TOGLIATTI, Palmiro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TOGLIATTI, Palmiro

Franco Andreucci

– Nacque a Genova il 26 marzo 1893, nel giorno della Domenica delle Palme (da cui il nome che gli venne dato).

I suoi genitori, entrambi originari del Piemonte, erano di modesta ma dignitosa condizione. Il padre, Antonio, era un impiegato dei Convitti nazionali – dove venivano ospitati i ragazzi poveri più ‘meritevoli’, che avevano così la possibilità di frequentare i licei – mentre la madre, Teresa Viale, era stata maestra elementare, ma dopo la nascita dei figli – Eugenio (1890), Maria Cristina (1892), Palmiro e poi Enrico (1900) – si era dedicata esclusivamente alla loro cura. La famiglia peregrinò in varie città, seguendo i trasferimenti di Antonio – da Genova a Novara, da Torino a Sondrio e infine a Sassari – finché questi non morì, nel 1911. Lo stesso anno, Teresa e i figli si trasferirono a Torino.

L’infanzia e la prima giovinezza di Togliatti trascorsero in un ambiente riservato e decoroso, di tradizioni cattoliche e di fedeltà alla monarchia sabauda. Gli studi, alle scuole elementari di Novara e al ginnasio di Sondrio, misero in luce le sue straordinarie qualità di intelligenza e diligenza. Fu a partire dal 1908, quando la famiglia si trasferì a Sassari, che Togliatti compì le prime significative esperienze culturali: al liceo Domenico Alberto Azuni fu uno studente modello, tanto che nel 1911 ottenne – come la sorella – la ‘licenza d’onore’, che dispensava dall’esame di maturità.

I successi negli studi dei ragazzi Togliatti corrispondevano a un modo di vivere severo e «a un ordine di vita familiare del quale la fedeltà al lavoro, allo sforzo diuturno, alla serietà e coerenza morale» erano componenti essenziali (Cherchi 1972, p. 65). Data probabilmente da allora la passione di Togliatti per gli studi umanistici (il greco, il latino) e per la storia. Come egli stesso avrebbe in seguito ricordato, la storia del Risorgimento lo «entusiasmava» per il suo carattere «universale», così come amava Giosue Carducci, specialmente per la sua «rivalutazione» della Rivoluzione francese (Così Togliatti raccontò [...], 1964, p. 3). La lettura di Francesco De Sanctis – e in particolare dei Saggi critici  – la cui passione intellettuale e il cui vigore morale avevano influenzato due generazioni di studenti, non mancò di colpire anche il giovane Togliatti, presentandogli le icone e i riferimenti di tutta un’epoca (Voltaire, Jean-Jacques Rousseau, padre Antonio Bresciani, Victor Hugo).

Sulla base dei suoi solidi studi liceali, nel 1911 Togliatti intraprese l’esperienza universitaria, iscrivendosi alla facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo torinese. Seguì, fra gli altri, i corsi di Francesco Ruffini, Arturo Farinelli, Luigi Einaudi. Studente brillante, concorse a borse di studio e a premi, risultando immancabilmente vincitore. Si laureò il 27 novembre 1915.

È probabile che il suo incontro con la politica fosse avvenuto già a Sassari, ma è certo che esso maturò nella ex capitale sabauda. L’iscrizione al Partito socialista italiano (PSI) avvenne in una data imprecisata, forse nel 1914.

Nel periodo universitario Togliatti conobbe Antonio Gramsci, osservò le manifestazioni e gli scioperi operai di Torino, condivise gli orientamenti antigiolittiani e liberali di Gaetano Salvemini e della Voce di Giuseppe Prezzolini. Tuttavia mantenne sempre un ‘profilo basso’, senza esporsi, senza partecipare in prima persona.

Nell’autunno del 1915, dopo l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, Togliatti si presentò come volontario per l’arruolamento, ma, riformato per miopia, dovette entrare nei servizi sanitari, e rimase quindi lontano dal fronte; solo nel 1916 la revisione della situazione dei riformati gli permise di rientrare nel servizio militare vero e proprio. Chiese allora di frequentare la scuola ufficiali di Caserta; non concluse tuttavia il corso per un serio problema di salute, e nell’autunno del 1917 venne congedato.

Mentre del suo metodo di lavoro – basato su tenacia, continuità e rigore – sappiamo dai documenti della scuola e dell’università, dal momento in cui Togliatti si avvicinò alla politica la ricostruzione e la memoria appaiono complicate e controverse. Probabilmente si intreccia, fra la narrazione autobiografica di Togliatti e quella – a volte non benevola – degli interpreti, un misto di verità e leggenda che non è facile superare.

La questione stessa della sua tesi di laurea, Sul regime doganale nelle colonie, non è chiara. Togliatti avrebbe affermato in seguito di aver discusso a quell'epoca una «tesina» con Einaudi (Conversando con Togliatti, 1953, p. 35); ma dai documenti risulta che docente titolare della disciplina (Economia politica) e presidente della commissione di laurea era invece Achille Loria, economista ai margini del marxismo. È comprensibile che il suo nome sia rimasto fuori della narrazione che della propra formazione universitaria avrebbe fatto in seguito Togliatti, nella quale definì Loria un «ciarlatano» (ibid., p. 19); Gramsci stesso, due settimane dopo la laurea di Togliatti, derise Loria sul quotidiano del PSI, Avanti!, parlando della «scienza pidocchiosa del prof. Loria» (Pietà per la scienza del prof. Loria, articolo non firmato, 16 dicembre 1915). Ma è assai probabile che Togliatti si sia in realtà laureato proprio con Loria.

Comunque appariva già chiaro dalle scelte culturali, dalle compagnie, dai primi segni dell’impegno nel PSI, che in Togliatti si stava formando un accentuato interesse per la politica.

Nella sua formazione fu certo rilevante l’influenza di Gramsci. Non che i due giovani, nonostante la comune provenienza dalla Sardegna e un iniziale fraternizzare, si muovessero sulla stessa lunghezza d’onda. Attivissimo Gramsci in politica e nel giornalismo, con una vocazione naturale alla pedagogia; riservato e timido Togliatti. Ma si trovarono entrambi dentro un partito, il PSI, che intendevano cambiare radicalmente, soprattutto dopo l’ondata rivoluzionaria partita dagli avvenimenti del 1917 in Russia. Togliatti iniziò la sua collaborazione alla stampa socialista nell’ottobre 1917, ormai congedato ma in teoria ancora studente universitario (subito dopo la laurea in Giurisprudenza, infatti, si era iscritto alla facoltà di Lettere, pensando a una seconda laurea che la guerra gli impedì di ottenere).

Nei primi mesi del 1919 partecipò – con Gramsci, Angelo Tasca e Umberto Terracini – al progetto dell’Ordine nuovo, un settimanale che venne pubblicato a partire dal mese di maggio e che intendeva sollecitare il partito a studiare «le correnti socialiste della Terza Internazionale» e «il nuovo Stato socialista» (Programma di lavoro, articolo non firmato in L'ordine nuovo, 1919, 1, p. 2). Per quanto gli articoli di Togliatti restassero, fino al luglio 1919, confinati al genere delle recensioni, fu allora che maturò in lui una sensibilità politica nuova, che lo rese attento a mantenere un orientamento culturale lontano, come egli stesso scrisse, da «astrattezze inutili» e «ridicole declamazioni» (Per chiudere una polemica, ibid., 12, p. 8).

Era la cifra che lo avrebbe segnato negli anni successivi, come giornalista che sosteneva il movimento dei Consigli di fabbrica e che sollecitava il PSI a una piena adesione alla Terza internazionale (o Internazionale comunista, chiamata comunemente Comintern). All’inizio del 1920 entrò a far parte della Commissione esecutiva della sezione torinese del PSI e, in preparazione del XVII Congresso nazionale del partito, aderì alla frazione comunista; nel settembre di quell’anno fu tra i sostenitori dell’occupazione delle fabbriche. Nel gennaio 1921, durante il XVII Congresso, fu tra i promotori della scissione con il PSI e della formazione del Partito comunista d’Italia (PCdI); nello stesso periodo iniziò a lavorare come redattore dell’Ordine nuovo, che si era appena trasformato in quotidiano. Nell’estate di quell’anno si spostò a Roma, dove in ottobre iniziò l’attività di redattore capo del quotidiano Il Comunista.

Nel corso del 1921 scrisse cronache della ‘guerra civile’ che stava accompagnando l’affermazione del fascismo. Era passato da un giornalismo prevalentemente culturale al giornalismo politico vero e proprio, seguendo Amadeo Bordiga – capo di fatto del PCdI (la carica di segretario generale non esisteva ancora) – di cui divenne in quel periodo stretto collaboratore. Al II Congresso del PCdI (Roma, marzo 1922) entrò a far parte del Comitato centrale. Era il suo ingresso al vertice del PCdI, in cui sarebbe rimasto tutta la vita.

Proprio in quei giorni, Piero Gobetti scriveva di lui: «Togliatti non ha avuto ancora responsabilità direttive nell’azione, è tratto alla politica da una solida preparazione, ma si trova in lui un’inquietudine, talvolta addirittura una irrequietezza che pare cinismo ed è indecisione, dalla quale si devono forse aspettare molte sorprese» (Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale, in La Rivoluzione liberale, I (1922), 7, p. 26).

Alla fine del marzo 1923, Togliatti fu chiamato a far parte del Comitato esecutivo del PCdI, di cui avrebbe dovuto assumere temporaneamente la guida. Ma proprio allora, di fronte a delicatissimi compiti di responsabilità politica, Togliatti non si fece trovare. Nei mesi precedenti i fascisti avevano attaccato ovunque le sedi del PCdI, e nel novembre 1922 Togliatti era stato inviato a Torino, con il compito di riorganizzare il partito, di cui si prospettava il passaggio alla semiclandestinità. Lì fu attivo fino al marzo del 1923. Poi, più nulla. Il 12 aprile 1923 il Comitato esecutivo emise il seguente avviso: «Si invita il compagno Togliatti a rimettersi immediatamente in rapporti diretti con il Comitato esecutivo del partito» (il testo comparve sull'Avanti!, che all'epoca pubblicava talvolta comunicati di altri giornali censurati dalle autorità fasciste). Probabilmente si trattò, da parte di Togliatti, di una crisi esistenziale, nella quale problemi privati, sentimenti, riflessioni sul presente e sulla ‘vocazione’ alla rivoluzione sollecitarono una pausa e una svolta. Togliatti si trovava in realtà a casa dei suoi, a Torino, e, secondo la testimonianza della sorella, si era «praticamente ritirato dalla vita politica» (Bocca 1973, p. 78); ritornò in contatto con il partito solo alcune settimane più tardi.

Nella pur ricca memoria del partito, l’episodio è documentato ma non è spiegato. Esso è invece rilevante, non solo perché apre uno squarcio ‘privato’ in una biografia altrimenti scarna di dettagli, ma anche perché da allora cominciò per Togliatti una vita nuova. Nel partito, anzi, al ‘centro’ del partito, Togliatti sembrò abbracciare una ‘missione’. Una missione che offriva solo ‘frutti amari' e che doveva essere compiuta con dedizione, con tenacia, con ostinazione. Togliatti avrebbe presto scoperto che fra la vita dell’intellettuale e quella del rivoluzionario di professione non potevano esservi compromessi e, dopo quella indecisione, avrebbe scelto la strada della rivoluzione e delle sue durezze. Ma lo avrebbe fatto con un’intensità tale, con una foga tale nell’«arrovesciare» (un termine di uso frequente nei testi di Togliatti) le sue precedenti passioni, che alla fine il cinismo – nonostante il cauto giudizio di Gobetti – sarebbe entrato a far parte del suo profilo e del suo carattere.

Nell’aprile 1923, Togliatti era un dirigente del PCdI, ma non era ancora un elemento del suo ‘gruppo dirigente’. Infatti la pertinenza di tale espressione avrebbe comportato, prima di tutto, la presenza di un ‘gruppo’ e, in secondo luogo, la sua capacità di direzione. Nel caso del PCdI, invece, convivevano in modo contraddittorio sia l’idea del ‘capo’, legata alla figura di Bordiga, sia quella di una direzione rivolta soprattutto alla preparazione della rivoluzione. La «bolscevizzazione» che il Comintern promosse nell'estate del 1924 (V Congresso, 17 giugno-8 luglio) – e fra i cui scopi c'era quello di ottenere che il PCdI praticasse una «politica di massa» (cioè non settaria come quella portata avanti da Bordiga) – poté cambiare tutto ciò grazie all’impegno attivo di Gramsci. Si formò allora un ’nuovo gruppo dirigente’, di cui Togliatti, dopo una lunga discussione con Gramsci, entrò a far parte.

I suoi primi anni da ‘rivoluzionario professionale’ furono quelli in cui si fece le ossa: viaggi a Mosca (estate 1924), arresti e carcere (settembre 1923, aprile 1925), attività pubblicistica e organizzativa nella semiclandestinità.

Nell’aprile 1924 si sposò con Rita Montagnana, una militante comunista di un certo rilievo (nel 1922 era stata tra i fondatori del quindicinale femminile del partito, La Compagna); nel luglio del 1925 nacque il figlio Aldo.

Nel momento in cui il lavoro di Togliatti cominciò ad avere un crescente contenuto politico, si manifestarono in lui alcune qualità che ne avrebbero fatto un leader di grande statura. In primo luogo, la capacità di esplorare e di analizzare il terreno della politica, applicando alla ricognizione della società italiana le sue competenze e i suoi studi. In parte si trattava di una lettura originale, pragmatica, del marxismo e del leninismo, in parte di una sua personale tendenza verso quella che egli stesso avrebbe poi più volte chiamato «analisi differenziata»: nei suoi primi scritti, infatti, il fascismo era visto più in una prospettiva storica – di crisi dello Stato liberale e di sconfitta del movimento socialista – che non come soggetto e movimento politico; la Chiesa e il cattolicesimo, d'altra parte, erano studiati come strutture caratterizzanti la storia d’Italia, quindi in una prospettiva ben lontana dall’anticlericalismo socialista; il partito, infine, era concepito come un’unità di ‘militanti’ più che di ‘fedeli’, ma proprio per questo l’accettazione della disciplina ne era una condizione preliminare.

Nell’articolo La nostra ideologia (in L’Unità, 23 settembre 1925) erano contenute la sostanza della dottrina di Togliatti e la sua visione della politica. Togliatti vi sosteneva che il gruppo dell’Ordine nuovo aveva percorso, per giungere al marxismo, la «via maestra», cioè quella che passava attraverso la filosofia idealistica, e ne difendeva la visione come critica «originale» alla cultura positivista del socialismo italiano. Nacquero allora i fondamenti di una genealogia ideologica (Luigi Spaventa, De Sanctis, Antonio Labriola, Benedetto Croce, Gramsci) immaginaria ma dotata di una sua dignitosa coerenza.

Al III Congresso del PCdI (Lione, gennaio 1926) Togliatti fu nominato rappresentante italiano presso il Comintern. Giunse a Mosca il mese successivo; non sarebbe tornato in Italia per diciotto anni, fino al marzo 1944.

L’esperienza nell’esilio, e in particolare quella all’interno della struttura dirigente del Comintern, segnò la vita di Togliatti in modo indelebile. Oltre che organizzazione del movimento comunista a livello mondiale, il Comintern era anche la cassa di risonanza delle discussioni che animavano il Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS). Nell’impossibile equilibrio fra gli interessi della ‘rivoluzione in un solo Paese’ e quelli del movimento comunista, dopo la morte di Vladimir I. Lenin (1924) si erano sviluppati nel PCUS conflitti insanabili, che andavano ben al di là dei normali dissensi politici.

Nell’ottobre 1926 – di fronte alla durissima contrapposizione che vedeva affrontarsi la maggioranza del PCUS (Iosif V. Stalin e Nikolaj I. Bucharin) e le ‘opposizioni unificate’ (Lev D. Trockij, Gregorij E. Zinov’ev e Lev B. Kamenev) – Gramsci scrisse una lettera indirizzata a Togliatti, ma rivolta al Comitato centrale del PCUS, in cui invitava la maggioranza alla moderazione, allo scopo di salvaguardare l’unità politica e simbolica del bolscevismo. Togliatti – che si era schierato con Stalin e Bucharin – ritenne preferibile non trasmettere la lettera al Comitato centrale; ne seguì uno scambio epistolare assai aspro fra i due. L’8 novembre Gramsci venne arrestato dalla polizia fascista; si decisero in quel momento i destini dei due leader comunisti: Gramsci sarebbe morto senza rivedere la libertà, mentre Togliatti sarebbe diventato il capo del PCdI. Nacquero allora, fra i due, i risentimenti e i sospetti che la tradizione comunista ha a lungo nascosto.

Piccolo partito costretto all’esilio e alla clandestinità, il PCdI avrebbe mantenuto, fino al 1943, un peso marginale nell’Italia fascista: i suoi dirigenti furono in diverse ondate arrestati e la sua attività fu ridotta a una semplice testimonianza. Nel mondo dell’esilio e del Comintern, a questa irrilevanza corrisposero invece discussioni accanite e dottrinarie sull’imminenza della caduta del regime fascista. La ‘svolta a sinistra’ promossa dal VI Congresso del Comintern (luglio-settembre 1928) – voluta da Stalin in polemica con Bucharin – impose in tutto il mondo un ‘riallineamento’ dei partiti comunisti. Tra il 1929 e il 1930 furono espulsi (oltre a Bordiga, figura ormai marginale) diversi esponenti del gruppo dirigente (Angelo Tasca, Alfonso Leonetti, Pietro Tresso, Paolo Ravazzoli, Ignazio Silone), che denunciavano il regime dispotico di Stalin.

La ‘svolta’ ebbe conseguenze importantissime: in una totale adesione ai canoni stalinisti, Togliatti fece sue la teoria del ’socialfascismo’ – che equiparava nei fatti la socialdemocrazia al fascismo – e quella sull’imminenza della rivoluzione; nel frattempo, nel ‘centro’ del partito, ai superstiti della vecchia guardia si aggiunsero i ‘giovani” (Luigi Longo, Pietro Secchia).

Nei primi anni Trenta, la linea del Comintern si rivelò fallimentare – in Italia, l’attività del ‘centro interno’ fu stroncata dalla polizia, mentre in Germania la lotta del Partito comunista contro quello socialdemocratico favorì l’affermazione del nazismo – ma la strada per il ritorno ad accordi con altre componenti del movimento antifascista sarebbe stata lunga e difficile.

Negli anni di esilio – in Francia, in Svizzera, in Germania, in Spagna, ma soprattutto in Unione Sovietica – Togliatti si mostrò un abile politico: riuscì a gestire gli equilibri interni del PCI, manifestò qualche tentativo di indipendenza – specialmente sul giudizio da esprimere sul fascismo e la società italiana – ma in generale si adeguò alla linea dominante nel PCUS.

I prezzi pagati dal Comintern al crescente potere dittatoriale di Stalin furono enormi. In primo luogo, la visione della realtà che questi aveva imposto al movimento comunista internazionale era dottrinaria e schematica. In secondo luogo, il «regime interno» del Comintern si deteriorò, fino a divenire una «burocrazia delirante» (E. Fischer, Erinnerungen und Reflexionen, Reinbek 1969, trad. it. 1969, p. 451). Togliatti – che con il bulgaro Georgi Dimitrov era divenuto una figura chiave del Comintern – vide con qualche titubanza la progressiva creazione del Fronte popolare in Francia; in quello stesso periodo ricevette l’incarico di tenere la relazione sul tema della «preparazione di una nuova guerra mondiale» per il VII Congresso del Comintern, che si sarebbe tenuto in luglio e agosto; rispetto alla politica del socialfascismo, il tema della guerra e della pace sollecitò in lui una visione unitaria che gli era forse più congeniale. Pochi mesi prima, tra gennaio e aprile, aveva tenuto a Mosca – presso la Scuola internazionale leninista, una sorta di università per i comunisti non sovietici – un corso di lezioni sul fascismo che documentano un’interpretazione politica ricca e profonda. Il fascismo era visto da lui come un regime reazionario di massa, capace quindi di organizzare il consenso; di fronte a esso, «la prospettiva unitaria forniva alla lotta un embrione di strategia» (F.M. Biscione,  Premessa a P. Togliatti, Corso sugli avversari, 2010, p. X).

Con la morte di Gramsci (aprile 1937) iniziò una vicenda contraddittoria, fra la rivendicazione, da parte del PCI, di Gramsci come «capo della classe operaia italiana» e la sistemazione del suo lascito intellettuale, che la famiglia intendeva sottrarre al controllo di Togliatti.

Gli anni dei processi di Mosca, fra il 1936 e il 1938, in cui la ‘vecchia guardia bolscevica’ fu eliminata sulla base di accuse false e infamanti, videro Togliatti testimone e in parte complice.

Inviato in Spagna nel settembre 1937 come ‘consigliere’ del Partito comunista spagnolo, Togliatti vi rimase per tutta la durata della guerra civile, salvo un breve ritorno a Mosca nell’estate del 1938 per controfirmare, in quanto dirigente del Comintern, lo scioglimento del Partito comunista polacco, i cui dirigenti – accusati di trotzkismo – furono giustiziati.

Nell’agosto 1939 Togliatti si trovava in Francia; alla fine del mese (quindi poco prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale) fu arrestato; venne detenuto per sei mesi, e poi liberato in circostanze misteriose. Nel maggio 1940 fece ritorno in Unione Sovietica, dove attraversò una fase di disgrazia, per sua fortuna dopo la fine delle ‘grandi purghe’. Dopo l’attacco dell’esercito tedesco all’Unione Sovietica (giugno 1941), iniziò una campagna di efficaci messaggi di propaganda radiofonica rivolti agli italiani, che sollecitavano l’unità antifascista come parte dell’identità nazionale.

Nel maggio del 1943 controfirmò lo scioglimento del Comintern.

Il ritorno di Togliatti in Italia, il 27 marzo 1944, segnò un cambiamento radicale sia nella sua vita privata sia nella politica del PCI. La ‘svolta di Salerno’ da lui promossa – non senza qualche contrasto con altri dirigenti del partito – dette il via a una magistrale flessibilità tattica, che consentì al PCI di conquistare un ruolo rilevante nella politica italiana. Si trattava – cosa non facile per un partito vissuto isolato nell’illegalità e in opposizione assoluta e totale al fascismo e alle sue istituzioni – di accettare l’autorità del sovrano e l’alleanza con forze politiche di varia provenienza. Si è molto discusso sulla genesi della svolta, e in particolare se essa sia stata il frutto di una decisione originale di Togliatti o l’esecuzione di un programma suggerito da Stalin. È probabile che nella notte del 3 marzo 1944, quando Togliatti incontrò Stalin poco prima della sua partenza da Mosca per l’Italia, la svolta fosse stata proposta da Stalin. Ciò che contribuì tuttavia a farne un elemento identitario nella storia del PCI, fu il suo collegamento con un nuovo modo di fare politica. Se infatti, a partire dal 1944, il PCI acquistò un notevole peso politico e un grande numero di militanti, ciò si dovette all’intensità della sua partecipazione alla guerra di liberazione ma soprattutto all’idea e agli attributi del «partito nuovo»: un partito comunista che rivendicava il proprio carattere «nazionale», che si autodefiniva «popolare», «di massa», «di governo», e si allontanava quindi dalla tradizione leninista. Per quanto la costruzione della politica comunista a partire dal 1944 sia stato un processo a cui partecipavano dirigenti e militanti, fu soprattutto di Togliatti l’idea del partito nuovo.

Fra il 1944 e il 1946, Togliatti fu vicepresidente del Consiglio e ministro della Giustizia.

Nel 1946 iniziò una relazione – malvista dal moralismo di partito – con Nilde Iotti (una giovane militante del PCI che era stata eletta all’Assemblea costituente) e si separò da Montagnana, a cui venne affidato il figlio Aldo. Togliatti e Iotti avrebbero in seguito adottato Marisa Malagoli, giovanissima sorella di un operaio ucciso dalla polizia a Modena nel 1950.

Nella politica italiana del dopoguerra, la figura di Togliatti risaltava per i suoi caratteri singolari. Era un uomo ‘di partito’, legato a ortodossie e fedeltà profonde e immutabili, ma godeva anche di un indubbio prestigio per la ricchezza dei suoi studi. Le due facce della cultura togliattiana si manifestarono in più occasioni, ma forse gli episodi emblematici sono rappresentati dal rapporto con Benedetto Croce e poi dal ‘caso Vittorini’.

Il rapporto con Croce è una delle questioni chiave nell’attività culturale di Togliatti dopo il suo ritorno in Italia. La figura di Croce aveva accompagnato la sua biografia intellettuale in modo intermittente. Forse Togliatti concordava con la confessione fatta da Gramsci di essere stato «tendenzialmente piuttosto crociano» (Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, II, Torino 1975, p. 1233) e, almeno fino al 1925, aveva fatto a Croce se non altro l’onore delle armi, definendolo con rispetto come uno dei «maestri del liberalismo» (Baronie rosse, in L'ordine nuovo, s. 2, 5 giugno 1921) e contrastando pubblicamente le insinuazioni di Bordiga sul «crocianesimo degli ordinovisti» (Osservazioni a un articolo, in L'Unità, 16 ottobre 1925). La sua stessa rivendicazione culturale del 1925 sopra citata – secondo la quale gli ordinovisti erano giunti a Karl Marx attraverso la filosofia idealistica – non poteva escludere Croce. Ma, come aveva affermato Gramsci, bisognava fare «i conti con la filosofia di Croce» come Marx li aveva fatti con quella di Georg W.F. Hegel (Quaderni dal carcere, cit., p. 1234): bisognava lavorare, cioè, a un anti-Croce e a un anti-Gentile. La tragica ironia della storia volle che Croce e Togliatti sedessero nello stesso governo nell’aprile del 1944, quando Giovanni Gentile fu giustiziato dai partigiani fiorentini; Togliatti dette allora l’avvio a una campagna di stampa in cui rivendicava l’esecuzione di Gentile come quella di un autore «immondo» (nota a C. Marchesi, Sentenza di morte, in Rinascita, 1944, 1, 2, p. 6). Poco prima, Togliatti aveva affrontato Croce sul terreno politico e personale, irridendo, in una recensione (ibid., 1944, 1, 1, p. 30), alle «corbellerie» di un suo «scrittarello» pubblicato l'anno precedente (Per la storia del comunismo in quanto realtà politica, in La Critica, 1943, 1, pp. 100-108) e denunciando allo stesso tempo come «una macchia di ordine morale» il fatto che il filosofo avesse istituito con il fascismo «una aperta collaborazione»; l’accusa era falsa e malevola, e Togliatti dovette ritirarla, con molte scuse (Lettera a Benedetto Croce, in Rinascita, 1944, 1, 2, p. 31). Ma l’operazione contro Croce era comunque iniziata, e riguardava un punto chiave della strategia di Togliatti: influenzare, e se possibile conquistare, una generazione di giovani intellettuali che si era formata su Croce. Si trattava di un’influenza che Togliatti intendeva esercitare nei termini politici e culturali propri del PCI e del suo programma, ma anche, in forma più mediata, attraverso Gramsci, dei cui scritti egli promosse la pubblicazione a partire dal 1947, tanto che essi si intrecciarono inestricabilmente con l’identità del PCI.

La politica culturale, guidata da una specifica commissione di partito e articolata attorno a una serie di riviste, divenne uno degli elementi caratterizzanti del PCI. Togliatti aveva ben chiaro che le riviste costituivano importanti centri di aggregazione degli intellettuali, e ne favorì e in parte ne condizionò l’esistenza, ma intese sempre rivendicare il primato del partito rispetto all’autonomia della cultura.

Da questa dicotomia nacque il ‘caso Vittorini’. Elio Vittorini, fondatore del Politecnico – una rivista di politica e di cultura nata a Milano nel settembre 1945 – proponeva temi e autori – da Ernest Hemingway a Boris Pasternak, a Franz Kafka – lontani dallo stretto perimetro del ‘realismo socialista’. Con lui Togliatti intraprese a partire dal 1946 una durissima discussione, che si concluse nel 1951 con l’uscita di Vittorini dal PCI, accompagnata dai toni beffardi di Togliatti.

Gli esiti dell’operazione di Togliatti rivolta alla conquista degli intellettuali italiani furono contraddittori, perché se è vero che attorno al PCI si raccolse una parte importante degli intellettuali italiani, è anche vero che aspetti importanti della cultura del Novecento (dall’antropologia alla sociologia) furono emarginati.

Al suo ruolo di capo del PCI, Togliatti accompagnò ininterrottamente, dal 1944 alla sua morte, l’attività istituzionale nelle assemblee elettive. Eletto alla Costituente, sarebbe stato deputato nelle successive quattro legislature della Repubblica.

La sua visione della costruzione di un nuovo Stato – nel medio periodo uno Stato socialista – era basata sulla prospettiva di un’alleanza fra i tre partiti ‘di massa’ (democristiano, socialista e comunista) che sarebbe stata capace di impostare i fondamenti di una ‘democrazia progressiva’. Le misure legislative proposte (come l’amnistia del 22 giugno 1946) e gli orientamenti affermati nella Costituente (come l’inclusione dei Patti lateranensi nell’art. 7 della Costituzione) documentano una visione non ‘giacobina’ della politica, rivolta ad affermare un’ampia unità nazionale antifascista. I suoi interventi, alla Costituente e alla Camera dei deputati, documentano una preparazione ricca e profonda, ben al di là dell’erudizione che i contemporanei gli riconobbero. Che citasse Aristotele, Friedrich Schiller o un sonetto di Guido Cavalcanti, esprimeva nei suoi interventi, oltre a una certa civetteria, anche un’oratoria rispettosa della dignità del Parlamento.

Il Paese che Togliatti aveva di fronte era tutto da ricostruire, ma era anche diviso dalla Guerra fredda, che contrapponeva il mondo del comunismo sovietico a quello delle democrazie occidentali, in una rete di sospetti e di violenze. Togliatti stesso fu vittima di un attentato il 14 luglio 1948 (tre colpi di pistola che lo ferirono gravemente), e i giorni successivi la legalità repubblicana fu messa a dura prova dalle reazioni popolari, che giunsero a un passo dall’insurrezione. Si dice che Togliatti, rimasto cosciente dopo l’attentato, abbia invitato Longo e Secchia a mantenere la calma.

L’anno precedente, nel novembre del 1947, era stata costituita una nuova organizzazione internazionale, l’Ufficio d’informazione dei partiti comunisti (noto come Cominform), e Togliatti fu indicato da Stalin come il suo possibile segretario. Nonostante il voto favorevole della Direzione del PCI, Togliatti oppose resistenza a quella nomina, rivendicando la necessità della sua presenza in Italia, ed ebbe partita vinta.

Nello stesso periodo erano nate, nelle zone raggiunte dall’avanzata dell’esercito sovietico nell’Europa orientale, le ‘repubbliche popolari’, tutte caratterizzate da regimi comunisti autoritari e dalla repressione del dissenso. Togliatti non formulò mai critiche verso quei regimi, aderendo alle posizioni di Stalin anche nella condanna (luglio 1948) del leader comunista iugoslavo Tito (Josip Broz), che intendeva mantenere una posizione indipendente all'interno dello schieramento comunista. Nei Paesi socialisti negli anni successivi il sospetto di ‘titismo’ condusse a sanguinose purghe, che Togliatti giustificò senza esitazione.

In Italia, il PCI raggiunse, nel decennio fra il 1948 e il 1958, buoni risultati elettorali – nel 1953 ottenne oltre 6 milioni di voti, pari al 22,6% – e si affermò come partito delle classi subalterne, radicandosi soprattutto nell’Italia centrale e in Emilia. Togliatti, in un’attività direttiva ampia e multiforme (era segretario del PCI, direttore di Rinascita, deputato, e indirizzava quotidianamente lettere e biglietti a numerosissimi corrispondenti), contribuì a creare un partito che non solo guidava e controllava i conflitti sociali, ma era anche una macchina politica moderna e razionale, funzionante sulla base del ‘centralismo democratico’.

Il 1956 fu un anno ‘terribile’ nella storia del comunismo. In febbraio, in una riunione segreta del XX Congresso del PCUS (di cui Togliatti fu in seguito informato), furono denunciati i «crimini di Stalin». Togliatti, dopo aver tentato invano di ottenere che quelle denunce non venissero rese pubbliche, sostenne in un’intervista (9 domande sullo stalinismo, in Nuovi argomenti, maggio-giugno 1956, pp. 110-139) una interpretazione dello stalinismo come un

accumularsi di «elementi negativi», che avrebbe potuto far maturare nel futuro un «giudizio storico più esatto». Il

‘legame di ferro’ che lo aveva sempre legato all’Unione Sovietica finì con il delegittimare il PCI, relegandolo in un ruolo di pura opposizione. La situazione del partito peggiorò quando, nel novembre dello stesso anno, una rivolta popolare avvenuta in Ungheria fu repressa nel sangue dall’intervento dell’esercito sovietico, che provocò un larghissimo movimento di protesta cui aderirono, in Italia e in Europa, uomini politici e intellettuali, anche comunisti. La posizione di Togliatti fu, ancora una volta, di aperto sostegno all’Unione Sovietica, e ciò condusse alla diaspora di molti iscritti al PCI e a una profonda rottura con il PSI, con il quale il PCI aveva stretto un patto unitario sin dal 1944.

Ma fu proprio allora, all’VIII Congresso del partito (Roma, dicembre 1956), che prese corpo, nella relazione di Togliatti, la «via italiana al socialismo», e cioè una tattica politica basata sulle «riforme di struttura» e sul rispetto del regime parlamentare sul piano interno e sul  «policentrismo» nei rapporti fra partiti comunisti.

Negli ultimi anni della sua vita Togliatti si dette a una intensa attività pubblicistica, storiografica e filosofica, riannodando in parte i fili dei suoi studi. La storia del comunismo, la storia d’Italia e la sistemazione della figura di Gramsci ne furono gli assi principali. I toni dottrinari che Togliatti aveva usato in molte occasioni si placarono lentamente, e la contraddizione fra la ricchezza della sua cultura e il suo stalinismo di fondo si attenuò. Significativa fu anche la sua riflessione sul tema della pace, che considerava un possibile terreno di incontro con il mondo cattolico. Il suo ultimo scritto fu il cosiddetto Memoriale di Yalta, un promemoria sulle questioni del movimento operaio internazionale steso nell'agosto 1964 a Yalta, in Crimea, in vista di colloqui con i dirigenti sovietici (sarebbe stato pubblicato, per volontà del nuovo segretario del PCI, Longo, sul numero di Rinascita del 5 settembre): in esso, oltre a richiamare i valori del «policentrismo», Togliatti criticava le «contraddizioni» e i «ritardi» del mondo comunista. Poco dopo la redazione di quel documento, Togliatti fu stroncato da un’emorragia cerebrale. Morì a Yalta il 21 agosto. Ai suoi funerali, svoltisi a Roma quattro giorni dopo, partecipò oltre un milione di persone.

Opere. Degli scritti di Togliatti è stata pubblicata una vastissima raccolta (Opere, I-VI, 8 tt., a cura di E. Ragionieri, F. Andreucci, P. Spriano, L. Gruppi, Roma 1967-1984). Esistono anche numerose antologie parziali; tra esse, segnaliamo Opere scelte, a cura di G. Santomassimo, Roma 1974, e La politica nel pensiero e nell'azione: scritti e discorsi 1917-1964, a cura di M. Ciliberto - G. Vacca, Milano 2014. Fra i numerosi volumi contenenti scritti non riprodotti o riprodotti solo parzialmente nelle citate Opere, si veda: Il Partito comunista italiano, Milano 1958, Roma 1997; Problemi del movimento operaio internazionale (1956-1961), Roma 1962; La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, Roma 1962, 1984; Momenti della storia d'Italia, Roma 1963, 1974; Gramsci, a cura di E. Ragionieri, Roma 1967; M. Correnti [P.T.], Italiani, italiani ascoltate!: discorsi agli italiani, Milano 1972; Da Radio Milano-Libertà, Roma 1974; I corsivi di Roderigo: interventi politico-culturali dal 1944 al 1964, a cura di O. Cecchi - G. Leone - G. Vacca, Bari 1976; Discorsi parlamentari, I-II, Roma 1984; Corso sugli avversari: le lezioni sul fascismo, a cura di F.M. Biscione, Torino 2010. Una selezione della corrispondenza è contenuta in La guerra di posizione in Italia: epistolario 1944-1964, a cura di G. Fiocco - M.L. Righi, Torino 2015. Un testo fra autobiografia e biografia è Conversando con Togliatti: note biografiche a cura di Marcella e Maurizio Ferrara, Roma 1953; un altro, di carattere più nettamente autobiografico, è Così Togliatti raccontò la sua formazione politica e culturale, in L'Unità, 1° settembre 1964, p. 3 (riporta un colloquio del 27 maggio 1961 con Licia Perelli). La collaborazione di Togliatti alla stampa periodica comunista (in particolare L’Unità, Rinascita e Lo Stato operaio) fu molto ricca e frequente, e non è stata ancora censita compiutamente.

Fonti e Bibl.: la Fondazione Istituto Gramsci di Roma conserva il Fondo Palmiro Togliatti (1899-1964), suddiviso in cinque sezioni (Carte Botteghe Oscure, Corrispondenza politica, Scrivania di casa, Carte Ferri-Amadesi, Carte Marisa Malagoli). Occorre inoltre considerare l’Archivio del PCI (in partic. nelle serie Segreteria e Corrispondenza singoli) e il Fondo Rinascita che si trovano nella stessa sede.

La letteratura su Togliatti è vastissima. Si citano qui i principali studi biografici: G.M. Cherchi, T. a Sassari, 1908-1911: una provincia sarda nell'età giolittiana, Roma 1972; G. Bocca, P.T., Roma-Bari 1973; E. Ragionieri, P.T.: per una biografia politica e intellettuale, Roma 1976; A. Agosti, P.T., Torino 1996; G. Fiocco, T., il realismo della politica: una biografia, Roma 2018.

Fra i libri dedicati ad aspetti specifici dell’attività di Togliatti: E. Aga-Rossi, V. Zaslavsky, T. e Stalin: il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna 1997, 2007; Gramsci a Roma, T. a Mosca: il carteggio del 1926, a cura di Ch. Daniele, Torino 1999; C. Spagnolo, Sul memoriale di Yalta: T. e la crisi del movimento comunista internazionale (1956-1964), Roma 2007; T. nel suo tempo, a cura di R. Gualtieri, C. Spagnolo, E. Taviani, Roma 2007.

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