quindi, condannava sia coloro che per ragioni di coscienza si rifiutavano di uccidere sia coloro che - coscientemente o no - avevano trucidato i loro simili. Per molti pacifisti, ciò la dice lunga sulla natura dello Stato moderno: palesemente costituito per proteggere la vita, esso è nel contempo uno dei maggiori strumenti per l'eccidio di massa.

Sebbene la tesi pacifista ponga l'accento anzitutto sull'illegittimità della guerra, i pacifisti s'impegnano anche a rinunciare, in generale, a ogni forma di violenza. L'uccisione di esseri umani può essere la forma più drammatica assunta dalla violenza, ma devono essere ripudiate anche le forme di violenza che non ricorrono all'eliminazione fisica. Indubbiamente, i pacifisti sono a volte piuttosto imprecisi - quando affrontano il problema - nel tracciare le loro distinzioni tra forza legittima e forza illegittima, ma sono almeno pronti a condannare non solo la guerra e la pena capitale ma anche ogni specie di danno irreparabile. Molti pacifisti ritengono in particolare che esista una violenza ‛spirituale' in grado di danneggiare in modo permanente altri esseri umani più gravemente di talune forme di violenza fisica: per esempio, molti classificherebbero sotto l'etichetta generale di violenza il mentire, il nascondere informazioni alla pubblica opinione, e ogni atteggiamento di disprezzo. Gandhi, per esempio, riconosceva il problema della violenza spirituale quando sottolineava insistentemente la necessità del riserbo e della cortesia in qualsiasi polemica sia scritta che verbale, e quando dichiarava che, trattando con avversari politici, si doveva cercare sempre di distinguere fra gli uomini e il male da loro commesso. Gandhi, come anche altri, è stato inoltre profondamente consapevole delle radici psicologiche della violenza nella personalità umana e della difficoltà di prevenire l'azione violenta in situazioni di conflitto. Molti pacifisti parlano anche della violenza ‛occulta' insita nei sistemi di sfruttamento economico.

Riconoscendo la tentazione, cui tutti gli esseri umani (pacifisti compresi) sono soggetti, cioè di reagire alla violenza con la violenza, i pacifisti hanno sottolineato l'importanza della preparazione e della disciplina ai fini dell'esercizio della non violenza. Da un punto di vista religioso questo implica una costante consapevolezza dell'inclinazione dell'uomo a peccare e ad allontanarsi dalle vie del Signore. In linguaggio non religioso implica una consapevolezza dei fattori biologici e psicologici che spingono molti di noi ad accettare la rappresaglia come una norma della condotta umana. Molti pacifisti sostengono che non è facile diventare non violenti e applicare l'etica dell'amore in tutte le circostanze: in verità l'uomo ‛naturale' è spesso propenso, a onta di tutte le sue professioni di fede, alla brutalità e alla violenza. Ma questo è solo un ulteriore motivo, affermano i pacifisti, per chiarire nel miglior modo possibile il significato della non violenza, così che, in situazioni di crisi, si possa avere una guida per l'azione. Inoltre, nonostante tutta la violenza esistente nel mondo moderno, i rapporti umani sono, in massima parte, improntati alla non violenza. Normalmente, gli esseri umani vivono insieme senza danneggiarsi reciprocamente e si comportano così non perché temano la polizia (che in ogni caso costituisce una frazione minima della comunità), ma perché nel complesso, a dispetto di molte manchevolezze e ribellioni contro la giustizia, ricercano spontaneamente una convivenza sociale pacifica e giusta. Sembra che il problema centrale consista nella possibilità che gli uomini apprendano a reagire ad azioni violente soltanto in modo non violento.

Molti pacifisti, pur essendo coscienti che gli esseri umani trovano spesso estremamente difficile agire secondo l'etica pacifista o non violenta, credono però anche che esistano effettivamente alternative alla violenza, perfino in gravi situazioni di conflitto. Sebbene i pacifisti dell'‛isolamento' o pacifisti non politici differiscano dai pacifisti politici circa la valutazione della possibilità che tali alternative siano abbracciate da un gran numero di persone, i due gruppi convengono sull'esistenza di almeno ‛alcuni' individui in grado di scoprire e attuare le alternative non violente. In termini teologici, i più pessimisti direbbero che solo con l'aiuto della grazia di Dio si può vincere la tendenza a rispondere alla violenza con la violenza, e che la grazia è concessa a pochi. I più ottimisti, invece, obiettano che gli esseri umani, anche se naturalmente e culturalmente tentati di rispondere alla violenza con la violenza, possono nondimeno far molto per superare questa tentazione.

In termini religiosi, le alternative alla violenza vengono spesso raggruppate dai pacifisti sotto la rubrica generale dell'etica dell'amore. Al convertito sarà presumibilmente elargito il dono della carità, la quale, come dice san Paolo, ‟soffre ogni cosa" e ‟non verrà mai meno" (I ai Corinzi, XIII, 7, 8). Un'altra massima della Sacra Scrittura ci ricorda che ‟la risposta dolce calma il furore" (Proverbi, XV, 1). E presumibilmente una persona religiosa può imparare a rispondere con la non violenza e con la carità al ‛furore' e alla violenza. La violenza dev'essere sempre identificata con il male, e il modo di vincere la violenza e l'ingiustizia associata alla violenza è quindi quello non già di rispondere con la violenza (giacché ciò non farebbe che perpetuare la violenza), ma piuttosto di evitarla operando il bene anche verso i propri avversari. Anche in larga parte della letteratura pacifista religiosa si pone energicamente l'accento sulla forza della sofferenza che rinuncia alla rappresaglia, sia nei rapporti personali che in quelli politici. I pacifisti occidentali citano spesso i passi di Isaia sul ‛servo di Yahweh'.

Secondo molti pacifisti religiosi e non religiosi l'esperienza tende a mostrare che il rifiuto della violenza e la disponibilità a usare solo metodi non violenti possono in realtà ottenere spesso l'effetto di convertire l'avversario in un amico.

La condotta ‛disarmante', come alcuni psicosociologi sembrano suggerire, è quel tipo di atteggiamento che per l'onestà, la semplicità, e il rispetto della controparte, sorprenderà talmente l'avversario - il quale si aspetta la rappresaglia - che egli sarà letteralmente indotto a trattare e a vedere i lati positivi di proposte che altrimenti avrebbe respinto. Proprio perché è ‛naturale' rispondere alla violenza con la violenza, è spesso vero che una reazione assolutamente non violenta eleverà il livello del conflitto per entrambe le parti contendenti, aprendo la possibilità di una riconciliazione altrimenti impensabile. I violenti sanno come rispondere alla rappresaglia (vi sono preparati), ma quando incontrano invece serenità, appelli alla ragione e disponibilità a soffrire senza infliggere sofferenze, sono presi alla sprovvista e restano perplessi: vengono essi stessi disarmati dall'atteggiamento disarmante dei loro avversari.

La conclusione di quanto abbiamo detto è che il pacifista, comunque esprima la sua concezione (sia in linguaggio religioso tradizionale che in linguaggio non religioso), sostiene che la non violenza, essendo migliore della violenza sul piano morale, è tendenzialmente migliore anche sul piano dei risultati pratici. Non già che sia giusta perché ottiene buoni risultati; piuttosto, ottiene buoni risultati perché è giusta. In altre parole, per il pacifismo l'esortazione alla non violenza è non solo un principio etico al quale ci si deve conformare perché valido in se stesso; ma è anche una norma che il più delle volte può dar luogo a risultati che trasformano l'intera situazione e consentono agli interessati di conseguire un livello più alto e più profondo di vita in comune.

5. Pacifismo non politico

Avendo delineato alcune tesi generali che la maggior parte dei pacifisti sembra condividere, parleremo ora del pacifismo proclive a sottolineare l'opportunità di non lasciarsi coinvolgere nella politica. Il pacifista non politico, dunque, pur convenendo con il pacifista politico su taluni principi generali, è dubbioso a proposito dei tentativi di trasformare il mondo avvalendosi di mezzi quali i partiti politici, la macchina statale e le grandi organizzazioni.

Tutti questi mezzi, egli sembra affermare, recano in sé i semi della violenza. Un eccessivo coinvolgimento nelle complicazioni della sfera economica è anch'esso pericoloso, giacché, al di là di un regime di scambi relativamente semplice, tendono a emergere elementi di coercizione e quindi di vera e propria violenza. L'individuo viene a dipendere per la sua sussistenza dall'organizzazione economica e politica nel suo complesso e, in situazioni di crisi, è tentato di tradire i suoi principi di non violenza o quanto meno a comprometterli.

Il pacifismo non politico, di cui stiamo tratteggiando le caratteristiche, implica quella che potrebbe essere chiamata un'etica dell'isolamento, come anche un'etica della semplicità. Il pacifista non dovrebbe mai lasciarsi coinvolgere troppo intimamente nel complesso mondo della politica e dell'economia e, per evitare appunto tale coinvolgimento, deve limitare le sue esigenze economiche e spesso vivere in comunità separate dai centri commerciali e industriali e dalla vita urbana.

Sul piano religioso, questo punto di vista può essere rappresentato dalle concezioni dei primi cristiani e di sette del genere dei mennoniti. I pacifisti non politici e insieme non religiosi sono propensi a porre l'accento sull'etica del distacco dalle complicazioni del mondo, sull'impegno individuale nell'attuazione dell'etica pacifista, e sulla rinuncia ai frutti della violenza. L'interesse primario sia dei pacifisti religiosi sia di quelli non religiosi e non politici non verte sulla trasformazione dell'ordine politico ed economico; molti di essi dispererebbero di raggiungere una simile meta in qualunque circostanza.

La concezione dei primi cristiani illustra il pacifismo religioso non politico. Era un pacifismo fondato sull'attesa del ritorno imminente di Cristo. Frattanto, il fedele doveva vivere nella cultura pagana come un pellegrino. Quella cultura era violenta, cupida e tirannica, e il cristiano non sperava di cambiarla. Dio avrebbe presto giudicato il mondo. In attesa di questo momento il cristiano doveva seguire un Cristo che gli chiedeva di condividere con il prossimo i beni terreni, gli chiedeva semplicità, amore, obbedienza all'autorità politica purché questa non ordinasse atti contrari allo spirito di Cristo, e una paziente accettazione - scevra di volontà di rappresaglia - delle inevitabili ingiustizie del mondo.

L'idea è che la comunità cristiana è una comunità isolata dal mondo esterno, col quale ha solo legami piuttosto tenui. I cristiani non debbono compiere alcuna azione positiva che possa portare all'uccisione di altri esseri umani. Pertanto essi devono rifiutare il servizio militare come anche qualsiasi funzione che implichi l'uso della violenza, per esempio la magistratura. I cristiani dovevano, certamente, onorare l'imperatore e pregare per lui e per tutti i sovrani, i cui atti avessero una qualche relativa giustificazione in un mondo non cristiano (Ai Romani, XIII, 7; I di Pietro, II, 17); ma la partecipazione attiva nell'opera di governo coinvolgerebbe immediatamente in un'inevitabile violenza. Pertanto il cristiano poteva pagare i suoi tributi, come Cristo aveva comandato (Matteo, XXII, 21), ma non poteva fare l'esattore d'imposte.

Questa concezione sembrerebbe implicitamente suggerire che tutto il mondo, con rarissime eccezioni, è soggetto al giudizio di Dio che presto annienterà le opere dei malvagi. Frattanto Iddio tollera l'esistenza delle istituzioni politiche acciocché provvedano a stabilire un qualche ordine anche tra i malvagi. Nell'interesse di una, benché incerta, pace terrena, i cristiani si conformeranno a tali istituzioni ma solo in modo passivo. Senza dubbio molti cristiani erano ben consci che una gran parte delle entrate fiscali di Roma veniva destinata alla guerra o ai preparativi di guerra. Nonostante ciò, essi pagavano i loro tributi, come Cristo e san Paolo esigevano.

La maggior parte dei primi cristiani, per quanto possiamo capire, non concepivano il loro rifiuto della guerra e della violenza come un fattore tendente a trasformare la natura dell'Impero romano. Consideravano il loro atteggiamento come un fatto di coscienza individuale, una testimonianza della fede. Sicuramente gli intellettuali come Origene immaginavano quello che sarebbe potuto succedere se un autentico spirito cristiano si fosse diffuso fra Romani e Barbari: l'imperatore non avrebbe avuto più bisogno di eserciti per proteggersi contro i bellicosi barbari, giacché i barbari stessi sarebbero diventati pacifisti. Ma non sembra che tali considerazioni abbiano avuto un'importanza centrale nel pensiero pacifista dei primi cristiani.

La rigorosa concezione mennonita rappresenta una versione moderna del pacifismo cristiano delle origini e, sebbene molti mennoniti l'abbiano abbandonata nel XX secolo, è importante comprenderne le implicazioni per la teoria pacifista. Radicata nel comandamento della Scrittura di ‟non contrastare al malvagio" (Matteo, V, 39), questa prospettiva è acutamente consapevole della difficoltà di mantenere la sua purezza rispetto al ‛rifiuto della violenza'. Nella dottrina è implicito il riconoscimento del fatto che a mano a mano che l'economia e la società divengono più complesse, l'individuo viene quasi inevitabilmente a essere coinvolto nei conflitti derivanti dalla divisione del lavoro e dalla struttura di classe. Da ciò discende che coloro i quali desiderano conservare intatto il loro pacifismo devono abbracciare una sorta d'isolamento, vivendo insieme in comunità agricole largamente autosufficienti. Il mennonita tradizionale non votava, non serviva nell'esercito, non svolgeva la funzione di magistrato. Come i primi cristiani, egli versa però i tributi, in obbedienza ai suoi stessi principi religiosi (v. Hershberger, 1944). Analoghe sono le concezioni sostenute dagli hutteriani.

Anche Tolstoj, pur se in modo leggermente diverso, può illustrare lo spirito del pacifismo non politico. Durante l'ultimo periodo della sua vita, egli divenne quel che potrebbe esser definito un pacifista anarchico, con la sua insistenza sulla semplicità, sulla necessità del duro lavoro manuale, e sul rifiuto di obbedire allo Stato quando esige tributi e la prestazione del servizio militare. A volte sembra esser stato molto vicino al pacifismo politico, in quanto riteneva che se milioni d'individui avessero seguito il suo insegnamento lo Stato si sarebbe inevitabilmente dissolto.

I principî cosiddetti non religiosi del pacifismo non politico rassomigliano moltissimo a quelli delle concezioni religiose, sebbene il linguaggio adoperato possa differire. Si riscontra una tendenza a disperare di una trasformazione generale del mondo, un atteggiamento di sospetto verso aspetti a quanto pare inevitabili della politica, quali l'organizzazione su vasta scala, e di dubbio riguardo alle complicazioni della sfera tecnologica ed economica. Orientamenti di questo tipo non ricorrono a formulazioni tradizionali di stampo religioso, ma le implicazioni sono affini. Anch'essi vedono con sospetto qualsiasi tipo di ‛politica', che associano alla violenza, all'inganno e a compromessi inaccettabili.

Per esempio, molte delle cosiddette comuni che sono fiorite negli Stati Uniti negli anni sessanta e settanta sono di orientamento pacifista (spesso ‛non religioso'), molto scettiche circa l'attività politica in genere, che considerano una perenne fonte di corruzione.

Sebbene i pacifisti non politici siano talvolta chiaramente consapevoli del fatto che la loro posizione comporta implicazioni notevoli per la politica in generale, continuano nondimeno a proclamare che il pacifismo non deve impegnarsi direttamente nella modificazione delle istituzioni politiche o sociali. Anche se l'attività politica come tale può non essere violenta, ha però la tendenza a condurre a gravi compromessi, compresi quelli che comportano la violenza, occulta o manifesta. Il pacifismo di questo tipo, dunque, non è interessato a strategie politiche, teorie del potere, problemi sociali, e così via, ma è essenzialmente rivolto a illustrare i fondamenti della posizione pacifista e a indagare in qual modo i singoli pacifisti possano meglio conservare la loro integrità personale di fronte a un mondo di potere e di violenza. Nelle sue tonalità più pessimistiche, tale tipo di pacifismo sembra dubitare che il mondo politico potrà mai essere trasformato nella sua natura essenziale.

6. Pacifismo politico

Per converso, il pacifismo politico - pur non ignorando l'importanza dell'integrità personale e la possibilità di violenza implicita in ogni attività politica - tende a porre l'accento sull'importanza delle valutazioni politiche e a sostenere che è certamente possibile trasformare il mondo mediante l'azione politica non violenta. Accetta molti aspetti dell'attività politica moderna (inclusa la politica parlamentare) e si sforza di distinguere tra coercizione non violenta e coercizione violenta. Potrebbe anche esser definito il pacifismo della trasformazione.

Vogliamo innanzi tutto tratteggiare qui l'atteggiamento dei pacifisti politici nei confronti della storia; parleremo poi dei fini ch'essi considerano desiderabili, ed esamineremo infine le strategie di azione sociale e politica ritenute accettabili.

1. Si afferma che la storia sia, almeno in parte, una storia di guerre e di violenze che, a dispetto degli apologeti, non hanno portato alcun vantaggio all'umanità. Nella grande maggioranza - se non nella totalità - dei casi le guerre, se le vediamo in prospettiva, non solo hanno rappresentato il colmo della malvagità ma si sono anche dimostrate stolte. Pur se incidentalmente possono esser state di qualche utilità, il costo morale, sociale e politico ha di gran lunga ecceduto i presunti benefici. Inoltre, a proposito di molte guerre si può affermare che non esiste neanche la minima parvenza di prova a loro favore. E per esempio incontestabile - si è detto - che la guerra ha notevolmente stimolato lo sviluppo della scienza chirurgica, e questo può anche essere esatto. Ma anche se è esatto, il prezzo pagato in felicità e vite umane è stato così enorme che da un punto di vista strettamente utilitario il costo dei supposti progressi raggiunti in chirurgia è stato chiaramente sproporzionato agli eventuali vantaggi. Anche se molte guerre sono state combattute in nome della libertà, è dubbio che vi sia stata una qualche guerra che, tutto considerato, abbia fatto progredire la causa della libertà umana per l'umanità nel suo complesso.

In altre parole, considerando la storia universale, il pacifista giudica la guerra e la violenza sempre deleterie per la promozione di traguardi quali l'istruzione, lo sviluppo delle arti, il rispetto della vita, l'umanitarismo, la democrazia e la cultura; e se, in talune circostanze, può sembrare che la guerra sia di stimolo a un progresso così concepito, un'approfondita valutazione deve far sorgere gravi dubbi al riguardo.

Questi concetti potranno forse risultare più chiari se li illustriamo in relazione a determinate guerre.

Innanzi tutto considereremo le guerre sulla cui dubbia utilità potrebbero concordare persino i non pacifisti: quelle cioè meno difendibili. Passeremo poi a considerare taluni conflitti che invece vengono spesso difesi dai non pacifisti.

Che cosa si può dire - potrebbe chiedere il pacifista - a difesa della lunga guerra del Peloponneso? Il conflitto fu condannato perfino da conservatori quali Aristofane, e molti uomini dell'epoca - certamente non pacifisti - erano ben consapevoli delle sue conseguenze spaventosamente distruttive per la civiltà greca. Da parte di Atene fu essenzialmente un conflitto mirante a salvaguardare l'imperialismo greco scaturito dalle guerre persiane, un imperialismo che sotto taluni aspetti fu altrettanto pernicioso di qualsiasi altro. Le pretese di Sparta contro Atene non erano migliori di quelle di Atene contro Sparta. Ma il fatto capitale della guerra fu che gli obiettivi originari del conflitto furono presto dimenticati, e la contesa continuò quasi fine a se stessa, distruggendo, anche in seguito al diffondersi di epidemie, il fiore della gioventù greca e, alla fine, sonando la campana a morto per la polis.

Oppure si considerino le varie guerre romane di conquista, i conflitti contro Cartagine, per esempio, in Italia e in Oriente. Essi contribuirono a unificare una vasta parte del mondo conosciuto, e questo potrebbe dirsi un vantaggio. Come riconobbe il grande apologista cristiano Origene, l'unità del mondo romano contribui a facilitare il diffondersi del cristianesimo, il che, dal suo punto di vista, fu un bene. Ma in che modo lo stato di guerra - pressochè ininterrotto prima di Augusto - influi sul carattere dei Romani e sulle loro istituzioni politiche? Esso contribuì grandemente al diffondersi della schiavitù, allo spopolamento delle campagne, alla formazione delle grandi proprietà terriere, alla distruzione dei piccoli coltivatori, e al sorgere del problema delle masse urbane disoccupate e proletarizzate. I Romani acquistarono abitudini sempre più rozze. Inoltre, le loro istituzioni repubblicane andarono in disfacimento come diretto risultato delle guerre sia esterne che intestine. Pur se si devono riconoscere con franchezza i benefici che dovevano derivare dalla fondazione dell'impero, chi può sinceramente dire ch'essi abbiano maggior peso dell'enorme prezzo pagato?

In epoca moderna, chi potrebbe difendere oggi le svariate guerre dinastiche scatenate per la successione a questo o quel trono? Si prenda, per esempio, la guerra di successione spagnola, che terminò con l'asserita vittoria della Gran Bretagna e dei suoi alleati. Alla fine fu proprio il Borbone, le cui pretese al trono di Spagna erano state contestate dalla Gran Bretagna, a essere insediato come re. Migliaia di uomini morirono da entrambe le parti; ora chi, guardando retrospettivamente, può veramente affermare che quella guerra abbia apportato un qualche vantaggio all'umanità o anche soltanto alle nazioni interessate?

Ma, ribadirà il non pacifista, vi sono state certo guerre legittime, guerre che realmente difesero la vita umana o altri valori preziosi. Il pacifista lo negherà, anche nei confronti dei conflitti presumibilmente più difendibili. Si potrebbe affermare che quando gli eserciti musulmani furono sconfitti dai cristiani nella battaglia di Poitier (733) questa fu una vittoria per la ‛civiltà'. Anche lasciando da parte la brutalità del conflitto e le preziose vite sacrificate, il pacifista asserirà invece che la battaglia non fece progredire di un iota la civiltà. In effetti si potrebbe sostenere che se i cristiani non avessero resistito con le armi ai musulmani la civiltà ne avrebbe beneficiato: la cultura musulmana era, infatti, assai più progredita di quella cristiana. Si può immaginare che se i musulmani non avessero incontrato opposizione ‛i secoli bui' avrebbero avuto vita più breve, non si sarebbero mai sviluppate istituzioni quali l'Inquisizione, e molte guerre future tra musulmani e cristiani sarebbero state evitate.

Il non pacifista potrebbe naturalmente obiettare che certe guerre moderne, come la guerra di secessione americana (1861-1865), costituiscono ovvi esempi atti a sconcertare il pacifista. Si potrebbe argomentare che la guerra di secessione liberò gli schiavi americani e che questo fu un beneficio che controbilancia largamente la brutalità della guerra e l'uccisione di migliaia di esseri umani. Ma il pacifista dimostrerà che la guerra influì molto scarsamente sulla reale emancipazione degli schiavi negri. Certo, sul piano formale l'emancipazione fu ottenuta. Ma le conseguenze della guerra, i rancori da essa generati e il caos sociale ed economico creato dal conflitto contribuirono grandemente a rendere quasi lettera morta l'emancipazione formale. Nuovi metodi furono escogitati per tenere i Negri in catene; fu attuata la loro segregazione dai Bianchi e vennero loro negate anche quelle misure di protezione che esistevano in regime di schiavitù. La guerra civile, in effetti, ritardò la possibilità di una vera libertà ed eguaglianza per i Negri.

Vi sono naturalmente coloro che sosterranno che, sebbene molte guerre debbano essere condannate, la prima e la seconda guerra mondiale costituiscono ovvie eccezioni alla regola generale. Ma anche su questo il pacifista dissentirà fermamente. Più si studiano le origini e i risultati della prima guerra mondiale, più si deve dubitare che abbia fatto qualcosa d'altro che sterminare esseri umani e minare sistemi sociali relativamente stabili. Naturalmente gli alleati affermavano di combattere per ‟salvare il mondo per la democrazia" (secondo le parole di Wilson, sottoscritte da Orlando, Lloyd George e altri statisti). La guerra, è vero, portò al rovesciamento della monarchia tedesca, ma dopoche milioni di esseri umani erano stati massacrati. Si può anche riconoscere il suo contributo all'indebolimento e quindi alla liquidazione dell'autocrazia russa. Ma fu anche responsabile di una diffusa disorganizzazione sociale, dalla quale scaturirono molte guerre civili. Fu inoltre la causa diretta della dissoluzione della monarchia austroungarica e nulla fece per fermare lo sviluppo del nazionalismo sciovinistico. I trattati di pace che posero fine alla guerra contenevano in sé molti dei germi dei futuri conflitti, seconda guerra mondiale inclusa. L'enorme distruzione di risorse naturali durante la guerra fu la premessa per l'impoverimento di milioni d'individui. In Italia, in parte come risultato delle condizioni generate dalla guerra, fu preparato il terreno per l'avvento della dittatura fascista. Negli Stati Uniti, che erano nati in un clima - tipico del sec. XVIII - di antimilitarismo e di ostilità agli eserciti permanenti, gli organici dell'esercito e della marina non tornarono più ai livelli anteguerra, e il nazionalismo sciovinistico americano fu grandemente stimolato.

E che dire della seconda guerra mondiale? Per molti essa parve essere il conflitto che più di ogni altro s'avvicinava a una possibile giustificazione. Eppure, neanche in questo caso i pacifisti giudicano si possa fare un'eccezione al totale ripudio di ogni guerra e di ogni violenza. Se è vero che essa portò alla distruzione dell'hitlerismo, il prezzo pagato fu però enorme: l'espansione del potere di un'autocrazia altrettanto brutale, l'Unione Sovietica; il decadimento morale rappresentato da azioni quali il bombardamento di Dresda, Hiroshima e Nagasaki; e i processi ipocriti di Norimberga, nei quali vennero stabiliti precedenti di retroattività della legge e di processi politici contro i vinti, istruiti da giudici provenienti da nazioni che avevano anch'esse commesso atrocità di massa. A una generazione di distanza dalla conclusione della seconda guerra mondiale, una parte di umanità altrettanto vasta che nell'anteguerra vive sotto autocrazie e governi che ricorrono alla tortura. In base a uno studio di Amnesty International, nel 1973 circa metà delle nazioni del mondo (comprese alcune delle cosiddette democrazie) applicavano vari metodi di tortura (v. Robertson, 1973). Quali che siano i risultati della guerra, essa non ha gettato i semi della ‛democrazia' e dello ‛Stato di diritto'. Al contrario, ha contribuito notevolmente a instaurare un clima avverso a quegli ideali.

Viene talvolta affermato che quanti si opposero a Hitler con la guerra contribuirono a salvare gli Ebrei. Ma i pacifisti fanno notare come lo sterminio degli Ebrei fosse considerato da Hitler una misura di guerra. È del tutto possibile che iniziative esplicite per lo sterminio degli Ebrei non sarebbero state prese se la coalizione antihitleriana non avesse fatto la guerra. Sebbene le misure antisemite fossero state in realtà adottate prima della guerra, esse non contemplavano la distruzione fisica. Inoltre, l'antisemitismo aveva una solida base istituzionale (per esempio sotto forma di restrizioni nell'accesso all'istruzione) perfino in paesi che furono considerati vittime dell'‛aggressione' di Hitler, come la Polonia. E la coalizione antihitleriana avrebbe potuto fare - prima della guerra - ben più di quel che fece per fornire un rifugio ai perseguitati. Infine può e deve essere sottolineato che la violenza bellica salvò ben pochi Ebrei: la gran massa era stata uccisa nel corso della guerra. Un successo assai maggiore ebbero i metodi di salvataggio non violenti, come quelli messi in atto dalla Danimarca perfino durante l'occupazione militare tedesca.

Sebbene le conseguenze peggiori di conflitti come la seconda guerra mondiale consistano nel massacro di vite umane - che si accompagna inevitabilmente alla guerra - i pacifisti pongono in rilievo anche l'enorme quantità di risorse naturali andate distrutte. Paesi come la Gran Bretagna furono letteralmente costretti a indebitarsi fino al collo per proseguire la guerra, bruciando così le riserve accumulate da generazioni. Promettenti sistemi produttivi andarono in pezzi, ed esseri umani furono ridotti alla disperazione dalla miseria, dalla deportazione forzata e da altre consimili sciagure.

E la seconda guerra mondiale non fece eccezione neppure alla regola secondo la quale il deterioramento morale sembra sempre accompagnarsi alla guerra. Prostituzione, saccheggio, disprezzo della vita in generale sono il retaggio non solo della guerra ma del mondo postbellico. La guerra per sua stessa natura incoraggia molte forme di declino morale, come anche molti non pacifisti sono disposti ad ammettere. Durante la seconda guerra mondiale da entrambe le parti si verificarono eccidi di prigionieri, e l'assenta protezione della popolazione civile, che si presumeva fosse stata ottenuta con i progressi del diritto internazionale, fu minata alla base dal diffuso ricorso a bombardamenti indiscriminati.

2. Sotto un profilo positivo, il pacifismo politico crede che sia possibile concepire una società in cui la violenza venga ridotta a livelli relativamente bassi e ove le tendenze alla violenza possano essere tenute sotto controllo con mezzi non violenti. Molti di questi obiettivi sono stati già incorporati come ideali in sistemi giuridici e politici e altri sono da molti anni oggetto di dibattito. Non solo, ma l'ideale pacifista è già stato parzialmente messo in pratica da milioni d'individui, che nella loro vita quotidiana agiscono normalmente in modo non violento e spesso reprimono qualsiasi eventuale impulso alla rappresaglia.

Quella delineata dai pacifisti è una società mondiale, in cui poche decisioni essenziali sarebbero prese dal centro - per esempio quelle riguardanti l'allocazione delle risorse su una base equa -, ma in cui l'amministrazione sarebbe altamente decentrata. Naturalmente lo Stato nazionale sovrano dovrebbe scomparire.

Fra le altre caratteristiche di una siffatta società non violenta dovrebbero essere contemplate: limitazioni all'espansione delle città; forze di polizia disarmate; una più equa distribuzione del reddito nell'ambito di ogni nazione; una diminuzione del divario fra i paesi economicamente depressi e quelli altamente sviluppati; l'eliminazione o la modificazione drastica dei sistemi carcerari; e, possibilmente, un modo di utilizzare la tecnologia molto più oculato di quello in genere abituale nelle società altamente industrializzate.

Molte sono, naturalmente, le radici del comportamento violento, ed è da sperare che gli ideatori delle istituzioni di una società non violenta ne terranno il debito conto. In certi casi la violenza è frutto della frustrazione personale nel raggiungimento di traguardi legittimi. Altri tipi di violenza possono essere attribuiti alla discriminazione razziale, al risentimento dovuto a inique divisioni di classe, e ad altre cause analoghe. I pacifisti sono propensi a credere che sia possibile progettare istituzioni politiche le quali esaltino le funzioni eminentemente positive e di pianificazione, riducendo drasticamente i compiti meramente repressivi. La pianificazione dell'impiego e dell'equa distribuzione delle risorse naturali, per esempio, potrebbe evitare un eccessivo controllo diretto sugli esseri umani. Le funzioni d'istituzioni come la polizia dovrebbero consistere anzitutto nella prevenzione della violenza mediante un intelligente uso di strumenti quali la pianificazione, un regolare servizio di vigilanza, un'assistenza di emergenza di ogni tipo a chiunque si trovi in stato di bisogno, e un'opera di coordinamento generale.

Dovrebbe tuttavia essere sottolineato che il pacifismo politico non contempla l'eliminazione del conflitto. Anche se potesse realizzarsi, un tale obiettivo non sarebbe desiderabile. Taluni tipi di conflitto e di tensione fanno emergere le qualità migliori in un essere umano e stimolano la riflessione, l'indagine e l'azione. Solo i tipi distruttivi di conflitti connessi con la violenza dovrebbero essere dichiarati inammissibili.

Non è questa la sede per descrivere nei particolari le istituzioni di una società pacifista. Ne abbiamo delineate alcune caratteristiche, su molte delle quali, se non su tutte, i non pacifisti certamente concorderanno.

3. I mezzi cui il pacifista ricorre sono forse più caratterizzanti dei suoi fini: egli insiste su certi particolari processi di mutamento sociale. Come è stato precedentemente accennato, il pacifista pone costantemente in risalto lo stretto rapporto tra mezzi e fini. Non ci si può aspettare di costruire una società non violenta se si ricorre come mezzo alla violenza. Se il pacifista respinge la guerra e la violenza come mezzi per estendere la ‛libertà', l'‛eguaglianza' e la ‛fraternità', nonché per proteggere l'integrità del gruppo, quali mezzi alternativi propone?

Egli ritiene che i mezzi dipendano dalla sua concezione del potere. Potere è la capacità di attuare o di fare. Il potere politico è la capacità che alcuni hanno d'influenzare le azioni di altri, siano essi individui o gruppi. Questi ultimi, tuttavia, hanno pur sempre la capacità d'influenzare e di frustrare coloro che cercano di controllarli. Esiste un rapporto reciproco fra gli aspiranti controllori e coloro che essi cercano di controllare.

Il pacifista è convinto che in qualsiasi analisi del potere il ruolo della ragione e della persuasione non debba essere trascurato. Enorme è il potere della parola stampata: altrimenti non si potrebbe spiegare il fatto che tutti i despoti (come anche molti regimi non dispotici) cerchino di censurare la stampa. Ma i governi, e in particolare le tirannie, hanno sempre paura anche della parola parlata e di ciò che da essa può scaturire quando gli uomini parlano tra loro; per questo i governi sono propensi a vedere la ‛cospirazione' come una minaccia perpetuamente incombente. Per tutto l'arco della storia politica le classi dominanti hanno sempre cercato di distogliere la pubblica opinione dalle questioni politiche e di scaricare le energie degli individui negli sport, o nei giochi gladiatori, o in una sovrabbondanza di agi materiali. Se la forza virtuale della pubblica opinione si attualizzasse, nulla sarebbe più potente.

Le stesse classi dominanti possono essere direttamente influenzate da appelli ai valori da esse professati e da tentativi volti a persuaderle a mutare la loro condotta. Sebbene l'entità dell'influsso che si potrà esercitare sulle classi dominanti dipenda in una certa misura dal particolare contesto economico o sociale e dalla natura della classe di governo in questione, non si dovrebbe comunque trascurare il potere della razionalità. Se membri influenti di una data classe dominante sono convinti che la loro condotta è sbagliata o inefficace, si verificherà una divisione all'interno della classe stessa, e in tale situazione, com'è noto, la via è aperta all'emergere di nuove classi dominanti.

Anche se una classe dirigente resta unita, può essere ridotta all'impotenza da un'opposizione non violenta. Se, per esempio, non è più in grado di reclutare forze di polizia o soldati, o se i poliziotti e i soldati cominciano a disertare, essa s'indebolisce sempre più. Ma l'incapacità di reclutare soldati o la diserzione possono anche essere determinate da un sentimento generale di ostilità al regime. In Russia, i governi zaristi del 1905 e del 1917 s'indebolirono non tanto perché i loro funzionari venivano uccisi dai rivoluzionari, ma piuttosto perché l'opirnone pubblica era divenuta ostile al regime e perché avevano perduto la simpatia delle forze armate.

È anche possibile che forze armate e polizia restino fedeli e non abbiano tuttavia il potere di costringere gli individui ad agire in dati modi. L'impegno e i valori degli individui determineranno la misura in cui essi saranno aperti all'influenza del potere altrui o delle istituzioni. Un vegetariano è meno soggetto ai capricci dei prezzi della carne di quanto possa esserlo un carnivoro. Colui che ha poche necessità materiali subirà l'influsso della pubblicità assai meno di colui che ha molte esigenze. Il cristiano che attribuiva maggior valore alla religione - la quale proibiva l'idolatria - che alla vita stessa non poteva essere costretto neppure da tutte le legioni romane a rendere onori divini all'imperatore. I moderni obiettori di coscienza che non temano la prigione o altri disagi e neppure la morte non possono venir obbligati - quale che sia il presunto potere dello Stato - a entrare nell'esercito.

Come de La Boétie fece osservare nel XVI secolo, la radice della tirannia sta nella tendenza della maggior parte degli uomini a diventare schiavi ‛volontari'. Troppo spesso essi hanno paura perché temono la libertà e la responsabilità; oppure cercano vantaggi immediati sottomettendosi a coloro che possono soddisfare i loro desideri del momento. In questo modo si assoggettano alla violenza del tiranno, domestico o straniero che sia. Spesso la loro schiavitù è in parte dovuta alla tendenza ad accettare il mito secondo cui la violenza può portare all'emancipazione umana. Non capiscono che la violenza si associa sempre alla tirannia e alla schiavitù, e che l'unica speranza di libertà e di pieno sviluppo della personalità sta nel rifiuto della violenza e nell'uso disciplinato di un potere non violento.

Sono considerazioni di questo tipo che costituiscono il substrato delle alternative alla violenza offerte dal pacifismo politico. Per esempio, la teoria gandhiana del satyāgraha (l'insistenza per la verità') è in parte un'elaborazione delle strategie da adoperare nella formazione del potere non violento. In generale, afferma la teoria, i gruppi politici che cercano di attuare i mutamenti sociali ritenuti desiderabili dovrebbero operare strenuamente per utilizzare tutti i metodi di persuasione e di convincimento pacifici e, ove esistano istituzioni parlamentari di un qualche tipo, dovrebbero senza dubbio ricorrere a strumenti parlamentari. Un movimento fondato sul satyāgraha dovrà innanzitutto avere ben chiari i propri obiettivi e li vaglierà alla stregua della propria concezione della giustizia. Una volta definite accuratamente le proprie proposte, le sottoporrà all'autorità (sia questa rappresentata da una persona o da un parlamento) e dimostrerà la giustezza dei fini propugnati. Sarà paziente ma anche fermo. Farà sapere al governo (o ad altri eventuali avversari politici) di esser disposto a venire a compromessi su aspetti secondari, ma che rimarrà fermo sulle questioni essenziali prenderà in seria considerazione tutte le proposte alternative avanzate dal governo, non respingendole se non dopo una meditata decisione.

Gandhi, naturalmente, è consapevole che le classi governanti sono spesso assai difficili da persuadere. Sono psicologicamente prigioniere dei loro presunti interessi di classe, e la stessa forza d'inerzia che s'instaura dopo un lungo periodo di dominio rende inefficace qualsiasi appello alla ragione. Esiste nelle classi dominanti una tendenza a considerarsi divinità immuni dalle normali considerazioni dettate dalla ragione e dal senso di giustizia. Ciononostante, Gandhi insegna che bisogna fare ogni tentativo per incrinare le barriere psicologiche che separano i governanti dai governati.

Se, dopo un certo periodo di tempo, sembrerà che questi appelli diano scarsi risultati, il movimento satyāgraha cercherà di diffondere il suo messaggio mediante l'insegnamento, l'agitazione politica e un'organizzazione sempre più perfezionata. Addestrerà i suoi capi a sopportare sofferenze inusitate, giacché il pacifista considera la sofferenza accettata per una causa come un'importante fonte di potere in se stessa. Frattanto, il movimento continuerà naturalmente a lottare per giungere a un accordo con i suoi avversari politici e sarà riluttante a interrompere i negoziati a meno che non appaia evidente che l'opposizione è assolutamente irremovibile. Naturalmente, richiamerà l'attenzione dei suoi avversari sul crescere della propria forza sotto il profilo dell'opinione pubblica e degli appoggi ottenuti.

Verrà tuttavia il momento in cui questi sforzi di persuasione diretta dovranno probabilmente essere integrati con varie forme di non cooperazione. Naturalmente il governo già da tempo sarà stato messo in guardia, giacché, sempre che sia possibile, il satyāgraha esige onestà e franchezza. Esso impone anche il rispetto della persona dell'avversario, anche se questi resta fermo nella sua opposizione. Alla fine si potranno adottare diverse forme di non cooperazione, in conformità a piani scrupolosamente studiati.

Un esempio di non cooperazione è lo sciopero. Con questo termine ci si riferisce a un'azione volta non solo a immediati vantaggi economici, ma anche a scopi politici. Lo sciopero è una forma di pressione diretta a modificare la politica delle pubbliche autorità. Una ben disciplinata astensione non violenta dal lavoro può creare una situazione in cui coloro che erano stati sin allora relativamente impotenti possono negoziare su una base quasi paritaria con i detentori del potere. Ciò si dimostrò vero, per esempio, a Roma nel famoso ‛sciopero' dei plebei del 494 a. C. Fu questa la tattica utilizzata nella rivoluzione russa del 1905; sempre a essa si fece ricorso per ottenere l'allargamento del suffragio in Belgio. In India le dimissioni in massa di pubblici funzionari svolsero un ruolo importante nella lotta contro il governo britannico.

Oltre allo sciopero, a volte può venir impiegato il boicottaggio. In tal caso non si tratta di astensione dal lavoro, ma del fatto che i potenziali clienti lasciano inutilizzato il loro potere d'acquisto. Così Gandhi usò il boicottaggio dei tessuti di fabbricazione inglese come strumento per incrementare la produzione tessile indiana ed esercitare al contempo una pressione accuratamente calcolata sul governo britannico in India (v. Shridharani, 1939; v. Bondurant, 1958). Il boicottaggio fu anche utilizzato dal movimento americano per i diritti civili degli anni 1960 - in particolare con l'intento di aprire la via alle trattative per garantire eguaglianza di opportunità in materia di occupazione.

Gandhi concepiva la disobbedienza civile come una sorta di caso estremo della non cooperazione. Poteva assumere la forma o della disobbedienza civile individuale (alcuni dirigenti erano incaricati di violare leggi particolarmente oppressive a rischio del carcere), o della disobbedienza civile di massa, attraverso il rifiuto non violento di migliaia di aderenti di obbedire a determinate disposizioni. Nella disobbedienza civile, insegnava Gandhi, si è sempre moralmente obbligati a infrangere la legge apertamente, in modo non violento e secondo coscienza. L'infrazione non doveva avere uno scopo egoistico e non doveva essere ambigua. Gandhi (e così molti altri pacifisti) ravvisa nella disobbedienza civile un metodo che dimostra rispetto per la legge in generale ma anche, al tempo stesso, un'aperta inosservanza di una particolare legge considerata oppressiva. M. L. King Jr. e i suoi seguaci nel movimento americano per i diritti civili sostenevano una concezione analoga (v. King, 1964).

Tra gli strumenti del satyāgraha può essere annoverato anche il digiuno, che però, sebbene venisse usato un certo numero di volte, fu sempre considerato da Gandhi una misura da adottarsi soltanto in casi eccezionali e previa una preparazione particolarmente accurata.

La teoria del satyāgraha sostiene anche che è possibile costruire l'apparato del governo alternativo già nel corso della lotta. Gradualmente gruppi sempre più numerosi di individui si abitueranno a vivere secondo i principi del movimento e, quando l'antica forma di governo s'indebolirà o declinerà, la nuova struttura sarà in grado di assumere il controllo.

Che dire poi del sistema di difesa esterna e interna? I pacifisti sono propensi a sostenere che la ‛difesa' militare, particolarmente in epoca moderna, non protegge nè la vita umana nè altri obiettivi e valori desiderabili. Inoltre, esistono scarse prove (o nessuna) a sostegno della credenza che le nazioni con alti livelli di armamento abbiano minori probabilità di essere invase rispetto a nazioni con armamento scarso o nullo: nella seconda guerra mondiale, infatti, nazioni bene armate come la Polonia, la Francia, la Germania e l'Unione Sovietica furono tutte invase, proprio come lo fu la Danimarca che aveva un apparato militare assai modesto. L'ideologia della ‛difesa nazionale' militare è in massima parte fondata sull'illusione.

I pacifisti insisteranno sul fatto che lo sforzo di agire secondo giustizia costituisce la migliore ‛protezione' per una nazione. Se nella sua politica verso gli altri paesi una nazione mette a disposizione le proprie risorse, agisce in modo non imperialistico e non aggressivo, e appoggia la cooperazione internazionale, è assai improbabile che venga attaccata, anche nel caso che effettui un disarmo unilaterale (e i pacifisti sono fautori del disarmo unilaterale). E se, a onta di tutto, tale nazione pacifista venisse invasa, metodi del tipo satyāgraha risulteranno molto più efficaci, nei confronti dell'invasore, che non le tecniche della violenza. Ora metodi siffatti, se non escludono che molti dei resistenti non violenti possano essere uccisi (come del resto accade in guerra), implicano però ch'essi rimangano immuni dalla colpa di aver ucciso altri uomini, e che la pace cui infine si giungerà avrà maggiori possibilità di essere una pace genuina e stabile rispetto a una pace ottenuta dopo il ricorso alla violenza.

Spesso i pacifisti richiamano l'attenzione su taluni esempi di resistenza non violenta molto efficace. Per esempio, durante i primi due anni della seconda guerra mondiale i Norvegesi impedirono all'occupante tedesco, mediante la non cooperazione, di controllare le scuole pubbliche o d'imporre la propria volontà nel settore dell'istruzione. E i Danesi, con un' azione accuratamente programmata, aiutarono l'intera popolazione ebraica a fuggire persino sotto gli occhi delle forze tedesche di occupazione. Nel XIX secolo metodi di non cooperazione non violenta svolsero un ruolo importante nell'assicurare l'autonomia dell'Ungheria nell'ambito della duplice monarchia. Moltissimi altri esempi potrebbero essere citati, compresi naturalmente quelli legati all'azione di Gandhi.

Nessun pacifista vuole sostenere che esista una garanzia di ‛successo' nell'uso dei metodi pacifisti in una qualsiasi contingenza storica data. E neanche vuol asserire che tutte le sofferenze umane possono essere evitate. Egli afferma però che sotto il profilo politico vi sono maggiori probabilità di successo se si ricorre a metodi pacifisti anziché alla violenza: se il criterio del successo è dato da un mondo in cui regnino una maggior pace, un rispetto più autentico per la personalità umana e una più alta considerazione per la vita (v. Sibley, 1963; v. Sharp, 1973). Di nuovo, egli insisterà sull'intimo rapporto tra fini e mezzi e sulla rilevanza della distinzione tra azioni violente e azioni non violente.

Il pacifista appoggerà ogni sincero sforzo per la creazione di istituzioni che rendano meno probabile la guerra, ma continuerà a proclamare che le guerre cesseranno solo quando milioni di uomini e di donne si rifiuteranno puramente e semplicemente di prestare servizio militare e di combattere.

7. I punti di forza e di debolezza del pacifismo

Che valutazione daremo della tesi pacifista? Quali sono le ambiguità e le difficoltà della sua formulazione, e in quale misura dovremo considerarla valida?

a) Critiche

Vi è a volte ambiguità circa ciò che i pacifisti intendono con ‛violenza'. Con questo termine si deve intendere l'uso di ogni tipo di forza fisica in qualsiasi circostanza, oppure la forza fisica è legittima in talune occasioni? Il castigo sbrigativamente inflitto al bambino da una madre amorevole dev'essere equiparato al bombardamento di una città? Sebbene taluni pacifisti siano perfettamente consapevoli che da un punto di vista etico le due azioni non possono essere collocate nella medesima categoria, altri sono a questo proposito molto più vaghi.

Analogamente, taluni non sono ben sicuri se il termine violenza possa venir usato per designare azioni che, pur non attinenti alla sfera fisica, sono capaci di ferire la personalità umana in modo altrettanto nocivo della violenza fisica. È certo che Gandhi fu perentorio su questo punto specifico (anche se non si espresse nettamente in merito alla questione se un certo grado di forza fisica potesse essere giustificato in talune circostanze), in quanto riconosceva esplicitamente l'esistenza di forme di violenza spirituale o intellettuale. Per lui, ogni tentativo di mascherare la ‛verità' era un atto di violenza; ed è significativo che il termine satyāgraha venga a volte tradotto ‛forza della verità'. E anche gruppi come la Society of friends (quaccheri) usano tradizionalmente l'espressione ‟dí la verità al potere". Cionondimeno, taluni pacifisti non sono così chiari come dovrebbero nel discutere il problema della violenza non fisica.

Dal punto di vista tradizionale della ‛guerra giusta', il ripudio pacifista di ogni guerra - qualunque sia l'obiettivo addotto - è troppo assoluto. Escludere incondizionatamente certe modalità d'intervento senza prendere in considerazione le circostanze vuol dire - incalzano infatti i critici - semplificare eccessivamente problemi etici e politici assai complessi.

Anche in talune prospettive teologiche l'accento pacifista sull'amore è sospetto. Certo, Dio è un Dio d'amore, ma è anche un Dio di giustizia, e in determinate circostanze, argomentano questi teologi, la relatività delle situazioni storiche consente di ottenere - nel migliore dei casi - solo una giustizia approssimativa, e solo se si faccia ricorso alla violenza. È la tesi sostenuta, per esempio, da R. Niebuhr.

Taluni critici considerano il pacifismo un'etica della sottomissione, che escluderebbe la lotta contro la tirannia o l'opposizione a un'invasione ingiusta. Il pacifismo - si afferma - incoraggia un atteggiamento passivo di fronte al male, negando agli esseri umani il diritto naturale alla difesa individuale e collettiva.

Sebbene il marxismo nel suo complesso respinga gli atti di terrorismo individuale, è al tempo stesso critico verso il pacifismo (v. Lewis, 1940). Esso traccia una distinzione tra la violenza usata a scopi rivoluzionari e la violenza impiegata a sostegno di ordinamenti ‛reazionari' o non socialisti. Distingue anche tra le guerre cosiddette di liberazione e le guerre capitalistiche o ‛imperialistiche'.

Taluni critici, pur difendendo il riconoscimento del diritto dei pacifisti a rifiutare il servizio militare (molti critici hanno difeso il diritto morale dell'obiezione di coscienza, sollecitandone la regolamentazione giuridica), nel contempo sono però inclini a considerare ingenua la visione del mondo dei pacifisti. Una critica frequente è che il pacifismo non comprende la politica e la natura umana. Il pacifismo è ‛utopistico' o ‛non realistico' nelle sue pretese verso gli esseri umani. Taluni critici, per esempio, hanno obiettato che la costituzione biologica e psicologica degli esseri umani è tale che, nella grande maggioranza dei casi, essi non possono trattenersi dal reagire alla violenza con la violenza.

b) Repliche pacifiste

Come replicheranno i pacifisti più riflessivi a critiche di questo tipo?

All'accusa di mancare spesso di chiarezza nel definire la violenza, risponderanno ammettendo in larga misura la fondatezza dell'addebito. In effetti, i pacifisti non sono unanimi sul significato di ‛violenza'. Taluni, per esempio, applicano il termine solo all'uso esplicito di forza fisica contro altri esseri umani, escludendo la violenza ‛occulta' insita nei sistemi sociali. D'altro canto, un numero sempre crescente di pacifisti considera gli ordinamenti sociali fondati sullo sfruttamento come esempi primari di violenza, anche quando sia raro l'uso aperto della forza fisica. Secondo questi pacifisti bisogna in qualche modo elaborare strategie di azione non violenta per combattere tale violenza ‛istituzionale'.

Ben consapevoli che la coercizione è presente ovunque nella vita umana, molti pacifisti si sforzano però di distinguere tra coercizione violenta e coercizione non violenta. Sebbene il confine sia spesso difficile da tracciare, taluni atti sono così chiaramente violenti - la guerra, per esempio, o l'esecuzione capitale - che non dovrebbe esser difficile identificarli. Sotto il profilo etico esiste una considerevole differenza tra il bombardamento indiscriminato di una città e, per esempio, l'uso della forza per impedire a una persona mentalmente disturbata di gettarsi in un fiume.

I pacifisti che riconoscono la possibile legittimità di talune forme di coercizione sono propensi - nella loro definizione di violenza - a porre l'accento sull'idea di un danno irrimediabile o grave. Il danno incidentale o accidentale deve essere distinto dal danno deliberatamente inferto o inevitabile, o dal danno irrimediabile quale si realizza nella guerra, nella tortura, nell'esecuzione capitale, o in una distribuzione dei redditi clamorosamente ingiusta. Talvolta perfino l'amore esige un certo grado di coercizione, come accade nelle limitazioni imposte alle azioni di un bimbo durante la crescita.

Il criterio decisivo è dato dalla possibilità di mantenere la coercizione in posizione subordinata rispetto all'obiettivo globale del benessere della persona che della coercizione è oggetto. Le forme pesanti di coercizione escludono la possibilità di esercitare un controllo che vada a beneficio del controllato. Taluni pacifisti additeranno l'evoluzione del diritto penale come un esempio atto a illustrare la natura del loro obiettivo: idealmente, l'obiettivo del diritto penale consiste infatti nell'evitare esiti letali nell'uso della forza da parte della polizia e nell'imporre limiti all'uso della forza in generale. Molti criminologi e studiosi dei sistemi carcerari saranno portati a escludere ogni metodo di trattamento che non contribuisca, oltre che al benessere della società, anche a quello del cosiddetto criminale.

Per quanto attiene alla forma di violenza rappresentata dalla guerra, il pacifista la considererà uno degli esempi più palesi delle azioni che egli ripudia. La guerra tende a non fare distinzioni nell'impiego della forza fisica, uccide inevitabilmente esseri umani, non può essere controllata e finalizzata a scopi positivi ed è inevitabilmente accompagnata da altri atti che chiaramente violano la dignità della personalità umana, come il saccheggio, la menzogna deliberata (una forma di violenza psicologica o spirituale), la prostituzione, ecc.

Le guerre devono essere rifiutate, sostengono molti pacifisti, anche dal punto di vista della dottrina tradizionale della guerra giusta. In particolare, la guerra moderna non può soddisfare i requisiti contemplati dalla teoria della guerra giusta, e cioè che la guerra venga dichiarata da una pubblica autorità per un fine legittimo, che vi sia la fondata prospettiva di una situazione postbellica migliore di quella anteguerra, che siano adoperati mezzi capaci di distinguere tra combattenti e non combattenti, e che i mezzi siano proporzionati ai supposti giusti fini prospettati.

Circa le vedute teologiche sul pacifismo, il pacifista respingerà l'idea che il Dio d'amore sia in contrasto con il Dio di giustizia. La guerra non può conciliarsi con le esigenze di giustizia più di quanto possa conciliarsi con quelle dell'amore. Se tutte le guerre hanno il carattere loro attribuito dalla dottrina pacifista, è difficile concepire come esse possano conformarsi alle esigenze dell'amore o a quelle della giustizia.

Il pacifismo non è un'etica della sottomissione; è piuttosto un'etica della lotta contro le forze del male, con metodi però che non concedono nulla al male che si pretende di contrastare. Quei pacifisti che mettono l'accento sulla trasformazione della Società sostengono che un'azione volta a promuovere la giustizia sia all'interno degli Stati che sul piano internazionale contribuirà a eliminare la proclamata necessità della violenza e della guerra. Il pacifismo comporta un' azione che elimini l'occasione di guerre e di ogni altra sorta di violenza; si sforza inoltre di ridistribuire la ricchezza e il reddito, e di riconoscere i diritti di tutti gli esseri umani a un'esistenza soddisfacente. Se nonostante tutti questi sforzi vi saranno tiranni e invasori, i pacifisti politici non propugneranno la passività ma piuttosto la non cooperazione col tiranno o con l'invasore. La non cooperazione nelle sue varie forme - esemplificate in taluni aspetti del satyāgraha - contiene in sé un'efficacia potenziale di gran lunga superiore a quella della guerra o della violenza di massa. Il rifiuto disciplinato di obbedire può sradicare qualsiasi tirannia, sia interna che straniera. Se si ricorre alla violenza nella lotta contro la tirannia, non si fa altro che adoperare i mezzi che il tiranno predilige, correndo così gravi rischi di totale fallimento particolarmente in un'epoca come la nostra, caratterizzata dalle armi della violenza di massa che i rivoluzionari non si possono permettere. La resistenza non violenta è di gran lunga l'arma più efficace dei poveri e dei più deboli.

Circa l'assunto marxista, secondo il quale esiste una distinzione tra violenza ‛rivoluzionaria' e ‛non rivoluzionaria', il pacifista fa spesso riferimento, per confutarlo, all'effettiva esperienza storica. La violenza ha sempre la tendenza a corrompere i conclamati obiettivi rivoluzionari di ‛libertà, eguaglianza e fraternità', giacché esige un metodo che, implicando una rigida autorità gerarchica, mancanza di rispetto della vita umana, disprezzo del proprio avversario e noncuranza della verità, costituisce di per sé un'offesa a quegli obiettivi. Queste tendenze sono illustrate in tutte le cosiddette rivoluzioni moderne: quella francese, la russa, la spagnola e la cinese. Sebbene le cause connesse con la corruzione degli obiettivi rivoluzionari siano complesse, i pacifisti insistono sul fatto che l'uso della violenza da parte dei rivoluzionari ha una responsabilità centrale. Come ha detto un pacifista, ‟maggiore è la violenza, meno effettiva è la rivoluzione". Il risultato di ogni violenza politica è simile, sia essa etichettata come ‛rivoluzionaria' o come ‛reazionaria'. La ‛violenza rivoluzionaria' diretta da un Napoleone o da un Trotzki o da un Mao Tse-tung contribuisce al dispotismo e alla schiavitù altrettanto sicuramente della violenza ‛reazionaria' esercitata da un Luigi XVI o da un Nicola II o da un Chiang Kai-shek.

Il pacifista, infine, sosterrà che la sua visione del mondo è lungi dall'essere ingenua. È invece il non pacifista, egli obietterà, che a onta di tutte le esperienze umane si aspetta i miracoli. Il non pacifista sembra credere che il disprezzo per la vita e l'uccisione di esseri umani possano in qualche modo contribuire a determinare una situazione in cui gli esseri umani saranno rispettati e le loro vite rese più sicure. Nè la guerra moderna nè le moderne rivoluzioni violente legittimano queste speranze ‛utopistiche' del non pacifista. Il pacifismo - affermano i suoi difensori - è realistico quando affronta i problemi della guerra e della violenza nella consapevolezza della loro vanità ai fini del raggiungimento di traguardi quali la democrazia e la libertà.

Nè d'altra parte il pacifista si dichiarerà d'accordo con quei critici secondo i quali sarebbe impossibile per gli esseri umani rinunciare alla rappresaglia. L'esperienza di Gandhi in India dimostra che si può insegnare a milioni di esseri umani a non reagire alla violenza con la violenza: in effetti, i Patan dell'India nord occidentale, sebbene cresciuti in una lunga tradizione militare, divennero fra i più validi seguaci della resistenza non violenta di Gandhi. E durante la lotta per i diritti civili negli Stati Uniti migliaia di negri e di bianchi furono addestrati con successo a non rispondere con la violenza ad atti violenti. Naturalmente, vi è senza dubbio una soglia, superata la quale pressoché chiunque può essere indotto a ricorrere alla violenza; ma l'addestramento e la disciplina possono portare tale soglia a un livello così alto che a tutti i fini pratici uomini e donne non ricorreranno alla violenza neppure se minacciati di violenza.

L'etica del pacifismo, concludono i suoi fautori, non è soltanto giusta ma anche pratica e avveduta; e riflette non una sorta d'innocenza ignara del mondo ma piuttosto una saggezza terrena fondata su esperienze spesso amare. Analogamente, la politica del pacifismo, diversamente da quella di gran parte del conservatorismo, liberalismo e radicalismo, affronta in modo franco e non evasivo uno dei problemi chiave dell'universo politico: l'organico rapporto tra i mezzi e i fini della lotta politica.

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