Panarabismo

Enciclopedia del Novecento (1980)

Panarabismo

Bernard Lewis

sommario: 1. Introduzione. 2. Fermenti nazionalistici e panarabi nell'Impero ottomano. I precursori. 3. Dalla rivolta contro i Turchi (1916) alla prima guerra arabo-israeliana (1948). 4. Il panarabismo fra trionfo ideologico e declino politico. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Come dottrina e come movimento politico, il panarabismo è un'applicazione ai popoli di lingua araba del concetto di nazione tipico dell'Ottocento europeo: la nazione costituisce cioè la suddivisione fondamentale del genere umano; è definita in base a talune caratteristiche mutevoli e tuttavia bene individuabili; è dotata di certi attributi, scopi e diritti politici; ed è infine, così definita, l'unico fondamento legittimo dello Stato. Secondo questa teoria, ogni nazione che non abbia espresso la sua essenza nazionale in uno Stato si trova a essere priva dei suoi diritti; a sua volta, ogni Stato che non sia fondato su di una nazione è arbitrario e illegittimo.

All'inizio del XX secolo i popoli di lingua araba, come d'altronde tutto il resto dell'umanità (salvo pochissimi casi, quasi tutti nell'Europa occidentale), non erano organizzati secondo il principio nazionale. Con gradi diversi di effettiva subordinazione, l'Impero ottomano incorporava la parte maggiore e di gran lunga più importante dei popoli di lingua araba. Alcuni di essi, stanziati nelle regioni più lontane dell'Arabia, avevano conservato un'indipendenza effettiva anche se non nominale; altri erano passati sotto il dominio o nella sfera d'influenza delle potenze europee: nell'Arabia meridionale e orientale degli Inglesi, nel Nordafrica dei Francesi, e in Libia (1911-1912) degli Italiani.

Fatta eccezione per piccole minoranze cristiane, concentrate soprattutto nelle regioni orientali, e per minoranze ebraiche ancor più esigue, le popolazioni di lingua araba erano in schiacciante maggioranza musulmane, e appunto in base alla loro fedeltà all'Islàm esse stesse definivano la propria appartenenza sociale e politica. Esisteva naturalmente la consapevolezza di un'identità araba, la quale in tempi precedenti aveva avuto una certa importanza, sebbene più nella sfera sociale e culturale che in quella specificamente politica. Essa era comunque passata in secondo piano rispetto alla predominante fedeltà verso l'Islàm e, nei territori islamici, i Turchi e non gli Arabi erano stati - nell'ultimo millennio - il popolo dominante. Benché orgogliosi della loro discendenza e della loro cultura, gli Arabi accettarono il predominio turco nella comunità universale islamica così come Dante aveva accettato la sovranità germanica nel Sacro Romano Impero. La coscienza dell'identità culturale araba perdurò sotto l'Impero ottomano, integrata tuttavia da una totale identificazione con l'ordinamento sociale e politico ottomano e dalla fedeltà verso il sultano ottomano nella sua veste di capo legittimo dello Stato islamico.

Identità e lealtà politica scaturivano essenzialmente da tre fattori. Il primo, di carattere religioso o meglio comunitario, consisteva nell'appartenenza alla famiglia universale dell'Islàm ed era il fattore di gran lunga più importante e più efficace. Al secondo posto c'era la fedeltà a un determinato Stato o dinastia (i due termini avevano allora quasi lo stesso significato), che per gli Arabi del Crescente Fertile era la Casa ottomana e per quelli d'Egitto la casa regnante dei chedivè sotto la suzeraineté ottomana, mentre quelli della penisola arabica obbedivano a una molteplicità di capi indigeni. Al terzo e ultimo posto veniva l'identità etnica o locale, la quale era però del tipo più elementare: operava cioè soltanto al livello della famiglia, del clan o, nella migliore delle ipotesi, della tribù. Come base della lealtà politica verso un sovrano, quest'ultimo fattore rimaneva vitale soprattutto nella penisola arabica e nei territori limitrofi. E interessante notare che il termine arabo moderno indicante il nazionalismo, qawmiyya, compare per la prima volta in turco e non in arabo, ed è un termine spregiativo, non elogiativo, con una connotazione di tribalismo o settarismo disgregativo.

Il concetto di nazionalità etnica come base dell'identità politica era tipicamente europeo. La sua nascita risale alla fine del XVIII e agli inizi del XIX secolo, e si collega alla Rivoluzione francese, alle guerre napoleoniche e al romanticismo. Le sue prime manifestazioni nel mondo islamico furono, e per qualche tempo rimasero, di ispirazione straniera. Per lungo tempo, l'unica eco nei paesi islamici si ebbe fra le minoranze non musulmane, principalmente cristiane.

2. Fermenti nazionalistici e panarabi nell'Impero ottomano. I precursori

La prima fase, nella nascita e nello sviluppo del panarabismo, comincia intorno al 1875 e termina nel 1914 con lo scoppio della prima guerra mondiale. Durante questo periodo il movimento fu in prevalenza siriano; anzi, uno storico è giunto perfino ad affermare che nei documenti e nella saggistica di quell'epoca il termine ‛arabo' significava ‛siriano'. L'attività del movimento si esplicava principalmente attraverso società segrete e portò alla convocazione del primo congresso arabo a Parigi, nel 1913.

A questo primo sviluppo del panarabismo contribuirono vari fattori. Il primo fu l'influenza esterna, cioè europea, che assunse diverse forme. C'era la pressione esercitata dalle idee europee, soprattutto dalle idee di patriottismo e nazionalismo liberale come si erano sviluppate durante l'Ottocento. Di provenienza essenzialmente francese, italiana e inglese, esse penetrarono nel mondo arabo attraverso traduzioni, adattamenti, o infiltrazioni orali. Un'importanza notevolmente maggiore ebbe però l'influenza dell'esempio europeo, concretato soprattutto nei modelli offerti dai Tedeschi e dagli Italiani con la creazione di un potente Stato-nazione unitario là dove prima era un mosaico di piccoli Stati, la maggior parte dei quali di scarsa importanza. Gli esempi della Germania e dell'Italia furono, e sono rimasti, un potente stimolo per i movimenti unitari sviluppatisi nei popoli musulmani e arabi, tra i quali non mancarono candidati al ruolo già svolto dalla Prussia o dal Piemonte nella creazione di più vaste unità politiche. Dapprima, l'unico candidato possibile fu l'Impero ottomano, e le proposte di unificazione facevano appello all'Islàm piuttosto che al nazionalismo: si basavano cioè su un programma panislamico piuttosto che panarabo o panturco. Successivamente, anche l'Egitto, e poi altri Stati ancora, aspirarono a tale ruolo.

Gli interessi europei rappresentarono un altro importante fattore. Molte potenze europee trovavano un certo vantaggio nell'incoraggiare idee nazionaliste fra gli Arabi, e in periodi diversi Francia, Inghilterra, Germania, Italia e Russia si adoperarono per influenzare, patrocinare e perfino organizzare movimenti di questo tipo.

Da ultimo occorre accennare all'influenza del romanticismo occidentale, che riscoperse gli Arabi e riaccese l'interesse per il loro remoto e glorioso passato. In un primo momento, la risonanza di scrittori quali Disraeli, Washington Irving e Lamartine nei paesi arabi fu minima o forse nulla; le loro opere diedero nondimeno inizio a una lunga vicenda di influssi europei, e col tempo le idee romantiche cominciarono a penetrare fra i Turchi e gli stessi Arabi. Fra i patrioti liberali turchi si manifestò, a volte, una sorta di filoarabismo romantico, affine in qualche modo all'ossessione dei radicali e rivoluzionari europei dapprima per l'antichità e poi per il Medioevo. Questa tendenza trovò talvolta espressione politica, come ad esempio nella dottrina, di cui si ritrova una debole eco nel tardo Ottocento, secondo la quale i califfi-sultani ottomani erano degli usurpatori e dovevano essere sostituiti da un califfato arabo. Ma su questo si ritornerà in seguito.

Oltre alle influenze internazionali erano all'opera anche importanti fattori locali, o meglio regionali. Nell'ambito dello stesso mondo ottomano al quale appartenevano gli Arabi, altri popoli - Greci, Serbi, Bulgari e Romeni - avevano a turno conquistato l'indipendenza e costituito moderni Stati nazionali, che sembravano prosperare o, quanto meno, dimostravano di aver raggiunto uno stadio di progresso e prosperità considerevoli a confronto con la loro situazione precedente e con quella perdurante nelle province rimaste sotto il dominio ottomano. Perfino i Turchi, i signori dell'Impero, avevano ceduto al virus nazionalistico e cominciavano a parlare di solidarietà turca anziché ottomano-islamica. Questa tendenza veniva incoraggiata dagli esuli e dagli emigrati, che giungevano in Turchia dalle varie popolazioni di lingua turca soggette al vasto Impero russo. Costoro, che si erano scontrati con il panslavismo in Russia, avevano reagito con un panturchismo di proprio conio, che introdussero poi in Turchia sperando di indurre i Turchi ad assumere la leadership politica che la teoria panturca assegnava loro. Nelle province ottomane di lingua araba le nuove ideologie turche suscitarono una certa disapprovazione tra gli Arabi di sentimenti religiosi, ma scarsa opposizione reale.

Dapprima i movimenti di opposizione nei territori ottomani furono separatisti più che nazionalisti, sebbene si esprimessero spesso in un linguaggio nazionalistico importato dall'Europa. Tra questi movimenti, di gran lunga il più importante fu quello patrocinato dai chedivè d'Egitto. Fino al 1914 l'Egitto continuò, nominalmente, a far parte dell'Impero ottomano e rimase sotto la suzeraineté ottomana. In realtà era però governato da una dinastia virtualmente indipendente, che restò in carica e continuò a governare anche dopo l'occupazione britannica del paese nel 1 882. Le aspirazioni politiche dei chedivè portarono a incoraggiare, anziché il nazionalismo arabo, il patriottismo egiziano: un ideale, quest'ultimo, allora quasi altrettanto remoto ma alquanto più confacente ai loro obiettivi. Essi ritennero tuttavia utile ricercare appoggio anche nei territori ancora sotto la sovranità ottomana, e in questo furono molto aiutati dal crescente numero di Arabi, che dalla Siria e dal Libano ottomani emigravano in Egitto dove i chedivè, soprattutto dopo l'occupazione britannica, offrivano una certa libertà e una certa possibilità d'azione.

Un movimento analogo, benché su scala molto più ridotta, si sviluppò nella Siria ottomana, dove, a quanto pare, trovò seguaci soprattutto fra i cristiani di lingua araba dell'area ora compresa nella repubblica del Libano. Costoro, per natura molto più aperti dei loro compatrioti musulmani all'influenza delle idee europee, sembra abbiano pensato a uno Stato separato siriano o libanese entro l'Impero ottomano. Come in Egitto, anche qui esistevano già i presupposti necessari, e cioè la struttura amministrativa e la consapevolezza di una propria distinta identità. Le loro idee avevano però una portata meramente locale, e il movimento trovò scarso appoggio nell'ambito della comunità cristiana, e assolutamente nessuno al di fuori di questa.

Entrambi questi movimenti furono strettamente regionali, limitati cioè a un solo paese. Pur riflettendo l'influsso dell'idea europea di nazionalità, si manifestarono nella forma non del nazionalismo bensì del patriottismo (ideale affine ma distinto); facevano cioè appello a un'identità basata sulla patria piuttosto che sulla nazione, alla fedeltà verso lo Stato che governava questa patria piuttosto che verso un'entità astratta.

Nondimeno, essi contribuirono entrambi, in modi diversi, al sorgere e al maturarsi dell'ideale arabo. Tale ideale trova dapprima espressione nella nozione, piuttosto vaga, di un califfato arabo, che sembra aver avuto corso in alcuni circoli radicali turchi. Si avanzava cioè la proposta di rovesciare il califfato ottomano per sostituirlo con un nuovo califfato, che doveva essere assunto dallo sceriffo della Mecca il quale, si credeva romanticamente, avrebbe restaurato l'antica grandezza e gloria dell'Islàm arabo. Una variante era rappresentata dall'idea di trasformare l'impero in una repubblica, nella quale lo sceriffo avrebbe esercitato una sorta di autorità spirituale ma nessuna effettiva autorità politica. Queste idee circolarono soprattutto fra i Turchi, ma fecero senza dubbio presa anche in certi ambienti arabi.

La prima esplicita enunciazione dell'idea che il califfato sarebbe dovuto passare dai Turchi agli Arabi, e con essa la prima enunciazione teorica del panarabismo, è contenuta nell'opera di un certo ‛Abd al-Raḥmān al-Kawākibī (1849?-1902), in genere considerato oggigiorno il pioniere ideologico del panarabismo. Kawākibī nacque ad Aleppo da un'altolocata famiglia di sceriffi e lavorò per un certo tempo come funzionario governativo e come giornalista. Venne poi in urto, a quanto sembra, con le autorità, e fu per qualche tempo in prigione. Nel 1898, come molti Siriani, si trasferì in Egitto, che gli offriva un più vasto campo d'azione. Pare che a un certo momento sia entrato al servizio del chedivè, e abbia intrapreso per conto di questi un lungo viaggio in Asia e in Africa. Viene principalmente ricordato per due libri, nei quali attacca il sultanato ottomano in generale e il sultano regnante ‛Abd ul-Ḥamid II in particolare. È stata plausibilmente avanzata l'ipotesi che entrambi questi libri facessero parte di una ben organizzata campagna patrocinata dal chedivè contro il sultano. La prima opera, The characteristics of tyranny, fu pubblicata nel 1900 ed è in larga misura basata sul famoso trattato Della tirannide di Vittorio Alfieri, uscito per la prima volta nel 1800 (una traduzione turca apparve a Ginevra nel 1898). La seconda, dal titolo Umm al-Qurā (La Madre delle città: cioè la Mecca), usci dapprima sotto forma di una serie di articoli pubblicati nella rivista ‟al-Manār" fra l'aprile del 1902 e il febbraio del 1903, e poi in volume dopo la morte di Kawākibī. Recentemente è stata rinvenuta la copia di un'edizione in volume datata 1316 egira (1898-1899), luogo di edizione Port Said. Presumibilmente, la copia fa parte di un'edizione limitata, destinata alla circolazione clandestina nell'Impero ottomano. Quest'opera non sembra più originale della precedente, giacché riflette in larga misura le idee espresse dallo scrittore romantico inglese Wilfred Scawen Blunt nel libro The future of Islam (1881), nel quale veniva prospettata l'idea di un califfato arabo. Con quest'opera Kawākibī fu il primo scrittore arabo a schierarsi apertamente per gli Arabi in quanto costituenti un'entità politica opposta ai Turchi.

Nel libro, come in molti altri scritti dell'epoca, si affronta il problema della debolezza e dell'arretratezza dell'Islàm, nonché quello dei possibili rimedi. L'analisi ripercorre la falsariga ben nota fra i riformatori musulmani - soprattutto Turchi - del XIX secolo. La comunità islamica era ormai moribonda, avendo perduto il senso di una comune appartenenza etico-politica. L'arretratezza era il risultato della tirannia, del declino della civiltà musulmana e della mancanza di genuini vincoli linguistici e razziali tra i musulmani. Gli Ottomani, in particolare, avevano avuto la colpa di corrompere l'Islàm introducendovi, sotto l'influsso del cesaropapismo bizantino, un sistema di gerarchia religiosa - al cui vertice stava il sultano stesso - totalmente estraneo al vero spirito dell'Islàm. Per questi e altri motivi il sultanato ottomano era incapace di assolvere il proprio dovere di difendere e salvaguardare l'Islàm. L'Impero ottomano, nella cui composizione entravano paesi, religioni e sette differenti, e con una direzione governativa poliglotta, non poteva realizzare la necessaria rigenerazione attuabile soltanto dagli Arabi, fondatori e creatori della civiltà islamica. Un califfo arabo con sede alla Mecca avrebbe potuto costituire la guida spirituale di una più vasta unione islamica. La sua autorità, sottolinea Kawākibī, doveva essere di natura religiosa e non politica, cosicché egli potesse assurgere a simbolo dell'unità islamica. Kawākibī elenca infine i motivi della superiorità degli Arabi e del loro diritto al califfato.

Le motivazioni di Kawākibī possono essere - e sono state - discusse. L'abbandono della sua città natale - Aleppo - in seguito a oscuri dissidi e la sua opera al servizio dei chedivè hanno gettato ombra sulla sua integrità. Anche la sua originalità è stata messa in dubbio, e si sono chiariti i suoi debiti nei confronti dell'Alfieri e del Blunt. Tutto questo non diminuisce tuttavia la sua importanza, né incide tenuto conto dell'ambiente cui si rivolgeva - sull'originalità e sulla novità delle idee da lui espresse. Gli elementi nuovi e significativi delle opere di Kawākibī sono: 1) la chiara ed esplicita ripulsa del califfato ottomano; 2) l'insistenza sui popoli di lingua araba in quanto costituenti un'entità sociale con diritti politici propri; 3) l'idea, fra tutte la più avanzata, di un califfato spirituale che, auspicabilmente, avrebbe lasciato a un'autorità secolare, indipendente dall'autorità e dalle leggi religiose, l'attività politica e di governo, la quale doveva quindi ricadere interamente entro la sfera della decisione e dell'azione umana. Tale indirizzo segna il primo importante passo nella direzione di un nazionalismo laico. Che poi la teoria di uno sceriffo spirituale arabo alla Mecca possa aver avuto lo scopo di lasciare la strada aperta a un sovrano temporale egiziano non ne diminuisce l'importanza.

Il secondo precursore del panarabismo, sul piano intellettuale, fu un altro siriano, questa volta cristiano, Negīib (Najib) Azoury (data di nascita sconosciuta, morto nel 1916). Azoury era un maronita o cattolico uniate, che aveva studiato a Istanbul e a Parigi, ed era poi diventato funzionario a Gerusalemme. Lasciò la carica in circostanze ignote e sembra che, fuggito a Parigi, sia stato condannato a morte in contumacia nel 1904. L'anno successivo pubblicò Le réveil de la nation arabe. Passò quasi tutto il resto della sua vita a Parigi, ove formò un'organizzazione - la Ligue de la patrie arabe - di cui probabilmente era il factotum, e pubblicò un periodico mensile, di cui uscirono diciotto numeri, intitolato ‟L'indépendence arabe". E stato fatto rilevare che il nome dell'organizzazione è una reminiscenza dell'antidreyfusarda Ligue de la patrie francaise, che fiorì verso la fine dell'Ottocento. Gli scritti di Azoury riflettono l'ossessione, molto diffusa nei circoli antidreyfusardi, della potenza mondiale ebraica, e ciò sebbene - la cosa è singolare - egli prestasse ‛un'attenzione relativamente scarsa agli inizi della colonizzazione sionista in Palestina. Aveva al giornale alcuni collaboratori francesi e fece, senza successo, ripetuti tentativi per ottenere un aiuto finanziario dal governo francese.

Le idee di Azoury erano anche più radicali di quelle di Kawākibī. Mentre Kawākibī aveva auspicato un trasferimento del califfato dai Turchi agli Arabi, senza però, presumibilmente, alcuna lacerazione dell'Impero islamico ottomano, il cristiano Azoury parlava apertamente di secessione. Il suo progetto prevedeva non solamente un califfato arabo, ma un regno arabo comprendente la penisola arabica e il Crescente Fertile. L'Egitto veniva esplicitamente escluso in quanto gli Egiziani non erano di razza araba, sebbene poi - curiosamente - venisse proposto come sovrano di questo regno arabo un principe della dinastia dei chedivè. I confini dovevano essere segnati dalle valli del Tigri e dell'Eufrate, dal Mediterraneo, dall'Oceano Indiano e dal Canale di Suez. Azoury fece propria l'idea, avanzata da Kawākibī, del califfato spirituale e della separazione fra autorità religiosa e autorità laica. Quale appartenente alla minoranza cristiana, egli era naturalmente interessato alla libertà religiosa e all'eguaglianza dei diritti civili, che sperava di ottenere in uno Stato così caratterizzato

Un personaggio molto diverso, e ai suoi tempi ben più influente dei due appena citati, fu un terzo emigrante siriano, Rashid Riḍā (1865-1935). Nato a Tripoli di Siria (ora nel Libano), Rashid Riḍā andò nel 1897 in Egitto dove passò il resto della sua vita. Fu allievo del famoso teologo egiziano Muḥammad ‛Abduh e direttore della rivista da lui stesso fondata, ‟al-Manār", che ebbe vasta diffusione nel mondo islamico.

Rashid Riḍā fu anzitutto un teologo, non un politico, e, fondamentalmente, la sua devozione andò all'Islàm e non alla causa araba. Già nel 1900 scriveva tuttavia su ‟al-Manār" una serie di articoli in cui, ponendo a confronto Turchi e Arabi, illustrava, a tutto vantaggio degli Arabi, i caratteri e le imprese dei due popoli. Pur riconoscendo grandi qualità ai Turchi e pur dando atto dell'importante funzione da loro svolta nell'Islàm, egli insisteva sulla superiorità degli Arabi e sulla maggiore importanza del loro ruolo nella nascita e nel diffondersi dell'Islàm nel mondo. Ma è appunto per il servizio reso all'Islàm che Rashid Riḍā esalta gli Arabi, diversamente dai posteriori teorici nazionalisti - ivi compresi anche taluni cristiani - che esaltano l'Islàm come manifestazione del genio arabo. Non vi è traccia alcuna di appoggio al separatismo nei suoi scritti, che esprimono l'atteggiamento di un leale musulmano nei riguardi dello Stato musulmano, che a quell'epoca era ancora l'impero ottomano. Rashid Ridà appoggiò sulle prime la rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908, e certo incorse in attacchi ingiuriosi quando inneggiò al nuovo regime nella città di Damasco, nettamente favorevole al sultano. Successivamente, però, ebbe a disapprovare la loro linea di condotta, che giudicava irreligiosa e antiislamica, e si schierò infine decisamente all'opposizione dopo il colpo di Stato militare di Istanbul, capeggiato da Enver Pascià (23 gennaio 1913). Svolse in seguito un ruolo attivo nella politica nazionalistica araba.

Nel complesso, la rivoluzione del 1908 produsse notevoli cambiamenti nella posizione araba. Fino a quel momento l'appoggio ai movimenti e comitati arabi era stato insignificante. I comitati formatisi in Siria e altrove suscitavano un interesse minimo fra la popolazione. Anzi, gli Arabi ottomani, nella stragrande maggioranza, rimanevano sudditi leali del sultano, e sembra d'altro canto che durante il regno di ‛Abd ul-Ḥamīd godessero di una posizione privilegiata. Lo stesso sultano aveva un piccolo gruppo di intimi e favoriti Arabi - comprendente, tra gli altri, anche capi religiosi - attraverso i quali manteneva stretti e diretti legami con le province arabe. L'interesse del governo ottomano per i centri storici dell'arabismo si manifestò chiaramente e si rafforzò con la costruzione della ferrovia del Ḥigiāz che collegava Damasco a Medina, e che, ironia del destino, fu completata nel 1908. Il movimento dei Giovani Turchi godeva dell'appoggio arabo oltre che di quello turco, e diverse personalità delle province arabe spiccavano fra i capi del movimento; va ricordato fra questi il baghdadita Maḥmūd Shevket Pascià, un generale che ebbe un ruolo fondamentale nel soffocare la rivolta controrivoluzionaria del 1909 e che più tardi divenne Gran Vizir. Un'associazione per la fratellanza ottomano-araba, consacrata in generale agli ideali dei Giovani Turchi, e solo incidentalmente alla prosperità delle province arabe dell'impero, fu fondata a Istanbul da Arabi.

Cionondimeno i rapporti fra Turchi e Arabi dovevano presto deteriorarsi. La stessa lealtà degli Arabi verso ‛Abd ul-Ḥamīd e la preminenza di esponenti arabi fra i suoi più fedeli sostenitori contribuì a questo processo. Da un lato gli Arabi si sentivano defraudati delle loro precedenti posizioni di potere e influenza; dall'altro, molti Turchi nutrivano sentimenti ostili verso i seguaci del deposto tiranno. Gli Arabi inoltre, come anche popolazioni di altre province ottomane, cominciarono ad avvertire sempre più la pressione del turchismo, il maturarsi cioè, in seno al gruppo dominante dell'impero ottomano, della coscienza di un'identità turca distinta, fenomeno inevitabilmente destinato a suscitare una reazione fra i non Turchi. Fino a quando l'impero ottomano era stato concepito e presentato come una monarchia islamica, poteva incontrare, come in effetti avvenne, difficoltà fra i suoi sudditi cristiani, ma godeva della totale lealtà dei suoi sudditi musulmani, fossero di liugua turca, araba, curda, albanese, serba o qualsiasi altra. Ma con il processo di transizione dallo Stato ottomano verso uno Stato turco e con la crescente accentuazione dell'identità turca in tutte le dichiarazioni ufficiali e perfino nell'azione di governo dei Giovani Turchi al potere, gli Albanesi e poi anche altri musulmani non turchi cominciarono a sentirsi emarginati. Queste reazioni furono fortissime fra i musulmani balcanici, più vicini ai centri del potere e più aperti all'influsso delle idee europee attraverso i loro compatrioti e vicini cristiani. Furono invece più fiacche e tardive tra le popolazioni arabe, più lontane dalla capitale e dai suoi problemi e ancora in maggioranza ancorate a posizioni musulmane e conservatrici. Un sentimento di identità araba prese tuttavia a svilupparsi nel nuovo clima, manifestandosi nella formazione di tutta una serie di associazioni, organizzazioni e circoli arabi - taluni culturali, altri letterari; taluni palesi, altri segreti - ma quasi tutti più o meno attivi anche politicamente. Anche in questa fase non sembra vi fosse un particolare entusiasmo per un'effettiva separazione dallo Stato ottomano, e questi gruppi apparvero spesso più interessati alla politica della capitale che ai problemi delle loro province. I membri arabi del parlamento di Istanbul formavano un gruppo considerevole, e nella lotta per il potere tra correnti e fazioni rivali dei Giovani Turchi ebbero talvolta una parte di una certa importanza. Circa i problemi specificamente arabi, sembra che fossero in generale orientati verso il decentramento e verso una qualche forma di autogoverno locale nelle province arabe, grazie al quale potessero raggiungere i loro limitati obiettivi politici e culturali. Taluni si spingevano un po' oltre, parlando di una specie di duplice monarchia turcoaraba sul modello austro-ungarico. In linea di massima, si prefiggevano di opporsi alla politica di accentramento e di turchizzazione attuata da alcuni dei Giovani Turchi, il che li indusse spesso ad allearsi con l'Entente libérale, il partito noto con il nome turco di Hüriyet ve Itilâf (libertà e associazione), che si opponeva esplicitamente, sia per la denominazione che per il programma, al gruppo dominante di Unione e Progresso. L'Entente libérale, fondata il 21 novembre 1911, attrasse molti sostenitori fra gli Arabi, il più famoso dei quali fu Seyyid Ṭālib, discendente da una famiglia di notabili di Bassora, che rappresentò la sua città al parlamento ottomano dal 1908 al 1914 e fu il capo riconosciuto del gruppo dei deputati arabi. Figura preminente nella nativa Bassora, fu coinvolto nel 1912-1913 in quello che fu virtualmente un tentativo di creare un emirato autonomo nell' ‛Irāq meridionale.

I seguaci dei movimenti politici arabi erano ancora in grande maggioranza siriani, sebbene verso la fine aderissero parecchi iracheni. L'adesione di questi ultimi ebbe una particolare importanza, perché tra gli ufficiali dell'esercito ottomano molti erano quelli di origine irachena.

La più importante manifestazione pubblica dei nazionalisti arabi prima dello scoppio della Grande guerra fu la convocazione di un congresso arabo a Parigi nel giugno del 1913. I partecipanti furono venticinque fra cui varie personalità di rilievo, e, salvo due studenti iracheni che si trovavano per caso a Parigi, tutti di provenienza siriano-libanese. Le loro richieste comprendevano l'autonomia amministrativa per le province arabe, una maggiore partecipazione araba al governo centrale e il riconoscimento dell'arabo, insieme con il turco, come lingua ufficiale dell'Impero. Fra i diversi gruppi partecipanti al congresso emersero nette divergenze. La più importante era quella tra i cristiani di Beirut, francofili e fondamentalmente separatisti (taluni auspicavano l'annessione alla Francia), e coloro che pensavano alla costituzione di una più vasta unità araba. I vari e differenti obiettivi - riforma, autonomia e separatismo - trovarono tutti espressione nei dibattiti.

Il congresso non pervenne ad alcun risultato tangibile. Il governo ottomano, che aveva seguito i lavori del congresso e mantenuto i contatti con i partecipanti, fece solo concessioni di scarsa importanza, e nel frattempo fra gli stessi Arabi emersero profondi contrasti. Fu allora che ebbe inizio uno slittamento dal prevalente influsso degli intellettuali siriani semioccidentalizzati a quello degli ufficiali iracheni, da un atteggiamento più moderato a un atteggiamento più radicale, dalla protesta alla cospirazione. L'Egitto era ancora considerato al di fuori della sfera del nazionalismo arabo, e fra i primi pionieri della politica nazionalista araba ci fu un solo egiziano: ‛Azīz ‛Alī al-Maṣrī, che lasciò l'Egitto per servire nell'esercito ottomano. Nel 1914 egli organizzò una nuova società, questa volta segreta, costituita in gran parte da ufficiali dell'esercito. Scoperto, fu arrestato, processato e condannato a morte. Fortunatamente per lui, suo cognato, che era governatore del Cairo, poté convincere il governo britannico a intervenire in suo favore, nella sua qualità di suddito egiziano sotto protezione britannica, e ottenere quindi il suo rilascio e il suo ritorno in Egitto.

3. Dalla rivolta contro i Turchi (1916) alla prima guerra arabo-israeliana (1948)

I primi passi importanti verso il raggiungimento dell'indipendenza e dell'unità araba furono compiuti durante la prima guerra mondiale. Curiosamente, queste iniziative furono di ispirazione straniera e non araba, e la loro prima enunciazione ideologica ebbe impronta religiosa e non nazionalistica.

Durante la prima guerra mondiale, fu la politica britannica a dare diretto impulso alla nascita del movimento arabo. Nel 1915 il governo britannico aveva avviato trattative con Ḥusain, lo sceriffo della Mecca, nell'intento di persuaderlo a porsi a capo di una rivolta contro il sultano. Con questa iniziativa, l'Inghilterra si prefiggeva un duplice scopo. In primo luogo si mirava a indebolire l'Impero ottomano e in particolare ad attenuare la pressione sull'Egitto spostando l'attenzione verso una rivolta araba; in secondo luogo si voleva fronteggiare il pericolo che poteva venire dal gihād ottomano. Dopo lo scoppio della guerra, il governo ottomano aveva infatti proclamato un gihād, una guerra santa contro le potenze dell'Intesa e i loro alleati. Si temeva che un siffatto appello potesse avere effetti pericolosi tra i musulmani sotto il dominio britannico, specialmente in India e in Egitto, come anche tra i musulmani sudditi degli imperi francese e russo. In realtà, questo pericolo si dimostrò in gran parte infondato, ma l'idea di opporre all'appello del sultano ottomano un controappello dello sceriffo della Mecca presentava una naturale attrattiva. Un altro obiettivo certamente presente alla mente di almeno alcuni tra gli esponenti britannici era quello di estendere l'influenza britannica in Palestina e Siria, estromettendo così i Francesi e consolidando la posizione britannica in Egitto. Lo sceriffo dimostrò interesse per le proposte fattegli di un califfato arabo e di un regno arabo, da costituire staccando alcune province ottomane e ponendole sotto la sua sovranità.

Il programma era però, fondamentalmente, dinastico e separatista piuttosto che nazionalista. I rapporti tra lo sceriffo della Mecca e le società nazionaliste arabe non furono facili. È significativo il fatto che, quando si decise a sollevarsi contro gli Ottomani, il suo proclama poneva l'accento sulla fede religiosa tradizionale piuttosto che sul nazionalismo arabo. Egli denunciava i Giovani Turchi come empi innovatori che mettevano in pericolo l'Islàm, e definiva il suo operato come un intervento in difesa della fede. L'idea che il califfato ottomano fosse diventato corrotto ed empio, e che un Islàm rinnovato sarebbe sorto nella penisola arabica, terra del Profeta e dei suoi Compagni, non era nuova.

Era stata diffusa fin dal XVIII secolo dal mistico indiano Shāh Walī'ullāh, che visse per un certo periodo nel Ḥigiāz, e più efficacemente dai Wahhabiti, un potente movimento di riforma religiosa, che per un certo tempo riuscì a dominare su vaste zone dell'Arabia centrale e settentrionale. Naturalmente, idee simili, in una forma più apertamente politica, avevano avuto un posto preminente negli scritti di Blunt, Kawākibī e Azoury.

Furono pubblicate diverse versioni dei proclami emanati da Ḥusain durante la rivolta, e non mancano tuttora controversie su ciò che egli effettivamente disse. E comunque degno di nota che nei primi e più attendibili testi a nostra disposizione il riferimento all'arabismo o al nazionalismo arabo è scarso o nullo, mentre l'accento principale viene posto sull'Islàm. Sembra che alcuni di questi testi siano stati redatti da Rashīd Riḍā, che offrì i suoi consigli alle autorità inglesi in Egitto durante i negoziati con Ḥusain. Essi riflettono il suo personale punto di vista, nettamente islamico e a volte addirittura antioccidentale e anticristiano. Fu senza dubbio questo atteggiamento di Rashīd Riḍā, accentuatosi particolarmente dopo un suo pellegrinaggio nel Ḥigiāz, che indusse gli Inglesi a rinunciare alla sua collaborazione.

Sull'intera questione della rivolta araba - sulla sua utilità militare e sul suo significato politico - hanno pesantemente gravato il mito e la propaganda, e solo oggi, grazie all'apertura degli archivi e a uno studio più critico della documentazione, si stanno riconoscendo le sue vere proporzioni. Oggi si vede chiaramente che il contributo militare delle forze dello sceriffo alla vittoria alleata in Siria fu relativamente modesto mentre fu grandemente esagerato il peso del sostegno politico dato a Ḥusain dai sudditi Arabi dei sultani ottomani.

Cionondimeno, la rivolta ha avuto un'importanza notevolissima, fungendo in qualche modo da ‛mito di fondazione' sia della politica britannica che del nazionalismo arabo in quella regione.

Una nuova fase comincia con l'armistizio del 1918 e continua sino alla nascita della Germania nazista nel 1933. Durante questo periodo le ex province arabe dell'Impero ottomano dell'Asia sudoccidentale vennero costituite in Stati distinti, posti sotto il mandato britannico o francese. Tali Stati erano dotati di istituzioni più o meno liberali, dato che le potenze mandatarie avevano operato ispirandosi ai propri modelli: furono fondate repubbliche nei territori controllati dalla Francia e monarchie costituzionali in quelli sotto mandato britannico.

L'evoluzione politica delle popolazioni di questi paesi passò attraverso diversi stadi. All'inizio vi fu un certo risveglio di sentimenti di solidarietà e affinità con i Turchi, come fratelli musulmani e rappresentanti del sultanato e califfato musulmano. Questi sentimenti fecero presa persino sui capi della rivolta araba. Nella seconda quindicina dell'agosto 1918 Gemāl Pascià, comandante della quarta armata turca, informò il generale tedesco O. Liman von Sanders di aver ricevuto un messaggio segreto dallo sceriffo Faiṣal, che si offriva di sostituire la quarta armata turca sul fronte giordano qualora il governo turco gli avesse dato precise garanzie in merito alla costituzione di un Stato arabo. Lo sceriffo Faiṣal - riferiva il generale turco - diceva che era in preparazione nella zona costiera un massiccio attacco britannico (la notizia era vera), e che le truppe della quarta armata potevano essere impiegate per rinforzare il fronte fra il mare e il Giordano. Liman von Sanders cercò senza successo di ottenere le garanzie richieste da Faiṣal, ma sembra che i Turchi abbiano diffidato dell'offerta considerandola - erroneamente - una ruse de guerre britannica (O. Liman von Sanders, Fünf Jahre Türkei, Berlin 1920, pp. 330-331). Sospetti analoghi indussero il generale turco Ali Fuat Cebesoy a rifiutare, nell'ottobre 1918, l'offerta di unirsi ai Turchi contro gli Inglesi avanzata da Nūri as-Saīd, a quell'epoca ufficiale nell'esercito dello sceriffo (Ali Fuat Cebesoy, Milî Mücadele hatïralarï, Istanbul 1953, pp. 28-29).

Il movimento kemalista in Turchia determinò negli Arabi un risveglio di simpatia e interesse, e sembra che i delegati arabi abbiano svolto un ruolo di un certo rilievo nei congressi tenuti dai nazionalisti turchi in Anatolia. Successivamente, però, di fronte alla ferma aspirazione dei kemalisti a uno Stato nazionale turco e di fronte al loro rinnegamento di una più vasta tradizione ottomana o islamica, gli Arabi ritirarono la loro solidarietà e il loro appoggio, sebbene la repubblica kemalista sia rimasta per molti un modello di riuscito nazionalismo. Sāti' al-Ḥuṣrī, che doveva poi svolgere un importante ruolo come teorico del nazionalismo arabo, si trovava in quel tempo in Turchia e i suoi scritti riflettono l'influsso sia dell'esperienza che dell'ideologia turca.

Nell'immediato dopoguerra un'influenza notevole fu esercitata dai movimenti rivoluzionari di sinistra i quali, patrocinati per lo più dall'Unione Sovietica, avevano però spesso una netta impronta islamica. Questi movimenti incontrarono maggior favore fra i Turchi che fra gli Arabi, e scomparvero poco dopo il 1920.

Durante il periodo dei mandati britannico e francese l'iniziativa dei nazionalisti si dispiegava principalmente nell'ambito delle singole entità politiche costituite dalle potenze mandatarie: cioè Siria, Libano, ‛Iraq, Palestina e Transgiordania. La richiesta principale riguardava l'indipendenza più che la libertà. Sotto i regimi mandatari, la libertà politica personale (la libertà di espressione) - sebbene alquanto imperfetta, spesso limitata e qualche volta sospesa - era tuttavia maggiore che in qualsiasi epoca precedente o successiva. Poiché un certo grado di libertà veniva concesso, e l'indipendenza veniva invece negata, era naturale che il movimento politico si concentrasse sull'indipendenza e, forse, trascurasse alquanto la libertà. Nelle circostanze dell'epoca, l'indipendenza poteva riferirsi solo alle unità politiche già esistenti; perciò, come primo obiettivo di lotta, indipendenza significava indipendenza per la Siria, indipendenza per il Libano, indipendenza per l' ‛Irāq e così via. Esisteva bensì l'idea di un raggruppamento politico più vasto che li comprendesse tutti, ma, in quella fase, era di relativamente scarsa importanza. Se i popoli di questi paesi si consideravano parte di u'unità più vasta dei singoli Stati, ciò avveniva in una prospettiva islamica piuttosto che araba, in funzione cioè di una concezione dell'unità improntata più al panislamismo che al panarabismo.

Un nuovo periodo ebbe inizio nel 1933, con l'ascesa di Hitler al potere in Germania, seguita dall'invasione italiana dell'Etiopia, dalla guerra civile spagnola e dalla costituzione dell'Asse. Tutti questi avvenimenti ebbero notevoli niflessi nei territori arabi. Tre fatti si dimostrarono particolarmente rilevanti per lo sviluppo del panarabismo.

Il primo fu la persecuzione contro gli Ebrei in Germania e più tardi in altri paesi sotto il dominio o sotto l'influsso tedesco. La colonizzazione sionista in Palestina e la promessa inglese agli Ebrei contenuta nella dichiarazione Balfour avevano già conferito una speciale asprezza alla lotta araba contro il mandato e la politica inglese in Palestina. Il problema rimaneva però essenzialmente locale, e la causa degli arabi palestinesi aveva bensì trovato simpatia e interessamento ma nessun effettivo appoggio nei paesi vicini, troppo assorbiti dai loro affari interni. Il sorgere e il diffondersi di un antisemitismo attivo in Europa intensificò e rese anzi drammatico questo aspetto del problema. Nel periodo prenazista, l'immigrazione ebraica in Palestina si era ridotta a proporzioni insignificanti, e a un certo momento fu perfino superata dall'emigrazione. Le persecuzioni naziste provocarono d'un tratto un immediato e notevole aumento del ritmo dell'immigrazione ebraica, fornendo così nuovi argomenti e dando nuova urgenza all'analisi - e alla soluzione - che della questione ebraica dava il movimento sionista. Da questo momento in poi vi fu lotta aperta per la Palestina. Poiché gli Ebrei della Palestina godevano dell'appoggio dei loro correligionari e anche di altri simpatizzanti sparsi per il mondo, gli Arabi tentarono anch'essi, con sempre maggior successo, di mobilitare la loro comunità internazionale, islamica o araba che fosse; e, ironia della sorte, fu il governo britannico ad avere il ruolo principale nel dare ai tentativi arabi uno sbocco pratico.

I nazisti approfittarono in due modi di questa situazione. Da un lato, con le loro persecuzioni crearono essi stessi il problema; dall'altro riuscirono, predicando l'odio antiebraico ad ascoltatori ben disposti, a sfruttare la situazione a proprio vantaggio. La Germania nazista, preceduta in questo dall'Italia fascista, rivolse una poderosa campagna propagandistica verso i paesi arabi allo scopo di diffondere il proprio modello di ideologia nazionalista, minare la posizione delle potenze occidentali ed estendere così la propria influenza. I semi caddero in un terreno fertile e risultati sorprendenti furono talvolta ottenuti con sforzi assai modesti. Il nazionalismo arabo, a quell'epoca, era profondamente influenzato dall'ideologia nazista e fascista. Gli intellettuali musulmani, sia arabi che non arabi, avevano già ben presente alla mente gli esempi della Germania e dell'Italia, che sembravano fornire loro un modello di unificazione politica. Ora, per la prima volta, questi due paesi conducevano una propaganda attiva. L'Italia fu la prima - al di fuori del mondo arabo - ad agire in questo campo iniziando, a partire dal 1935, trasmissioni radiofoniche in arabo da Bari. Organizzazioni culturali italiane e perfino alcuni ordini religiosi presero parte a questa campagna propagandistica, nella quale furono profuse ingenti somme. A monumento della politica araba di Mussolini rimangono le colonne marmoree da lui donate alla moschea di al-Aqsā a Gerusalemme.

Comparsi sulla scena un po' più tardi - le loro trasmissioni radiofoniche in arabo non cominciarono fino al 1938 - i Tedeschi ottennero cionondimeno risultati sorprendenti. Questo fu il primo grande periodo dell'ideologia panaraba, e fu allora che molti scrittori, per lo più siriani o iracheni, gettarono le basi del programma panarabo. Per formulazione, spirito e concezione tale programma del panarabismo risentì profondamente dell'influsso del nazionalismo germanico e italiano, specialmente nella sua fase sciovinistica e illiberale.

Naturalmente, per un processo di unificazione di questo tipo l'ideologia da sola è insufficiente. Occorre anche uno Stato - una Prussia o un Piemonte - che inizi e porti a compimento la necessaria azione politica (e, ove occorra, militare). Fra gli Stati arabi, diversi erano i candidati a questo ruolo. Il primo a manifestare una siffatta ambizione fu l' ‛Irāq, che nel 1932 ottenne formalmente l'indipendenza, e con essa una certa libertà d'azione. Nello stesso anno re Faiṣal progettò una conferenza araba a Baghdād, e un eminente uomo politico iracheno, Yāsīn al-Hāshimī, tentò senza successo di promuovere un'organizzazione panaraba.

In realtà, tra gli Stati arabi soltanto uno poteva aspirare seriamente alla leadership del mondo arabo, ed era l'Egitto. Per la sua posizione centrale e il suo sviluppo culturale, economico, demografico e tecnologico, l'Egitto era il leader naturale di qualsiasi raggruppamento di paesi di lingua araba. Dopo l'‛Iràq, e prescindendo dai regni desertici dell'Arabia, troppo lontani e troppo arretrati, l'Egitto fu inoltre il primo degli Stati arabi ad acquisire una libertà d'azione sufficiente per perseguire una politica estera indipendente. La minaccia agli interessi sia britannici che egiziani derivante dall'occupazione italiana dell'Etiopia portò a un mutamento nella politica di entrambi i paesi, e alla stipulazione del trattato anglo-egiziano del 1936. Dopo di ciò l'Egitto poté seguire una linea di condotta più attiva e indipendente, e cominciò a interessarsi alla questione araba. All'inizio questo interessamento non fu che un aspetto della politica estera egiziana; col tempo divenne qualcosa di più, cioè un vero e proprio impegno verso l'arabismo.

Fino al 1936 le parti in causa nel conflitto palestinese erano il Regno Unito in quanto potenza mandataria, la leadership arabo-palestinese e la Jewish Agency. Dopo di allora la partecipazione al conflitto andò gradualmente estendendosi fino a coinvolgere altri paesi arabi. In quell'anno i sovrani della Transgiordania, dell'‛Irāq, dell'Arabia Saudita e dello Yemen intrapresero un'azione comune presso la Gran Bretagna a favore della causa palestinese (è da notare che il re dell'Egitto non si unì a questa iniziativa dei monarchi arabi). Solo dopo l'Egitto assunse infine la guida del movimento.

All'inizio l'azione interaraba per la Palestina si mantenne a livelli non governativi: i promotori erano privati cittadini, partiti di opposizione e altri organismi non ufficiali. Si formarono comitati filopalestinesi in alcuni paesi arabi e nel settembre 1937 il comitato di Damasco organizzò una conferenza a Blādaūn in Siria, cui parteciparono più di trecento delegati da diversi paesi. Nelle risoluzioni approvate dalla conferenza si respingeva ‛la spartizione della Palestina e la costituzione di uno Stato ebraico in quel territorio'.

Il primo incontro interarabo a livello governativo per la Palestina ebbe luogo al Cairo (ottobre 1938). La conferenza, denominata Congresso mondiale interparlamentare dei paesi arabi e musulmani, fu inaugurata da re Fārūq, e i suoi partecipanti furono rappresentanti ufficiali. La dizione ‛arabi e musulmani' indica chiaramente che in questa fase re Fārūq manteneva ancora aperte entrambe le strade: califfato e leadership panaraba.

Il congresso arabo servì a preparare la conferenza, indetta dal governo britannico per discutere la questione palestinese, che si tenne al St. James Palace a Londra (febbraio 1939). Le delegazioni dei governi arabi, seguendo la politica precedentemente adottata dall'Alto Comitato arabo della Palestina, rifiutarono ufficialmente negoziati diretti con i delegati ebrei. L'incontro fu perciò articolato in due serie di colloqui paralleli, l'una tra i rappresentanti inglesi e quelli ebrei, l'altra fra i rappresentanti inglesi e quelli arabi. Il Ministero britannico per le Colonie, con puntiglioso scrupolo, usò per le riunioni la denominazione di ‛Conferenze palestinesi' (al plurale).

Com'era da attendersi, non fu raggiunto alcun accordo. Nei mesi che seguirono la situazione internazionale si deteriorò rapidamente. L'annessione tedesca della Boemia e della Moravia - nel marzo - e l'invasione italiana dell'Albania - nell'aprile - furono seguite dalla costituzione dell'Asse Roma-Berlino (7 maggio). La propaganda dell'Asse nei paesi arabi venne ora intensificata; e lo scoppio della guerra di lì a poco doveva intralciarne ma non certo arrestarne lo sviluppo.

Presto se ne videro i risultati. Alcuni gruppi arabi ebbero rapporti con i governi dell'Asse sin dall'inizio; in seguito ai drammatici eventi dell'estate 1940 tali contatti divennero ufficiali. Nel giugno 1940 fu costituito, sotto la guida del Gran Muftí di Gerusalemme Ḥagg' Amīn al-Ḥusainī, un ‛Comitato per la collaborazione fra i paesi arabi', che comprendeva eminenti uomini politici dell' ‛Irāq, della Siria e dell'Arabia Saudita e manteneva contatti con i nazionalisti egiziani. Fra i suoi membri erano note personalità quali Rashīd ‛Alī, Nāgī Shauqat e Nāgī al-Suwaydī dell' ‛Irāq, Shuknī al-Quwwatlī e ‛Ādil Arslan della Siria, mentre l'Arabia Saudita era rappresentata da Yūsuf Yāsīn, il segretario privato (siriano) di re Ibn Saūd, e dal consigliere reale Khālid al-Hūd.

Questo comitato decise di prendere contatto con le potenze dell'Asse. Dopo alcuni preliminari un plenipotenziario lasciò Baghdād nel luglio 1940 e, passando per Istanbul, giunse a Berlino il 26 agosto. Un'altra missione fu inviata nel febbraio 1941. In entrambe le occasioni i capi arabi si dissero pronti a riconoscere le aspirazioni tedesche e italiane a condizione che le potenze dell'Asse rilasciassero una dichiarazione in cui fossero riconosciuti e confermati i diritti e le pretese arabe.

Sebbene non si fossero mai pubblicamente impegnati ad accettare le pretese panarabe, cui guardavano con una certa riluttanza, i Tedeschi trovarono tra gli Arabi vasti appoggi. In ‛Irāq sotto Rashīd ‛Alī e in Siria durante il regime di Vichy, i capi arabi si schierarono apertamente a favore dell'Asse. La cosa è tanto più notevole in quanto i capi arabi sapevano bene che la Germania aveva accettato di riconoscere la priorità degli interessi italiani nella regione, e che gli Italiani erano ben decisi a non vincolarsi con promesse o impegni. In altri paesi arabi ancora sotto l'occupazione alleata le iniziative a favore dell'Asse furono necessariamente clandestine ma significative, e coinvolsero eminenti personalità del periodo postbellico. Perfino Nurī as-Sa'īd, considerato fedele amico e alleato della Gran Bretagna, offrì i suoi servigi ai Tedeschi, ma ancora una volta, come quando li aveva offerti ai Turchi nel 1918, le sue profferte vennero respinte, nella convinzione, del tutto erronea, che fossero suggerite da uno stratagemma britannico.

Rashīd ‛Alī e i suoi seguaci, sconfitti e spodestati, fuggirono in Germania insieme col Muftī di Gerusalemme e altri Arabi che ne avevano condiviso le fortune. Il governo britannico ritenne nondimeno opportuno, nel timore di un conflitto con il nazionalismo arabo durante la guerra, farsi promotore di un panarabismo di proprio conio. Ciò condusse gli Inglesi da un lato all'adozione di una politica intesa ad arginare la penetrazione ebraica in Palestina (fino al punto di rifiutare l'ingresso di profughi provenienti dall'Europa occupata da Hitler) e, dall'altro, a un conflitto con gli interessi francesi in Siria e in Libano.

Il passo più significativo in questa direzione fu però la formazione di una lega di Stati arabi come risultato di un incontro svoltosi ad Alessandria nell'ottobre 1944. Questo organismo, costituito sotto il patrocinio e la guida dell'inghilterra, aveva probabilmente lo scopo di rappresentare una specie di controparte politica del Middle East Supply Centre, che coordinava le necessità degli Alleati in materia di rifornimenti. La Lega, tuttavia, assunse rapidamente un carattere suo proprio, e col tempo divenne, più o meno, uno strumento della politica egiziana.

Il coinvolgimento egiziano nel panarabismo fu dapprima lento e graduale. Nei primi stadi del nazionalismo arabo l'opinione generale, condivisa dagli stessi Egiziani e dai loro vicini arabi nell'Asia sudoccidentale, era che l'Egitto non facesse parte del mondo arabo. Originariamente, il movimento panarabo circoscriveva le sue aspirazioni - e la sua sfera d'influenza - al Crescente Fertile e alla penisola arabica, i cui abitanti venivano considerati i ‛veri Arabi'. L'Egitto era quindi escluso, come anche i restanti paesi di lingua araba del continente africano. E vero che gli Egiziani parlavano e scrivevano in arabo, ma questo - si sosteneva - non li rendeva Arabi, così come gli Americani non erano Inglesi o i Messicani non erano Spagnoli. Il movimento nazionalista egiziano, nel XIX e all'inizio del XX secolo, si era interamente concentrato su aspirazioni nazionali e patriottiche specificamente egiziane. Nella misura in cui l'Egitto veniva considerato parte di una più vasta entità politica, questa era islamica, e anzi ottomana, in quanto i musulmani egiziani devoti, sotto l'occupazione britannica, sentivano come loro sovrano legittimo il sultano ottomano. Durante la crisi di ‛Aqaba del 1906, quando la Gran Bretagna, come potenza di occupazione, si scontrò con gli Ottomani a proposito della frontiera del Sinai, molti nazionalisti egiziani appoggiarono i Turchi, sebbene ciò fosse contrario agli interessi territoriali dell'Egitto. E durante la guerra del 1914-1918, molti bambini egiziani furono chiamati con nomi dei famosi pascià, capi dei Giovani Turchi: Enver (Anwār), Ṭal'at, e Gemal (Gamal). In Egitto la rivolta araba contro i Turchi, guidata dallo sceriffo Ḥusain, fu accolta con ostilità sia dagli ambienti ufficiali, sia dalla popolazione.

Oggetto del lealismo egiziano era anzitutto l'Egitto stesso, quindi l'Impero ottomano, o l'Islàm, ma non l'arabismo. Gli Arabi erano considerati come in qualche modo diversi, e furono perfino guardati talvolta con una certa ostilità quando, come immigrati in Egitto, le loro attività ebbero a suscitare reazioni. In linea di massima, tuttavia, l'atteggiamento egiziano nei riguardi degli Arabi dell'Asia sudoccidentale era improntato a simpatia e amicizia, veniva augurato loro ogni bene come fratelli musulmani e compartecipi di un comune retaggio, ma non erano considerati membri della medesima nazione. Perfino quando avevano incoraggiato e sovvenzionato attività panarabe, i chedivè lo avevano fatto in vista di obiettivi specificamente egiziani e dinastici, piuttosto che panarabi. Ciò rimase vero anche delle iniziative egiziane nella fase iniziatasi nel 1936, iniziative che sembrarono mirare a obiettivi della politica dinastica egiziana anziché a quelli del nazionalismo panarabo.

L'interesse per l'arabismo aumentò gradualmente. Nel 1936 furono costituiti in Egitto, come in altri paesi di lingua araba, comitati filopalestinesi, e delegati egiziani parteciparono in veste non ufficiale alla prima conferenza panaraba per la Palestina, tenuta a Blūdān nel 1937. L'anno successivo furono tenute in Egitto non ‛meno di tre conferenze panarabe (di studenti, di donne, e di membri del Parlamento), e l'Egitto partecipò anche alla conferenza del St. James Palace (1939). I centri principali del panarabismo, però, erano ancora in Siria, Palestina e ‛Iraq, e tale situazione doveva restare immutata fino al dopoguerra. L'identificazione dell'Egitto con la causa panaraba non si ebbe che molto più tardi, sebbene se ne possa intravvedere qualche segno in epoca anteriore. Il cospiratore egiziano ‛Azīz ‛Alī al-Maṣrī restò una figura isolata, ed ebbe scarsa o nessuna influenza in Egitto. Durante gli anni venti e trenta gli Egiziani politicamente consapevoli avevano di sé un'immagine faraonica e mediterranea; ritrovavano la loro identità nei gloriosi ricordi dell'Egitto faraonico o magari ellenistico, anziché nel loro passato arabo. Le prime riviste e circoli panarabi in Egitto risalgono ai primi anni trenta; avevano un'influenza assai limitata ed erano gestiti perlopiù da immigrati siriani. Negli anni quaranta, sostenuto dapprima dai Tedeschi e poi dagli Inglesi, il panarabismo si rafforzò alquanto in Egitto, dove una Unione Araba fu fondata il 25 maggio 1942, sotto patrocinio ufficiale, allo scopo di promuovere il movimento. La costituzione in Egitto della Lega Araba e l'importanza del ruolo degli Egiziani nella sua attività accrebbero grandemente il loro interesse per il panarabismo nel quale, a parere di molti, una grande parte era assegnata all'Egitto e agli Egiziani.

Un fattore di qualche importanza nello sviluppo di queste idee è da ravvisare nelle opere di Sāṭ al-Ḥuṣri, un siriano di Aleppo ed ex funzionario ottomano, che molto scrisse durante gli anni quaranta a favore di un'ideologia panaraba. Sāṭi` al-Ḥuṣrī, che fu espulso dall' ‛Irāq dopo il crollo del regime di Rashūd ‛Ali - di cui era seguace - si preoccupò essenzialmente di sostenere tre punti: 1) l'individuo può ottenere la libertà solo nell'ambito della nazione e non al di fuori di essa; 2) l'Egitto è parte integrante della più grande nazione araba; e 3) il panarabismo è compatibile con l'Islàm e non già opposto a esso. Mentre i politici militanti, incluso perfino Nūrī as-Sae‛īd (il cui schema per l'unità araba sottoposto al governo britannico nel 1942 escludeva l'Egitto), pensavano ancora a un panarabismo puramente asiatico, Sāṭi‛ al-Ḥuṣrī sosteneva vigorosamente che l'Egitto era parte della nazione araba, e dedicò ogni sua energia per convincere di questo gli Egiziani.

All'inizio, gli Egiziani avevano opposto a questa idea una forte resistenza. Molti avevano anzi considerato il programma di un califfato panarabo come una congiura inglese contro gli Ottomani, e in particolare tale era stata la convinzione del capo nazionalista Muṣṭafā Kāmil, che aveva criticato gli emigrati siriani in Egitto per i loro attacchi contro l'Impero ottomano, attacchi che, a suo parere, facevano il gioco degli Inglesi.

L'insigne scrittore egiziano Lutfī al-Sayyid, nel 1938, arrivò al punto di definire come ‛pura fantasia' l'ideale panarabo. Analoghe opinioni furono espresse dal rettore di al-Azhar e da altre eminenti personalità. Tali punti di vista venivano incoraggiati da re Fārūq, che in quel tempo sembrava orientare le sue mire verso un califfato islamico, un traguardo che poteva ben apparire incompatibile con un programma e una leadership arabo-nazionalista.

Lo scoppio della guerra e gli avvenimenti successivi sembra abbiano portato a un mutamento di politica. La restaurazione del califfato era chiaramente una causa persa in partenza, mentre il nazionalismo arabo, incoraggiato sia dall'Asse che dagli Inglesi, pareva offrire prospettive di gran lunga migliori. Sembra che Fārūq allora per la prima volta abbia pensato a una leadership araba, che doveva poi essere assunta dai successivi governanti egiziani. L'Unione Araba fondata nel 1942 ebbe incoraggiamenti ufficiali e vi aderirono ben note personalità. È significativo che la sua costituzione seguisse la dichiarazione del ministro inglese per gli Affari Esteri A. Eden a favore dell'unità araba (maggio 1941). Un promemoria presentato al capo di gabinetto del re nel marzo 1942, in cui se ne illustravano gli scopi, faceva riferimento a questa dichiarazione e stabiliva l'estensione della costituenda Unione. Essa doveva comprendere l'Egitto e il Sudan, la penisola arabica, l'Iraq, la Siria, il Libano, la Palestina, la Transgiordania, come anche il Nordafrica e tutti gli altri paesi di lingua araba. Doveva escludere, continuava il promemoria, i musulmani di lingua non araba e pertanto anche l'idea di un califfato ‟in quanto nessun paese arabo può oggi sopportarne il pesante fardello, assumerne le gravi responsabilità o pagarne l'‛esorbitante prezzo" (v. Haim, 1962, p. 51). Questi concetti, approvati dal re, informarono i colloqui preliminari che diedero origine alla Unione Araba.

La dichiarazione rilasciata da A. Eden alla Mansion House il 29 maggio 1941 merita un'estesa citazione: ‟Dopo la sistemazione raggiunta alla fine dell'ultima guerra, il mondo arabo ha fatto enormi progressi, e molti pensatori arabi desiderano per i loro popoli un grado di unità maggiore di quello attuale. Per conseguire questa unità essi sperano nel nostro aiuto. Nessun appello di tal genere da parte di nostri amici deve restare senza risposta. A me sembra naturale e giusto che vengano rafforzati i legami culturali ed economici - e anche quelli politici - fra i paesi arabi. Da parte sua, il governo di Sua Maestà darà il suo pieno appoggio a qualsiasi progetto che goda dell'approvazione generale" (‟The Times", 30 maggio 1941). A questa, altre dichiarazioni analoghe seguirono, tra le quali ricordiamo in particolare quella fatta da Eden alla Camera dei Comuni il 26 febbraio 1943.

Nonostante tale incoraggiamento, gli Stati arabi si trovarono in una situazione alquanto sfavorevole quando, durante gli anni 1945-1948, l'unità e la cooperazione panaraba furono messe per la prima volta a una prova cruciale. Riguardo alla questione palestinese la situazione era mutata a loro sfavore sotto due profili. Anzitutto, le spaventose scoperte fatte nei lager nazisti avevano suscitato universale simpatia per gli sforzi della comunità ebraica in Palestina volti a dare una patria e un rifugio agli sventurati superstiti. In secondo luogo, il crollo dell'Asse aveva privato gli Arabi del loro principale sostegno, e aveva anzi lasciato in molti leaders la molesta sensazione che l'eventuale scoperta della loro complicità con i nazisti potesse danneggiarli.

Non passò tuttavia molto tempo che la situazione cambiò ancora. Il nuovo governo inglese non si dimostrò proclive a cedere alla simpatia per la causa ebraica o alle pressioni esercitate a favore dell'immigrazione ebraica in Palestina, e inoltre, sebbene la minaccia della concorrenza tedesca fosse per il momento scomparsa, esso intendeva continuare la politica di appoggio al panarabismo, nel quale vedeva la migliore garanzia per gli interessi inglesi nel Medio Oriente. Questa linea ricevette una conferma nell'autunno del 1945, quando il governo inglese appoggiò in Siria i nazionalisti contro i Francesi, come aveva fatto il governo del periodo bellico in Libano nel 1943. A mano a mano che lo showdown sulla questione palestinese si avvicinava sotto la forma di un conflitto diretto tra Inglesi ed Ebrei, la leadership arabo-palestinese si sentiva spalleggiata dai governi arabi, e nutriva almeno qualche speranza di un certo appoggio da parte inglese.

In principio l'azione araba si dispiegò sul piano diplomatico attraverso passi presso il governo inglese e gli altri governi interessati, e in particolare attraverso una seconda conferenza tenuta a Londra nel 1946, che si dimostrò altrettanto inutile quanto la precedente. Il fallimento diplomatico fu seguito da un fallimento militare ancor più disastroso. La prima guerra palestinese cominciò con conflitti locali fra forze irregolari ebraiche e arabe sul territorio palestinese soggetto a mandato. Segui un'invasione del paese da parte degli eserciti regolari degli Stati arabi vicini con l'obiettivo dichiarato di conquistare l'area assegnata agli Ebrei dalla risoluzione delle Nazioni Unite sulla spartizione e di instaurare l'autorità araba su tutta la Palestina. Precisamente ‛quale' autorità araba non era chiaro, e uno dei fattori principali che determinarono la sconfitta fu la mancanza di unità fra gli Stati arabi, e in particolare la rivalità fra re ‛Abd Allāh della Transgiordania e re Fārūq d'Egitto, che miravano entrambi a un ampliamento del proprio regno.

4. Il panarabismo fra trionfo ideologico e declino politico

La sconfitta militare araba del 1948, e la conseguente umiliazione, inaugurò una nuova fase, che si protrasse fino alla terza guerra arabo-israeliana (1967). La caratteristica principale di questo periodo fu la crescita e lo sviluppo di tutta una serie di Stati arabi indipendenti. Molti altri Stati vennero infatti ad aggiungersi al gruppo originario nel Medio Oriente, a mano a mano che le dipendenze e i possedimenti britannici e francesi in Asia e in Africa ottenevano uno dopo l'altro la sovranità politica.

Se, durante gli anni 1948-1967, le ideologie panarabe godettero di grande e incontrastata popolarità, la politica panaraba subi invece alcune fra le sue più gravi sconfitte. Nella vasta letteratura di questi anni sull'ideologia panaraba si possono individuare diverse tendenze che, grosso modo, si possono suddividere in conservatrici e radicali. La corrente conservatrice, prevalentemente musulmana, pone fortemente l'accento sull'Islàm come religione universale - ma anche come manifestazione del genio arabo - e in pratica identifica l'arabismo con l'Islàm. Scrittori di questa corrente si rivolgono a volte agli arabi cristiani (gli arabi ebrei, la cui esistenza teorica è spesso assenta nella polemica antisionista, vengono assai raramente - seppur lo sono - menzionati in questo contesto) invitandoli a unirsi, in quanto arabi, nella venerazione di Maometto come un grande eroe arabo che con la sua vita e le sue conquiste ha dato agli Arabi il loro giusto posto nella storia universale. Vi fu un periodo in cui scrittori arabi cristiani si mostrarono propensi ad accettare e a sviluppare questa concezione, ma in anni recenti questo atteggiamento si è fatto assai più raro. Uno dei più intelligenti e autorevoli esponenti di questo tipo di panarabismo islamico di impronta alquanto conservatrice, lo statista iracheno ‛Abd ar-Raḥmān al-Bazzāz, paragonò la posizione degli Arabi nell'Islàm a quella dei Russi nel mondo comunista.

Nel complesso, i radicali sono stati assai più influenti dei conservatori, almeno sul piano ideologico. Sebbene alcuni, anche tra i più estremisti, fossero musulmani, i più influenti erano però cristiani di varie confessioni. Vale la pena notare di passata che - fra le organizzazioni palestinesi - al-Fatāḥ, che ha una base vasta e relativamente moderata, è preminentemente musulmana, mentre i gruppi estremisti hanno per lo più una leadership cristiana. Naturalmente, è fenomeno comune che gli appartenenti a minoranze scontente gravitino nell'orbita di movimenti rivoluzionari e millenaristici, nella speranza di ottenere così l'eguaglianza e le possibilità di cui non hanno goduto nell'ordinamento tradizionale.

Il più autorevole di questi ideologi radicali e cristiani per nascita è certamente Michel ‛Aflaq, nato a Damasco nel 1912, fondatore, con il musulmano Salāḥ al-Dīa Bīṭār, del partito Ba'th (Rinascita). Tale partito, che sembra sia stato fondato nel 1940, iniziò l'attività pubblica nel 1943; nel 1953 si unì al Partito socialista arabo, guidato da un musulmano siriano, Akrām al-Ḥaurānī, assumendo la denominazione di Partito socialista della rinascita araba. Il Ba'th ha ottenuto considerevoli successi, divenendo l'unico partito panarabo organizzato con diramazioni e seguaci in quasi tutti i paesi arabi. In varie occasioni è riuscito a salire al potere, da solo o con altri, in Siria e in ‛Irāq, ma è stato indebolito dalla ricorrente tendenza alle lotte intestine. In Siria, il raggiungimento dell'unione con l'Egitto nel 1958 fu in gran parte dovuto alla léadership ba'thista. L'unione doveva però suscitare recriminazioni, e fu di nuovo il Ba'th che si adoperò per minarla e condurla alla dissoluzione. Le successive vicende politiche di questo partito in Siria e ‛Irāq lo hanno condotto al potere senza per questo far progredire l'unità tra i due paesi.

I ba'thisti definiscono la loro ideologia come un'ideologia di sinistra, rivoluzionaria e socialista, ma di certo non è facile sceverare dalla copiosa letteratura programmatica che cosa veramente ciò significhi. Termini tipicamente europei quali ‛di sinistra' e ‛di destra' hanno ben poco significato se applicati alla politica araba, e perfino il termine socialista - come la stessa Europa dimostra - può avere una varietà di applicazioni, dai socialdemocratici scandinavi o inglesi al cosiddetto ‛blocco socialista' dell'odierna Europa orientale, al Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori di Adolf Hitler. Echi di tutte queste formazioni politiche sono rintracciabili in parecchie dichiarazioni ufficiali del Ba'th, incluso - per quanto riguarda il tono fortemente sciovinistico - il nazionalsocialismo hitleriano.

Le lunghe discussioni fra ba'thisti, nasseriani e altri sul nazionalismo arabo e sul socialismo arabo sono comunque meno importanti dei grandi eventi che hanno segnato la vita politica araba. Essi vanno ravvisati nell'incessante lotta per la Palestina e nelle sconfitte militari che gli Arabi hanno subito una dopo l'altra. E spesso accaduto che la sconfitta in guerra abbia provocato un mutamento radicale. A volte, come in Germania e in Russia dopo la prima guerra mondiale, la sconfitta può innescare processi politici ed economici di vasta portata. A volte, invece, può produrre un clima di amara rinuncia e risentimento, come avvenne nel Sud dopo la guerra civile americana e in Spagna dopo la sconfitta a Cuba del 1898. Lo shock della sconfitta fu nel 1948 particolarmente umiliante in quanto i vincitori non erano le grandi potenze imperiali ma gli Ebrei, considerati da sempre una minoranza tollerata. La sconfitta a opera loro risultava quindi particolarmente bruciante e portò al rovesciamento violento di quasi tutti i regimi ritenuti colpevoli dell'accaduto.

Si verificò così il secondo grande evento di questo periodo: il rovesciamento - in quasi tutti i paesi del Medio Oriente - dei regimi esistenti e la loro sostituzione, mediante colpi di Stato, con regimi autocratici instaurati da leaders rivoluzionari di una specie particolare, perlopiù di estrazione militare. I nuovi dominatori enunciarono programmi contenenti mutamenti rivoluzionari, in seguito designati col termine di socialismo, e l'esaltazione del nazionalismo arabo.

Sotto il profilo della politica internazionale, i nuovi capi radicali erano nettamente antioccidentali e, come già i loro predecessori degli anni trenta - in taluni casi si trattò proprio delle medesime persone - cercarono alleati contro l'Occidente. Non c'erano più i nazisti, ma altri potevano prendere il loro posto. L'Unione Sovietica poteva ora presentarsi agli Arabi in veste di loro paladino, e contro i medesimi nemici: l'Occidente, gli Ebrei e la democrazia liberale o capitalista. Notevoli sono le rassomiglianze con la situazione precedente: il tipo di appello, le speranze e i timori su cui si fa leva sono gli stessi, come identica è la risposta.

A prima vista, tutto sembrava favorire lo sviluppo del panarabismo. Gli Stati arabi si erano ormai liberati dei loro vincoli con l'Occidente. Non vi erano più trattati con le potenze occidentali, nè basi straniere, nè truppe o esperti sul loro territorio che dessero consigli limitando così l'azione dei governi e delle forze armate. Nessuna potenza imperialista occidentale poteva ora influenzare i governi arabi o impedir loro di fare una libera scelta per l'unità, se tale era il loro desiderio. La propaganda panaraba poteva ora espandersi senza restrizioni, e raggiunse una diffusione assai ampia. Scritti di carattere ideologico e polemico ispirati dal panarabismo furono pubblicati in gran numero in tutti i paesi di lingua araba. Il panarabismo divenne virtualmente la dottrina ufficiale quasi dovunque, e sovrani e ministri arabi senza eccezione resero a parole omaggio alle idee e agli obiettivi panarabi, adeguandosi alla moda corrente di denunciare ogni lealismo regionale, settoriale o di parte, cioè in altre parole ogni interesse specifico od ogni senso di appartenenza politica peculiare dei singoli Stati arabi.

Anche le circostanze sembravano favorire la causa panaraba. Tra queste, una era costituita dalla lingua. L'unità linguistica nei paesi arabi era stata in passato più teorica che effettiva. Sebbene la lingua scritta fosse comune, le lingue parlate dei vari paesi differivano grandemente l'una dall'altra (come se, per esempio, Francia, Italia, Spagna e Portogallo parlassero le loro singole lingue ma avessero continuato a scrivere in latino), e altissimi erano i tassi di analfabetismo. Negli ultimi anni, tuttavia, il miglioramento del livello di istruzione e l'aumento dell'alfabetismo nei paesi arabi hanno potenziato l'efficacia della lingua scritta comune come strumento di unità. Il processo è stato ulteriormente rafforzato dalla rapida diffusione dei mezzi di comunicazione di massa - cinema, radio, televisione, giornali - ai quali si possono anche aggiungere i libri. Pubblicazioni provenienti dai due principali centri culturali, Il Cairo e Beirut, circolano in tutto il mondo arabo e la cinematografia egiziana ha diffuso la conoscenza dell'arabo egiziano praticamente dovunque. Un ulteriore aiuto alla causa panaraba è derivato dall'incoraggiamento ufficiale e pubblico, e dall'adozione del panarabismo come programma ufficiale da parte di almeno un grande partito, il Ba'th (gli altri partiti lo hanno incoraggiato). Il riconoscimento pubblico e formale è arrivato al punto che il panarabismo è stato incorporato, o, piuttosto, imbalsamato, nelle costituzioni di molti paesi arabi. Fin dal 1956 la nuova costituzione egiziana, promulgata quell'anno, proclamava l'Egitto un paese arabo. Clausole analoghe seguirono nelle costituzioni dell' ‛Irāq, Siria, Giordania, Sudan, Algeria, Kuwait e altri Stati arabi, e infine nello statuto dell'OLP.

L'inserimento del panarabismo nelle costituzioni degli Stati arabi - insieme alle garanzie di libertà personale, libertà di espressione ecc. - è forse un segno del suo declino, poiché nella loro tradizione costituzionale la promulgazione di principi politici è un surrogato della loro applicazione, non già un mezzo per garantirla. In realtà, tutti i tentativi di creare unità più vaste attraverso l'unione di Stati arabi esistenti fallirono. Il più ambizioso fu l'unione della Siria e dell'Egitto nella Repubblica Araba Unita, che fu realizzata nel 1958 frammezzo al tripudio generale dei seguaci del panarabismo. Doveva tuttavia dimostrarsi una associazione difficile, e finì nel 1961 con la separazione dei due Stati, e il ritorno della Siria alla condizione di Stato autonomo. Altri tentativi di creare unità più vaste riunendo la Giordania e l'‛Irāq, i due Yemen, o l'Egitto e la Libia, sono già falliti o stanno attraversando grandi difficoltà. Pur professando a parole fedeltà agli ideali panarabi, i capi dei governi arabi continuano a perseguire i loro propri interessi particolaristici, precludendo così la possibilità di una subordinazione del loro Stato a unità politiche centralizzate, che abbraccino più Stati distinti.

Varie sono le ragioni che possono spiegare questo fenomeno. Una di queste è data dal conflitto arabo-israeliano. L'insuccesso della Lega Araba e degli Stati arabi nell'impedire la costituzione di Israele o nell'ottenerne lo smembramento è un insuccesso del panarabismo: insuccesso sia nel concertare un'azione efficace contro Israele, sia nel prestare aiuto effettivo - con mezzi militari o diplomatici - agli Arabi palestinesi. I portavoce arabi stanno inoltre rendendosi conto di una debolezza teorica implicita nella loro posizione nei confronti di Israele. Se i popoli arabi costituissero davvero una sola nazione e i territori arabi un unico paese, allora essi non avrebbero perduto che una sola provincia, e per giunta una provincia molto piccola rispetto all'enorme estensione della madrepatria araba. La perdita di territorio e i movimenti di popolazione furono assai meno rilevanti e meno importanti di quelli sofferti dai Polacchi, dai Tedeschi, dagli Indiani e dai Pakistani in seguito alla seconda guerra mondiale tra il 1945 e il 1947, cioè negli anni immediatamente precedenti il primo conflitto arabo-israeliano. Se invece i Palestinesi costituivano una nazione e non solamente un frammento di nazione, allora la loro posizione nei confronti di Israele cambiava sostanzialmente. Fino al 1967 tutti i governi arabi sposarono il punto di vista panarabo, che li autorizzava a far propria la causa degli Arabi palestinesi, come anche, nel caso di Giordania, Egitto e Siria, a conservare il possesso di quei territori palestinesi precedentemente sotto mandato britannico e non inclusi in Israele. In Giordania gli Arabi palestinesi furono trattati come cittadini con eguaglianza di diritti; in altri paesi arabi, invece, rimasero degli stranieri e furono per solito trattati come tali.

La caratteristica più importante di questo periodo sta nel fatto che i singoli Stati arabi sono andati acquistando una consistenza e una solidità sempre maggiori. All'inizio essi non erano, in maggioranza, che formazioni alquanto artificiose, composte da territori ritagliati dalle province in precedenza sotto dominio ottomano o occidentale, e le cui frontiere erano semplici linee tracciate sulle carte da statisti europei. A eccezione dell'Egitto, e in misura minore del Libano, non possedevano alcuna tradizione di esistenza separata e neanche di autonomia regionale. Perfino i nomi rivelano la loro artificiosità: Giordano è un fiume, Libano una montagna, ‛Irāq il nome di una provincia medioevale, che non coincide neanche con i confini dello Stato che porta attualmente questo nome; Siria e Libia sono nomi greci, entrati per la prima volta a far parte dell'arabo moderno. Persino Palestina era un nome non più usato tra gli abitanti musulmani del paese sin dall'alto Medioevo, finché non venne adottato per designare i distretti meridionali delle province ottomane di Damasco e di Beirut posti, insieme con Gerusalemme, sotto mandato britannico.

Tuttavia questi Stati, per artificiosa e priva di tradizioni che sia stata la loro origine, hanno nondimeno conseguito una loro realtà. Attorno a ognuno di essi si è venuto formando un complesso di interessi economici e politici, e, fattore più importante di tutti, una élite governativa e amministrativa che dello Stato ha fatto una unità reale e che, decisa a non cedere o spartire il potere o il controllo, diventa sempre più consapevole della propria peculiare identità e dei propri particolari obiettivi. Questa situazione, che si era già manifestata chiaramente, nonostante il pericolo, nella mancanza di unità fra gli Stati arabi che avevano invaso la Palestina nel 1948, si è fatta ancor più evidente negli anni successivi, particolarmente dopo le trasformazioni politiche e sociali, che hanno acuito i conflitti d'interessi tra i vari paesi. In quest'evoluzione, particolare importanza ha avuto il ruolo svolto dall'Egitto. L'Egitto abbracciò tardi la causa del panarabismo, e per qualche tempo si dimostrò interessato al movimento solo come possibile strumento della propria politica estera. Da tale politica l'Egitto aveva tratto assai scarsi frutti. Lo aveva coinvolto in una disastrosa guerra nello Yemen, in una sfortunata unione con la Siria, scioltasi in mezzo a ostilità e recriminazioni e, soprattutto, in una serie di sconfitte nelle guerre contro Israele. Come conseguenza, il panarabismo egiziano è stato attaccato su un duplice fronte. Da un lato molti sono stati gli Arabi che hanno visto nella politica egiziana un tentativo di sfruttare le aspirazioni e i sentimenti panarabi per fini imperialistici egiziani; dall'altro, molti Egiziani hanno visto in quella politica una subordinazione degli interessi nazionali a chimere panarabe, e uno sperpero di sangue e denaro egiziani per una causa straniera.

Il panarabismo, inoltre, subì le ripercussioni sfavorevoli della crescita e della diffusione dell'influenza sovietica nei paesi arabi. L'ostilità per il panarabismo ha assunto due forme diverse. I Sovietici, non amando le ideologie sovrannazionali che sfuggono al loro controllo, hanno scoraggiato il panarabismo fra i loro seguaci, preferendo trattare separatamente con i singoli Stati arabi. Nel contempo, coloro che si opponevano all'influenza sovietica vedendo nella presenza russa - con i suoi trattati, le sue truppe, i suoi esperti e i suoi consiglieri - un nuovo imperialismo, volgevano anch'essi le spalle al panarabismo, in parte perché erano stati proprio i leaders panarabi a portare i Russi nel Medio Oriente, e anche perché - cosa ancor più importante - in una lotta contro la penetrazione straniera è inevitabile che la prima preoccupazione sia la liberazione della patria.

Bisogna infine accennare al fenomeno della crescita costante di sentimenti religiosi e più particolarmente comunitari, fenomeno che segna un parziale ritorno a lealismi più tradizionali. Questa tendenza è stata intensificata dalla guerra civile libanese del 1975-1976 e dal peso crescente della leadership saudita nel mondo arabo.

La terza sconfitta militare araba del 1967 ha accentuato questa evoluzione. Egitto, Giordania e Siria persero i territori palestinesi in precedenza occupati o annessi, rimanendo dunque privi di ogni plausibile interesse per negare l'esistenza di un'entità palestinese distinta. D'altro canto, la formazione di combattive organizzazioni palestinesi permise loro di addossare agli stessi Palestinesi la responsabilità maggiore della lotta contro Israele, riducendo così in certa misura il proprio coinvolgimento.

Questi sviluppi sono proseguiti dopo la guerra dell'ottobre 1973 che, indipendentemente dal suo esito militare, ha rappresentato per gli Stati arabi una chiara vittoria politica. I vantaggi ottenuti con la guerra sono stati consolidati ed ampliati mediante il controllo sul petrolio e la potenza finanziaria che ne deriva. Sennonché, l'ineguale distribuzione di questa nuova ncchezza tra gli Stati arabi e la loro ineguale partecipazione al conflitto con Israele hanno creato nuove tensioni nelle relazioni interarabe. I governi dei singoli Stati hanno in misura sempre maggiore perseguito i propri interessi e scopi particolari, talvolta sino ad arrivare al conflitto aperto o addirittura al conflitto armato.

L'avvio di un dialogo diretto tra Egitto e Israele e il viaggio del presidente egiziano Anvar as-Sādāt a Gerusalemme nel novembre 1977 sono stati motivo di nuove discordie nel campo arabo. Alcuni Stati, con maggiore o minore entusiasmo, hanno appoggiato la politica di Sādāt; altri l'hanno invece avversata, e la violenza della loro opposizione ha ulteriormente incoraggiato lo sviluppo, in Egitto, di un'identità egiziana piuttosto che araba.

Grande rilievo assume inoltre, in questo contesto, il mutamento di atteggiamento degli stessi Palestinesi. Nel passato, per ovvi motivi, essi erano stati i più accesi sostenitori della causa panaraba e i più autorevoli propagandisti dell'ideologia panaraba. Ma avevano subito amare delusioni. In definitiva erano stati trattati come stranieri in pressoché tutti i paesi arabi, eccezion fatta per la Giordania; perfino nella striscia di Gaza, occupata dall'Egitto dal 1948 al 1967, non fu loro concessa, escluso un breve periodo nel 1956-1957, la cittadinanza egiziana né fu loro consentita libertà di circolare o di lavorare nel territorio egiziano. Gli Stati arabi si erano rifiutati o dimostrati incapaci sia di aiutarli nella lotta contro Israele sia di accoglierli come fratelli arabi nei loro territori.

E inoltre, cosa di estrema importanza, tutti questi paesi andavano acquistando un vivo sentimento della propria nazionalità, cui si accompagnava la formazione di una élite politica sempre più potente. L'élite palestinese vedeva le altre élites arabe godere dei frutti del potere, a essa negati perché non aveva alle spalle uno Stato, né d'altra parte poteva accedere alla piena cittadinanza nei paesi dove aveva trovato rifugio. In queste condizioni i Palestinesi cominciarono a preoccuparsi meno del panarabismo e più della costituzione di un proprio Stato, dove sarebbero stati padroni e avrebbero potuto godere delle medesime possibilità politiche dei loro confratelli in Siria, ‛Irāq e altrove.

Per un certo periodo i leaders arabi continuarono a esaltare a parole il panarabismo, mentre di fatto perseguivano obiettivi nazionali. Negli ultimi anni anche questo atteggiamento è cessato, e alcuni leaders arabi hanno cominciato a parlare apertamente dei loro veri scopi. Questa nuova sincerità, tuttavia, non ha ancora fatto breccia nella letteratura ideologica, nella quale il panarabismo resta tuttora l'unica dottrina ortodossa.

Lo sviluppo attuale nel mondo arabo suggerisce un paragone con il Sudamerica dopo la fine del dominio spagnolo. Anche colà vi era un complesso di paesi affini per lingua, cultura, religione e modo di vita, che avrebbero potuto unirsi, come avevano fatto le colonie di lingua inglese dell'America del Nord, per formare uno o due grandi Stati. Non lo hanno però fatto e la possibilità, una volta perduta, non si è più ripresentata. Anche gli Stati arabi sembravano muoversi nella medesima direzione, cioè verso una comunità di lingua, cultura, religione e, in una certa misura, di istituzioni e modo di vita, con un comune ‛arabismo' che può essere paragonato all'hispanismo del mondo di lingua spagnola; ma non hanno seguito questa strada. Ciò non dovrebbe impedire la formazione di raggruppamenti regionali, su un modello oggi sempre più comune, fondati su considerazioni pratiche più che ideologiche. Un tempo sembrava che l'accordo fra Marocco, Algeria e Tunisia potesse costituire un esempio del genere, e che le relazioni tra l'Egitto, la Libia e forse anche il Sudan potessero evolvere nella medesima direzione; ma sono sorte molte difficoltà, che hanno impedito questo sviluppo.

Può darsi che in avvenire, con lo sviluppo delle relazioni culturali e delle comunicazioni e per la tendenza a costituire entità più estese, i paesi arabi riescano a riunirsi in piu vasti organismi politici. Ma, per ora, la tendenza va nella direzione opposta.

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