Paesaggio

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Paesaggio

Lucio Gambi
Paola Gregory

(XXV, p. 901)

Parte introduttiva

di Lucio Gambi

Occorre in primo luogo trovare un minimo comune denominatore fra i vari significati che le discipline, che più sovente usano questo termine, conferiscono alla nozione, anzi all'idea di paesaggio. Si può dire che con tale termine si intende l'insieme della realtà visibile che riveste o compone uno spazio più o meno grande intorno a noi: cioè una realtà materiale che si sostanzia in forme, in fattezze visibili, rivestite di colori, e non di rado si esprime anche in suoni e odori. Ma questa prima definizione è solo approssimativa e non soddisfacente: in essa, in ogni modo, sono da sottolineare sia il riferimento a una realtà oggettiva, o così ritenuta, che i sensi nelle loro diverse combinazioni sono i primi a registrare, sia il riferimento a un insieme, a una globalità - dunque non a singoli oggetti, ma a un'intera serie di oggetti che, interconnettendosi fra loro o per generazione o per situazione o per ruoli, formano un universo locale, un quadro unico. Più in là di questo dato il minimo comune denominatore non può giungere, perché in effetti i significati conferiti alla nozione di p. dalle discipline che si dedicano al suo studio rimangono - nonostante gli sforzi venuti da più parti per dare unità alla loro natura polisemica - diversi, lontani e inconciliabili.

Il primo, più vecchio significato della parola paesaggio si impregna di un valore estetico che emerge in modo chiaro in epoca rinascimentale fin dal 15° e 16° secolo (si pensi, per es., al favoloso Viaggio dei Magi di Benozzo Gozzoli, o agli sfondi delle opere del Pollaiolo con la Val d'Arno e a quelli delle crocefissioni di Antonello da Messina con lo stretto di Messina e i terrazzi di Aspromonte). P. è espressione del sentimento di piacere (o di dispiacere) che suscita la natura; è ciò che inquadra con la sua atmosfera un evento: la natura di cui si godono le forme e i colori, per le loro composizioni equilibrate e armoniche, o per la singolarità delle loro apparizioni imponenti. Ma, negli stessi secoli, p. è anche ciò che si rappresenta della natura riplasmata - in modo ordinato e non sconvolgente - dalla mano dell'uomo (si pensi ai campi esili e lunghi, a densa schiera, che affiancano le geometriche mura urbane nella Deposizione dalla Croce del Beato Angelico). In ogni caso è il valore puramente estetico (che qualche volta può associarsi a intenzioni morali) a orientare questa concettualizzazione del termine p.; e perciò estetica è la via a cui si rivolgono elettivamente le sue riproduzioni mediante il disegno, o il dipinto, o anche il racconto. Il soggetto di tali riproduzioni può essere realistico o fantastico; ma, seguendo un'interpretazione di epoca rinascimentale, si può dire, un po' schematicamente, che p. è un ambito territoriale considerato dal punto di vista di chi guarda gli oggetti come immagini o espressioni d'arte. L'opera italiana più suggestiva e sistematica in quest'ordine di idee è quella di R. Assunto (1973), che inizia dicendo (pp. 5-6): "alla domanda che cosa è il paesaggio?, una prima risposta non priva di persuasività è quella che riconduce il concetto di paesaggio al concetto di spazio [...] in quanto il paesaggio, ogni paesaggio - reale o immaginario, spontaneo o artificiale - è sempre uno spazio. È uno spazio (o la rappresentazione di uno spazio) e non occupa uno spazio [...]. Quando diciamo che il paesaggio è spazio, intendiamo dire che il paesaggio è lo spazio che si costituisce a oggetto di esperienza estetica, a soggetto di giudizio estetico". È chiaro da queste parole che il p. così inteso - sia reale che immaginario - si risolve in se stesso, nell'atto effigiato o descritto: cioè non ha altro valore, non si pone altro fine che l'appagamento di un'emozione, il risveglio di un sentimento; o anche, in altri casi, si pone lo scopo di ricostruire una memoria visibile - così è per la conquista di spazi coltivabili, da stagni che erano, nei dipinti e nei disegni fiamminghi - o quello di simboleggiare un grande fenomeno storico (così è per la rappresentazione della città, da A. Lorenzetti a U. Boccioni). Ma il canone estetico che regola la valutazione dei soggetti figurativi o descrittivi evocanti un p. logicamente può estendersi pure (con l'uso delle antitetiche categorie di bello e di brutto) alla considerazione dei quadri paesistici che vediamo sfilare giornalmente sotto i nostri occhi.

A questa prima interpretazione del termine paesaggio, che oggi ha i più alti indici di ascolto e vede i suoi più correnti campi di applicazione presso gli storici dell'arte, i critici letterari, gli urbanisti, gli antropologi, i giornalisti, i registi cinematografici, gli amministratori pubblici, si è venuta ad affiancare dagli inizi del 19° secolo un'altra interpretazione fortemente diversa, che ha avuto il suo vivaio presso le scienze naturali e quindi la sua divulgazione e radicazione, dall'epoca positivistica in poi, presso geomorfologi e geologi, fitogeografi, ecologi. Alla concezione di p. fondata sull'elitarismo della selezione estetica, già un autore di matrice romantica come A. von Humboldt - che pure accoglieva con intensa convinzione gli schemi formali delle poetiche paesistiche - ma in special modo i positivisti contrappongono una visione di p. globale, cioè di p. che va considerato nei suoi processi di formazione e soprattutto nell'unità di spazi molto più larghi di quelli che chiudono di volta in volta il nostro abituale orizzonte. Nasce così la nozione di p. naturale. Nei suoi ambiti, combinando i dati e le situazioni delle strutture morfologiche, del clima e della vegetazione, vengono individuati i complessi paesistici che definiscono per es. i lunghi fasci intercontinentali delle catene montane a pieghe (diversificate per la vegetazione secondo le latitudini), i grandi tavolati continentali, le foreste equatoriali, le savane subtropicali, i deserti tropicali, le steppe boreali, le foreste boreali stabilite su vasti penepiani, i deserti glaciali. Il quadro di queste articolazioni paesistiche forma quindi un ventaglio di grandi ecosistemi, la cui identificazione ha dato origine a ordini interpretativi diversi, fra i quali quello di R. Biasutti (1947) è oggi riconosciuto come uno dei più solidi. Ma il p. dei naturalisti, dopo due secoli di colonizzazione e industrializzazione, si mostra oggi in molte regioni alterato dagli interventi umani e spogliato del manto vegetale. In un gran numero di paesi le sue forme originali sono oggi solo evasivamente decifrabili o mascherate o contraffatte dalle sovrastrutture dell'occupazione umana. È però indiscutibile che quelle grandi forme paesistiche - così come sono state riconosciute dagli ecologi - restano basilari o in ogni caso utili elementi di riferimento per gli storici, al fine di capire le grandi linee di un panorama universale delle civiltà negli ultimi secoli.

C'è solo, in questa direzione tematica, un punto di equivoco non facile da smontare, che pare imputabile non agli storici quanto agli ecologi: ed è là dove questi ultimi, spalleggiati non di rado da etnologi e antropologi, si sforzano - lasciando riaffiorare echi deterministici - di fare corrispondere quei grandi ecosistemi con le grandi aree culturali, la storia del popolamento, i ritmi collettivi di vita, le caratteristiche somatiche. E forse è per reazione a operazioni di questo genere che negli ultimi cinquant'anni - ma con una gestazione che si compie fra le due guerre e ha come culla la Francia (M. Bloch, R. Dion) - una terza interpretazione del termine p. è maturata presso i cultori di discipline storiche. Per costoro il p. è la materializzazione di quella fiumana di processi storici che si risolvono nell'organizzazione territoriale: cioè il prodotto, in termini di materica edificazione, della storia. Quando l'uomo supera la fase della raccolta, quando inizia a raschiare i suoli per seppellirvi semi di piante commestibili, quando ha bisogno di deviare un corso d'acqua per bagnare i suoi campi o alimentare una pescaia, quando crea una base dove insediarsi sia pure in modo instabile, quando con i suoi continui passaggi lungo una medesima direzione forma sulla terra una pista, l'uomo pone i primi segni di quello che diventerà il suo p.: più propriamente di quella lunghissima sedimentazione di progetti, di fatiche, di costruzioni che ha impresso le sue impronte su ogni angolo del nostro pianeta, provocando spesso calamitosi e irrimediabili sovvertimenti.

Visto in questi termini il p. diventa il frutto e quindi la testimonianza dell'operosità umana che, in qualunque modo orientata, rispecchia e riassume le interazioni di provocazione e di risposta fra ambiente e società. Perciò gli elementi naturali del p. - quelli che per gli ecologi sono l'anima del termine - ricevono un significato solo in relazione a determinate contestualità storiche e, in particolare, culturali. In conseguenza, dalla valutazione del p., per gli storici, scompare qualunque considerazione estetica o anche morale: per lo storico non c'è p. bello o brutto, ma c'è solo un p. più o meno equilibrato, più o meno fisicamente sano, più o meno socialmente efficiente. In una parola: che soddisfa più o meno i requisiti della razionalità. E così il p. s'identifica con la tela, a volte fittissima e spessa, a volte più rada, che si adagia come un manto sul pianeta; che è frutto del lavoro di centinaia di secoli (il "deposito di fatiche" di cui scriveva C. Cattaneo), e che va giudicata per gli oggettivi benefici o perdite che reca alla società, e per la natura e la misura dei suoi rapporti con gli elementi del quadro ambientale.

Il p. si configura quindi come uno spazio costruito, la cui edificazione va guardata ed esaminata soprattutto attraverso il prisma dei patrimoni culturali, delle strutture sociali, degli eventi economici e demografici, delle istituzioni politiche. Un'edificazione che non ha tregua perché si rifà in continuazione, lasciando ovunque insediamenti di ogni genere, campi e terrazzamenti, opifici e apparecchiature, vie terrestri e vie d'acqua, un gran numero di toponimi e un intrico di confini pubblici e privati: un'eredità di oggetti e di forme che non si erodono facilmente e che si sovrappongono, complicando i disegni. Di modo che il lavoro dello storico, quando studia il p., ha qualche somiglianza metodologica con quello del geologo che esegue il profilo di una sezione verticale dell'involucro terrestre. Si può dire quindi che c'è una disparità di fondo fra il p. considerato come realtà estetica e quello considerato come realtà storica, perché quest'ultima esige una analisi genetica e funzionale di cui l'altra può fare a meno. Per questo motivo la presa di coscienza del fatto paesistico non può essere per lo storico un'operazione fine a se stessa: per lo storico lo studio del p. è un'operazione strumentale che lo porta a capire come, quando e per qual genere di processi si è formata la realtà materiale entro cui abitiamo e lavoriamo (Sereni 1961). Di questa realtà il p. riflette con tale ampiezza i modi di organizzazione che, attraverso la sua interpretazione, lo storico è in grado di fornire documenti e moduli informativi a chi - politici e pianificatori in particolare - sul p. opera giornalmente per aggiornarlo e sperabilmente razionalizzarlo.

Si è giunti così all'identificazione di tre modi diversi di intendere l'idea di p.: tre modi che non si possono accordare tra loro, e tra cui non sembra che, almeno per ora, esistano vie di mediazione. In verità, il bisogno di mediare c'è stato in anni recenti e di prove ed esperimenti in questa direzione se ne può citare più d'uno. Per esempio quello di Assunto di legare il p. come entità estetica uscita dal grembo umano al polimorfismo estetico della natura; o quello di Biasutti di fare combinare i grandi p. naturali con quelli dei grandi organismi culturali; o quello di Sereni di usare il paesaggio delle figurazioni artistiche per documentare l'evoluzione storica della paesistica rurale. Prove sostenute sicuramente con buone motivazioni, cioè con l'intenzione e la prospettiva di dare unità al concetto di p., ma da cui non sono venute soluzioni convincenti e soprattutto idee unificanti.

P. è un termine polisemico. Tuttavia, l'interpretazione che gli conferiscono i cultori di discipline storiche è, nella comparazione con le altre, la più complessa e fluida e forse la meglio disposta a investire di sé - e in certo modo a girare loro intorno - e coordinare le altre due, quella estetica e quella naturalistica.

bibliografia

R. Biasutti, Il paesaggio terrestre, Torino 1947, 1962².

E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961.

A. Sestini, Il paesaggio, Milano 1963.

R. Assunto, Il paesaggio e l'estetica, 2 voll., Napoli 1973.

E. Turri, Antropologia del paesaggio, Milano 1974.

G. Romano, Studi sul paesaggio, Torino 1978, 1991².

C. Blanc-Pamard, J.P. Raison, Paesaggio, in Enciclopedia Einaudi, 10° vol., diretto da R. Romano, Torino 1980, ad vocem.

S. Pignatti, Ecologia del paesaggio, Torino 1994.

E. Turri, Il paesaggio come teatro, Venezia 1998.

Architettura

di Paola Gregory

Nella riscoperta del p. come termine di dibattito e di confronto, di analisi e di progetto, si può individuare un ambito critico e operativo della riflessione architettonica degli ultimi vent'anni: il luogo, innanzitutto, mentale in cui sembrano sovrapporsi i diversi e frammentari temi della contemporaneità che la 'cornice' inclusiva del p. comprende ed esalta. Conviene infatti ricordare come il concetto di p., che la lunga stratificazione di significati ci consegna nel duplice ruolo di 'immagine' e 'realtà' in una continua oscillazione fra estetica e scienza, si distingua sia dalla nozione di territorio, in quanto delimitazione spaziale con valore preminentemente estensivo-quantitativo piuttosto che intensivo-qualitativo, sia da quella di ambiente nel doppio significato biologico (ecologico) e storico-culturale, inteso come "territorio vivente per l'uomo e vissuto dall'uomo" (Assunto 1980, p. 50). Il p. è un valore distinto: "prima ancora di diventare vera e propria rappresentazione in senso figurativo è - come sottolinea C. De Seta (1982, p. xxix) - luogo della mente, modo di pensare il reale", intendendo per reale la configurazione degli ambienti naturali e artificiali che sono parte dell'universo. Più che luogo fisico o ambito territoriale o geografico, i p. sono perciò l'espressione di un modo di 'pensare lo spazio' come insieme di relazioni, in cui si fondono e si confondono le componenti storiche e geografiche, il sensibile e il fattuale, l'immaginario e il visibile e tutti gli aspetti, anche labili e fluttuanti, che designano un luogo nella memoria individuale e collettiva. Nell'interpretare le relazioni tra p. e architettura il termine paesaggio costituisce, perciò, non tanto un supporto su cui intervenire, quanto un orizzonte tematico e un terreno di confronto ideale del progetto contemporaneo.

Da un lato, il riferimento al carattere ambiguo e inclusivo del concetto di p. evidenzia la difficoltà (se non la crisi) della cultura architettonica attuale a risolvere le aporie della città contemporanea, indicando un atteggiamento più attento a superare le rigide polarità del moderno per cogliere le reciproche trasversalità. Un invito a ripensare l'architettura e l'interpretazione del progetto entro orizzonti più aperti, in quadri di relazione più vasti, privilegiando l'interferenza e la contaminazione dei molteplici saperi e dei mutevoli orizzonti culturali, in una visione eteronoma ed eterodossa che trae spunti e ispirazione dall'altro-da-sé. In questo senso la riflessione sul p. e la costruzione dello spazio come p. individuano il luogo privilegiato della realizzazione di nuovi scenari urbani, in cui è possibile ridefinire, secondo ottiche dinamiche e inclusive, le forme del progetto e delle sue intersezioni urbane e territoriali. Emergono nuove modalità di 'inventare' il p., nel tentativo di riconoscere e tradurre in configurazione spaziale quell'afasia della metropoli contemporanea nella quale risiede una delle problematiche centrali della progettazione attuale.

Dall'altro, il concetto di p., recuperando al proprio interno non solo i caratteri configurativi riferibili a un organismo iconico complesso, ma anche le componenti instabili e gli aspetti latenti delle cose nell'invisibile che per un istante si mostra, riporta l'architettura 'al di qua dell'orizzonte' "al termine di uno sguardo o al termine di un'esplorazione sensoriale" (Merleau-Ponty 1945; trad. it. p. 418). In questo senso il p., come luogo della "rappresentazione del non rappresentabile" (Cauquelin 1995, p. 382), suggerisce, attraverso la pregnanza dell'evento architettonico, la possibilità di dar forma al sussistente, assumendo lo spazio, ovvero l'idea di spazio come p., quale luogo empirico e frutto di esperienza vissuta, nel recupero di una corporeità e temporalità di cui l'investe la pregnanza del soggetto.

Piuttosto che essere concepito come sfondo, spazio geografico o 'materiale operabile' dell'intervento architettonico, il p. - e il riferimento dell'architettura al p. - viene investito quindi di molteplici connotazioni e valori: è qualcosa che travalica l'ampliamento di scala dell'opera architettonica, ovvero la dilatazione del "territorio dell'architettura" (Gregotti 1966); è qualcosa che va oltre la semplice idea di contesto; è qualcosa di diverso dalla sensibilità ambientalista e dall'attenzione ecologista. La sua grande attualità è semmai nella capacità di porsi come 'epifania' dell'estetica contemporanea, rappresentazione visiva e simbolica dell'attuale condizione urbana e - parallelamente - possibile modalità formativa del progetto, riconoscibile nelle singole declinazioni tematiche e poetiche.

Per questo, pur nella consapevolezza delle diverse problematiche che il binomio paesaggio-architettura potrebbe riflettere e significare - per es. alle diverse scale di progettazione verso una nuova concezione dell'urbanistica stessa e alle diverse pratiche d'intervento territoriale verso una politica di maggiore sostenibilità ambientale -, è preferibile articolarne il discorso attraverso due tematiche principali nelle quali possono riassumersi alcune delle sperimentazioni teoriche e operative più innovative e stimolanti della fine del 20° secolo: da un lato l'interesse per la scena urbana nella progettazione dello spazio aperto, secondo una rinnovata sperimentazione dell'architettura del p., considerata non solo come disciplina autonoma, nella tradizione della landscape architecture, ma anche come strategia del progetto contemporaneo flessibile e adattabile alle circostanze, ai temi, alle vocazioni del territorio (geografico) e dell'ambiente (ecologico e antropologico); dall'altro, la ricerca di un'architettura come metafora del p., che sia in grado di esprimere e condensare, attraverso 'frammenti' architettonici, il carattere visivo e mentale di esso, trasfigurato con la pienezza dell'invenzione poetica e la forza evocativa del linguaggio all'interno del processo progettuale.

L'architettura del paesaggio nella costruzione della scena urbana

Uno dei caratteri peculiari e più frequentemente ricorrenti dell'intervento architettonico contemporaneo risiede senza dubbio nell'interesse per la progettazione dello spazio pubblico aperto secondo atteggiamenti marcatamente sperimentali e innovativi.

L'architettura del p., come disciplina che si occupa dello studio, della progettazione e della gestione di tutti gli spazi 'esterni', dalla piccola dimensione del giardino a quella più estesa della pianificazione del territorio a livello regionale, ha registrato negli ultimi due decenni un significativo ampliamento delle problematiche e delle occasioni d'intervento per fornire risposte adeguate ai crescenti problemi di carattere ecologico-ambientale (si ricordi il caso esemplare dell'IBA Emscher Park 1989-99, con la riqualificazione ecologica del fiume e la realizzazione di 300 km² di parchi e spazi verdi all'interno della parte più devastata del bacino industriale della Ruhr, in Germania), agli effetti di riconversione delle aree dismesse (fronti marittimi, nuclei industriali, stazioni ferroviarie, mattatoi, mercati generali ecc.) e ai fenomeni di espansione del territorio urbanizzato, con la formazione dei contesti eterogenei e discontinui delle periferie e delle città diffuse.

In particolare la nuova strategia dell'attenzione al disegno degli spazi aperti in ambito urbano-metropolitano riflette l'esigenza di elaborare nuovi strumenti descrittivi e progettuali della realtà esistente, in grado di restituire qualità formale, dignità sociale e riferimento culturale ai contesti degradati e ai territori dispersi della post-modernità. Nei vuoti interclusi del tessuto consolidato, così come nelle aree rarefatte della città contemporanea, sempre più lo spazio aperto domina, con i propri caratteri, il formarsi delle immagini e dei giudizi complessivi nei confronti dello spazio abitabile. Di qui la necessità d'individuare nuovi ambiti progettuali nei quali perde progressivamente peso l'architettura come oggetto e acquista valore ogni elemento potenzialmente significativo della scena urbana e territoriale. Di qui il problema della definizione formale dello spazio 'vuoto', soprattutto per quanto attiene quello periferico della città diffusa, o più propriamente quei luoghi della perifericità in cui è manifesto, come sottolinea F. Purini, l'esito di uno scollamento tra evidenza figurale, identità simbolica e organizzazione dello spazio.

Nel vasto tema del p. si riflette, infatti, l'acquisizione di un'urbanizzazione diffusa, indeterminata e priva di confini, in cui alla distinzione centro-periferia, esterno-interno, artificiale-naturale, subentra uno spazio intermedio dove si alternano, senza soluzioni di continuità, luoghi costruiti e residui di natura, forme di naturalizzazione dello spazio abitato e forme di artificializzazione della natura. In esso si rappresenta lo spazio della permeabilità e dell'immaterialità delle comunicazioni, dove i temi della distanza e delle pause inespresse fra gli oggetti assumono i connotati di uno spazio nuovo, sostituendo alla prossimità delle città storiche il progetto del vuoto come lontananza, immagine e costruzione di un'assenza. In esso si sviluppano le tematiche ecologico-ambientali che, primariamente finalizzate alla salvaguardia degli spazi naturali, acquistano significato all'interno della progettazione urbana come tema di landscape into cityscape, ovvero come problema di progettazione della città attraverso elementi naturali. In esso confluisce infine la ripresa della ricerca compositiva sui caratteri del vuoto e del verde urbano, quale luogo a elevata densità di valori e terreno di sperimentazione e confronto di nuove forme espressive.

Inserite in questa nuova realtà - e in questa visione estetica della realtà - le recenti esperienze di progettazione dello spazio pubblico aperto rispecchiano l'esigenza di rifondare la tradizione e la nozione stessa di architettura del p., innestando un notevole e fervido apporto concettuale e poetico su un coacervo di conoscenze interdisciplinari che ne hanno, in qualche modo, preparato l'evoluzione: dalla pratica del gardening - nell'accezione data da H. Repton (1752-1818) come arte che associa i valori estetici a quelli del "giardiniere pratico e dell'arboricultore" - a quella tecnico-attuativa dell'agronomia; dall'approccio urbanistico e territoriale a quello della biologia vegetale, fino ai significativi apporti dell'arte, in particolare dell'Earth Art, della Land Art e della Minimal Art.

Si potrebbe anzi affermare che, se si escludono alcune straordinarie esperienze individuali quali quelle dell'architetto italiano C. Scarpa, del paesaggista brasiliano R. Burle Marx, dell'architetto messicano L. Barragán, dello scultore americano-giapponese I. Noguchi, e per altri versi dell'architettura dei paesi nordici attraverso autori quali C.Th. Sørensen, G. Asplund, G.N. Brandt, il ritorno alla progettazione del p., nelle sue implicazioni estetiche e mentali e non solo tecnico-formali, è debitore per molti aspetti allo sconfinamento delle arti visive verso il campo disciplinare della costruzione o della 'messa in scena' di un luogo come p., ossia, riprendendo l'espressione di R. Assunto (1973, 1° vol., pp. 5-6), come "spazio che si costituisce a oggetto di esperienza estetica e a soggetto di giudizio estetico".

Se la cultura del giardino e del verde deriva da paesaggisti come D. Kiley, R. Page, G. Jellicoe e L. Halprin, notevole ricchezza nelle scelte morfologiche e botaniche deriva anche da artisti come Christo, W. De Maria, M. Heizer, R. Morris, A. Pomodoro, R. Serra, R. Smithson. L'architettura del p. assume nuove dimensioni concettuali: accanto all'affermazione di idee-forza e all'icasticità dell'immagine, l'esplorazione di nuovi temi spaziali e temporali di cui l'investe la pregnanza del soggetto, ovvero l'attenzione verso l'intera situazione, verso tutte quelle variabili, cioè, dalla luce all'organizzazione dello spazio alla presenza corporea del pubblico, alle quali l'opera è legata e dalle quali necessariamente dipende.

I significativi spostamenti dell'interesse artistico dal prodotto verso il processo operativo, dall'oggetto allo spazio, dalla contemplazione passiva all'esperienza attiva dei fruitori, costituiscono altrettanti stimoli formativi fondamentali nella costruzione dello spazio aperto contemporaneo, sia nelle esperienze direttamente connesse alla Land Art e alla Minimal Art come ricerca di essenzialità espressiva (si pensi al lavoro di alcuni paesaggisti come il francese M. Desvigne, l'olandese A. Geuze o gli statunitensi G. Hargreaves e P. Walker), sia nelle ricerche di ambito decostruttivista mirate a esaltare l'eterogeneità intrinseca del linguaggio architettonico, il senso di transitorietà, caducità e caos propri dell'era post-moderna, nella consapevolezza di produrre immagini e occasioni spaziali dai significati tutt'altro che univoci, inseriti in una realtà in continuo divenire. In entrambi i casi l'architettura del p. riacquista il valore e il significato specifico di 'arte del luogo', come capacità 'maieutica' di svelare i caratteri inattesi o le qualità di un sito, ovvero di presentare - come spesso nei parchi - territori altri, definiti dalla sovrapposizione e dall'interferenza di molteplici valenze estetiche, funzionali e simboliche nel tentativo costante di prefigurare e restituire, attraverso esperienze eloquenti, "le relazioni multiple che associano le cose". Non si tratta, come suggerisce M. Corajoud, uno dei più noti paesaggisti francesi, di opporre le cose allo spazio, architettura e p., quanto di comprendere che "nel paesaggio l'unità delle parti, la loro forma, ha minor valore del loro espandersi" poiché "il paesaggio è il luogo delle relazioni in cui ciascuna parte non è comprensibile se non in rapporto a un insieme che si integra a sua volta in un insieme più vasto" (Corajoud 1982, pp. 39-40).

La centralità del p. - e dell'architettura del p. - nel progetto contemporaneo è in quest'insieme di correlazioni, tramite le quali s'intende visualizzare e interpretare, con un definitivo ribaltamento figura-sfondo, l'attuale condizione urbana (o post-urbana) in un'esplicita consapevolezza estetica e culturale. Non si tratta, perciò, di ricerche e progetti volti a razionalizzare lo sviluppo della città attraverso il disegno dello spazio vuoto quale 'sfondo' del costruito; né tesi a 'naturalizzare' la città secondo i principi diffusi dalle garden cities di E. Howard fino alle più recenti esperienze delle new towns inglesi e delle villes nouvelles francesi; né tanto meno finalizzati a realizzare enclave o recinti contrapposti alla 'città di pietra'; piuttosto si tratta di considerare il p. come 'materiale messo in opera', istituendo - attraverso il progetto dello spazio aperto - nuove relazioni fra le parti per recuperare ambiti urbani degradati, ordinare la disomogenea trama imposta dallo zoning, inserirsi nelle maglie slabbrate e discontinue della città contemporanea, ridefinire i limiti per una nuova articolazione dei rapporti tra città e territorio.

All'interno di una riqualificazione in senso lato dell'ambiente (finalizzata anche a una politica di 'marketing urbano', nel senso di un'attenta promozione di immagine della città capace di innestare ulteriori meccanismi di rigenerazione funzionale ed economica), l'obiettivo primario che oggi l'architettura del p. si pone è, infatti, quello di migliorare le condizioni del costruito, confrontandosi prevalentemente con i terreni marginali, i terrains vagues (aree amorfe senza alcuna definizione funzionale) e l'entre-deux (il vuoto tra le cose) nel tentativo di ricomporre i guasti di una prassi urbanistica e architettonica che ha organizzato la città per parti omogenee, distruggendo l'idea di città quale luogo ad alta complessità organizzativa, con una propria identità e relazione spaziale.

In quest'ambito si sviluppa, negli anni Ottanta e Novanta, una strategia puntiforme nello stesso tempo parziale e totale, estesa e concentrata, in cui il progetto del p. come riconfigurazione degli scenari urbani (ed extraurbani) attraverso lo spazio vuoto assume funzione determinante: il vuoto e con esso il verde urbano, perso ogni carattere di 'negativo' del costruito, rivendica un ruolo autonomo e una propria rappresentazione estetica, divenendo 'spazio critico' in cui sondare nuovi terreni di ricerca rispetto al Moderno.

Nella valorizzazione degli spazi pubblici consolidati, nella riqualificazione degli spazi di risulta, nel recupero dei grandi vuoti monofunzionali, nella progettazione degli spazi aperti della città diffusa, il progetto del vuoto tende sempre più a configurarsi come progetto di p., sia nel senso di una ri-definizione di immagine della città stessa, sia in quello della creazione di nuove centralità in cui è possibile ripensare forma e significato dello spazio aperto attraverso sintesi concettuali e analogiche di p. differenti.

È in quest'ottica che negli anni Ottanta la città di Barcellona, sotto la guida iniziale di O. Bohigas, si è imposta all'attenzione internazionale, ponendo tra i punti essenziali del suo rinnovamento urbano la qualità architettonica dello spazio aperto. Progetti puntuali si sono nel tempo collegati, dando origine a un sistema complesso di luoghi pubblici che comprende oggi piazze, parchi, giardini, viali, ma anche vaste opere di riconversione e modificazione di interi settori, con le quattro aree attrezzate per i giochi olimpici del 1992 e le grandi infrastrutture che reintegrano la città con le montagne e il mare. Vero e proprio laboratorio sperimentale di ricerca, Barcellona è interessante non tanto per l'alta qualità formale e per la grande ricchezza delle soluzioni proposte, quanto per l'incessante esplorazione di nuovi temi progettuali tesi a configurare gli interventi sugli spazi aperti quali elementi strutturanti della qualità urbana, nella consapevolezza delle capacità trasformative di tali operazioni rispetto ai caratteri visivi, percettivi, estetici e simbolici della città.

Se in alcuni grandi progetti come la Vila Olimpica nell'area del Poblenou (avviata nel 1986 per le Olimpiadi del 1992) lo spazio pubblico aperto assume il ruolo strutturante dell'intero piano urbanistico, elaborato da O. Bohigas, J. Martorell, D. Mackay e A. Puigdomènech, definendo morfologicamente e architettonicamente la trasformazione di una vasta area abbandonata del centro storico, negli interventi puntuali di sistemazione di invasi preesistenti e di riqualificazione ambientale il tema della qualità formale si riflette nell'esigenza di ottenere diversi gradi di rappresentatività e identità attraverso manufatti riconoscibili, nei quali condensare nuovi valori dell'immaginario urbano e collettivo.

Così nella Plaça de l'Estació de Sants (1983) i progettisti A. Viaplana e H. Piñon, con E. Miralles, configurano un p. artificiale popolato di oggetti minimali che traducono nel metallo e nella pietra l'immagine di un 'giardino astratto e lunare'. Nell'area della Vall d'Hebrón (1992), E. Bru integra il parco con il sistema periferico della mobilità creando una composizione aperta e dinamica, fondata sulla mescolanza di funzioni diverse, dove pedone e automobile si incrociano liberamente. Qui attrezzature sportive e linee di trasporto, aree verdi e ponti, scarpate e nastri stradali si alternano come episodi frammentari di uno scenario insolito, eterogeneo e caotico, disperso e rarefatto, metafora evidente dello spazio della periferia contemporanea. Gli stessi elementi infrastrutturali assumono ruoli e significati diversi, caricandosi di nuove valenze estetiche e funzioni catalizzanti. Nella sistemazione del Moll de la Fusta (1986), M. de Solà-Morales riconduce alla raffinata soluzione architettonica della sezione stradale la sequenza della narrazione che dai prospetti dei grandi palazzi eclettici giunge alla riva del mare, trasformando un presunto intervento stradale in un progetto 'attivo' di riorganizzazione spaziale fra la città vecchia e il porto; nel nodo stradale de La Trinitat (1992) di E. Battle e J. Roig, l'uso della vegetazione modifica scala e ruolo del luogo: lo svincolo diventa una conformazione tettonica, una collina incrociata da filari di alberi disposti secondo le direttrici dell'infrastruttura. L'incrocio non è più inteso come risposta tecnico-funzionale o sommatoria di soluzioni singole, ma come unità in cui concorrono diversi elementi: la vegetazione, l'idraulica, la topografia, i servizi, gli spazi pubblici.

Non più enclave o 'luoghi di differenza', i nuovi spazi aperti istituiscono oggi relazioni multiple inglobando spesso al proprio interno la complessità e l'ibridazione proprie della città contemporanea. Si possono così registrare esperimenti eterogenei, ma accomunati dalla multiformità degli approcci compositivi e dalle occasioni funzionali e pertanto da un rifiuto più naturale che programmatico dei tipi consolidati non solo della tradizione aulica, ma anche della modernizzazione a-topizzante.

Può accadere che la rilettura della storia nello sviluppo di un sito diventi essa stessa un progetto: il Bürgerpark a Saarbrücken, Saarland, di P. Latz (progetto del 1979, completato nel 1989); il Parc de Bercy di M. Ferrand, J.P. Fuegas, B. Huet, B. Leroy, I. Le Caisne a Parigi (su concorso del 1987); le Tuileries di B. Lassus (progetto di concorso 1991) e in Italia quegli esperimenti - prevalentemente in occasioni e centri minori - impostati su una riflessione forgiata nella memoria storica dei luoghi: le Cinque Piazze a Gibellina di F. Purini e L. Thermes (1986), la Piazza di Fontivegge a Perugia di A. Rossi (1988), la Piazza Matteotti a Matera (progetto vincente di concorso 1993) dove, progettando una nuova agorá, R. Panella e C. Aymonino propongono una costruzione stratificata che reinterpreta la diacronicità come valore morfologico della città. Può avvenire che l'elemento naturale sia valorizzato per se stesso sotto forma di autorappresentazione: la sistemazione degli spazi esterni della fabbrica Schlumberger a Montrouge (1986) eseguita da A. Chemetoff, di cui possiamo ricordare anche il Jardin de Bambous (1987) al Parc de la Villette a Parigi; i raffinati giardini di M. Desvigne e C. Dalnoky, come la Cour a rue de Meaux a Parigi (1990); alcuni lavori di P. Walker, come il Performing Arts Center a Concord, California (1975), gigantesco cratere ricoperto d'erba in un p. sconfinato. Può infine prevalere l'ecologia come strumento prioritario di progetto: il Muscheln und Mowen (Parco dei mitili) di A. Geuze e P. van Beek a Eastern Scheldt (commissionato nel 1990), il Jardin en mouvement di G. Clément (1992) al Parc André Citroën a Parigi, e, fra gli architetti statunitensi, accanto ad altre opere di P. Walker finalizzate a ordinare concettualmente e riflettere i sistemi naturali che cambiano - come l'IBM Clearlake, Houston (1984), con M. Schwartz, e la Station Plaza e il Genichiro-Inokuma Museum of Contemporary Art (1992) a Marugame, in Giappone - soprattutto i progetti di G. Hargreaves, come in California, Byxbee Park a Palo Alto (1991) e Candlestick Point Cultural Park a San Francisco (1991), dove l'ambiente diviene soggetto, forza vivente che agisce nel luogo, e il progettista autore di un processo evolutivo piuttosto che di un'immagine formale.

Il tema del recupero ambientale diventa in tutti i casi quello della riappropriazione del sito, anche attraverso processi di densificazione che arricchiscono il territorio (urbanizzato e non) di funzioni e qualità. Se nelle aree consolidate gli interventi sugli spazi aperti coniugano esigenze di embellissement con preoccupazioni funzionali esaltando frequentemente l'elemento ludico e spettacolare - si ricordino fra le altre, accanto a quella di Barcellona, le riqualificazioni delle piazze centrali di Lione realizzate a partire dal 1990 (Place de la République di A. Sarfati, Place des Terreaux di C. Devret e D. Buren, Place de la Bourse di A. Chemetoff, Place des Célestins di M. Desvigne e C. Dalnoky), la Piazza Matteotti a Catanzaro di F. Zagari (1990), la Schouwburgplein a Rotterdam (1990) del West 8 Landscape Architects (A. Geuze, H. Juurlink, J. Bey, E. Overdiep, P. van Beek, J. Koning) e a Gerona la Plaça de la Constitució (1992) di J. Esteban, A. Font, J.A. Martinez Lapeña, J. Montero, E. Torres Tur -, nelle vaste aree marginali delle metropoli contemporanee, come nei grandi vuoti interstiziali, prevale la volontà di rafforzare la coerenza spaziale e sociale attraverso la creazione di nuove centralità in grado di restituire senso e dignità allo spazio abitato dall'uomo.

Particolare pregnanza assume in quest'ottica il tema del parco contemporaneo come luogo di elevata capacità d'integrazione e interscambio sociale. Non più recinto, ma luogo di dialogo, innervamento, trasformazione integrata, il parco si configura come uno o più spazi diversamente articolati e organizzati nella città e nella non-città, capaci di innestare nuove centralità o eccentricità.

Sia che si tratti di valorizzare ampi spazi aperti interclusi nel reticolo edificato per garantire livelli crescenti di abitabilità del territorio (Parc de Sausset a Villepinte, di M. Corajoud con C. Corajoud e J. Coulon, su concorso del 1980; Parco della Bissuola a Venezia-Mestre, di A. Cagnardi, R. Cattaneo, M. Gasca Queirazza, A. Marcarini, G. Costa, V. Gualdi, completato agli inizi degli anni Novanta; alcuni interventi di H. Veenenbos, come il Meridianapark ad Almere Buiten, realizzato nel 1991); sia che s'intenda densificare e concentrare l'edilizia selettiva lungo certe direttrici (Albtal presso Ettlingen di M. Meili e M. Peter, studio iniziato nel 1990 come parte di un vasto programma riguardante l'area metropolitana di Karlsruhe; Grand Axe La Défense-Nanterre, Parigi, di P. Walker e W. Johnson, progetto del 1991; Hellersdorfer Graber a Berlino, del Bureau Bakker & Bleeker, su concorso del 1994) o introdurre un'articolazione tipologica ed edilizia nelle porosità dell'esistente attraverso un tessuto costruito di media densità e spazi collettivi articolati (Parc André Citroën a Parigi, di P. Berger, G. Clément, A. Provost, J.-P. Viguier, con J.-F. Jodry, su concorso del 1985; Prinsenland Park a Rotterdam, del Bureau Bakker & Bleeker, realizzato nel 1991; Parco centrale '167' a Secondigliano, Napoli, di G. Fioravanti, F. Borzetti, I. Calzavara, M. Del Signore, P. Laudati, M. Tosi, completato nel 1994), il parco diviene 'luogo cospicuo' significativo di una nuova identità collettiva, e parallelamente luogo concettuale particolare, fra i più contraddittori e stimolanti, del più generale sistema degli spazi pubblici aperti.

Emblema del parco urbano del 21° secolo, La Villette preannuncia ed esemplifica questa nuova tendenza, condensando in un luogo di passaggio del margine tra città e non-città un diverso concetto di parco: quello di luogo pubblico di massa, interattivo quanto più possibile, in cui alla natura come elemento fondamentale di organizzazione si sostituisce un articolato sistema di attività collettive, principalmente culturali e scientifiche, sovrapposte a una complessa rete di percorsi e relazioni spaziali. Nella vasta area dismessa degli antichi mattatoi, il progetto di B. Tschumi, vincitore del concorso internazionale del 1982, articola fra due testate costruite - il Museo della scienza e della tecnica e la Città della musica - una concezione spaziale fondata sulla de-composizione degli elementi costruttivi classici del parco. Sovrapponendo alla struttura preesistente tre nuovi sistemi - i punti, le linee e le superfici - ovvero il sistema degli oggetti, dei movimenti e degli spazi, Tschumi progetta un parco ispirato a una filosofia compositiva antigerarchica, antistrutturale e antiformalista in perfetta coerenza con le distorsioni della città d'oggi: un parco trattato come un immenso edificio discontinuo, la cui forma si definisce attraverso la folla che in esso si muove fra un oggetto (folie) e l'altro.

Molteplicità disparata, sovrapposizione di funzioni eterogenee, frammentazione, indeterminatezza, compresenza di strutture dure e immagini soft, flessibilità dinamica in grado di assorbire l'aleatorio, gli spazi pubblici contemporanei coniugano la ricerca fenomenologica per il ruolo della percezione nella costruzione dello spazio con l'interesse per 'l'invenzione stessa', l'immaginazione, la poesia, la scienza del luogo, confrontandosi con l'auspicio che tutto il costruito diventi città. In questo senso l'architettura del p. è avviata a costruire luoghi speciali, per elevarne il significato e il valore, esprimendo la consapevolezza di porsi continuamente in relazione, nell'intervenire in un punto, con le molteplici variabili visive, percettive, morfologiche, culturali, simboliche e sociali, che caratterizzano il contesto di cui quel punto è solo una parte. A volte si potrà raggiungere lo scopo con la minima confusione e con grande economia di mezzi, a volte, al contrario, con ricchezza compositiva, articolazione, frammentazione, ridondanza. Sono possibili tutte le soluzioni, purché - come scrive J. Dixon Hunt (1998, p. 13), - il progetto ci riporti "al nostro senso di essere-nel-mondo, di abitare un posto, un luogo. [...] Non un'utopia, nemmeno un'eterotopia di Michel Foucault; ma proprio un luogo unico" che l'architetto paesaggista 'disvela' e 'mette in scena' per renderlo paesaggio.

L'architettura come metafora del paesaggio

Nell'interpretare l'architettura come metafora del p., il riferimento al p. stesso non si limita alle molteplici esigenze di rapporto con il contesto, ma investe i caratteri teorico-speculativi di sviluppo del progetto, i cui processi compositivi possono relazionarsi a esso attraverso corrispondenze e modalità formative diverse.

La natura complessa e instabile dei contesti urbani e territoriali, osservati in tutte le componenti tangibili e intangibili, e il mutato rapporto fra individuo e spazio, sempre più orientato verso una cultura visiva dell'immediatezza e una condizione percettiva dominata dalla sovraesposizione e dalla mobilizzazione del campo visivo, individuano oggi nello spazio del progetto il terreno di una rivalutazione della componente soggettiva (che assume una rilevanza maggiore in presenza di ambienti sincretici e discontinui) e il luogo privilegiato di sperimentazione di nuove modalità dello sguardo, che penetrino in profondità oltre il presentarsi delle cose stesse.

In questa nuova condizione, il p. ha cominciato a rappresentare, anche per l'architettura, l'idea che il mondo si costruisca attraverso il dialogo tra un insieme di oggetti eletti a contesto e un proprio universo percettivo, nel quale sono venute meno l'identità, la staticità e l'unità del soggetto. Ai grandi caratteri del p. moderno, frutto di un'elaborazione raggiunta alla fine del Rinascimento, che si possono riassumere nei tre concetti di distanza (l'occhio e il soggetto che guarda sono fuori campo), di rappresentazione spazializzante (rappresentabile con gli strumenti della spazialità geometrica) e di artefaction (prodotto dell'arte, dominato da un'estetica della contemplazione), si sostituiscono altri caratteri, di cui la relazione dialettica fra dimensione fisica e dimensione fenomenica e il reinserimento del soggetto nel p. costituiscono le premesse.

Non si tratta perciò di valutare le relazioni paesaggio-architettura secondo la struttura prevalentemente morfologica dell'opera e del territorio, rispetto al quale l'intervento architettonico può porsi come 'invenzione figurale totale', come 'figura su uno sfondo' o come 'modificazione minima di un ambiente esistente' - l'idea cioè della fondazione di un nuovo p., della relazione dialogica dell'architettura con il p. o del restauro del p. attraverso l'intervento architettonico -, quanto di verificare la centralità del p. quale 'immagine' visiva e mentale del processo progettuale, contemplando diverse possibilità di attingere, attraverso l'opera architettonica, la sua complessa e stratificata significatività.

E poiché il p., al di là di ogni sua declinazione (naturale, urbano, metropolitano, industriale, infrastrutturale ecc.), è il luogo dello spazio (o della sua rappresentazione) intessuto sempre della pregnanza del soggetto ed è, come sottolinea A. Cauquelin (1995, p. 385), "la forma visibile dell'invisibile che è propria della nostra rappresentazione della natura", la metafora del p. sollecita da un lato il recupero fenomenologico di uno spazio che si pone al di qua dell'orizzonte, dall'altro suggerisce, come tema principale, quello di una 'cattura dell'infinito', della possibilità cioè di afferrare l'invisibile allo stato di sintomo, di riflesso, di ombra, nella finitezza di uno spazio limitato.

È in questo senso più ampio e inclusivo che il p. in quanto 'immagine' interviene nel processo progettuale: è cioè in una trasposizione figurata di senso che l'architettura può divenire metafora del p. per coglierne, attraverso processi compositivi diversi, non solo i caratteri configurativi, ma anche il significato essenziale di forma in grado di rivelare gli aspetti latenti delle cose attraverso la pregnanza di un luogo che esprime la sua essenza.

Da una parte si evidenzia, quindi, la globalità del processo progettuale, considerando l'edificio non più come modello di forme-funzioni, come evento primario e assoluto che determina le proprie leggi in maniera autonoma e svincolata sia dal contesto sia dai fruitori, bensì come parte integrante di un insieme più ampio, come 'sineddoche', come frammento che esprime il tutto o che lo esprime con una funzione gerarchica primaria. Le relazioni fra le parti stesse dell'opera e quelle opera-fruitore, opera-contesto, nella duplicità del rapporto fra il particolare e il complesso sistema di appartenenza (valutato nelle sue caratteristiche non solo fisiche e morfologiche, ma anche sensibili, percettive, psicologiche, emotive e culturali), confluiscono a definire una totalità di eventi compenetrati che, nel fondersi intimamente l'uno con l'altro, si risolvono reciprocamente.

Dall'altra parte si individuano alcune modalità operative che affidano alla metafora del p. la capacità di rappresentare e condensare l'opera e il processo progettuale. I graffiti terrestri di R. Gabetti e A. Isola, i terrania ipernaturali di E. Ambasz, i paesaggi analogici di F. Gehry, i condensatori paesaggistici di H. Fehling e D. Goegel, gli scenari urbani di A. Anselmi, la cattura della natura nell'opera di Tadao Ando, per citare alcuni esempi, esprimono altrettante immagini incisive di una trasposizione figurata del p. all'interno dell'architettura. Una trasfigurazione che assume connotati e significati diversi in funzione delle singole interpretazioni che del p. s'intendono sottolineare. In tal senso è possibile articolare molte opere attraverso alcune categorie critiche in base alle quali decodificare atteggiamenti speculativi e operativi del progetto contemporaneo che rimandano al modo in cui il p. è prevalentemente assunto. Ciò significa che l'architettura estrapola dall'idea di p. alcune caratteristiche essenziali alla sua definizione, che possono essere figurative, analogiche e associative, simboliche ed emozionali, formative e astratte. L'architettura può quindi porsi come rappresentazione visiva del p.; come interpretazione analogico-associativa; come espressione simbolico-evocativa, ovvero come condizione emozionale che deriva dal p. i modi e il sentire della creazione poetica; come costruzione della conoscenza dello spazio che interpreta infine il p. secondo criteri formativi e astratti.

Nel primo dei quattro ambiti tematici, l'atteggiamento prevalente suggerisce la rappresentazione visiva come 'messa in scena' del p., inteso come frammento di natura, reso visibile dall'opera architettonica attraverso un'immagine sintetica di grande icasticità. Sono presenti riferimenti diretti alla Earth Art e alla Land Art e strategie compositive in cui il richiamo a lavorare con la terra, la prevalente estensione orizzontale dell'edificio, l'uso di elementi naturali e l'effetto d'insieme costituiscono gli aspetti prevalenti, evidenti in alcune opere di R. Gabetti e A. Isola, di E. Ambasz, di E. Miralles e di C. Pinós, nonché in alcuni lavori del gruppo SITE (Sculpture in the Environment, di cui fanno parte A. Sky, J. Wines e M. Stone) dove il principio di 'de-architettura' utilizza la metafora naturalistica come spettacolare disintegrazione della costruzione nelle artificiali modellazioni del suolo.

Nella successiva articolazione, relativa all'interpretazione analogica del p., prevale una concezione derivata dall'estetica del pittoresco del building as landscape che, se a un livello più semplice conduce al rispetto del genius loci, a un livello più complesso traduce la volontà di rispecchiare la molteplicità dell'esistente, incorporando nell'architettura tutte le qualità del fortuito e del casuale. Il sentimento dell'ambiente, espresso attraverso la ricerca di corrispondenze morfologiche, visive, tattili, cromatiche, materiche; il carattere inclusivo ed eterodosso e i principi di crescita e mutamento, riconducibili agli aspetti descrittivi e narrativi dell'architettura, all'accentuata frammentazione dell'immagine, a una compresenza di elementi eterogenei, costituiscono i caratteri prevalenti di una metafora del p. che le opere di architetti come F. Gehry, H. Hollein, Ch. Moore, J. Stirling, A. van Eyck sembrano pienamente esemplificare.

Nel terzo ambito tematico, dell'espressione simbolico-evocativa, l'architettura individua nel p. la proiezione di un'immagine innanzitutto mentale che interpreta l'esperienza estetica e percettiva come 'recupero cosciente dell'emozione'. Il riferimento è all'estetica del sublime con il passaggio attraverso la 'linea dell'espressione' dal naturalismo all'organicismo. Cattura dell'infinito come sentimento d'identità microcosmo-macrocosmo, recupero dell'emozione, opposizione fra 'artistico' ed 'estetico' e carattere simbolico della forma costituiscono quattro momenti essenziali di un'interpretazione del p. in cui lo spazio, costruito attraverso la mediazione del corpo, diviene estensione e amplificazione del soggetto. Polimorfismo e metamorfosi, tendenza all'empiria costruttiva, sviluppo aprospettico, instabilità e indeterminatezza, tensione dinamica, visione angolata e deformata, esemplificati attraverso l'opera di alcuni architetti - fra cui possiamo ricordare i contemporanei G. Behnisch, H. Fehling e D. Goegel, S. Fehn, J. Leiviskä, R. Pietilä, per restare nella grande tradizione dell'organicismo nordico e dell'espressionismo tedesco - costituiscono altrettanti caratteri distintivi di uno spazio vitale e vivente, in cui la ricerca di differenziazioni e la soggettivazione della dimensione spaziale confluiscono nella riconquista della libertà soggettiva, coincidente con quella "pulsione di libertà essenziale alla bellezza del paesaggio" (Lacoste 1995, p. 69).

Nell'ultima articolazione il p. si presenta infine come modalità di costruire il problema percettivo e conoscitivo dell'ambiente privilegiando il carattere della 'formatività' dell'opera architettonica, secondo quella linea interpretativa dei fenomeni artistici che trova sostegno epistemologico nella teoria della pura visibilità di K. Fiedler. Qui il p., nella sua interpretazione più immediata di aspetto visibile e percettibile dello spazio, in cui acquista importanza fondamentale la relazione della parte con il tutto, allude alla possibilità di rendere presente l'assenza del vuoto, trasformando lo 'sfondo' in 'figura'. L'estetizzazione del reale tramite un processo di astrazione intesa, con Tadao Ando, come modo di pensare il reale e la sua essenza, presente - fra gli altri - nelle architetture di Toyo Ito, S. Holl, A. Siza e F. Venezia, e l'invenzione del quotidiano come nuovo modo di guardare, prendere possesso e definire nuovi rapporti fra le cose, attraverso la creazione di 'scenari urbani' in cui appare centrale, come nelle opere di A. Anselmi, F. Borel, Ch. de Portzamparc, l'evidenza del vuoto, rappresentano due possibili modalità di costruire un'architettura come conoscenza dello spazio, in grado di assorbire e riflettere la fenomenologia dell'esistente all'interno delle proprie facoltà formative.

Senza voler offrire certezze esemplificatrici, le quattro articolazioni tematiche intendono suggerire altrettanti possibili percorsi dell'architettura in grado di trasfigurare in qualità estetica le immagini visive e mentali veicolate dai p. contemporanei. Proprio nell'impossibilità di oggettivare i caratteri relativi a configurazioni che hanno assunto come dati fondativi l'eterogeneità e l'instabilità, è necessario portare lo sguardo altrove, al di là dei segni esteriori. Uno sguardo che 'abita' in luogo di un occhio che 'sorvola', per descrivere e interpretare, attraverso la metafora del p., la crisi, il vacillamento e il tremito del mondo; uno sguardo teso verso quell'orizzonte eco-simbolico in cui metaforicamente confluiscono il mondo fisico e il mondo fenomenico, riconoscendo, come scrive A. Berque (1995, p. 148), che il mondo non è oggettivo che in una certa misura, quella al di là dell'orizzonte, non costruita dal nostro sguardo, e che invece è soggettivo nella misura inversa, dove l'orizzonte come "limite definisce l'illimitato e lo mostra come infinito proprio perché nel suo essere limitato non è più indefinito" (Assunto 1973, p. 11).

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